N. 147 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 giugno 2018

Ordinanza dell'11 giugno 2018 del Tribunale amministrativo  regionale
per il Friuli-Venezia Giulia sul ricorso proposto  da  M.  M.  contro
Ministero dell'interno. 
 
Sicurezza pubblica - Autorizzazioni di polizia  -  Licenza  di  porto
  d'armi - Divieto  di  concessione  di  porto  d'armi  alle  persone
  condannate alla reclusione per il reato di furto. 
- Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo  unico
  delle leggi di pubblica sicurezza), art. 43. 
(GU n.42 del 24-10-2018 )
 
 IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL FRIULI-VENEZIA GIULIA 
                            Sezione Prima 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 259 del 2017, proposto  da  M.M.,  rappresentato  e
difeso dagli avvocati Giuseppe Sbisa' e Mirta Samengo, con  domicilio
eletto presso il loro studio in Trieste, via Donota n. 3; 
    Contro  Ministero  dell'interno,  in  persona  del  Ministro  pro
tempore,   rappresentato   e   difeso   per   legge   dall'Avvocatura
distrettuale dello Stato di Trieste, presso la quale  e',  del  pari,
per legge domiciliato in Trieste, piazza Dalmazia n. 3; 
    Per l'annullamento del decreto cat. 6F/00343 04-2017/P.A.S.I. dd.
4 luglio 2017 del Questore di Trieste, notificato il 7  luglio  2017,
con il quale sono state respinte le  domande  di  rinnovo  del  porto
d'armi di fucile per lo sport del  tiro  e  di  rinnovo  della  Carta
europea d'arma da fuoco, nonche' di ogni atto presupposto connesso  e
conseguente ivi incluso il preavviso di rigetto; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto  l'atto  di  costituzione   in   giudizio   del   Ministero
dell'interno; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  7  febbraio  2018  la
dott.ssa Manuela Sinigoi e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
  La vicenda fattuale 
    Il  ricorrente  ha   impugnato   innanzi   a   questo   Tribunale
amministrativo  regionale  il  decreto  in   epigrafe   compiutamente
indicato, con cui il Questore di Trieste gli ha denegato  il  rinnovo
della licenza di porto di fucile per lo sport del tiro e della  Carta
europea d'arma da fuoco. 
    Ai fini che qui interessano, espone d'essere stato  titolare  del
porto d'armi per uso caccia dal 1992 sino ad oggi,  ad  eccezione  di
un'interruzione di circa un anno, nel  periodo  tra  ottobre  1993  e
settembre 1994, correlata alla rilevata esistenza di una  (risalente)
sentenza di condanna a suo carico per furto e  simulazione  di  reato
emessa  dal  Tribunale  di  Trieste  in  data  16  giugno  1976,  con
irrogazione della pena della reclusione di 10 mesi. 
    In considerazione di tale sentenza di condanna,  il  Questore  di
Trieste gli aveva, infatti, revocato la licenza di porto di fucile  e
il prefetto decretato il divieto di continuare a tenere le armi e  le
munizioni. 
    Chiesta e ottenuta la riabilitazione (ordinanza del Tribunale  di
Sorveglianza di Trieste in data 7 giugno 1994), riotteneva, tuttavia,
«il libretto e la licenza di porto di fucile per uso caccia,  poiche'
riabilitato dal Tribunale di sorveglianza di Trieste con sentenza  n.
1268/93 R. G. e n. ord. 748/94 del 7  giugno  1994»,  giusta  verbale
della Questura di Trieste in data 1° settembre 1994. Il prefetto, dal
canto suo, revocava, previo  parere  della  Questura,  i  decreti  di
divieto di detenzione di armi precedentemente emessi (decreto in data
5 settembre 1994). 
    Da allora la licenza di porto  di  fucile  gli  e'  stata  sempre
rinnovata, l'ultima volta in data 12 maggio 2011, sinche', a  seguito
dell'ultima istanza di rinnovo presentata in data 7 aprile 2017,  gli
e' stato notificato in data 6 giugno 2017 un  preavviso  di  rigetto,
col quale gli e' stato comunicato che la precedente  condanna  subita
nel 1976 era da considerarsi ostativa al rinnovo. 
    A  nulla  e'  valso  il  contributo  procedimentale  offerto  dal
medesimo, dato che il Questore, con decreto in data  4  luglio  2017,
gli ha denegato, in via definitiva, il rinnovo delle licenze  e  cio'
sulla scorta di quanto stabilito dall'art. 43 del T.U.L.P.S.  («  ...
non puo' essere conceduta la licenza di portare armi:  a)  a  chi  ha
riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro  le
persone  commessi  con  violenza,  ovvero  per  furto...;»)  e  dalla
Circolare del Ministero dell'interno in data 2 agosto  2016,  che  ha
recepito il parere n. 01620/2016 della Prima sezione del Consiglio di
Stato, secondo il quale la riabilitazione «non ha  rilievo  su  altre
conseguenze giuridiche delle condanne»  poiche'  «gli  effetti  della
riabilitazione si  esauriscono  nell'ambito  dell'applicazione  della
legge penale salvo diverse,  specifiche  disposizioni  di  legge»  e,
inoltre, «a chi  e'  stato  condannato  per  i  reati  previsti  come
preclusivi dal citato art. 43 non  puo'  essere  rilasciata,  e  deve
essere revocata se sia stata rilasciata, la licenza di  porto  d'armi
senza che possa aver rilievo la conseguita riabilitazione». 
    L'interessato ha, quindi, gravato il provvedimento lesivo innanzi
a questo Tribunale, denunciandone l'illegittimita'  per  «Eccesso  di
potere per erronea  interpretazione  della  Circolare  del  Ministero
dell'interno   n.   557/LEG/225.00   dd.   2   agosto    2016,    per
contraddittorieta'  con  precedente  determinazione  e   difetto   di
motivazione, nonche' violazione di legge (art. 21-nonies della  legge
n.  241/1990)  e  dei  principi  in  materia  di  autotutela»  e  per
«Violazione   dei   principi   di   uguaglianza,   ragionevolezza   e
proporzionalita' in una applicazione non costituzionalmente orientata
dell'art. 43 del T.U.L.P.S», nonche', successivamente, dato atto,  in
particolare   in   relazione   al secondo    motivo    di    gravame,
dell'orientamento giurisprudenziale definito «evolutivo»,  del  quale
sarebbe espressione la sentenza del TRGA Trento n. 341/2016  (seguita
dalla n. 287/2017 e, ancora, dalla sentenza del T.A.R.  Piemonte,  I,
11 gennaio 2018, n. 69), che ha confermato la bonta'  del  «principio
secondo il quale, laddove il  giudice  penale  non  abbia  provveduto
all'applicazione delle disposizioni di cui  agli  articoli  53  e  57
della legge n. 689/1981 o dell'art. 131-bis del codice penale perche'
i benefici previsti da  tali  disposizioni  non  erano  ancora  stati
introdotti nell'ordinamento all'epoca della pronuncia della  sentenza
di condanna, nulla osta ad una valutazione in ordine alla sussistenza
dei presupposti per  l'applicazione  dei  benefici  stessi  da  parte
dell'Autorita' di pubblica sicurezza prima, ossia in  sede  di  esame
della domanda di rinnovo della licenza di porto d'armi,  e  da  parte
del Giudice amministrativo poi, ossia in caso di ricorso  avverso  il
provvedimento di diniego  del  rinnovo  della  licenza  motivato  con
esclusivo riferimento al carattere ostativo della condanna  riportata
per uno dei reati di cui all'art. 43, comma  1,  del  T.U.L.P.S.  Del
resto, diversamente opinando, si verrebbe a creare una ingiustificata
disparita' di trattamento tra coloro che hanno  concretamente  potuto
beneficiare delle predette disposizioni e coloro che invece non hanno
potuto giovarsene solo perche' esse non erano ancora state introdotte
nell 'ordinamento». 
    Il Ministero dell'interno si e' costituito  in  giudizio  con  il
patrocinio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato  di  Trieste  per
resistere al ricorso e invocarne la reiezione. 
    La causa e'  stata  quindi  chiamata  e  discussa  alla  pubblica
udienza del 7 febbraio 2018. 
    All'esito della  Camera  di  consiglio  che  ne  e'  seguita,  il
Tribunale amministrativo regionale per il  Friuli-Venezia  Giulia,  I
sezione, ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Il Tribunale  ritiene,  invero,  sussistenti  i  presupposti  per
sollevare  d'ufficio   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 43 del T.U.L.P.S, nella parte in cui, nello  stabilire  che
«... non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: a)  a  chi
ha riportato  condanna  alla  reclusione  ...  per  furto...  »,  non
consente di apprezzare la risalenza nel tempo del  fatto  costituente
reato, la sua concreta e attuale gravita'  anche  con  riguardo  alla
lesivita' del bene giuridico protetto e  la  successiva  condotta  di
vita tenuta dal soggetto interessato, rendendo,  peraltro,  oltremodo
violativa   dei   principi   di   eguaglianza,   proporzionalita'   e
ragionevolezza di cui  all'art.  3  della  Costituzione  l'automatica
ostativita' anche in confronto a condotte analoghe, commesse da altri
soggetti in tempi piu' recenti, che, sotto il profilo  penale,  hanno
avuto la possibilita'  di  fruire  del  piu'  favorevole  trattamento
assicurato dalle disposizioni di cui agli  articoli  53  e  57  della
legge n. 689/1981 o dell'art. 131-bis del codice penale, ed  evitato,
sotto    il    profilo    amministrativo,    perpetue     conseguenze
pregiudizievoli,    immotivatamente    limitative    della     libera
estrinsecazione della propria personalita'. 
  Rilevanza della questione 
    La questione e' rilevante per le seguenti ragioni. 
    Al fine del decidere viene in  rilievo  l'art.  43  del  R.D.  n.
773/1931 che recita «Oltre a quanto e'  stabilito  dall'art.  11  non
puo' essere conceduta la licenza di portare armi: 
        a) a chi ha riportato condanna alla  reclusione  per  delitti
non colposi contro le  persone  commessi  con  violenza,  ovvero  per
furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di  rapina  o
di estorsione; 
        b) a chi ha  riportato  condanna  a  pena  restrittiva  della
liberta' personale per violenza  o  resistenza  all'autorita'  o  per
delitti  contro  la  personalita'  dello  Stato  o  contro   l'ordine
pubblico; 
        c) a chi ha riportato condanna per  diserzione  in  tempo  di
guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi. 
    La licenza puo' essere ricusata ai condannati per delitto diverso
da quelli sopra menzionati e a chi non  puo'  provare  la  sua  buona
condotta o non da' affidamento di non abusare delle armi». 
    La fattispecie in esame ricade nell'ambito  di  applicazione  del
disposto di cui alla lett. a) della norma soprariportata  e,  secondo
il suo tenore letterale, il ricorso dovrebbe essere respinto  poiche'
il ricorrente ha riportato una condanna alla reclusione per furto. 
    Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione  di  legittimita'
costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio
avrebbe un esito diverso, in quanto, per l'appunto,  la  riconosciuta
incostituzionalita' in parte qua della norma oggetto di  applicazione
determinerebbe l'annullamento del diniego di rinnovo della licenza di
porto di fucile per lo sport del tiro e della Carta europea d'arma da
fuoco opposto al ricorrente quale effetto automatico  della  condanna
riportata. 
    Il Collegio  ritiene  opportuno  dare  preliminarmente  atto  dei
difformi orientamenti espressi in tema di  interpretazione  dell'art.
43  T.U.L.P.S.  dal  giudice  di  appello  nella  sentenza  Consiglio
di Stato, sezione III, 14 febbraio 2017 n. 658 (resa in riforma della
sentenza n. 484/2016 del T.A.R.  Piemonte)  e  nella  sentenza  della
stessa Terza sezione 17 novembre 2017 n. 5313, (resa a conferma della
sentenza del T.A.R. Piemonte n. 839/2016). 
    Nella prima pronuncia - come ricordato  dal  T.A.R.  Piemonte  in
recente sentenza 11 gennaio 2018, n. 69 - «il Consiglio di  Stato  ha
affermato che la condanna per uno dei  reati  indicati  all'art.  43,
primo comma, lettere a), b), c) genera  una  preclusione  assoluta  a
essere titolare di un'autorizzazione  al  porto  di  arma  e  vincola
l'Amministrazione a negare o revocare il porto dell'arma.  Si  tratta
di speciale incapacita' ex lege al rilascio o al rinnovo, tale da non
poter essere superata sic et simpliciter  dalla  mera  riabilitazione
dell'interessato, da cui discende  l'impossibilita'  indefettibile  e
non modificabile che il futuro comportamento dell'interessato  superi
la inaffidabilita' sull'uso dell'arma in possesso. 
    Nella pronuncia successiva, il Giudice di  appello  ha  sostenuto
che  l'applicazione  dell'art.  43,  TULPS  non  possa  avvenire   in
violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzione  di  rango
costituzionale e che  debba  essere  privilegiata  un'interpretazione
teleologica della norma conforme ai principi costituzionali,  con  la
conseguenza  che   l'Amministrazione,   nel   compiere   la   propria
complessiva valutazione in ordine alla affidabilita' nel possesso  di
armi, non possa non tener conto  anche  della  sussistenza  di  altri
elementi,    che    denotano    favorevolmente    la     personalita'
dell'interessato con carattere di attualita'. Cio'  comporta  che  la
preclusione prevista dall'art. 43 T.U.L.P.S. per il possesso di  armi
e munizioni in capo ai  soggetti,  che  abbiano  subito  le  indicate
tipologie   di   condanne,   non   possa   essere   automatica,   ove
ragionevolmente   altri   elementi   attuali    della    personalita'
dell'interessato, quale il lungo tempo intercorso rispetto  all'epoca
del commesso reato senza la commissione di ulteriori illeciti  penali
(corroborato  nelle  sue  positive  implicazioni  dalla   intervenuta
riabilitazione), depongano per  lo  stabile  ripristino  in  capo  al
soggetto medesimo delle richieste  condizioni  di  affidabilita'  nel
possesso di armi in corrispondenza ad  una  rinnovata  e  consolidata
integrazione nel sano contesto socio economico in presenza di  indizi
univoci e concordanti in tale senso». 
    Il contrasto giurisprudenziale non e', ad oggi, ancora sopito. 
    Vi sono, infatti, pronunce (tra le piu' recenti  C.d.S.,  III,  7
giugno 2018,  n.  3435),  che,  secondo  una  fedele  interpretazione
letterale della  norma  che  viene  in  rilievo,  hanno  ritenuto  di
aderire, per l'appunto, all'orientamento tradizionale, su cui poggia,
sotto il profilo motivazionale,  il  diniego  opposto  al  ricorrente
(ovvero in senso conforme al parere del Consiglio di  Stato,  sezione
I, 11 luglio 2016 n. 1620) e altre (come quella della I  sezione  del
T.A.R. Piemonte da cui e' stata  tratta  la  su  riportata  «sintesi»
degli opposti orientamenti o la piu' recente n.  648  del  25  maggio
2018; T.R.G.A. Trento,  sezione  unica,  24  ottobre  2017,  n.  287;
C.d.S., III, 1°  giugno  2018,  n.  3303,  che,  pur  affrontando  la
particolare ipotesi dell'esercizio del potere di  autotutela,  lascia
pur sempre spazio ad apprezzamenti di carattere discrezionale anche a
fronte della sussistenza di un precedente ostativo),  che,  invocando
talvolta anche i principi di ragionevolezza e di proporzione di rango
costituzionale,  vi   si   discostano,   ritenendo,   per   l'appunto
imprescindibili valutazioni di carattere discrezionale,  laddove,  in
particolare, la condanna «ostativa» sia assai risalente nel  tempo  e
sia, nel frattempo, intervenuta la riabilitazione. 
    Il Collegio -  che  non  ritiene  di  poter  aderire  tout  court
all'orientamento  cd.  «evolutivo»,   ostandovi,   allo   stato,   la
formulazione letterale della norma di cui e' stata fatta applicazione
nel caso specifico, ma, al contempo, di  non  poter  nemmeno  seguire
acriticamente  l'orientamento  tradizionale,   che   non   condivide,
laddove,  per  l'appunto,  «perpetua»  gli   effetti   amministrativi
pregiudizievoli delle condanne contemplate dall'art.  43  del  TULPS,
senza tenere in alcun modo conto  della  loro  risalenza  nel  tempo,
della loro concreta e attuale idoneita' a sorreggere  il  diniego  al
rilascio del titolo autorizzativo richiesto (rectius il  giudizio  di
pericolosita' che se ne puo' trarre in relazione  al  bene  giuridico
oggetto di tutela)  e  del  reale  e  individuale  percorso  di  vita
effettuato, nel frattempo, dai  soggetti  che  le  hanno  subite,  in
quanto siffatta soggezione appare, in  questo  come  in  altri  campi
dell'esperienza giuridica, estranea all'ordinamento positivo -  altra
soluzione non individua, pertanto, che quella di sottoporre la  norma
in questione al vaglio di costituzionalita' per le argomentazioni che
si appresta ad esporre. 
    Rammenta, infatti, che il giudice remittente ha  la  possibilita'
di rivolgersi alla  Corte  costituzionale  allorquando  si  trova  di
fronte all'alternativa di  adeguarsi  a  un'interpretazione  che  non
condivide o di assumere una  pronuncia  in  contrasto,  probabilmente
destinata ad essere riformata, come induce a  supporre  l'ultimissima
pronuncia in materia emessa  dal  Consiglio  di  Stato  (sentenza  n.
3435/2018). 
  Sulla non manifesta infondatezza della questione 
    Il Collegio condivide, innanzitutto, le  puntuali  argomentazioni
svolte dal T.A.R. Toscana, sez. II, con ordinanza in data 16  gennaio
2018, n. 56, laddove, nel sollevare analoga questione di legittimita'
costituzionale, ha osservato, con riguardo al profilo della  ritenuta
violazione del principio di ragionevolezza di cui  all'art.  3  della
Costituzione, che «la ragionevolezza delle leggi  e'  corollario  del
principio di uguaglianza  ed  esige  che  le  disposizioni  normative
contenute  in  atti  aventi  valore  di  legge  siano   adeguate,   o
congruenti, rispetto al fine perseguito dal legislatore. Si ha dunque
violazione del principio  laddove  si  riscontri  una  contraddizione
all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra  essa  ed  il
pubblico interesse perseguito che costituisce  un  limite  al  potere
discrezionale del legislatore, impedendone  un  esercizio  arbitrario
(...). Nel caso di specie, il dubbio  di  costituzionalita'  riguarda
una norma  la  quale  pone  un  divieto  assoluto  ed  automatico  di
concedere il porto d'armi a soggetti che sono stati  condannati  alla
reclusione per un reato (il furto)  che  e'  estraneo  all'uso  delle
stesse e non incide, in astratto, sul loro utilizzo. La  disposizione
appare quindi eccedere lo scopo che  si  propone,  consistente  nella
tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica sotto il profilo  della
verifica di affidabilita' dei soggetti cui viene concessa la  licenza
di portare armi. Si ricorda,  a  questo  proposito,  che  nel  nostro
ordinamento  esiste  un  generale  divieto  di   girare   armati,   e
l'autorizzazione a portarle ne costituisce eccezione  la  quale  deve
essere assistita da sufficienti garanzie  circa  l'affidabilita'  nel
loro  corretto   uso   da   parte   del   titolare   della   relativa
autorizzazione. In particolare la sentenza di Corte costituzionale n.
440/1993, chiamata a pronunciarsi sulla  legittimita'  costituzionale
delle previsioni dell'art. 11, T.U.L.P.S.  in  ordine  ai  poteri  di
diniego delle  autorizzazioni  di  polizia  a  fronte  dell'accertata
insussistenza del requisito della «buona condotta»,  precisa  che  la
facolta' di portare ed usare  armi  non  costituisce  oggetto  di  un
diritto assoluto, ma e'  eccezione  al  generale  divieto  di  girare
armati  sancito  dall'ordinamento,  e   tale   deroga,   per   essere
giustificata, richiede un preventivo e  puntuale  accertamento  delle
caratteristiche  del  soggetto  richiedente  il  porto  d'armi,   per
acquisire certezza in ordine alla sua idoneita' al loro  uso  e  alla
sua  affidabilita'  morale.  Stando  cosi'  le  cose,  appare   certo
rispondente a tale  finalita'  effettuare  uno  scrutinio  preventivo
sulla vita e  i  precedenti  del  richiedente  il  porto  d'armi  per
verificarne l'affidabilita'; non altrettanto, pero', puo'  dirsi  per
un divieto automatico e generalizzato derivante  da  condanne  penali
dallo stesso subite a lunga distanza di  tempo  e  nemmeno  incidenti
direttamente sull'utilizzo  delle  armi,  come  accade  nel  caso  di
specie. Ipotizzare l'esistenza di un simile divieto generalizzato  ed
assoluto, senza che all'autorita' amministrativa venga concesso alcun
potere di valutazione discrezionale, appare eccessivo  rispetto  allo
scopo della norma, tanto piu' nel caso di specie in cui,  durante  il
rilevante lasso di tempo trascorso dal suo originario  rilascio  fino
al suo diniego, il titolo e' stato sempre rinnovato. 
    In tema di automatismo preclusivo la  Corte  costituzionale,  con
sentenza  n.  202/2013,  si   e'   pronunciata   sulla   legittimita'
costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 18 luglio 1998, n.
286, nella parte in cui la norma prevede un meccanismo automatico che
impone  all'Amministrazione  competente  il  diniego  di  rilascio  o
rinnovo del permesso  di  soggiorno  allo  straniero  che  sia  stato
condannato per  determinati  reati.  La  Corte  ha  statuito  che  al
legislatore   e'   riconosciuta   un'ampia    discrezionalita'    nel
disciplinare l'ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio
nazionale, in relazione alle esigenze di difesa nazionale e sicurezza
pubblica sottese, e in questo ambito  e'  legittimo  anche  prevedere
casi in cui, a fronte della commissione  di  reati  ritenuti  di  una
certa gravita'  e  particolarmente  pericolosi  per  la  sicurezza  e
l'ordine pubblico,  l'Amministrazione  sia  vincolata  a  revocare  o
negare il permesso di soggiorno  automaticamente  e  senza  ulteriori
considerazioni. In linea generale statuizioni di tal genere non  sono
di per se' manifestamente irragionevoli;  tuttavia  occorre  che  una
simile previsione possa considerarsi rispettosa di un  bilanciamento,
ragionevole e proporzionato  ai  sensi  dell'art.  3  Cost.,  tra  le
opposte esigenze di tutelare l'ordine pubblico e la  sicurezza  dello
Stato e regolare i flussi migratori, da un lato, e di salvaguardare i
diritti   dello   straniero   riconosciutigli   dalla    Costituzione
dall'altro. Nel valutare l'adeguatezza del bilanciamento  tra  questi
valori, al fine del sindacato di legittimita' della norma,  la  Corte
prosegue rilevando che gli automatismi procedurali sono basati su una
presunzione assoluta  di  pericolosita'  e  devono  quindi  ritenersi
arbitrari laddove non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,
quando cioe' sia  agevole  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base  della   presunzione
stessa». 
    Nel caso di specie,  al  pari  di  quello  oggetto  del  giudizio
innanzi al T.A.R. Toscana, da cui e' originata analoga (e precedente)
questione  di  legittimita'  costituzionale,   si   puo'   facilmente
formulare quest'ultima ipotesi sulla scorta  dei  dati  esperienziali
desumibili dagli atti di causa: e' dimostrato che  il  ricorrente  ha
ottenuto il primo rilascio  del  porto  d'armi  nell'anno  1992  e  i
rinnovi  si  sono  susseguiti  senza  soluzione  di  continuita',  ad
eccezione del  periodo  tra  ottobre  1993  e  settembre  1994,  fino
all'attuale istanza, senza che mai egli avesse dato  causa  ad  alcun
episodio connotato dal suo cattivo utilizzo. 
    Ha, inoltre, sempre condivisibilmente osservato il T.A.R. Toscana
che «sotto un profilo piu' generale  ed  astratto,  poi,  non  appare
facilmente giustificabile un automatismo preclusivo che  colleghi  il
diniego dell'autorizzazione a portare armi alla commissione del reato
di furto, il quale non e' collegato all'utilizzo delle stesse e  che,
pertanto, poco ragionevolmente puo' essere posto ex  se  a  base  del
diniego   dell'autorizzazione    medesima.    Tanto    piu'    appare
ingiustificabile l'automatismo laddove, come nel caso di  specie,  il
richiedente il porto d'armi abbia ottenuto la riabilitazione la quale
presuppone che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di
buona condotta al fine di un  giudizio  prognostico  sul  suo  futuro
comportamento (art. 179, comma primo, c.p.)». 
    A tutte le  su  riportate  considerazioni,  che  il  Collegio  fa
proprie, pare, peraltro, opportuno aggiungere anche quanto segue. 
    L'automatica valenza ostativa di reati come quello che  viene  in
rilievo nel caso in esame, peraltro  di  particolare  tenuita',  pare
anche irragionevole e comunque violativa dei principi di  eguaglianza
e proporzionalita' avuto riguardo  al  trattamento  decisamente  piu'
coerente con i valori di  uno  Stato  democratico  ora  assicurato  a
fattispecie di corrispondente gravita' dall'art.  131-bis  c.p.,  che
consente, per l'appunto, di «schivare» le conseguenze  amministrative
pregiudizievoli che, per mero automatismo, continua, invece, a subire
chi, come l'odierno ricorrente, e' stato condannato in epoca  in  cui
non  era  ancora  prevista  l'esclusione  della  punibilita'  per  la
particolare tenuita' del fatto. 
    Risultato che,  secondo  le  indicazioni  applicative  da  ultimo
fornite con Circolare 557/PAS/U/012843/10100.A(1) del 31 agosto 2017,
il Ministero dell'interno ritiene conseguibile anche nelle ipotesi di
sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria ai sensi  degli
artt. 53 e 57 della legge n. 689 del 1981 e successiva  modificazione
e integrazione. 
    Al  riguardo,  ancorche'  tale  Circolare  non   assuma   rilievo
specifico nell'ambito del diniego opposto, in quanto  successivamente
emessa, il Collegio non puo', in ogni caso, trascurare  di  osservare
che le  indicazioni  fornite  appalesano  viepiu'  l'irragionevolezza
dell'ostativita'      prevista      dalla      norma       sospettata
d'incostituzionalita', in quanto, a  ben  osservare,  il  trattamento
piu'  favorevole  sotto  il  profilo  degli  effetti   di   carattere
amministrativo parrebbe riservato a coloro che, dal  punto  di  vista
temporale,  sono   maggiormente   prossimi   alla   commissione   del
fatto-reato ovvero in sostanza a soggetti rispetto ai  quali  possono
non risultare ancora disponibili apprezzabili ed effettivi  riscontri
in  ordine  all'avvenuto  completamento  del   percorso   rieducativo
intrapreso ai fini della completa reintegrazione nel tessuto  sociale
e della piena accettazione, condivisione e rispetto delle regole. 
    Viceversa, coloro che, come il ricorrente, hanno posto in  essere
una condotta illecita sotto il profilo penale  in  epoca  assai  piu'
risalente, non avendo potuto usufruire  degli  istituti  premiali  di
piu' recente introduzione, sono destinati a continuare a  subire,  in
forza di meri automatismi, conseguenze pregiudizievoli  di  carattere
amministrativo, anche laddove la loro (successiva) condotta  di  vita
sia stata totalmente esente da ulteriori mende e costituisca  di  per
se' prova tangibile di piena affidabilita'. 
    Sempre con riguardo ai parametri costituzionali dianzi  indicati,
non pare nemmeno trascurabile la circostanza che la norma,  per  come
formulata, non consente di valorizzare in alcun modo  la  intervenuta
riabilitazione, sebbene non siano sconosciute all'ordinamento ipotesi
in cui  la  riabilitazione  produce  effetti  che  vanno  al  di  la'
dell'ambito penale. Si pensi ad esempio all'art. 120,  comma  1,  del
decreto legislativo 20 aprile 1992, n. 285,  che  riconosce  espressi
effetti  favorevoli  di  carattere  amministrativo  ai  provvedimenti
riabilitativi,  pur  a  fronte  della   commissione   di   reati   di
significativa offensivita'  e  che,  con  particolare  riguardo  alle
esigenze di salvaguardare la sicurezza della circolazione, potrebbero
indurre a dubitare dell'effettivo riconseguimento  dell'affidabilita'
necessaria per ottenere il rilascio di una nuova patente di guida. 
    Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ritenendo  rilevante
e  non  manifestamente  infondata  la   questione   di   legittimita'
costituzionale dianzi prospettata, la  solleva  d'ufficio,  ai  sensi
dell'art. 23 della  legge  n.  87  dell'11  maggio  1983,  e  dispone
l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte   costituzionale,
sospendendo, al contempo, il giudizio in corso. 
    Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e  in  ordine  alle
spese e' riservate alla decisione definitiva. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il  Tribunale  amministrativo  regionale  per  il  Friuli-Venezia
Giulia, I sezione, dichiara rilevante per la definizione del presente
giudizio e non manifestamente infondata, per le  ragioni  di  cui  in
motivazione, la  questione  di  costituzionalita'  dell'art.  43  del
T.U.L.P.S, nella parte in cui stabilisce che  «...  non  puo'  essere
conceduta la licenza di portare armi: a) a chi ha riportato  condanna
alla reclusione... per furto...» per  contrasto  con  i  principi  di
eguaglianza, proporzionalita' e  ragionevolezza  di  cui  all'art.  3
della Costituzione, nella  parte  in  cui  prevede  un  generalizzato
divieto di rilasciare il porto d'anni alle persone condannate a  pena
detentiva per il reato di furto senza consentire alcun  apprezzamento
discrezionale all'Autorita' amministrativa competente. 
    Conseguentemente   solleva   la   questione    di    legittimita'
costituzionale della norma citata nei sensi dianzi precisati. 
    Sospende,  per  l'effetto,  il  giudizio  fino  alla  definizione
dell'incidente di costituzionalita' di  cui  alla  questione  data  e
ordina   la   immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
costituzionale. 
    Manda alla Segreteria  di  provvedere  alla  notificazione  della
presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del  Consiglio
dei ministri, nonche' alla comunicazione della stessa  ai  Presidenti
delle due Camere del Parlamento. 
    Ordina che la  presente  ordinanza  sia  eseguita  dall'Autorita'
amministrativa. 
    Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art.  52,  comma
1, decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o
della dignita' della parte  interessata,  manda  alla  segreteria  di
procedere all'oscuramento  delle  generalita'  nonche'  di  qualsiasi
altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. 
    Cosi' deciso in Trieste nella camera di consiglio  del  giorno  7
febbraio 2018 con l'intervento dei magistrati: 
        Oria Settesoldi, Presidente 
        Manuela Sinigoi, Consigliere, Estensore 
        Alessandra Tagliasacchi, Referendario 
 
                      Il Presidente: Settesoldi 
 
 
                                                 L'Estensore: Sinigoi