N. 195 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 luglio 2017
Ordinanza del 26 luglio 2017 del Tribunale di Roma nel procedimento civile promosso da Santoro Federica contro Settimo Senso S.r.l.. Lavoro e occupazione - Disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti - Mancata ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Misura dell'indennita' risarcitoria. - Legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), art. 1, comma 7, lettera c); decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), artt. 2, 3 e 4.(GU n.3 del 17-1-2018 )
IL TRIBUNALE DI ROMA III Sezione lavoro Nella persona del giudice designato, dott. Maria Giulia Cosentino nella causa tra Federica Santoro (avv. C. de Marchis Gomez) ricorrente e Settimo Senso S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore convenuta contumace sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 10 giugno 2017 ha pronunciato la seguente ordinanza. 1. I fatti di causa, l'illegittimita' del licenziamento e le sue conseguenze. La ricorrente ha impugnato il licenziamento irrogatole il 15 dicembre 2015 dopo pochi mesi dall'assunzione, avvenuta formalmente l'11 maggio 2015, e basato su questa motivazione: «a seguito di crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non ci consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro, la Sua attivita' lavorativa non puo' piu' essere proficuamente utilizzata dall'azienda. Rilevato che non e' possibile, all'interno dell'azienda, reperire un'altra posizione lavorativa per poterla collocare, siamo costretti a licenziarLa per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1996 n. 604». Nella dichiarata contumacia della societa' convenuta, va preso atto che questa non ha adempiuto all'onere di dimostrare la fondatezza della motivazione addotta, peraltro estremamente generica e adattabile a qualsivoglia situazione, dunque in sostanza inidonea ad assolvere il fine cui tende l'onere motivazionale (cfr. Cass. Sez. lav. n. 7136/2002); ne' la convenuta ha contestato le dimensioni occupazionali indicate dalla ricorrente e dunque la tutela applicabile per legge alla lavoratrice nel caso di specie. Detta tutela e' costituita dagli articoli 3-4 del decreto legislativo n. 23/2015, frutto della delega contenuta nella legge n. 183/2014, e in particolare: l'art. 3 prevede: «1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilita'»; l'art. 4 prevede: «1. Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o dello procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata o contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilita', a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2e 3 del presente decreto». Nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga un certo livello occupazionale, poi, la misura dell'indennita' e' dimezzata ai sensi dell'art. 9: «1. Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, dello legge n. 300 del 1970, non si applica l'art. 3, comma 2, e l'ammontare delle indennita' e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1, dall'art. 4, comma 1 e dall'art. 6, comma 1, e' dimezzato e non puo' in ogni caso superare il limite di sei mensilita'». Peraltro la ricorrente ha implicitamente allegato che la convenuta ha i requisiti dimensionali di cui all'art. 18 della legge n. 300/1970, allorche' ha invocato la tutela di cui all'art. 3 del decreto legislativo n. 23/1015 e non anche il successivo art. 9, ne' sussistono in atti elementi indiziari indicativi di una minore consistenza occupazionale. Tanto, perche' la ricorrente e' stata assunta dopo il 7 marzo 2015: in quanto, per gli assunti fino a quella data, la tutela avverso il licenziamento illegittimo e' costituita dall'art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, che prevede, per le due corrispondenti ipotesi: il comma 7 per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravita' del vizio: «Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneita' fisica o psichico del lavoratore, ovvero che il licenziamento e' stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile. Puo' altresi' applicare lo predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto o base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennita' tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, offre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per lo ricerca di uno nuovo occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 dello legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo»; a sua volta il quarto comma quoad poenam dispone che: «annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attivita' lavorative, nonche' quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria non puo' essere superiore a dodici mensilita' della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attivita' lavorative»; e il quinto comma quoad poenam dispone che: «dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianita' del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attivita' economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo»; il comma 6 per il caso di difetto di motivazione: «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'art. 7 della presente legge, o della procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennita' risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravita' della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, o meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi e' anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo». Ritiene questo giudice che, a fronte della estrema genericita' della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell'espulsione, il vizio ravvisabile sia il piu' grave fra quelli indicati, vale a dire la «non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (nel linguaggio del legislatore del 2015), ovvero la «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». In sintesi, se fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, la ricorrente avrebbe goduto della tutela reintegratoria e di una indennita' commisurata a dodici mensilita' (essendo trascorsi oltre 12 mesi fra l'espulsione e la prima udienza), ovvero, applicando il comma 5 dell'art. 18, della sola tutela indennitaria fra le 12 e le 24 mensilita'; mentre, per essere stata assunta dopo quella data, ha diritto soltanto a quattro mensilita', e solo in quanto la contumacia del convenuto consente di ritenere presuntivamente dimostrato il requisito dimensionale, altrimenti le mensilita' risarcitorie sarebbero state due. Anche nel caso si ravvisasse un mero vizio della motivazione, la tutela nel vigore dell'art. 18 sarebbe stata molto piu' consistente (6-12 mensilita' risarcitorie a fronte di 2). 2. Il sospetto di incostituzionalita' e i parametri del giudizio Questo giudice ritiene che non si possa dubitare, per quanto esposto, della rilevanza della questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 7, lettera c) legge n. 183/2014 e degli articoli 2, 4 e 10 decreto legislativo n. 23/2015: l'innovazione normativa in parola priva infatti l'odierna ricorrente di gran parte delle tutele tuttora vigenti per coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015. La normativa preclude qualsiasi discrezionalita' valutativa del giudice, in precedenza esercitabile ancorche' ancorata ai criteri di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966 e all'art. 18 dello Statuto come novellato dalla legge n. 92/2012, imponendo al medesimo un automatismo in base al quale al lavoratore spetta, in caso di accertata illegittimita' del recesso, la piccola somma risarcitoria prevista. La non manifesta infondatezza della questione emerge pianamente dalle considerazioni che seguiranno, incentrate sul ritenuto contrasto della normativa con: A) l'art. 3 della Costituzione, in quanto l'importo dell'indennita' risarcitoria disegnata dalle norme del c.d. «Jobs Act» non riveste carattere compensativo ne' dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie; ed inoltre in quanto l'eliminazione totale della discrezionalita' valutativa del giudice finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro; B) l'art. 4 e l'art. 35 della Costituzione, in quanto al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; Cl ) L'art. 117 e l'art. 76 della Costituzione, in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, mentre il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio di delega, che e' stato pertanto violato. Il contrasto con la Costituzione, si badi, non si ravvisa in ragione dell'avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria - se non per i licenziamenti nulli, discriminatori e per specifiche fattispecie del licenziamento disciplinare (art. 1, comma 7, lettera c della legge di delega) e dunque in ragione della integrale monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore: invero la Corte costituzionale ha gia' piu' volte statuito che la tutela reintegratoria non costituisce l'unico possibile paradigma attuativo dei precetti costituzionali di cui agli articoli 4 e 35 (cfr. sentt. n. 46/2000, n. 303/2011). Il sospetto di incostituzionalita' viene qui formulato, invece, in ragione della disciplina concreta dell'indennita' risarcitoria che, nel compensare solo per equivalente il danno ingiusto subito dal lavoratore, e' destinata, oggi, altresi' a prendere il posto del concorrente risarcimento in forma specifica costituito dalla reintegrazione (divenuta tutela per pochi casi di eccezionale gravita') e dunque avrebbe dovuto essere ben piu' consistente ed adeguata. La Corte costituzionale ha invero affermato a piu' riprese, da ultimo nella citata pronuncia n. 303/2011, che «la regola generale di integralita' della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), purche', pero', sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991): ed e' appunto questo lo specifico profilo rispetto al quale la normativa in oggetto non si sottrae al dubbio di costituzionalita'. 2.A. Contrasto con l'art. 3 Cost. La previsione di una indennita' in misura cosi' modesta, fissa e crescente solo in base alla anzianita' di servizio non costituisce adeguato ristoro per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e ingiustamente licenziati e viola il principio di uguaglianza. In altre parole, il regresso di tutela per come irragionevole e sproporzionato viola l'art. 3 Cost. differenziando fra vecchi e nuovi assunti, pertanto non soddisfa il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza. Si rifletta, infatti, sulle seguenti circostanze sintomatiche della mancanza di carattere compensativo dell'indennita': l'assunzione della ricorrente ha consentito al datore di lavoro la fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi previsto dalla legge n. 190/2014 di importo molto piu' consistente della condanna che ricevera' nella presente sede: di fatto il legislatore incoraggia, con tali misure, comportamenti opportunistici e di dumping sociale; mentre dal canto suo la ricorrente in cambio di pochi mesi di lavoro e di un modesto risarcimento avra' molte piu' difficolta' a reperire una nuova occupazione in quanto non portera' piu' con se' la «dote» dello sgravio; la misura fissa dell'indennita' non consente al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto, ne' con riguardo al fenomeno di free riding della convenuta sopra descritto, ne' con riguardo alla gravita' del vizio riscontrato (la motivazione pur presente, e' tautologica e generica al massimo) ne' con riguardo alla durata del processo, giungendo ad apprestare identica tutela a situazioni molto dissimili nella sostanza; come si ricordera', proprio l'esistenza di margini di valutazione riferiti ai criteri di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966 costitui' fondamento, significativamente, della pronuncia di rigetto della questione di costituzionalita' dell'art. 32 legge n. 183/2010 in riferimento all'art. 3 Cost. (sent. n. 303/2011). Le dette circostanze sono altresi' sintomatiche della mancanza del carattere dissuasivo della sanzione, poiche', come si e' detto, il licenziamento illegittimo disposto dopo pochi mesi di lavoro assistito dalla fruizione dello sgravio contributivo costituisce un «affare» per il datore di lavoro che incentiva, anziche' dissuadere, comportamenti di free riding senza rischio alcuno, dal momento che, appunto, l'indennita' che il datore dovra' pagare all'esito del giudizio e' fissa, predeterminata e prescinde dalla gravita' dell'illegittimita', per cui una «pseudomotivazione» come quella all'esame (parafrasabile in un «ti licenzio perche' ci sono le condizioni per licenziarti») equivale, quoad poenam, a qualsiasi altra motivazione riscontrata nei fatti come infondata. E' noto, incidentalmente, che il giudice di legittimita' ritiene ormai superato quell'orientamento, gia' dominante, che escludeva il carattere sanzionatorio (oltre che compensativo-riparatorio) della responsabilita' civile e ritiene tale aspetto pienamente compatibile con i principi generali del nostro ordinamento (cfr. Cass. S.U. n. 9100/2015): da ultimo le Sezioni Unite il 5 luglio 2017 (sent. n. 16601), nel dichiarare la compatibilita', nella ricorrenza di determinati presupposti, dell'istituto di origine statunitense dei c.d. «risarcimenti punitivi» hanno statuito che «nel vigente ordinamento, alla responsabilita' civile non e assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiche' sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile»: offrendo una panoramica di ipotesi risarcitorie con effetti anche dissuasivi di recente istituzione nella quale compare anche l'art. 18, comma 2 della legge n. 300/1970, laddove prevede, per i casi di licenziamento illegittimo assoggettati alla tutela reintegratoria, anche una misura minima pari a cinque mensilita' della retribuzione globale di fatto quale indennita' risarcitoria posta a carico del datore di lavoro; nonche' l'indennita' forfettizzata per l'illegittimita' della pattuizione del termine apposto al contratto di lavoro di cui all'art. 32 della legge n. 183/2010 che la citata pronuncia della Corte costituzionale n. 303/2011 ha valutato immune da vizi di costituzionalita' (oltre che per la possibilita' di una discrezionalita' valutativa sul quantum, come accennato) anche sulla base della sua «chiara valenza sanzionatoria», evidenziata dalla eliminazione della possibilita' di sottrarre l'aliunde perceptum. Se dunque non solo di una compensazione ma anche di una sanzione si tratta, il giudizio di adeguatezza si impone perche' una quantificazione irrisoria, come nel caso che ci occupa, si risolve in un incentivo all'inadempimento, anziche' il suo opposto. La disciplina scrutinata, in altre parole, non induce le imprese alla adozione di condotte virtuose, laddove codifica che un atto contrario alla legge e di inadempimento dell'impegno alla stabilita' assunto con la stipulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato (unica fattispecie incentivata sul versante contributivo) e' soggetto ad una sanzione indennitaria di importo contenuto, scisso dall'effettivo pregiudizio provocato, sottratto, nella sua quantificazione, alla valutazione del giudice, che pure continua a valutarne i presupposti, e addirittura inferiore al correlato beneficio contributivo. Non a caso le prime analisi dell'evoluzione del mercato del lavoro dopo l'entrata in vigore del «Jobs Act» indicano chiaramente che, con l'indebolimento degli effetti del vantaggio contributivo (a spese della collettivita'), si e' esaurita anche la spinta occupazionale che si intendeva incentivare con dette norme e che e' oggi nuovamente affidata, di fatto, alle fattispecie che la delega legislativa intendeva rendere meno convenienti per le imprese, vale a dire ai rapporti a termine ed in regime di somministrazione (cfr. rapporto ISTAT sul I trimestre 2017, in atti). Le conseguenze del sistema cosi' disegnato, differenziando in modo totalmente irragionevole situazioni simili, sono, e si dimostreranno nel corso del tempo, discriminatorie in pregiudizio dei neoassunti a prescindere dalla qualita' della loro prestazione: dato che coesisteranno fattualmente nella stessa organizzazione dipendenti diversamente tutelati pur a fronte della stipulazione di un identico contratto di lavoro, e' chiaro che, a parita' di necessita' di ridurre il personale, l'azienda privilegera' sempre la meno costosa e problematica espulsione dei lavoratori in regime di Jobs Act. Se e' vero, infatti, in linea di principio, che «non contrasta, di per se', con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiche' il fluire del tempo puo' costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, (..), essendo conseguenza dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo» (Corte Cost., 13 novembre 2014, n. 254 in ordine al possibile contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparita' di trattamento, del nuovo regime della responsabilita' solidale applicabile agli appalti), e' pur vero che la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla e' idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parita' di ogni altro profilo sostanziale. E del resto, gli stessi teorici della labour law and economics che hanno ispirato la riforma del «Jobs Act», nel sostenere (fondatamente, ad avviso di questo giudice) che la tutela avverso il licenziamento illegittimo non deve essere necessariamente di contenuto reintegratorio, bensi' puo' essere (ed anzi a loro avviso sarebbe piu' opportuno che fosse) costituita da un indennizzo di dimensioni prevedibili per il datore di lavoro che intende licenziare (c.d. firing cost), non hanno mancato di rimarcare che il grado di protezione offerto - e quindi l'entita' del contenuto «assicurativo» del rapporto di lavoro - dipende essenzialmente dall'entita' del costo del licenziamento, cui corrisponde la soglia al di sotto della quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto rientra nel rischio posto a carico dell'impresa. Sulla stessa linea la XI Commissione lavoro del Parlamento che nella seduta del 17 febbraio 2015 ha approvato lo schema di decreto legislativo poi divenuto il n. 23/2015, ma con la condizione che il Governo ne rivedesse le misure, «ritenuto che, per i licenziamenti ingiustificati ai quali non si applica la sanzione conservativa, occorra incrementare la misura minima e la misura massima dell'indennizzo economico dovuto al lavoratore»: invito del tutto disatteso dal Governo. Nell'intenzione dei teorici ispiratori della normativa all'esame nonche' nella prima versione della delega, infatti, il contratto «a tutele crescenti», proprio per renderlo compatibile con il principio di uguaglianza e reale disincentivo alla precarizzazione, avrebbe dovuto favorire l'inserimento stabile nel mercato del lavoro attraverso una attenuazione della tutela contro i licenziamenti di carattere meramente temporaneo, e dunque fatta salva l'applicazione della ordinaria tutela ex art. 18 al termine di una prima fase (per quanto lunga) del rapporto; le tutele del decreto legislativo n. 23/2015, invece, non sono affatto «crescenti», giacche' con lo scorrere del tempo non aumentano le garanzie ma soltanto l'indennizzo in proporzione alla maggiore anzianita' del lavoratore, che non puo' piu', permanentemente, accedere alla tutele standard degli assunti anteriormente al 7 marzo 2015; e che anzi incontra un tetto massimo indennitario dopo dodici anni di servizio. La disparita' di trattamento irragionevole emerge, infine, pianamente dal confronto: non solo fra lavoratori assunti prima e dopo il 17 marzo 2015, anche nella medesima azienda; e non solo fra lavoratori licenziati con provvedimenti affetti da illegittimita' macroscopiche ovvero da vizi meramente formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi, con un indennizzo del medesimo importo; ma anche, quanto agli assunti dopo il 7 marzo 2015, fra dirigenti e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che i primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben piu' consistente. 2.B. Contrasto con l'art. 4 e l'art. 35 Cost. L'art. 4 della Costituzione («la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto») e l'art. 35, comma 1 («la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni») non possono dirsi inverati in una normativa come quella all'esame, che sostanzialmente «valuta» il diritto al lavoro, come strumento di realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico, con una quantificazione tanto modesta ed evanescente, in comparazione con la normativa ex lege n. 92/2012 ancora vigente, ed oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianita' quasi un ripristino di fatto della liberta' assoluta di licenziamento (la cui contrarieta' alla Costituzione e' espressamente affermata nella sentenza n. 36/2000 della Corte costituzionale) che annulla l'effetto «vincolistico» derivante dall'esistenza di fattispecie autorizzatorie inderogabili (giusta causa e giustificato motivo). Le tutele dei licenziamenti, inoltre, hanno una rilevanza che va ben oltre la specifica vicenda del recesso e la tutela della stabilita' di reddito e occupazione, poiche' sostengono la forza contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro. Di piu': una tutela efficace nei confronti di un licenziamento ipoteticamente ingiustificato - diritto non a caso espressamente sancito a livello internazionale, come meglio si dira' - protegge le liberta' fondamentali di lavoratrici e lavoratori, nei luoghi di lavoro: la liberta' di espressione e di dissenso, la difesa della dignita' quando questa sia minacciata da superiori o colleghi, la difesa e pretesa dei propri diritti, la possibilita' di attivarsi sindacalmente se lo si desidera, ecc. Il sistema del Jobs Act ed in particolare, per quanto qui interessa, la quantificazione dell'indennita' in discorso, e' all'opposto costruito su una consapevole rottura del principio di uguaglianza e solidarieta' nei luoghi di lavoro che non puo' non spiegare i propri effetti anche sugli altri diritti dei lavoratori costituzionalmente tutelati (liberta' sindacale, liberta' di espressione eccetera). 2.C. Contrasto con gli articoli 76 e 117 Cost. L'adozione di misure adeguate e necessarie a garantire il diritto al lavoro costituisce una specifica finalita' della politica sociale dello Stato che la Repubblica deve perseguire anche tramite la stipula di accordi internazionali e la partecipazione in organizzazioni internazionali (art. 35, comma 3 della Costituzione). In conformita' alle previsioni dell'art. 117 Cost., la Repubblica accetta, nell'esercizio della sua potesta' legislativa sovrana, i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dai trattati internazionali che assumono, quindi, carattere di norme interposte comunque idonee a rappresentare un parametro di costituzionalita' del diritto interno (cfr. Corte Cost. n. 348 e 349 de1 2007). L'art. 76 Cost., inoltre, prevede che «l'esercizio della funzione legislativa non puo' essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti», con la conseguenza che anche del rispetto di detti principi e criteri si puo' dibattere in sede di legittimita' costituzionale dei decreti legislativi. Con riferimento al licenziamento per giustificato motivo, in particolare, il comma 7 dell'art. 1 della legge delega n. 183/2014 indica quale criterio generale la «coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali». Orbene, alla luce delle superiori considerazioni, la normativa in esame non appare conforme: all'art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato); alla Convenzione ILO n. 158/1982 sui licenziamenti, che prevede che, qualora il licenziamento sia ingiustificato, se il giudice o gli organismi competenti a giudicare l'atto di recesso «non hanno il potere di annullare il licenziamento e/o di ordinare o di proporre il reintegro del lavoratore o non ritengono che cio' sia possibile nello situazione data, dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata»; all'art. 24 della Carta Sociale europea, che stabilisce: «per assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legata alle loro attitudini o alla loro condotto o basato sulle necessita' di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altro adeguata riparazione». La congruita' e l'adeguatezza del ristoro garantito ai lavoratori e dunque il rispetto dei principi posti da questa ultima fonte e' stato oggetto di diverse pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali (CESD), che, pur dando atto che la misura puo' anche non essere di natura ripristinatoria bensi' meramente indennitaria, ha statuito che il ristoro deve essere adeguato (dal punto di vista del lavoratore) e dissuasivo (dal punto di vista del datore di lavoro) e dunque, in sostanza, costituisce conferma a livello sovranazionale di quanto sin qui detto. Con due distinte decisioni del 31 gennaio 2017, complaints n. 106/2014 e 107/2014 entrambi nei confronti della Finlandia, il CESD, ha interpretato l'art. 24 della Carta sociale europea a seguito di un ricorso collettivo promosso dalla Finnish Society of Social Rights, che aveva lamentato la violazione dell'art. 24 della Carta in relazione alle disposizioni nazionali finlandesi che prevedevano, da un lato, le condizioni per intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, dall'altro lato, la responsabilita' datoriale in caso di recesso illegittimo. Il CESD ha specificato che, ai sensi della Carta, ai dipendenti licenziati senza giustificato motivo deve essere concesso un adeguato indennizzo o altro adeguato rimedio; e che e' ritenuta adeguata compensazione quella che include: il rimborso delle perdite economiche subite tra la data di licenziamento e la decisione del ricorso; la possibilita' di reintegrazione; la compensazione ad un livello sufficientemente elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il danno subito dal dipendente («compensation at a level high enough to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee»). Ne deriva che, in linea di principio, qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensation commisurata alla perdita subita e sufficientemente dissuasiva e' in contrasto con la Carta. Nella specie, la legislazione finlandese prevedeva il limite di 24 mesi di retribuzione quale limite massimo al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo. In tale contesto, il Comitato rileva che il limite massimo dell'indennizzo previsto dalla legge puo' portare a situazioni in cui risarcimento attribuito non e' commisurato alla perdita subita: ne deriva che il plafonnement dell'indennita' integra una violazione dell'art. 24 della Carta. Anche nelle conclusioni del 2016 relative alla legislazione italiana in vigore nel 2014 (e dunque alla legge n. 92/2012) il Comitato ha ricordato che e' vietato qualunque tetto tale da determinare alle indennita' riconosciute di non essere in rapporto con il pregiudizio subito e sufficientemente dissuasive. E' vero che nella Carta Sociale manca una Corte con poteri analoghi a quelli che, a tutela dei diritti umani, sono attribuiti alla Corte di Strasburgo, in grado cioe' di esercitare una vera e propria giurisdizione: sono infatti previsti solo reclami collettivi, disciplinati dal Protocollo addizionale della Carta, ossia una procedura ristretta tendente al controllo degli obblighi sottoscritti dagli Stati all'atto della ratifica e accettazione della Carta sociale europea; procedura che da' luogo, all'esito, ad un rapporto al Comitato dei ministri nel quale si stabilisce «se la Parte contraente in causa abbia o non provveduto in maniera soddisfacente all'attuazione della norma della Carta oggetto del reclamo», a seguito del quale il Comitato dei ministri, a sua volta, puo' adottare una risoluzione (a maggioranza di due terzi dei votanti) contenente una raccomandazione alla Parte contraente chiamata in causa, qualora il Comitato europeo dei diritti sociali abbia rilevato «un'attuazione non soddisfacente della Carta» (art. 9 del protocollo addizionale). Nondimeno, la Carta Sociale deve essere considerata, al pari della CEDU, quale fonte interposta (ed in tal senso Corte Cost. n. 178/2015); in ogni caso, come accennato, la ritenuta violazione di principi sovranazionali vale a supportare la valutazione di contrasto della normativa all'esame con gli articoli 3, 4 e 35 Cost. sotto il profilo della giustificazione della disparita' di trattamento fra lavoratori in cerca di occupazione e lavoratori gia' occupati al marzo 2015 e della violazione dell'impegno a promuovere gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro (terzo comma dell'art. 35). 3. Rilevanza del quesito e impraticabilita' dell'interpretazione conforme L'accoglimento della prospettata questione di costituzionalita' consentirebbe, nel caso di specie, di riconoscere alla ricorrente una tutela compensativa del reale pregiudizio subito, che sarebbe in tal caso costituita dalla tutela di cui all'art. 18, commi 4 e 7 (in subordine, comma 5) della legge n. 300/1970 come modificata dalla legge n. 92/2012; e di porre un rimedio (latamente sanzionatorio oltre che compensativo) al comportamento della odierna convenuta che evidentemente ha inteso lucrare il beneficio contributivo assumendo una lavoratrice di cui poi si e' sbarazzata con un licenziamento pseudomotivato. L'opzione interpretativa di conformita' consistente nell'ampliare la sfera applicativa della tutela reintegratoria piena con riferimento agli «altri casi di nullita' previsti dalla legge», superando quell'orientamento (a livello nazionale tuttora maggioritario) che esige la dimostrazione, da parte del lavoratore, del motivo illecito determinante la condotta del datore di lavoro (art. 1345 c.c.) appare una forzatura interpretativa (consentita solo se la Corte costituzionale adita dovesse indicare tale via con una pronuncia interpretativa di rigetto del quesito): tale opzione nella sostanza si risolverebbe in una equiparazione fra licenziamento ritorsivo, ovvero in frode alla legge, e licenziamento (gravemente, ma solamente) ingiustificato. In assenza di riscontro nelle conclusioni del ricorso, essa appare anche, nel caso di specie, contrastare col principio che la causa petendi dell'azione proposta dal lavoratore per contestare la validita' e l'efficacia del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimita' dell'atto dedotto nel ricorso introduttivo (cfr. da ultimo Cass. sez. lav. n. 7687/2017), per cui appare viziata da ultrapetizione, in ipotesi, la declaratoria di nullita' del licenziamento in quanto ritorsivo, sia pure sulla base di circostanza emergenti dagli atti, allorche' il ricorrente abbia dedotto soltanto la mancanza di giusta causa (cfr. Cass. sez. lav. n. 19142/2015). Questo giudice non si riconosce, infine, il potere, in sede di interpretazione conforme, di determinare, in base al proprio personale convincimento, la sanzione adeguata in caso di licenziamento illegittimo, ne' tanto meno il potere di applicare al caso concreto una norma diversa da quella prevista dal legislatore (in ipotesi applicando l'art. 18 legge n. 300/1970, in luogo dell'art. 3 decreto legislativo n. 23/2015), non potendo l'interpretazione conforme risolversi, com'e' noto, in un effetto abrogativo. In conclusione, ed alla luce delle esposte considerazioni, ritiene questo giudice di dover ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale delle norme indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti. Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23 comma 2 della legge 11 marzo 1953 n. 87 dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c) legge n. 183/2014 e degli articoli 2, 4 e 10 decreto legislativo n. 23/2015, per contrasto con gli articoli 3, 4, 76 e 117, comma l, della Costituzione, letti autonomamente ed anche in correlazione fra loro. Sospende il presente giudizio. Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Dispone la trasmissione dell'ordinanza e degli atti del giudizio alla Corte costituzionale unitamente alla prova delle comunicazioni prescritte. Si comunichi alla ricorrente. Roma, 26 luglio 2017 Il giudice: Cosentino --------------- TRIBUNALE DI ROMA III SEZIONE LAVORO Il giudice, dott.ssa Maria Giulia Cosentino, al termine della camera di consiglio, nel procedimento n. RG 29743/2016, letta l'istanza dell'avv. Carlo De Marchis, procuratore di Francesca Santoro, depositata in data odierna; rilevato che la convenuta e' contumace e che l'ordinanza di cui si chiede la correzione non e' revocabile; rilevato che, effettivamente, l'ordinanza non revocabile pronunciata il 26 luglio 2017 u.s., alla quale l'istanza si riferisce, indica erroneamente sia a pag. 4 che a pag. 10 gli articoli del decreto legislativo n. 23/2015 sospettati di incostituzionalita', come si evince chiaramente dal resto della parte motiva dell'ordinanza, che invece li riporta con esattezza anche nel contenuto, letti gli articoli 287 e 288 c.p.c., dispone che l'ordinanza del 26 luglio 2017 del Tribunale di Roma, sezione Lavoro, nella causa R.G. 29743/2016 che ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale sia corretta nel senso che, nella seconda riga del parg. 2 e nella seconda riga dopo il «P.Q.M.», in luogo delle parole «artt. 2, 4 e 10» debbano intendersi scritte le parole: «artt. 2, 3 e 4»; ordina a cura della Cancelleria l'annotazione della presente ordinanza sull'originale del provvedimento con la massima urgenza onde consentire l'invio alla Corte costituzionale e agli altri destinatari ai sensi di legge dell'ordinanza emendata. Roma, mercoledi' 2 agosto 2017 Il Giudice: Maria Giulia Cosentino