N. 167 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 marzo 2018

Ordinanza del 6 marzo 2018 del Tribunale di Catania nel  procedimento
penale a carico di C. D. . 
 
Reati e pene - Esclusione della punibilita' per particolare  tenuita'
  del fatto - Inapplicabilita' ai reati di competenza del giudice  di
  pace. 
- Codice penale, art. 131-bis. 
(GU n.47 del 28-11-2018 )
 
                        TRIBUNALE DI CATANIA 
                       Seconda Sezione penale 
 
    Il giudice, dott. Ottavio Grasso, letti gli atti del procedimento
n. 98/2017 R.G.App.  all'esito  della  Camera  di  consiglio  di  cui
all'udienza del 6 marzo 2018; 
 
                               Osserva 
 
    Con atto di appello depositato in  data  5  aprile  2017  C.  D.,
imputato del reato di  cui  all'art.  590  codice  penale,  proponeva
impugnazione, anche ai fini  delle  statuizioni  civili,  avverso  la
sentenza del Giudice di pace di Catania n. 72/2017 del 7  marzo  2017
con la quale il medesimo era  stato  condannato  alla  pena  di  euro
400,00 di multa, oltre al risarcimento  dei  danni  in  favore  della
parte civile costituita, da liquidarsi in separata  sede  civile,  ed
alla  rifusione  (in  solido   con   il   responsabile   civile   HDI
Assicurazioni) delle spese legali da quest'ultima sostenute. 
    L'appellante, in particolare, lamentava l'errata  valutazione  da
parte del giudice di prime cure in ordine alla sussistenza del  nesso
di causalita' tra il sinistro stradale occorso e le lesioni personali
riportate dalla parte civile, nonche'  l'omessa  pronuncia  ai  sensi
dell'art.  35  decreto  legislativo  n.  274/2000  e,  in  subordine,
domandava pronunciarsi sentenza di assoluzione ai sensi del combinato
disposto di cui agli  articoli  530  codice  di  procedura  penale  e
131-bis codice penale, stante la tenuita'  dell'offesa  subita  dalla
persona offesa (trattasi, pii specificamente,  di  lesioni  personali
lievi da cervicalgia post-traumatica, giudicate guaribili  in  giorni
otto). 
    La sentenza emessa dal Giudice di pace in primo grado ha  sancito
la  penale   responsabilita'   dell'odierno   imputato   sulla   base
dell'attivita'   istruttoria   espletata,   correttamente   ritenendo
sussistente il nesso eziologico tra la condotta colposa del  medesimo
(consistita nella mancata  osservanza  della  distanza  di  sicurezza
mentre si trovava alla guida del veicolo) ed il  danno  patito  dalla
p.o. costituitasi parte civile, ma nulla ha statuito in  ordine  alla
possibilita' di una pronuncia ai sensi degli articoli 34 e 35 decreto
legislativo n. 274/2000. 
    Riguardo  alla  doglianza  relativa  alla  mancata   applicazione
dell'art. 35 cit., giova  sottolineare  che  la  giurisprudenza  allo
stato e' ondivaga in ordine all'applicabilita' del medesimo da  parte
del Tribunale quale giudice di secondo grado () e che, ad ogni  modo,
ad avviso di questo Tribunale,  anche  a  voler  accedere  alla  tesi
favorevole, sarebbe in ogni caso,  preliminare,  una  valutazione  in
ordine  alla  effettivita'  applicabilita'  nel  caso  concreto   del
disposto dell'art. 131-bis codice penale, in conformita' ai  principi
sanciti dall'art. 129 codice di procedura penale in forza  dei  quali
e' dovere dell'organo giurisdizionale  vagliare  la  possibilita'  di
addivenire ad una pronuncia di assoluzione nel merito  (quale  quella
di  assoluzione  ex  art.  131-bis  c.p.)  piuttosto  che   di   mero
proscioglimento (quale quella  di  dichiarazione  di  estinzione  del
reato per condotte riparatorie ex art. 35 cit.). 
    Con riferimento al  diverso  profilo  della  tenuita'  del  fatto
occorre, invece, rilevare che il Giudice di pace nulla  ha  osservato
in ordine alla possibilita' di addivenire ad una pronuncia  ai  sensi
dell'art. 34 decreto legislativo n. 274/2000 durante tutto  il  corso
del  procedimento  e  che,   per   contro,   l'appellante   nell'atto
introduttivo del giudizio di secondo grado ha postulato una pronuncia
di assoluzione ai sensi dell'art. 131-bis c.p. 
    Orbene, alla luce  di  cio',  appare  opportuno  sottolineare  le
differenze intercorrenti tra le due disposizioni in questione, id est
l'art. 34 decreto legislativo n.  274/2000,  da  un  lato,  e  l'art.
131-bis codice penale, anche alla luce della recente pronuncia  della
Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 53683 del 22 giugno  2017.  La
prima e' norma pensata con particolare  riferimento  al  settore  dei
reati rientranti nella cognizione del Giudice di  pace  ed  in  forza
della quale viene  attribuito  a  quest'ultimo  il  potere-dovere  di
chiudere il procedimento, sia prima che dopo l'esercizio  dell'azione
penale,  dovendo  riscontrare  il  difetto  di  una   condizione   di
procedibilita'  allorquando   il   fatto   incriminato   risulti   di
«particolare tenuita'» rispetto all'interesse tutelato  e  tale,  per
l'effetto,  da  non  giustificare  l'esercizio  o   la   prosecuzione
dell'azione penale. In ordine  al  riscontro  della  sussistenza,  in
concreto,  di  un  fatto  che  possa  qualificarsi  come  tenue,   il
giudicante e'  chiamato  a  valutare  l'esiguita'  del  danno  o  del
pericolo scaturiti dalla condotta  del  reo,  l'occasionalita'  della
medesima ed il grado  di  colpevolezza,  dovendo  addivenire  ad  una
pronuncia in tal senso ogniqualvolta l'esercizio  dell'azione  penale
non appaia alla stregua di tali parametri giustificato ovvero la  sua
prosecuzione possa recare un pregiudizio  alle  esigenze  di  lavoro,
studio, famiglia o salute dell'indagato/imputato. 
    L'art. 131-bis codice penale (introdotto  nel  codice  penale  ad
opera del decreto  legislativo  n.  28/2015),  rubricato  «Esclusione
della punibilita' per particolare tenuita' del fatto», generalizzando
le acquisizioni gia' fatte proprie  dal  legislatore  con  l'art.  34
citato (in materia di processo penale innanzi al Giudice di  pace)  e
con l'art. 27 decreto del Presidente della Repubblica n.  448/88  (in
materia di  processo  penale  minorile),  ha  dato  nuovo  vigore  al
principio di  offensivita',  costituente  pilastro  fondamentale  del
sistema del diritto penale, volendo sancire la  necessita'  che,  non
soltanto la condotta integrante reato abbia carattere  offensivo,  ma
vieppiu' che l'offesa da essa scaturente appaia significativa. 
    Scopo della citata norma e',  evidentemente,  quello  di  ridurre
l'intervento della sanzione penale  ad  extrema  ratio,  escludendone
l'operativita'  in  presenza  di  condotte  bagatellari  a  fini   di
deflazione del contenzioso. 
    In tali casi, dunque, si e' in presenza di una condotta che e'  e
continua  ad  essere  penalmente   rilevante   e,   purtuttavia,   il
legislatore rinunzia espressamente alla sua punibilita' in  concreto,
ritenendo che l'offesa da essa arrecata sia di tale tenuita'  da  non
meritare considerazione in sede penale. 
    L'art.  131-bis  codice  penale,   dunque,   sull'onta   di   una
valutazione di opportunita' compiuta  in  astratto  dal  legislatore,
persegue una mera finalita' deflattiva (manca, infatti,  nella  norma
qualsiasi riferimento  a  finalita'  latu  sensu  rieducative,  come,
invece,  avviene  nelle  norme  citate  ad  essa  preesistenti)   con
specifico riferimento ai soli reati puniti  con  pena  detentiva  non
superiore nel massimo a cinque anni ovvero con pena pecuniaria,  sola
o congiunta alla  predetta  pena,  ritenuti  evidentemente  di  minor
allarme sociale. 
    Nel far cio' il legislatore ha imposto al giudice  di  merito  di
operare  una  valutazione  sulla  scorta  di  alcuni   indici-criteri
normativamente  stabiliti:  trattasi,  piu'   specificamente,   della
particolare tenuita' dell'offesa (da  valutare,  a  sua  volta,  alla
stregua degli  indici-requisiti  della  modalita'  della  condotta  e
dell'esiguita' del danno o del pericolo) e della non abitualita'  del
comportamento. 
    Dal mancato coordinamento, in seguito alla novella del 2015,  tra
il nuovo art. 131-bis codice penale ed il  vecchio  art.  34  decreto
legislativo n. 274/2000  e'  scaturita  la  coesistenza  nel  sistema
processuale riguardante  gli  imputati  maggiorenni  di  due  diversi
modelli  di  proscioglimento  per  tenuita':  il  primo  configurante
un'ipotesi  di  non  punibilita';  il  secondo  integrante,   invece,
un'ipotesi di improcedibilita'. 
    Giurisprudenza e dottrina si sono sin da subito cimentate con  la
corretta ricostruzione del rapporto intercorrente tra le due norme  e
ben ne hanno individuato le differenze, assestandosi nel  senso  che,
sebbene entrambi gli istituti  facciano  riferimento,  nella  rubrica
dell'articolo  che  li  contempla,  alla  «particolare  tenuita'  del
fatto»,  essi  hanno  struttura  e   ambito   di   applicazione   non
coincidenti. 
    In particolare, «l'art. 131-bis codice penale, prevede,  infatti,
una causa di  esclusione  della  "punibilita'"  allorche'  -  per  le
modalita' della condotta e per l'esiguita' del danno o del pericolo -
"l'offesa" all'interesse protetto sia particolarmente  tenue;  l'art.
34 cit. contempla una  causa  di  esclusione  della  "procedibilita'"
quando  "il  fatto"  -  valutato  nella  sua   componente   oggettiva
(esiguita' del danno o del  pericolo)  e  soggettiva  (occasionalita'
della condotta e grado  della  colpevolezza)  -  sia  di  particolare
tenuita'» (Cassazione Penale, sez. V, 12 gennaio 2017 n. 9713). I due
istituti differiscono, dunque, gia' sotto il profilo della rispettiva
natura   giuridica,   processuale   nel   caso   della    causa    di
improcedibilita' ex art. 34 del decreto  legislativo  n.  274/2000  e
sostanziale nel caso della causa di non punibilita' ex  art.  131-bis
codice penale, oltre che nei presupposti costitutivi ed applicativi. 
    Differiscono, inoltre, nel diverso ruolo riconosciuto alla  parte
offesa, atteso che  «Quanto  alle  condizioni  dell'applicazione,  la
causa di esclusione della punibilita' di cui all'art. 131-bis  codice
penale richiede che sia "sentita" la persona offesa (articoli  411  e
469 c.p.p.), mentre l'applicabilita' del decreto legislativo  n.  274
del 2000, art.  34,  e'  subordinata  -  nella  fase  delle  indagini
preliminari - alla condizione che "non  risulti  un  interesse  della
persona offesa alla prosecuzione del procedimento" e, nella fase  del
giudizio,  alla  mancata  opposizione  sia  dell'imputato  che  della
persona offesa» (Cassazione Penale, sez. V, 12 gennaio 2017 n. 9713).
Cio' e' coerente con la natura dell'art. 34, pensato con  riferimento
ai reati di competenza del Giudice di pace, in un'ottica  propria  di
«conciliazione» tra le parti, sicche' alla p.o. sono stati attribuiti
ben piu' penetranti poteri: si tratta di una differenza di  non  poco
conto, posto  che  il  diverso  ruolo  giocato  dall'interesse  della
persona offesa (o dal diritto potestativo di questa e  dell'imputato,
dopo l'esercizio dell'azione penale) colloca i due istituti su  piani
diversi   di   praticabilita',   subordinando    l'operativita'    di
quest'ultimo ad una valutazione piu' ampia  e  stringente  di  quella
richiesta dall'art.  131-bis  codice  penale,  che  risulta,  invece,
ancorato essenzialmente al dato oggettivo del grado dell'offesa. 
    L'art. 34 decreto legislativo n. 274/2000 ha, quindi,  un  ambito
di applicazione ben piu' ristretto rispetto  alla  norma  sostanziale
inserita all'interno del codice penale,  che  dunque  si  atteggia  a
norma di maggior favore per l'imputato. 
    Gia' all'indomani dell'entrata in vigore dell'art. 131-bis codice
penale la Corte costituzionale  (sentenza  n.  25  del  2015)  si  e'
pronunciata in ordine alla coesistenza delle due norme nell'alveo del
sistema penale, ritenendola pienamente legittima proprio  perche'  si
tratta di norme strutturalmente e sostanzialmente diverse. 
    Ad ogni modo cio' non e' valso ad acquietare  la  giurisprudenza,
che  si  e'  incessantemente  interrogata  in  ordine  alla   portata
applicativa del nuovo art. 131-bis codice penale, proprio  in  quanto
avente natura di norma sostanziale e non  meramente  processuale.  Ai
fini che qui interessano, preme, in particolar modo, sottolineare  il
contrasto  registratosi  nella  giurisprudenza   di   merito   e   di
legittimita' in ordine all'applicabilita' di tale disposizione  anche
nei procedimenti pendenti dinanzi al Giudice di pace. 
    L'indirizzo maggioritario ha ritenuto che i rapporti tra  le  due
norme vadano risolti  alla  stregua  del  principio  di  specialita',
sicche', proprio in virtu' dei caratteri peculiari di ciascuna norma,
nei procedimenti  pendenti  dinnanzi  al  giudice  di  pace  potrebbe
trovare applicazione il solo art. 34 decreto legislativo n.  274/2000
(cfr. ex multis Cassazione  penale,  sez.  V,  28  novembre  2016  n.
54173),  mentre  per  l'indirizzo   interpretativo   minoritario   il
carattere di  maggior  favore  della  disciplina  prevista  dall'art.
131-bis  c.p.  deve  necessariamente  far  propendere  per   la   sua
applicabilita' a tutti i reati, ivi compresi quelli di competenza del
Giudice  di  pace,  pena  l'irrazionalita'  di  un  sistema  che  non
consentisse  l'applicazione  di  una  norma  di  diritto  sostanziale
proprio ai reati ritenuti  dal  legislatore  di  minore  gravita'  e,
pertanto, devoluti alla cognizione  del  Giudice  di  pace  (cfr.  ex
multis Cassazione penale, sez. V, 12 gennaio 2017 n. 9713). 
    Orbene, a porre un punto fermo sulla questione  sono  intervenute
di recente le Sezioni Unite della Corte di  cassazione,  che  con  la
sentenza n. 53683 del 22 giugno 2017 hanno definitivamente sancito il
principio di diritto in virtu' del  quale  «la  causa  di  esclusione
della  punibilita'  per  particolare  tenuita'  del  fatto,  prevista
dall'art. 131-bis codice penale, non e' applicabile nei  procedimenti
relativi a reati di competenza del giudice di pace». 
    Le Sezioni Unite sono  addivenute  a  tale  conclusione  partendo
dall'assunto  che,   come   rilevato   dalla   Corte   costituzionale
nell'ordinanza n. 50 del 2016, «il procedimento davanti al giudice di
pace presenti caratteri assolutamente peculiari, che lo  rendono  non
comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali
da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello  ordinario»,
sicche' la parametrazione dell'ambito applicativo delle due norme non
deve avvenire ne' in base al principio di specialita' di cui all'art.
15 codice penale, ne' in base al principio di necessaria operativita'
della lex mitior di cui  all'art.  2  codice  penale,  dovendosi,  al
contrario, configurare tra le medesime un rapporto  di  interferenza,
posto  che  ciascuna  presenta   elementi   specializzanti   rispetto
all'altra. Ne consegue che, «posto  che  al  decreto  in  materia  di
processo penale dinanzi al giudice di pace si addice il carattere  di
"legge penale speciale", ai sensi e  per  gli  effetti  dell'art.  16
codice penale, la ricerca dell'interprete a fronte  dell'introduzione
di un nuovo modello normativo - quale l'art.  131-bis  cod.  pen.  -,
avente ad oggetto la stessa materia gia' regolata  in  modo  completo
dall'art. 34 del detto decreto, non puo' limitarsi al  raffronto  fra
quest'ultimo e il precetto successivo, ma  deve  elevare  il  proprio
orizzonte fino a verificare se  la  legge  penale  speciale  nel  suo
complesso non contenesse gia' un'autonoma disciplina  della  materia,
mirata rispetto alle finalita' del procedimento  e  tale  percio'  da
precludere, a priori, l'operazione del confronto fra singole leggi  o
disposizioni  sulla  stessa   materia,   espressamente   disciplinata
dall'art. 15 codice penale, con  riferimento  al  rapporto  fra  piu'
leggi penali». 
    Da quanto premesso, il Giudice  nomofilattico  trae,  dunque,  la
conclusione  che  il  rapporto  fra  i  due   istituti   disciplinati
rispettivamente agli articoli 131-bis  codice  penale  e  34  decreto
legislativo n. 274/2000 non sia di «compatibilita'/incompatibilita'»,
ma di «concreta applicabilita'» ai sensi dell'art. 16 codice  penale:
tale ultima norma tutela la  dignita'  delle  leggi  penali  speciali
(quale  e',  appunto,  da  considerarsi  il  decreto  legislativo  n.
274/2000), escludendo che su di  esse  possa  incidere  la  normativa
codicistica  sopravvenuta  ogniqualvolta  la  materia   sulla   quale
quest'ultima interviene sia gia' coperta da una  disciplina  ad  hoc,
anche funzionalmente orientata, quale e' quella di  cui  all'art.  34
cit. 
    Gli argomenti che fanno leva sulla natura di  norma  penale  piu'
favorevole dell'art. 131-bis codice penale possono, infine, ad avviso
delle Sezioni Unite, essere superati alla luce  della  configurazione
del  procedimento  dinanzi  al  Giudice  di  pace  come  procedimento
speciale per il quale il legislatore ha  inteso  prevedere  specifici
epiloghi decisori, modulati al  fine  di  consentire  al  giudice  di
realizzare la conciliazione tra le parti. 
    Chiarito quanto sopra, ad avviso del decidente, si pone, a questo
punto, un dubbio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  131-bis
codice penale, nella misura in cui esso non sia applicabile anche nei
procedimenti aventi ad oggetto reati di  competenza  del  Giudice  di
pace e su cui il Tribunale viene investito quale giudice di appello. 
    Si  ritiene,   pertanto,   di   dovere   rimettere   alla   Corte
costituzionale la valutazione di legittimita' dello stesso, indicando
di seguito la presenza dei presupposti per adire la medesima. 
a. Sulla rilevanza della questione. 
    Com'e' noto, la prima delle condizioni dettate dall'art. 23 della
legge n.  87/1953  per  poter  procedere  a  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale e' la rilevanza della medesima nell'alveo
del procedimento che l'Autorita' giudiziaria procedente e' chiamata a
decidere. 
    Con cio' s'intende, da un lato, la necessita' che la norma  debba
trovare applicazione nel  caso  di  specie  e,  dall'altro  lato,  la
possibilita' che un'eventuale pronuncia della Corte influisca su tale
giudizio, c.d. pregiudizialita' costituzionale (cfr. ordinanza  Corte
costituzionale n. 129/2017). 
    Ebbene, nel caso di specie, essendo il giudizio principale giunto
pressoche' al suo epilogo, l'odierno decidente dovrebbe  decidere  la
controversia e,  attenendosi  all'interpretazione  prospettata  dalle
Sezioni  Unite  nella  sentenza  prima  citata,  in   ossequio   alla
essenziale funzione nomofilattica da queste svolta, dovrebbe decidere
il processo addivenendo ad una pronuncia di merito, senza potere fare
ricorso, come peraltro richiesto dalla Difesa, all'art. 131-bis c.p. 
    Ritiene, in  particolare,  questo  decidente  che,  nel  caso  di
specie, sussisterebbero tutti i requisiti necessari per addivenire ad
una pronuncia ai sensi dell'art. 131-bis codice penale, atteso che: 
        il reato di cui all'art. 590 codice penale e' punito  con  la
pena della reclusione fino a tre mesi o  della  multa  fino  ad  euro
309,00: pertanto rientra all'interno dei  limiti  edittali  stabiliti
dall'art. 131-bis, comma 1, codice penale; 
        si  tratta,  evidentemente,  di  un'offesa   di   particolare
tenuita': e cio' sia alla  stregua  delle  modalita'  della  condotta
(trattandosi di condotta meramente colposa e consistita  nel  mancato
rispetto della distanza di sicurezza da parte dell'imputato mentre si
trovava alla guida della propria auto, incolonnato nel traffico), sia
alla luce dell'esiguita'  del  danno  cagionato  alla  p.o.  (lesioni
personali  da  cervicalgia  post-traumatica  giudicate  guaribili  in
giorni otto, dunque lievi per  definizione),  non  ricorrendo  alcuna
della condizioni ostative di cui al comma 2 del medesimo art. 131-bis
codice penale; 
        non si e', infine, in presenza di un comportamento che  possa
qualificarsi come «abituale»: e', infatti, evidente che  un  sinistro
stradale da  cui  derivino  delle  lesioni  per  uno  dei  conducenti
coinvolti e' per definizione un accadimento contingente e  del  tutto
occasionale,  dovendosi  in  aggiunta  rilevare  che  l'imputato   e'
soggetto assolutamente incensurato ai  fini  del  comma  3  dell'art.
131-bis c.p. 
    Quanto finora esposto rende, dunque, evidente la rilevanza  della
questione, posto  che  l'inapplicabilita'  dell'art.  131-bis  codice
penale determinerebbe, evidentemente un esito definitorio diverso. 
b. Sulla non manifesta infondatezza. 
    Passando al requisito della non manifesta infondatezza, richiesto
anch'esso dall'art. 23, legge n. 87/1953, occorre dire,  in  sintonia
con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte, che il giudice
del giudizio a quo, affinche' sia soddisfatto il requisito in parola,
debba nutrire un serio dubbio di costituzionalita' della disposizione
oggetto di rimessione al Giudice delle leggi. 
    Nel caso di specie anche tale condizione appare integrata perche'
si ritiene che l'art. 131-bis codice penale,  cosi'  come  dev'essere
interpretato dopo la pronuncia delle Sezioni Unite penali della Corte
di cassazione n. 53683 del 22  giugno  2017,  determini  un  evidente
vulnus  al  principio  di  eguaglianza  sancito  dall'art.  3   della
Costituzione. 
    L'art. 3 Cost., infatti,  sancisce  non  solo  la  necessita'  di
uguaglianza in senso formale e sostanziale di fronte alla legge ed il
conseguente divieto di discriminazione, ma anche la necessita' che  a
situazioni uguali corrispondano trattamenti uguali  ed  a  situazioni
diverse  trattamenti  diversi  (c.d.  doverosa  ragionevolezza  delle
leggi). 
    La  norma  impugnata  si  pone  in  contrasto  con  tale   ultimo
principio. 
    Essa si palesa, in particolar modo, irragionevole  laddove,  come
interpretata dalle Sezioni Unite, non e' applicabile a fatti di minor
disvalore, quali sono quelli rientranti nella sfera di competenza del
Giudice di pace, mentre ben puo' trovare applicazione in relazione  a
fatti di maggiore gravita', soggetti alla cognizione  del  Tribunale.
Appare, infatti, del tutto  irrazionale  che  una  norma  di  diritto
sostanziale, quale e' l'art. 131-bis codice penale - nata per evitare
all'imputato le possibili ricadute negative scaturenti dalla condanna
per fatti di minima offensivita', i  quali,  per  il  comune  sentire
sociale, sono connotati  da  minimo  disvalore  -  sia  inapplicabile
proprio ai reati che, per essere di competenza del Giudice  di  pace,
sono per definizione di minore gravita'. 
    Vale, evidentemente, a palesare il significato di quanto detto il
riferimento, a titolo meramente esemplificativo, al reato di  minacce
di cui all'art. 612 codice penale.  Appare,  infatti,  manifestamente
irragionevole che, di fronte ad una fattispecie di minaccia  ex  art.
612, comma 1 codice penale (come tale rientrante nella competenza del
Giudice di pace) il Tribunale, chiamato a conoscere della medesima in
sede di impugnazione, non possa pronunciare sentenza  di  assoluzione
per tenuita' del fatto, mentre ad una pronuncia di  tal  fatta  possa
addivenire in relazione alla ben piu' grave ipotesi di minaccia grave
di cui all'art. 612, comma 2  codice  penale,  come  tale  rientrante
nella sfera di competenza del Tribunale stesso, ma pendente in  primo
grado. 
    Vieppiu' vale a lumeggiare quanto fin qui  esposto  il  richiamo,
ancora una volta a titolo esemplificativo, al reato  di  lesioni:  e'
evidente, infatti, che  due  fattispecie  in  concreto  assolutamente
identiche di lesioni lievi (dunque con  prognosi  inferiore  a  venti
giorni), l'una per cosi' dire  «semplice»,  e  come  tale  rientrante
nella competenza del Giudice di  pace,  l'altra  aggravata  ai  sensi
dell'art. 585 codice penale (es.  per  la  ricorrenza  di  una  delle
circostanze aggravanti di cui all'art. 577 c.p.)  e  conseguentemente
soggetta alla cognizione del Tribunale quale giudice di primo  grado,
ove  ritenute  concretamente  qualificabili  come   «tenui»,   vadano
incontro ad esiti sostanzialmente diversi. 
    Ed  infatti,  mentre  nel  secondo  caso,   conoscendo   di   una
fattispecie di lesioni tenui aggravate ex art. 577 codice penale,  il
Tribunale, ben potrebbe, ove riscontrasse in concreto la  sussistenza
di  tutti  i  requisiti  di  cui  all'art.  131-bis  codice   penale,
addivenire ad  una  pronuncia  assolutoria  ai  sensi  del  combinato
disposto degli articoli 530 codice  di  procedura  penale  e  131-bis
codice penale; al contrario, il Tribunale chiamato a pronunciarsi  su
una fattispecie di lesioni tenui c.d. «semplici» in sede di  gravame,
laddove il giudice di primo grado non avesse reso  una  pronuncia  ai
sensi dell'art. 34 decreto legislativo n. 274/2000 (es. a seguito  di
opposizioni  della  persona  offesa),  non  potrebbe,  pur  ritenendo
integrati  tutti  i  requisiti  normativamente  stabiliti   dall'art.
131-bis codice penale, pronunciare sentenza di assoluzione  ai  sensi
di tale ultima norma. 
    E', dunque, evidente l'irragionevolezza della  norma,  ed  appare
pertanto,  non  manifestamente  infondata,  la  questione  circa   la
legittimita' costituzionale della medesima. 
c. Sull'assenza  di  un'interpretazione  costituzionalmente  conforme
della norma. 
    E' noto come,  gia'  a  partire  dagli  anni  novanta,  la  Corte
richieda al giudice remittente uno sforzo  interpretativo  ulteriore,
volto a tentare una lettura costituzionalmente conforme  della  norma
impugnata,  prima  di  rimettere   la   questione   di   legittimita'
costituzionale alla  Corte,  dovendosi  tale  rimedio  atteggiare  ad
extrema ratio di tenuta costituzionale del sistema. 
    La ratio di tale ulteriore condizione risiede  nella  circostanza
che affinche' una norma possa considerarsi incostituzionale in  senso
stretto e' necessario che di essa non possa darsi  un'interpretazione
costituzionalmente conforme, non essendo sufficiente,  al  contrario,
che se ne possano dare anche letture incostituzionali, in  quanto  e'
compito di ciascun giudice adottare, tra le varie esegesi  possibili,
quella che meglio si presta ad assicurare il  rispetto  dei  principi
sanciti dalla Carta fondamentale (in tal senso  Corte  costituzionale
n. 42/2017). 
    La Corte ha, pero', chiarito che  vi  sono  comunque  dei  limiti
all'interpretazione  costituzionalmente  conforme,  nel   senso   che
l'univoco tenore letterale della norma  segna  il  confine  oltre  il
quale  il  tentativo  di   interpretazione   conforme   deve   cedere
necessariamente il passo al sindacato di legittimita'  costituzionale
(Corte  cost.  n.  26/  2010;  ed  anche  Corte   costituzionale   n.
270-315/2010). 
    Peraltro, si puo' anche dire che l'interpretazione costituzionale
trovi di fatto un limite logico nel «dovere» dei giudici di merito di
attenersi il piu' possibile all'interpretazione fornita  dalla  Corte
di cassazione, specie ove a Sezioni Unite, in ossequio alla  funzione
nomofilattica da quest'ultima assolta  ai  sensi  dell'art.  65  ord.
giud. Detta disposizione ha evidentemente  lo  scopo  di  recuperare,
quantomeno  sul  piano   della   stabilita'   della   giurisprudenza,
l'essenziale  valore  della  certezza   del   diritto,   garantendone
l'uniforme interpretazione  e  realizzando  la  prevedibilita'  delle
decisioni giurisdizionali. 
    Cio' premesso, il giudice a quo ritiene che, nel caso di  specie,
la recente pronuncia delle Sezioni  Unite  Penali  n.  53683  del  22
giugno 2017, con la  quale  la  Suprema  Corte  ha  voluto  escludere
radicalmente l'applicabilita'  dell'art.  131-bis  codice  penale  ai
reati  di  competenza  del  Giudice  di  pace,  costituisca  ostacolo
insormontabile ad un'interpretazione costituzionalmente orientata del
medesimo, tale da giustificarne la rimessione alla Corte. 
 
                               P.Q.M. 
 
    visti gli articoli 134 Costituzione e 23 legge 11 marzo 1953,  n.
87; 
    ritenuta la questione non manifestamente  infondata  e  rilevante
per la decisione del presente giudizio; 
    solleva  d'ufficio  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 131-bis codice penale. nella misura  in  cui  esso  non  e'
applicabile ai reati rientranti nella competenza del Giudice di pace,
per violazione dell'art. 3 della Costituzione; 
    dispone la sospensione del procedimento in corso; 
    ordina la notificazione della presente  ordinanza  al  Presidente
del Consiglio  dei  ministri  e  la  comunicazione  della  stessa  ai
presidenti della Camera dei deputati e del Senato; 
    dispone la trasmissione dell'ordinanza alla Corte  costituzionale
insieme agli atti del giudizio ed alla prova  delle  notificazioni  e
delle comunicazioni prescritte. 
    Manda alla cancelleria per  le  comunicazioni  e  per  gli  altri
adempimenti di rito. 
    Cosi' deciso a Catania il 6 marzo 2018, all'esito della Camera di
consiglio. 
 
                         Il giudice: Grasso