N. 86 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 febbraio 2017

Ordinanza del 28 febbraio 2017 del Tribunale  di  Reggio  Emilia  nel
procedimento civile promosso da Servizi Commerciali Integrati  srl  e
Burani Interfood spa contro Rasulova Elvira. 
 
Procedimento civile - Spese processuali - Compensazione  delle  spese
  tra le parti. 
- Codice di procedura civile, art. 92, comma secondo, come modificato
  dall'articolo 13  del  decreto-legge  12  settembre  2014,  n.  132
  (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione  ed  altri  interventi
  per la definizione dell'arretrato in materia di  processo  civile),
  convertito, con modificazioni, dalla legge  10  novembre  2014,  n.
  162. 
(GU n.25 del 21-6-2017 )
 
                     TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA 
                           Sezione lavoro 
 
    Il Giudice del lavoro, a  scioglimento  della  riserva  formulata
all'udienza del 20 gennaio 2017 nel procedimento n. 1130/2016 r.g. ex
art. 1, comma 51, legge n. 92/2012, in opposizione ad ordinanza  resa
ex art. 1, comma 49, legge n. 92/2012, r.g.l. n. 1130/2016,  promosso
da Servizi  Commerciali  Integrati  S.R.L.  (c.f.  02695670352)  avv.
Leonardo Esposito, contro Elvira Rasulova, avvocati A. Monachetti, M.
Congeduti, Alberto Piccinini, 
    Ha pronunciato la presente ordinanza, osservando quanto segue in 
 
                           Fatto e diritto 
 
Il presente procedimento 
    Con ricorso promosso ai sensi dell'art.  ex  art.  1,  comma  48,
legge n. 92/2012, concernente  la  prima  fase  (c.d.  sommaria)  del
presente  giudizio  la   signora   Elvira   Rasulova   impugnava   il
licenziamento intimatole dalla Italservizi s.r.l. (ora Agriservice MO
srl in liquidazione) in data 30 novembre 2015 con decorrenza  dal  31
dicembre  2015  ritenendolo  radicalmente  nullo  e/o  legittimo  e/o
inefficace.  A  tal  fine  formulava  apposite  conclusioni  in   via
principale e subordinata nei confronti di numerosi convenuti  (Burani
Interfood spa, Servizi Commerciali Integrati srl, Agriservice MO  srl
e Burani  Stefano  Luigi  personalmente  ed  in  proprio)  affermando
l'esistenza di un unico centro di imputazione  giuridica  e/o  gruppo
d'imprese che dir si voglia e la  contemporanea  utilizzazione  della
propria prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti, sicche'
l'intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei  confronti  di
ognuno dei soggetti invocati in causa. 
    Si costituiva - tra le altre parti -  anche  l'odierna  opponente
Burani   Interfood    s.p.a.    accependo    in    via    preliminare
l'inammissibilita'  del  ricorso  proposto  con  il  «rito  Fornero»,
essendo nel frattempo intervenuta da parte della Agriservice  MO  srl
(successivamente in liquidazione) la revoca del licenziamento in data
25 gennaio 2016. 
    All'esito della prima fase del procedimento la scrivente  giudice
emetteva ordinanza con cui affermava l'inammissibilita'  del  ricorso
proposto dalla ricorrente Rasulova per carenza di interesse ad agire,
mancando  appunto  il  licenziamento  che  e'  oggetto  per  espressa
volonta' normativa ex rito «Fornero». In mento alle spese di lite  la
scrivente condannava la lavoratrice al rimborso di  quelle  sostenute
dalla attuale ed effettiva (almeno  formalmente)  datrice  di  lavoro
Agriservice MO srl in liquidazione; e compensava le  spese  sostenute
da tutte le altri parte convenute. 
    Ha opposto l'ordinanza la sola azienda Burani  Interfood  s.p.a.,
che  nell'atto  di  opposizione  si  duole  (tipicamente)  del   capo
dell'ordinanza relativo alla liquidazione  delle  spese  della  prima
fase del presente giudizio  rilevando  la  mancanza  dei  presupposti
richiesti a tal fine dall'art. 92, comma 2 c.p.e. e  la  mancanza  di
motivazione alcuna in merito alla disposta compensazione per le altre
parti, censurando infine  disparita'  di  trattamento  rispetto  alla
Agriservice MO s.r.l. (in cui favore erano state - come s'e' detto  -
risarcite le spese). 
    Si e' costituita la lavoratrice contestando in  fatto  e  diritto
l'opposizione e sollevando eccezione di incostituzionalita' dell'art.
92 c.p.c., evidenziando  la  situazione  di  sostanziale  ingiustizia
subita  posto  che,  a  seguito  di'  una  serie  di  dubbi  passaggi
lavorativi tra soggetti tra loro collegati che ne hanno utilizzato la
prestazione lavorativa,  e'  stata  ingiustamente  licenziata  da  un
datore di lavoro cosi' «apparente» che ancora oggi, pur risultando il
rapporto di lavoro ancora in essere, e'  del  tutto  inadempiente  (e
latitante). 
    Evidenzia la convenuta/opposta come un'interpretazione rigida del
testo del novellato  art.  92  c.p.c.  determinerebbe  un'illegittima
riduzione della discrezionalita' del Giudice nella valutazione  degli
elementi, e  in  modo  particolare  dei  «giusti  motivi»,  idonei  a
giustificare la compensazione delle spese di lite. 
La norma dibattuta 
    Come noto, il sistema processuale civile si regge, in materia  di
spese, sulla previsione dell'art.  91  c.p.c.  che  prevede  che  «Il
giudice, con la sentenza  che  chiude  il  processo  davanti  a  lui,
condanna la parte  soccombente  al  rimborso  delle  spese  a  favore
dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari  di
difesa. 
    Se accoglie la domanda  in  misura  non  superiore  all'eventuale
proposta conciliativa, condanna  la  parte  che  ha  rifiutato  senza
giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo
maturate dopo la formulazione della proposta, salvo  quanto  disposto
dal secondo comma dell'art. 92.». 
    Il secondo comma dell'art. 92 e'  stato  piu'  volte  oggetto  di
revisione da parte del legislatore. 
    Dal testo originario nato con il codice di procedura civile  (che
prevedeva la compensazione delle spese di lite «se vi e'  soccombenza
reciproca o concorrono altri  giusti  motivi»)  si  e'  passati  alla
specificazione introdotta dall'art. 2, primo comma, lettera a), legge
28 dicembre 2005, n. 263, in base al quale i «giusti  motivi»  devono
essere  «esplicitamente  indicati  nella  motivazione».  L'art.   45,
undicesimo comma, legge 18 giugno 2009, n. 69, ha modificato  poi  il
testo nel senso che le spese possono  essere  compensate  «se  vi  e'
soccombenza  reciproca  o  concorrono  altre  gravi  ed   eccezionali
ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione». 
    A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 13  del  decreto-legge
12 settembre 2014, n. 132 (come modificato dalla legge di convenzione
10 novembre 2014, n. 162), l'art. 92, comma 2,  c.p.c.  -  in  questa
sede espressamente censurato - e' diventato il seguente: 
    «Se vi e' soccombenza  reciproca  ovvero  nel  caso  di  assoluta
novita' della questione trattata  o  mutamento  della  giurisprudenza
rispetto alle questioni dirimenti,  il  giudice  puo'  compensare  le
spese tra le parti, parzialmente o per intero». 
Le letture possibili dell'attuale formulazione della norma. 
    La recente attuale formulazione della norma elimina la  locuzione
prevista dalla  riforma  del  2009  «gravi  ed  eccezionali  ragioni»
prevedendo nel testo unicamente  tre  ipotesi  di  compensazione:  la
soccombenza reciproca (che di fatto  e'  lo  stesso  principio  della
soccombenza di cui all'art. 91, e dunque non ne costituisce deroga in
applicazione  specifica),  la  «assoluta  novita'   della   questione
trattata»  e  il  «mutamento  della  giurisprudenza   rispetto   alle
questioni dirimenti». 
    E' primariamente da chiedersi se di questa norma  si  debba  dare
una lettura tassativa (nel senso cioe' che  al  di  fuori  delle  tre
ipotesi ivi contemplate non sia consentito al Giudice  legittimamente
compensare le spese di un giudizio);  ovvero  elastica  e/o  comunque
costituzionalmente orientata (1) . 
    Se  questa  seconda  opzione  fosse  praticabile,   la   presente
questione  sarebbe  valutabile  dalla   Corte   come   manifestamente
infondata (quanto alla rilevanza, si veda nel prosieguo). 
    Pare alla scrivente che il testo letterale dell'articolo  imponga
una  tassativita'  di  ipotesi  dalla  quale  il  giudice  non  possa
discostarsi, sia perche' il legislatore e' intervenuto esplicitamente
proprio nello specifico articolo che disciplina, in via generale,  le
ipotesi di compensazione delle spese (cfr. il  titolo  dell'art.  92)
eliminando l'opzione  delle  «altre  gravi  ed  eccezionali  ragioni,
esplicitamente motivazione» che e' quella su cui si e' formata, negli
anni (come, in precedenza, per la qualificazione dei «giusti motivi»)
una abbondante e qualificata casistica giurisprudenziale  (2)  ;  sia
perche' in tal senso depone l'analisi  della  relazione  ministeriale
(Ministero della giustizia) al disegno di legge  di  conversione  del
decreto-legge n. 132/2014 (3) ; sia infine perche' il  secondo  comma
va letto in combinato disposto anche con il primo comma dell'art.  92
(4) , che  a  sua  volta  prevede,  ribadendolo,  il  concetto  della
soccombenza, introducendovi due eccezioni specifiche, e cioe' il caso
di  spese  ritenute  eccessive  e  superflue,  ovvero  il   caso   di
trasgressione al dovere di  cui  all'art.  88  c.p.c.,  e  cioe'  per
violazioni endoprocessuali al dovere delle parti e dei  difensori  di
comportarsi in giudizio con lealta' e probita' (5) . 
    In particolare, con riguardo a questa specifica ipotesi, si  deve
notare come il testo normativo la prevede proprio  come  ipotesi  del
tutto peculiare al principio generale  della  soccombenza  che  viene
specificamente richiamato nel  testo  («...  puo',  indipendentemente
dalla soccombenza, condannare una  parte  al  rimborso  delle  spese,
anche non  ripetibili,  che,  per  trasgressione  al  dovere  di  cui
all'art.  88»)  in  questo  modo  rafforzando  l'interpretazione  qui
avallata di essere di  fronte  ad  una  elencazione  tassativa  delle
ipotesi di deroga al predetto principio generale. 
    Per altro, neppure cercando di allargare le maglie  dell'art.  88
c.p.c. (letto in combinato disposto  con  l'art.  175,  primo  comma,
c.p.c. (6) ) si puo' pensare ad un generalizzato potere  residuo  del
Giudice di compensazione delle spese al di fuori  dei  casi  elencati
dalla norma, attesa la peculiarita' dell'art. 88 (7) il suo carattere
strettamente circoscritto all'ambito procedimentale, e  le  peculiari
caratteristiche di afflittivita' della deroga prevista dall'art.  91,
primo comma, che introduce una specifica sanzione (la  condanna  alle
spese anche in  caso  di  vittoria  della  causa)  alle  parti  o  ai
difensori che abbiano compiuto slealta' all'interno del processo  (8)
. 
    Tanto  osservato,  l'unica  lettura  che  alla   scrivente   pare
possibile della norma qui censurata e' quella in base alla quale solo
volute dal legislatore  ed  esplicitamente  previste  unicamente  tre
ipotesi tassative di compensazione delle spese  di  lite  nell'ambito
dell'intero processo civile e delle plurime materie in esso  trattate
e decise. 
Ragioni  della  non  manifesta  infondatezza   delle   questioni   di
legittimita' Costituzionale. 
    Si ritiene allora che la norma di cui e' causa,  come  da  ultimo
modificata, sottragga al Giudice ogni possibilita' ed ogni ambito  di
intervento in cui valutare nel concreto la modulazione delle spese di
lite al di la' delle circoscritte e residuali ipotesi tipizzate. 
    In particolare, va ricordato che la liquidazione delle  spese  di
lite e' il  passaggio  finale,  ma  non  di  minor  giustizia,  della
definizione degli altri capi di domanda, e dunque occorre  che  anche
in questa fase il Giudice possa avere  la  possibilita'  di  valutare
discrezionalmente le vicende oggettive e soggettive portate alla  sua
attenzione nel corso ed a causa del processo, dovendosi rappresentare
come in generale il principio di compensazione delle  spese  (che  e'
comunque di deroga al piu' generale principio della soccombenza)  sia
necessariamente legato/subordinato ad eventi esterni al processo, sui
quali i litiganti non hanno alcuna possibilita'  di  incidere,  ed  a
ragioni oggettive e  soggettive  talmente  gravi  ed  eccezionali  da
consentire appunto una deroga al «normale». 
    Tale esigenza e' poi particolarmente necessaria (e dunque massima
e' la sua frustrazione in termini di giustizia) nelle  cause  -  come
quella qui esaminata  -  di  lavoro  o  di  previdenza,  nelle  quali
l'attore, in primo grado, e' sostanzialmente  sempre  il  lavoratore;
oltre che, in generale, nelle cause in  cui  si  discute  di  diritti
personali o personalissimi, in materia  di  famiglia  e  stato  delle
persone, in materia di salute. 
    Gran parte di queste controversie sono «a controprova» (es.,  per
quanto riguarda  quelle  di  diritto  del  lavoro:  quelle  che  sono
condizionate dalla consistenza numerica  dell'impresa,  le  cause  di
impugnazione   di    licenziamento,    sospensione    in    CIG/CIGS,
trasferimento, mutamento mansioni, ecc.), nel senso che il lavoratore
deve introdurle non disponendo di tutti i  dati  che  incidono  sulla
legittimita' o meno del provvedimento datoriale,  che  egli  ha  gia'
subito e di cui chiede al Giudice il controllo  di  legittimita',  da
operare appunto all'esito dell'assolvimento della prova da parte  del
datore; lo stesso dicasi per le cause inerenti danni alla salute  nei
confronti di enti (es: INAIL, AUSL) ovvero  di  privati  (es.:  colpa
medica), ove spesso la materia in  fatto  viene  decisa  dal  Giudice
mediante  l'aiuto  di  consulenti  tecnici  che   applicano   proprie
valutazioni in campi di particolare complessita'  e  discrezionalita'
tecnica (sicche' puo' capitare - e infatti spesso capita - che vi sia
contrasto tra i pareri medici su elementi  sostanziali  della  causa,
quali l'esistenza di nesso causale ovvero la valutazione  di  profili
di responsabilita' operativa). 
    In  questi  casi  l'ipotetica  soccombenza  della  parte  attrice
potrebbe rivelarsi «incolpevole» e comunque «opinabile»; tale in ogni
caso da consentire un intervento motivato del Giudice  in  ordine  al
criterio di ripartizione delle spese di causa che possa  superare  il
rigido assetto della soccombenza. Per altro, per introdurre la  causa
in primo  grado,  il  lavoratore  -  attore  (per  rimanere  al  caso
esaminato in causa e portato all'attenzione di questa Corte) deve  di
regola sostenere l'onere del  Contributo  unificato,  l'anticipazione
delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre l'IVA sulla
prestazione dei professionisti;  e  tutti  questi  oneri,  come  pure
quello eventuale delle spese di soccombenza, sono indetraibili per il
lavoratore o comunque per il privato. Al  contrario,  il  datore,  di
regola, recuperera' l'IVA sulle prestazioni del difensore e detrarra'
dal  reddito  la  relativa  parcella,  come  le  spese  di  eventuale
soccombenza: con un differenziale di costo iniziale di  accesso  alla
giustizia, che grava solo  sul  lavoratore,  ed  uno  finale  che  e'
comunque  dell'ordine  del  50-70%  a  sfavore   del   lavoratore   e
conseguente disuguaglianza  formale  oltre  che  sostanziale  tra  le
parti. 
    In sostanza, per quanto ora esposto, parrebbe che in un  contesto
in fatto gia' spesso sfavorevole alla parte attrice  nei  casi  sopra
rappresentati (ove cioe' si tratta di un lavoratore, di un  ammalato,
di un pensionato, di una persona socialmente o economicamente  debole
o necessitante di tutela), il meccanismo della attuale  distribuzione
delle spese di lite incida in  modo  ulteriormente  gravoso  su  essa
parte in quanto: 
        a.  priva  irragionevolmente  il  Giudice  della   essenziale
funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare  la  pronunzia  alle
peculiarita' del modello processuale ed alle condizioni  personali  e
circostanze concrete del caso di specie; 
        b. esercita di fatto una gravissima limitazione  del  diritto
all'effettivita' dell'accesso alla giustizia in danno del lavoratore:
questi, gia' gravato asimmetricamente  (in  suo  danno)  dagli  oneri
dianzi decritti e in certi casi  trovandosi  privo  di  lavoro  o  di
retribuzione, deve  preventivare  il  rischio  oggettivo  che,  anche
introducendo una causa a controprova,  sia  condannato  a  pagare  le
spese di  soccombenza;  identico  ragionamento  anche  per  le  altre
categorie di soggetti sopra elencati; 
        c.   colpisce,   in   tali   frequenti   casi,   del    tutto
irragionevolmente una parte incolpevole, che certo non  ha  «abusato»
del processo o invocato presunti diritti che, a priori, sapeva essere
inesistenti; 
        d. esercita la predetta limitazione, in  termini  di  pesante
«deterrenza»,    in    modo     proporzionalmente     (e     vieppiu'
irragionevolmente)  maggiore  per  quanto  minore  sia  la  capacita'
economica del lavoratore: il meccanismo dell'art.  91  c.p.c.,  opera
ciecamente, e contraddittoriamente, anche a carico del lavoratore che
abbia redditi inferiori alla soglia per cui la stessa  legge  prevede
l'esenzione dal pagamento del contributo fiscale. 
La precedente giurisprudenza della Corte costituzionale 
    Va ricordato come in piu' occasioni, il Giudice  delle  leggi  si
sia occupato delle spese giudiziali, sempre consentendo - a parere di
chi scrive  -  sulla  necessita'  dell'esistenza  di  una  norma  «di
chiusura» che garantisca un ambito di discrezionalita' ed escluda  la
tassativita' delle ipotesi. 
    Ad es. Corte cost. 18 novembre 1982, n. 196  (9)  in  materia  di
processo tributario  ha  escluso  che  la  scelta  legislativa  fosse
«irragionevole», perche' la condanna alle  spese  giudiziali  non  e'
riderogabile: «la inderogabilita',  come  e'  consentita  al  giudice
quando nelle singole fattispecie ravvisi  la  esistenza  dei  "giusti
motivi" indicati nel citato art. 92,  cosi'  ugualmente  puo'  essere
preveduta dalla legge quando ravvisi  la  presenza  di  elementi  che
giustifichino la diversificazione dalla regola generale del c.p.c.». 
    In senso analogo,  e  cioe'  in  sostanza  con  riferimento  alla
possibilita' che la modulazione delle spese da parte del Giudice  sia
meccanismo   necessario    per    evitare    la    declaratoria    di
incostituzionalita' delle norme, Corte cost., 25 luglio 1985, n. 222,
ha dichiarato infondata la questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 489, ultimo comma, c.p.p. allora vigente,  nella  parte  in
cui non prevedeva, in caso di condanna dell'imputato ai  risarcimenti
ed alle restituzioni, la compensazione delle  spese  processuali  per
giusti  motivi.  Nell'occasione  la  Corte  ha   rilevato   che   «la
differenziata disciplina dettata con la  norma  impugnata,  la  quale
rientra in un orientamento normativo  favorevole  alla  parte  civile
relativamente  alle   spese   processuali   (...)   e'   giustificata
dall'esigenza  di  non  frapporre  remore   alla   costituzione   del
danneggiato, anche in vista dell'apporto che  la  sua  partecipazione
puo'  dare   alla   dialettica   del   processo   penale   e   quindi
all'accertamento della responsabilita' penale». 
    Corte  cost.  31   dicembre   1986,   n.   303,   ha   dichiarato
l'incostituzionalita'  dell'art.   641,   terzo   comma,   modificato
dall'art. 2, legge 10  maggio  1976,  n.  358,  nella  parte  in  cui
escludeva che il giudice, in  caso  di  accoglimento  della  domanda,
dovesse liquidare le spese ove il  decreto  ingiuntivo  fosse  emesso
sulla  base  di  titoli   gia'   dotati   di   efficacia   esecutiva.
Nell'occasione la Corte ha rilevato che la liquidazione  delle  spese
costituisce  normale  complemento  dell'accoglimento  della  domanda,
cosicche', in mancanza, il diritto di agire in giudizio  non  sarebbe
adeguatamente garantito. 
    Corte cost. 2 aprile 1999, n. 117, ha  dichiarato  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  23,
legge 24 novembre 1981, n. 689 e dell'art. 91 c.p.c., nella parte  in
cu non prevedevano la condanna dell'opponente alle  spese  in  favore
dell'amministrazione  resistente  costituitasi  a  mezzo  di   propri
funzionari. Nell'occasione, la Corte ha ribadito che la condanna alle
spese «non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare
la derogabilita' sia su iniziativa del giudice del singolo  processo,
quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod.  proc.
civ., sia  per  previsione  di  legge  -  con  riguardo  al  tipo  di
procedimento  -  in  presenza  di  elementi  che   giustifichino   la
diversificazione dalla regola generale». 
    Vale la pena poi di ricordare le disposizioni  che  prevedono,  a
determinate condizioni, l'esonero dalle spese  giudiziali  in  alcune
controversie previdenziali: l'art. 57, legge 30 aprile 1969, n. 153 e
l'art. 152 disp. atti c.p.c. 
    In riferimento alla prima norma Corte cost. 14 febbraio 1973,  n.
23,  ha   dichiarato   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale, perche' «il detto esonero dalle  spese  stabilito  in
favore dell'assicurato - lungi  dal  determinare  una  disparita'  di
posizione tra le parti (che e' solo  apparente)  -  realizza, invece,
attraverso un meccanismo  di  neutralizzazione  della  notoria  minor
resistenza del lavoratore  di  fronte  al  rischio  processuale,  una
situazione di sostanziale parita'. Onde, non fonte di  disuguaglianza
-  esso  esonero,  in  definitiva,  costituisce  -  bensi'  mezzo  di
ripristino di  una  uguaglianza  che,  se  pur  esistente  sul  piano
formale, e' suscettibile, comunque, di cadere,  ove  il  rischio  del
processo - apparendo troppo gravoso - distolga il lavoratore dal  far
valere sue fondate pretese». 
    Nello stesso  senso,  in  riferimento  all'art.  152  disp.  att.
c.p.c., Corte cost. 15 giugno 1979,  n.  60,  ha  osservato  che  «il
legislatore, disponendo la compensazione delle spese del giudizio  in
caso di soccombenza del lavoratore, ha voluto  porlo  al  riparo  dal
rischio processuale, al fine di consentirli  di  far  valere  le  sue
pretese non temerarie nei confronti degli istituti  di  previdenza  e
assistenza. Il costo del processo puo' essere gravoso anche  per  chi
non sia povero nei limiti richiesti  per  ottenere  il  patrocinio  a
spese dello Stato e puo' costituire, anche in tal caso, una remora  a
far valere le proprie  fondate  ragioni.  A  tale  inconveniente,  ha
voluto  porre  rimedio  la  norma  denunziata,   prescindendo   dalle
condizioni  economiche  del  lavoratore  interessato,  al   fine   di
neutralizzare la sua notoria minore resistenza di fronte  al  rischio
processuale». 
    Corte cost. 3 aprile 1987, n. 98, ha  poi  affermato  che  «detto
esonero (l'estensione  del  beneficio  oltre  la  categoria  dei  non
abbienti, n.d.r.) concreta un meccanismo  di  neutralizzazione  della
notoria minore resistenza del lavoratore di  fronte  al  rischio  del
processo che, apparendo troppo gravoso, lo possa distogliere dal  far
valere  in  giudizio  la  sua   fondata   pretesa   previdenziale   o
assistenziale; che tutti i lavoratori, siccome versano nella identica
situazione psicologica, hanno titolo alla stessa forma  di  tutela  e
cioe'  al  detto  esonero,  che  rimuove  le  conseguenze  economiche
derivanti dalla soccombenza  nel  giudizio,  sia  che  si  tratti  di
prestazioni previdenziali che di prestazioni assistenziali». 
    Infine, pare aderente al caso  in  esame  la  valutazione  svolta
dalla  Corte  cost.  13  aprile  1994,  n.  134,  che  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma  2,  decreto-legge
19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, in legge 14
novembre 1992,  n.  438  (norma  che  aveva  abrogato  la  disciplina
dell'esonero del lavoratore soccombente dal pagamento delle spese nel
processo previdenziale indipendentemente dal reddito del richiedente)
ricordando «la  particolare  valenza  del  diritto  alla  prestazione
previdenziale ed assistenziale ai sensi dell'art. 38, comma 2,  Cost.
e il carattere strumentale del  regime  di  esonero  delle  spese  di
soccombenza ai fini della effettiva tutelabilita' del diritto  stesso
...» ed in base a cio' si  verificava  «...  insanabile  contrasto  -
nella  sua  interezza  -  con  i  precetti  costituzionali   evocati:
risultandone, per l'effetto, indiscriminatamente (e irragionevolmente
quindi) ripristinata la  situazione  di  disparita'  sostanziale  nel
processo  (rispetto  all'istituto  assicuratore)  cui  avevano  posto
rimedio le disposizioni abrogate  (art.  3);  limitata  di  fatto  la
possibilita' di agire a tutela dei  propri  diritti  (art.  24);  non
tutelata a sufficienza la condizione di inabile al  lavoro  (art.  38
Cost.)». 
    Sulla traccia di questa decisione, Corte cost. 20 marzo 1998,  n.
71,  ha  dichiarato  manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 152 disp.  att.  c.p.c.,  nella
parte in cui consente, nelle  ipotesi  ivi  previste,  l'esonero  dal
pagamento delle spese di giudizio anche lavoratori abbienti. 
    In  tutte  le  sentenze  sopra  citate  la  Corte  evidenzia   la
necessaria eccezione al principio generale  per  il  quale  le  spese
giudiziali seguono la soccombenza, pur circoscrivendo la sua  analisi
alle controversie previdenziali ed assistenziali, materie nelle quali
le norme denunciate erano state adottate. 
    In queste materie la Corte sancisce  la  particolare  natura  dei
diritti dedotti ed la qualita' degli enti convenuti,  ed  esprime  il
concetto (a parere della scrivente estensibile anche agli altri  casi
sopra rappresentati) per cui il principio di uguaglianza  sostanziale
di cui all'art. 3, comma 2, Cost., prevale su quello  di  uguaglianza
formale ex art. 3, comma 1, Cost., e su quello  della  parita'  delle
armi nel processo ex art. 111, Cost. 
Ragioni della rilevanza della questione nel caso specifico 
    Per guanto sopra sommariamente esposto in fatto,  la  lavoratrice
Rasulova, originaria ricorrente nel procedimento  per  l'impugnazione
del licenziamento, si trova in questa fase processuale  convenuta  in
opposizione per essere condannata (in tesi opponente) alla  rifusione
delle spese processuali sia della  prima  che  dell'attuale  fase;  e
viene censurato anche  l'ammontare  della  liquidazione  di  condanna
della Rasulova adottata dal Giudice in prima fase a vantaggio di  una
sola tra le numerose societa' originariamente convenute. 
    Nello specifico caso, come s'e' detto, la peculiarita'  oggettiva
della vicenda rende assai difficoltosa  una  ricostruzione  in  fatto
degli  avvenimenti,  dovendosi  procedere  ad  una  ricognizione  dei
numerosi passaggi subiti dal lavoratore (alcuni  dei  quali  avvenuti
addirittura a propria insaputa, e dunque  eminentemente  formali)  da
una societa'  all'altra;  e  dovendosi  del  pari  procedere  ad  una
ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in
forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di
fatto o in diritto,  hanno  cambiato  nome,  assetto  e  composizione
societaria, ceduto  rami  d'azienda  ed  effettuato  altre  intricate
modifiche interne. 
    Pertanto  si  puo'  ritenere  che,  all'esito   della   eventuale
istruttoria in fatto, la lavoratrice rischi la condanna alle spese di
lite in danno di tutte e quante le societa'  coinvolte,  per  ragioni
esclusivamente processuali/procedimentali legate alla soccombenza per
cosi' dire formale, pur avendo nel merito numerosi  elementi  da  far
valere a sostegno delle sue  richieste;  e  questo  rende  rilevante,
nello specifico caso, l'eccezione qui proposta. 
Le specifiche violazioni alla Costituzione 
    A parere della scrivente, dunque, e per tutte  le  considerazioni
sopra svolte, l'ablazione che  l'art.  92  c.p.c.  riformato  fa  del
potere giudiziale di valutare i «gravi  ed  eccezionali  motivi»  per
compensare le spese di lite, anche nei casi specifici di cui sopra  e
tipici del processo del lavoro o dei  processi  vertenti  su  diritti
personali, rende  manifesta  l'illegittimita'  della  norma,  per  le
ragioni seguenti: 
    1. Per violazione del combinato disposto degli artt. 3, 24 e  111
Cost. posto che, in simili casi: 
    a. si manifesta violazione dell'eguaglianza formale tra le  parti
(art. 3, comma 1), della parita' processuale (art. 111) e del diritto
di azione (art. 24), che viene limitato, in primo grado, a danno  del
solo lavoratore; 
    b.   soprattutto   si   manifesta   violazione   dell'eguaglianza
sostanziale enunciata dall'art. 3, comma 2 Cost., che  esigerebbe  un
trattamento differenziato, ma di  vantaggio,  per  il  soggetto  piu'
debole e costretto ad agire  giudizialmente,  mentre  paradossalmente
l'art. 92 c.p.c. ha l'effetto esattamente inverso. 
    2. Per incompatibilita' con l'art. 47  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'UE,  che  esige  l'«effettivita'»  del  diritto  di
azione e di «accesso alla giustizia» (commi 1 e 3) e «l'equita'»  del
processo, quest'ultima irragionevolmente lesa  da  una  sanzione  che
colpisce una parte che non ha  «responsabilita'»  processuale  (nelle
cause a controprova). 
    3. Per violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU, in  rapporto  al
«diritto all'equo processo» ed al diritto ad un «ricorso  effettivo»,
posto che l'art. 92 c.p.c., come riformato in  chiave  specificamente
«deflattiva», si  manifesta  come  mezzo  sproporzionato  allo  scopo
perseguito. 
    4. Per violazione degli artt. 14 della CEDU e 21 della Carta  dei
diritti fondamentali dell'UE, in punto  di  discriminazione  fondata,
rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione» (art.
14 CEDU) o sul «patrimonio»  (art.  21  Carta  UE),  in  rapporto  al
divieto  che  il  Giudice  possa  tener  conto,  per  decidere  sulla
eventuale compensazione delle spese, della condizione  personale  del
lavoratore - anche e soprattutto se economicamente cosi' svantaggiato
da  essere  considerato  esente  dal  contributo  fiscale  -,   cosi'
pregiudicandone  il  diritto  di  azione  proprio  in  ragione  della
limitata capacita' economica,  anche  a  prescindere  da  ragioni  di
«colpevolezza processuale». La discriminazione vietata  dall'art.  14
della Convenzione consiste nel «trattare in  modo  differente,  salvo
giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in
situazioni simili o analoghe». Secondo la giurisprudenza della  Corte
«una distinzione e' discriminatoria» ai sensi dell'art. 14  se  manca
di una giustificazione obiettiva e ragionevole, cioe'  «se  essa  non
persegua uno scopo legittimo o se c'e'  un  rapporto  di  ragionevole
proporzionalita'  tra  i  mezzi  impiegati  e  lo  scopo  che  si  e'
prefissata» (CEDI: 1° dicembre 2009). 
    5. L'art. 92, secondo comma c.p.c. si pone inoltre  in  contrasto
con l'art. 117, comma 1 della Costituzione che impone il rispetto  da
parte del legislatore italiano dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. Come riconosciuto  dalla
Corte costituzionale con le sentenze numeri 348 e 349 del 2007 e  311
del  2009  il  contrasto  di  una  norma  nazionale  con  una   norma
convenzionale (nel caso di specie gli  artt.  2,  14,  35  CEDU),  si
traduce in una violazione dell'art. 1117, comma 1 della Costituzione. 
    6. L'illegittimita' della normativa di cui e' causa  e'  altresi'
nei confronti della nostra Costituzione, per violazione  degli  artt.
24, 25, primo comma, 102, 104 e 111. 
    L'intervenuto decreto-legge poi convertito per altro  costituisce
una ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario. 
    Parrebbe infatti lesa l'indipendenza e l'autonomia della funzione
giudiziaria (e conseguente violazione degli artt. 102, 104, 111 della
Costituzione), nonche' come venga  eluso  il  principio  del  giudice
naturale precostituito per legge (con violazione dell'art. 25,  primo
comma della Costituzione); infine viene leso il diritto del cittadino
ad un giusto processo, diritto tutelato anche dall'art. 6 CEDU  e  47
Carta UE e anche dall'art. 111 della Costituzione. 
    Per quanto sopra, non sembra lecito dubitare che la questione  di
legittimita' come sollevata e' rilevante nel presente  giudizio,  sul
quale e' destinata ad operare direttamente. 

(1) Come argomenta il Giudice del  lavoro  di  Torino,  dott.  Mollo,
    nella propria recentissima sentenza n. 2259 del 13 febbraio 2017. 

(2) A titolo puramente esemplificativo, tra le piu' recenti: Cass. n.
    21083/2015; Cass. n. 14546/2015; Cass. n.  11301/2015;  Cass.  n.
    24634/2014; Cass. n. 16037/2014;  Cass.  n.  319/2014;  Cass.  n.
    1371/2013:  Cass.  n.  15413/2011;  Cass.  n.   25250/20;   Cass.
    21521/2010; Cas.s. n. 20324/2010: ecc. 

(3) Che afferma come  «Complementari  finalita'  di  contrazione  dei
    tempi del processo civile fondano le misure per la  funzionalita'
    del medesimo processo, quali: la limitazione delle ipotesi in cui
    il giudice puo' compensare le spese del processo  ...»,  per  cui
    «Nonostante le  modifiche  restrittive  introdotte  negli  ultimi
    anni, nella pratica applicativa si continua  a  fare  larghissimo
    uso  del  potere  discrezionale  di  compensazione  delle   spese
    processuali, con conseguente incentivo alla lite,  posto  che  la
    soccombenza perde un suo naturale e  rilevante  costo,  con  pari
    danno per la  parte  che  risulti  aver  avuto  ragione.  Con  la
    funzione di disincentivare l'abuso del processo e'  previsto  che
    la compensazione possa essere disposta dal giudice solo nei  casi
    di soccombenza reciproca ovvero di novita' della questione decisa
    o  mutamento  della   giurisprudenza.   Stante   il   particolare
    affidamento che la parte introduce  il  giudizio  fa  nel  regime
    delle spese, si e' ritenuto opportuno stabilire che la previsione
    in parola si applichi ai procedimenti introdotti a decorrere  dal
    trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di
    conversione del decreto». 

(4) (I) Il giudice, nel pronunciare la condanna di  cui  all'articolo
    precedente, puo' escludere la ripetizione delle  spese  sostenute
    dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive  o  superflue;  e
    puo', indipendentemente dalla soccombenza, condannare  una  parte
    al  rimborso  delle  spese,  anche  non  ripetibili,   che,   per
    trasgressione al dovere di  cui  all'art.  88,  essa  ha  causato
    all'altra parte. (II) Se vi e' soccombenza reciproca  ovvero  nel
    caso di  novita'  della  questione  trattata  o  mutamento  della
    giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice puo'
    compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. 

(5) «e puo',  indipendentemente  dalla  soccombenza,  condannare  una
    parte al rimborso delle  spese  anche  non  ripetibili,  che  per
    trasgressione al dovere di cui all'art. 88.» 

(6) Il giudice «esercita tutti i poteri intesi al  piu'  sollecito  e
    leale svolgimento del procedimento». 

(7) «Le parti e i loro difensori hanno il dovere  di  comportarsi  in
    giudizio  con  lealta'  e  probita'.  In  caso  di  mancanza  dei
    difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorita'
    che esercitano il potere disciplinare su di essi». 

(8) Ed in tal senso ha da sempre argomentato la giurisprudenza  della
    SC; cfr. Cass.  n.  10090/2015,  Cass.  n.  3338/2012,  Cass.  n.
    6635/2007: «In materia di spese processuali,  al  criterio  della
    soccombenza  puo'  derogarsi  solo  quando  la  parte   risultata
    vincitrice sia venuta meno  ai  doveri  di  lealta'  e  probita',
    imposti  dall'art.  88  c.p.c.  Tale  violazione,   inoltre,   e'
    rilevante unicamente nel contesto processuale, restando  estranee
    circostanze  che,  sia  pur  riconducibili  ad  un  comportamento
    commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in  un
    contesto extraprocessuale, le quali circostanze possono, al piu',
    giustificare una compensazione delle spese (in  applicazione  del
    principio di cui in massima, la  S.C.  ha  cassato  la  decisione
    della corte  territoriale  che,  in  controversia  previdenziale,
    aveva condannato l'INPS al pagamento delle spese processuali, sul
    presupposto che  l'ente  previdenziale  avesse  concorso  a  dare
    origine alla controversia negando, in radice, la  sussistenza  di
    una inabilita' temporanea assoluta conseguita ad  infortunio  sul
    lavoro e sostenendo questa tesi in giudizio)». 

(9) La sentenza ha dichiarato infondata la questione di  legittimita'
    costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972,  n.  636,
    nella parte in cui escludeva la condanna alle spese nel  processo
    tributario, in riferimento  agli  articoli  3,  24  e  113  della
    Costituzione. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il Giudice del lavoro presso il Tribunale di Reggio Emilia; 
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara non manifestamente infondata e rilevante  per  contrasto
con gli artt. 3 e 117 della Costituzione, oltre agli  artt.  24,  25,
primo comma, 102, 104 e 111 della Costituzione, nonche' gli artt. 47,
21 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e 6, 13 e  14
CEDU la disposizione di cui all'art. 92, secondo  comma  c.p.c.  come
introdotto dall'art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014,  n.  132
(come modificato dalla legge di  conversione  10  novembre  2014,  n.
162); 
    Dispone la sospensione  del  presente  giudizio  e  la  immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti e al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri
nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Cosi' deciso, in Reggio Emilia, addi' 28 febbraio 2017 
 
                   Il Giudice del Lavoro: Vezzosi