N. 181 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 gennaio 2018

Ordinanza  del  23  gennaio  2018  del  Tribunale   di   Verona   nel
procedimento  civile  promosso  da  Licari  Giancarlo  contro   Banco
Popolare S.C.. 
 
Procedimento civile - Responsabilita' aggravata - Poteri del  giudice
  in sede di pronuncia sulle spese - Condanna della parte soccombente
  al pagamento di una somma  equitativamente  determinata  -  Mancata
  previsione di limiti quantitativi minimi e massimi della condanna. 
- Codice di procedura civile, art. 96, comma terzo. 
(GU n.51 del 27-12-2018 )
 
                    TRIBUNALE ORDINARIO DI VERONA 
                        Terza Sezione civile 
 
    Il giudice dott.  Massimo  Vaccari  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza nella causa tra Giancarlo Licari  (c.f.  LCRGCR67H14H933Z),
rappresentato e difeso dall'avv.to Parolari Marco del foro  di  Pisa,
con indirizzo di p.e.c. riportato in atto di citazione; attore; 
    Contro Banco Popolare S.C., (c.f.  03700430238)  rappresentata  e
difesa dall'avv. Zorzi Alberto del foro di Verona, con  indirizzo  di
p.e.c. riportato in comparsa di costituzione e risposta; convenuta. 
La materia del contendere. 
    Giancarlo Licari, in qualita' di titolare della  omonima  impresa
individuale, ha convenuto in giudizio davanti a questo  tribunale  il
Banco Popolare societa' cooperativa,  per  sentirlo  condannare  alla
restituzione delle somme  indebitamente  percepite  dal  medesimo,  e
quantificate in complessivi euro 35.420,94, nel corso di un  rapporto
bancario di conto corrente, da  lui  intrattenuto  con  la  Cassa  di
Risparmio di Pisa, Lucca e Livorno poi incorporata  nella  convenuta,
nel periodo dal 31 dicembre 2007 al 23 luglio 2015 (data nella  quale
la medesima era receduta. 
    A sostegno di tale domanda l'attore ha dedotto che, nel corso del
suddetto rapporto, l'istituto di credito  aveva  applicato  interessi
passivi  ultralegali,  non  pattuiti  e  variati  unilateralmente,  e
comunque superiori  al  tasso  soglia,  nonche'  la  capitalizzazione
trimestrale degli interessi debitori. 
    Il Licari ha anche lamentato che nel corso del rapporto di  conto
corrente erano state applicate una commissione  di  massimo  scoperto
invalida  e  costi  aggiuntivi  determinati  da  giorni  valuta   non
specificamente pattuiti. 
    La convenuta si e'  costituita  in  giudizio  eccependo,  in  via
preliminare di merito,  l'estinzione  per  prescrizione  del  diritto
dell'attore ad ottenere  la  restituzione  di  somme  non  dovute  in
relazione al contratto di conto corrente. 
    Con riguardo al merito la  convenuta  ha  assunto  l'infondatezza
delle domande avversarie  e  ha  svolto  domanda  riconvenzionale  di
condanna dell'attore al pagamento  della  somma  di  euro  31.466,65,
quale saldo debitore del predetto rapporto di conto corrente. 
L'infondatezza degli assunti attorei. 
    Cio'  detto  con  riguardo  agli  assunti   delle   parti,   deve
innanzitutto evidenziarsi  la  intrinseca,  grave  contraddittorieta'
della prospettazione attorea atteso che il Licari, pur assumendo  che
il contratto di conto  corrente  per  cui  e'  causa  non  era  stato
stipulato per iscritto (cfr. pagg. 1 e 3 dell'atto di  citazione)  ha
sostenuto l'invalidita' delle clausole di esso che hanno  dato  luogo
agli addebiti contestati (cfr. pag. 4 dell'atto di  citazione),  cosi
postulando che un contratto scritto vi fosse stato. 
    Entrando  nell'esame  specifico  di  ciascuno  di  essi  generico
risulta quello relativo all'applicazione del  meccanismo  dei  giorni
valuta, in difetto della individuazione delle  specifiche  operazioni
che sarebbero state contabilizzate in modo erroneo. 
    A giustificare il rigetto della doglianza relativa  alla  pretesa
applicazione  della  capitalizzazione  trimestrale  degli   interessi
debitori e' invece sufficiente la considerazione che il contratto  di
conto  corrente  per  cui  e'  causa  e'  stato  stipulato,  come  ha
dimostrato la convenuta producendolo, il 2 aprile 2007  e  quindi  in
data successiva al momento in cui la  convenuta  ha  dato  attuazione
alla delibera Cicr (cfr. doc. 16). 
    Si noti poi che dal contratto di conto corrente e  da  quelli  di
apertura di credito ad esso collegati che l'istituto  di  credito  ha
prodotto si evince come il tasso di interesse debitorio  e  le  altre
condizioni economiche, comprese la c.m.s., fossero state pattuite. 
    Di questa poi erano  state  esplicitate  anche  le  modalita'  di
calcolo. 
    Va poi decisamente disatteso l'assunto attoreo secondo  cui  tale
commissione e'  priva  di  causa  poiche'  la  Suprema  Corte  le  ha
attribuito una funzione  remunerativa  dell'obbligo  della  banca  di
tenere a disposizione dell'accreditato una  determina  somma  per  un
determinato periodo di  tempo,  indipendentemente  dal  suo  utilizzo
(cfr. Cassazione civ. 11772/2002). 
    Medesima sorte merita il rilievo  di  applicazione  di  interessi
debitori usurari nel corso del rapporto  di  conto  corrente  poiche'
esso si fonda su criteri non condivisibili. 
    A tale riguardo,  occorre  innanzitutto  osservare  che,  per  il
periodo precedente all'entrata in vigore della legge n. 2/09, non  si
condivide l'assunto  teorico  attoreo  che  ricollega  il  metodo  di
calcolo del TEG  alla  diretta  applicazione  del  principio  di  cui
all'art. 644, 4 comma cod. pen., («...per la determinazione del tasso
d'interesse usurario si tiene conto delle commissioni,  remunerazioni
a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse,
collegate all'erogazione del credito»), che ricomprende  nel  calcolo
del TEG anche la CMS. Invero, puo'  evidenziarsi,  criticamente,  che
tale assunto: 
        1) porta  alla  «disapplicazione»  delle  Istruzioni  emanate
dalla Banca d'Italia ai sensi dell'art. 2, comma l,  della  legge  n.
108/96, che espressamente  escludono  la  CMS  dal  computo  del  TEG
prevedendone la rilevazione separata (vedi pgf. C5  delle  Istruzioni
come  periodicamente  aggiornate  sino  al  2009),   senza   tuttavia
considerare  che  la  stessa   legge   n.   108/96,   nel   rimettere
all'autorita' amministrativa ministeriale il compito del  rilevamento
periodico dei tassi, esige la  rilevazione  comparata  di  operazioni
della stessa natura», cioe' di elementi omogenei tra loro, quali  non
sono gli interessi e la CMS, ove concepita,  secondo  il  modello  di
tecnica bancaria (ripreso poi anche da Cassazione n. 870/06,  che  ne
ha  valorizzato  il  carattere  di   remunerazione   per   la   messa
disposizione dei fondi indipendente dall'effettivo prelevamento) come
«...il   corrispettivo   pagato   dal    cliente    per    compensare
l'intermediario  dell'onere  di  dover  essere  sempre  in  grado  di
fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello  scoperto  del
conto»  (cfr.  Istruzioni  Banca  d'Italia,  nei  vari  aggiornamenti
periodici,  sub  pgf.  C5)  e  percio'  fatta  oggetto  di   autonoma
rilevazione «...finalizzata all'enucleazione di una specifica  soglia
usuraria ad hoc, all'evidente fine di non omogeneizzare categorie  di
interessi pecuniari finanziariamente disomogenei (si pensi, ad es., a
quelli che accedono al mutuo fondiario familiare per l'acquisto della
prima casa  rispetto  a  quelli,  assai  diversi  financo  sul  piano
ragionieristico, derivanti da apertura di credito in  conto  corrente
in  favore  di  impresa  commerciale»)  (cfr.  Tribunale  di  Verona,
sentenza 3 ottobre 2012); 
        2) non tiene conto del fatto che, riconosciuta nell'art.  644
una norma penale in bianco suscettibile di eterointegrazione  per  la
determinazione del «...limite  oltre  il  quale  gli  interessi  sono
sempre usurari», sono gli stessi decreti ministeriali di  rilevazione
dei tassi usurari, emessi ai sensi dell'art. 2 della legge n.  108/96
e, quindi, integrativi della stessa norma penale (cfr.  art.  644,  3
comma, cod. pen.), che, «legificando» il criterio tecnico della B.I.:
a) prevedono espressamente che i tassi  non  sono  comprensivi  della
commissione di massimo scoperto  eventualmente  applicata,  la  quale
viene rilevata e pubblicata a parte, come allegato alla  tabella  dei
tassi (cfr. art. 1, comma 2, dei decreti); b) fanno propri i  criteri
illustrati dalla Banca d'Italia nelle «Istruzioni per la  rilevazione
del tasso effettivo globale medio ai sensi della  legge  sull'usura»,
che sono elaborate dall'Istituto di Vigilanza non  gia'  per  ragioni
interne al sistema bancario o meramente  statistiche  bensi'  proprio
nell'ambito del procedimento disciplinato dall'art. 2 della legge  n.
108/96; c) ribadiscono che le banche e gli  intermediari  finanziari,
al fine di verificare il rispetto del limite di cui all'art. 2, comma
4, della legge n. 108/96, si attengono ai criteri  di  calcolo  delle
Istruzioni della Banca d'Italia (cfr. art. 3, comma 2, dei decreti). 
    Inoltre, la tesi dell'inclusione della CMS nel calcolo  del  TEG,
si pone in aperto contrasto: a) con  la  ultima  parte  del  comma  2
dell'art. 2-bis della legge n. 2/2009, che, a chiusura del  dibattito
giurisprudenziale  insorto  negli  anni  in  materia,   ha   previsto
l'inclusione della CMS nel calcolo del TEG solo a partire dalla  data
dell'entrata in vigore della legge stessa, confermando per il periodo
precedente la disciplina anteriormente in vigore (cfr. l'art.  2-bis,
2 comma, ultima  parte,  della  legge  n.  2/2009,  secondo  cui  «Il
Ministro dell'economia e delle finanze, sentita  la  Banca  d'Italia,
emana  disposizioni   transitorie   in   relazione   all'applicazione
dell'art. 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108, per  stabilire  che  il
limite previsto dal terzo comma  dell'art.  644  del  codice  penale,
oltre il quale gli  interessi  sono  usurari,  resta  regolato  dalla
disciplina vigente alla data di entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del  tasso
effettivo globale medio non verra'  effettuata  tenendo  conto  delle
nuove disposizioni»); b) con la prima parte  del  comma  2  dell'art.
2-bis della legge n. 2/2009, che correlativamente  prevede  che  «Gli
interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle  clausole,
comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore  della
banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei  fondi
da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto, sono  comunque  rilevanti  ai  fini
dell'applicazione dell'art. 1815 del codice civile, dell'art. 644 del
codice penale e degli articoli 2 e 3 della legge  7  marzo  1996,  n.
108»). 
L'applicabilita' nel caso di specie della condanna ex art.  art.  96,
terzo  comma,  codice  di  procedura  civile  e  la  rilevanza  della
questione di legittimita' costituzionale. 
    Ad  avviso  di  questo  giudice  nel   caso   di   specie,   data
l'incosistenza degli assunti attorei, viene in  rilievo  il  disposto
dell'art. 96, terzo comma,  codice  di  procedura  civile  introdotto
dalla legge n. 69/2009. 
    Per quanto attiene  ai  presupposti  di  applicazione  di  questa
disposizione secondo una tesi l'incipit di essa (le parole  «in  ogni
caso»)  sarebbe  indicativo  del  suo  affrancamento   da   tutti   i
presupposti  del  primo  comma,  con  la  conseguenza  che  la   sola
soccombenza della parte potrebbe  giustificare  la  sua  condanna  ai
sensi del terzo comma. 
    Tale interpretazione pero', come  e'  stato  osservato  da  altro
orientamento, limita  il  diritto  d'azione  e  di  difesa  garantito
dall'art. 24 Cost., poiche' implica che l'aver proposto  una  domanda
infondata o l'aver resistito ad una domanda  fondata  costituisce  di
per se' un illecito ed una possibile fonte di responsabilita'. 
    Pertanto  e'  senz'altro  di  gran  lunga  preferibile  l'opzione
interpretativa che riconnette la condanna agli stessi  presupposti  -
fissati nel primo comma - dell'agire o resistere in giudizio con mala
fede o colpa grave. In tal modo si  ottiene  infatti  almeno  che  la
condanna derivi  da  una  condotta  identificabile  a  priori  e  non
coincidente con il mero «dato oggettivo» della soccombenza (cfr.  sul
punto tra le tante, Cassazione 30 novembre 2012, n. 21570). 
    La giurisprudenza di legittimita' ha  anche  chiarito,  gia'  con
riguardo  al  primo  comma  della  norma  in  esame,  quali  siano  i
presupposti soggettivi della condotta temeraria, individuandoli nella
coscienza dell'infondatezza  della  domanda  o  dell'eccezione  (mala
fede), ovvero nell'ignoranza colpevole in ordine a detta infondatezza
(cfr. ex plurimis Cassazione, sez. I, 8 settembre 2003, n. 13071). 
    Ovviamente la mala fede e la colpa grave non possono  che  essere
desunti da comportamenti specifici della parte, secondo  un  giudizio
di inferenza proprio dell'accertamento della  sussistenza  dei  fatti
illeciti. 
    Sulla base di tali premesse alcune pronunce, sia di  legittimita'
che di merito, hanno ricondotto all'ipotesi di cui all'art. 96 codice
di procedura civile le iniziative giudiziarie fondate su  presupposti
giuridici palesemente erronei. 
    In particolare,  in  questi  termini  sono  state  censurate,  ad
esempio,  la   proposizione   di   un   regolamento   preventivo   di
giurisdizione senza alcun previo riscontro  -  nell'esercizio  di  un
minimo di ordinaria diligenza - della propria tesi alla stregua della
disciplina positiva (Cass. sez. un., 9 febbraio 2009, n. 3057), Cosi'
come  la  proposizione  di  un  ricorso  per  cassazione  avverso  un
provvedimento avente contenuto ordinatorio (Cass. civ. sez.  un.,  24
febbraio 2000, n. 16), o  ancora  la  proposizione  di  un'azione  di
riduzione per lesione di legittima da  parte  della  sorella  del  de
cuius (Trib. Bari, 10 maggio 2010, n. 1600). 
    Orbene,  anche  nel  caso  di  specie  gli  assunti   dell'attore
presentano caratteri di palese infondatezza che giustificherebbero la
condanna per lite temeraria. 
    Infatti gran parte di essi (quelli relativi  all'applicazione  di
interessi ultralegali  e  anatocistici,  nonche'  di  commissioni  di
massimo scoperto non  pattuite)  sono  stati  drasticamente  smentiti
dalla documentazione contrattuale che la convenuta ha prodotto e  che
l'attore, all'inizio del giudizio, aveva addirittura negato fosse mai
esistita. Si noti come, dopo la produzione dei diversi contratti  che
avevano regolato i rapporti tra le parti,  il  Licari  non  li  abbia
disconosciuti e non abbia pero' avvertito la necessita'  di  spiegare
la sua posizione originaria e nemmeno di adeguare le proprie difese a
tale rilevante evenienza. 
    Altri assunti invece, come detto,  sono  generici  (quello  sulla
applicazione dei giorni  valuta)  ed  altri  inconsistenti  sotto  il
profilo giuridico (quello sulla applicazione di interessi usurari). 
    Orbene, a tali conclusioni dovrebbe conseguire,  in  applicazione
del principio di soccombenza, la condanna dell'attore alla  rifusione
delle spese processuali in favore della convenuta ma anche quella  ad
una somma equitativamente determinata dal giudice secondo il disposto
sopra esaminato. 
    Questo giudice dubita pero'  della  sua  conformita'  alle  norme
costituzionali. 
I profili di incostituzionalita' della norma. 
    Per coglierli e' necessario innanzitutto individuare la  funzione
della previsione. 
    Secondo un primo orientamento  l'art.  96,  comma  3,  codice  di
procedura civile prevede una vera e propria pena pecuniaria,  poiche'
la sua applicazione prescinde sia dalla domanda di  parte  che  dalla
prova   del   danno   determinato    dalla    condotta    processuale
dell'avversario (in questo senso cfr.: Cassazione civ.,  sez.  I,  30
luglio 2010, n. 17902; Cass. civ., sez. 11 febbraio  2014,  n.  3003;
Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2016,  n.  20732;  Cassazione  civ.,
sez. III, 29 settembre 2016, n. 19285; Cassazione civ.,  sez.  V,  14
settembre 2016, n. 18057; Cassazione civ., sez. III, 21 luglio  2016,
n. 15017; Cassazione civ.,  sez.  lav.,  19  aprile  2016,  n.  7726;
Cassazione civ., sez. I, 8  febbraio  2017,  n.  3311;  Cassazione  8
gennaio 2018, n. 182). 
    Secondo  un  altro   indirizzo,   la   condanna   officiosa   per
responsabilita'  processuale  aggravata,  assolve  ad  una   funzione
punitivo-indennitaria    dell'abuso    del    processo    civile    o
amministrativo, essendo diretta da un lato a sanzionare  e  prevenire
le liti temerarie e dall'altro ad indennizzare  la  parte  vittoriosa
del pregiudizio subito per essere stata coinvolta in un giudizio  che
non avrebbe dovuto essere promosso. 
    Costituisce espressione assai significativa di tale  orientamento
la pronuncia 23 giugno 2016, n. 152 della  Corte  costituzionale  che
allude in piu' passi alla natura ibrida dell'istituto, evidenziando a
tal fine che: 
        esso assolve ad una funzione esclusivamente o prevalentemente
sanzionatoria; 
        non ha natura esclusivamente risarcitoria poiche'  tutela  un
interesse che trascende, o non e', comunque,  esclusivamente,  quello
della parte vittoriosa in giudizio; 
        analoga funzione sanzionatoria e, al contempo,  indennitaria,
e' ravvisabile  nella  condanna  del  ricorrente  (o  resistente)  in
Cassazione, con colpa grave, prevista dall'abrogato art.  385,  comma
4, codice di procedura civile che prevedeva  che:  «Quando  pronuncia
sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'art. 375, la Corte, anche
d'ufficio, condanna, altresi', la parte soccombente al  pagamento,  a
favore della controparte, di una somma, equitativamente  determinata,
non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha
proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave». 
    Rientra a  pieno  titolo  nell'orientamento  in  esame  anche  la
recentissima pronuncia della Cassazione civile  a  sezioni  unite,  5
luglio 2017, n. 16601, che ha riconosciuto la  natura  polifunzionale
della tutela risarcitoria, poiche' essa puo' assolvere  una  funzione
sanzionatoria, oltre  a  quella  compensativa,  e,  al  contempo,  ha
incluso la condanna ex art.  96,  terzo  comma  codice  di  procedura
civile, tra le ipotesi, contemplate nel nostro ordinamento, di rimedi
risarcitori con funzione non riparatoria o almeno non  esclusivamente
riparatoria, ma sostanzialmente, o congiuntamente,  sanzionatoria  (i
c.d. danni punitivi). 
    La predetta concorrente finalita', secondo la Suprema  Corte,  e'
pero' ammissibile solo se la fattispecie risarcitoria disciplinata in
termini sufficientemente dettagliati da permettere di  prevederne  le
conseguenze anche quantitative e cio', deve  ritenersi,  al  fine  di
garantire effettivita' alla tutela riparatoria. 
    Sul  punto  ha  infatti  osservato  che:  «Ogni  imposizione   di
prestazione personale esige  una  "intermediazione  legislativa",  in
forza del  principio  di  cui  all'art.  23  Cost.,  (correlato  agli
articoli 24 e 25), che pone una riserva  di'  legge  quanto  a  nuove
prestazioni patrimoniali e preclude  un  incontrollato  soggettivismo
giudiziario» (cosi' testualmente la sentenza n. 16601/2017). 
    Da tale premessa consegue, in concreto, che, sempre per usare  le
medesime parole  delle  Sezioni  Unite,  a  livello  normativo  «deve
esservi  precisa  perimetrazione  della  fattispecie  (tipicita')   e
puntualizzazione dei limiti quantitativi  delle  condanne  irrogabili
(prevedibilita')». 
    Tipicita' e prevedibilita' costituiscono, pertanto, i presupposti
indefettibili affinche' la  componente  afflittiva  del  risarcimento
possa essere contemplata nell'ordinamento giuridico. 
    Orbene, tali  principii  vengono  in  rilievo  anche  qualora  si
aderisca all'orientamento che  attribuisce  alla  condanna  ai  sensi
dell'art. 96, terzo comma, codice di procedura  civile  una  funzione
esclusivamente sanzionatoria e la norma, valutata alla luce di  essi,
risulta in contrasto con i parametri costituzionali sopra citati. 
    Infatti se le condotte che integrano responsabilita'  processuale
aggravata paiono, ad avviso di questo giudice, per  le  ragioni  gia'
dette,   sufficientemente   determinate,   mediante    il    richiamo
all'elemento soggettivo che deve  connotarle,  non  altrettanto  puo'
dirsi per le conseguenze di esse.  La  norma  infatti  non  contempla
limiti  quantitativi  minimi  e  massimi  che,   se   devono   essere
prevedibili e prefissati ex ante per  i  danni  punitivi,  a  maggior
ragione devono esserlo per le pene private. 
    Del resto  appare  evidente  la  difformita'  sul  punto  tra  il
disposto dell'art. 96, terzo comma, codice di procedura civile  e  la
norma che costituisce,  indubbiamente,  il  suo  antecedente,  ovvero
l'art. 385, comma 4, codice di procedura civile, abrogato dalla legge
n. 69/2009. 
    Quest'ultimo infatti stabiliva un contenimento del massimo  della
condanna nel doppio dei massimi tariffari e, se quel limite, o  altro
simile, fosse stato previsto anche per il quantum della pronuncia  ai
sensi dell'art. 96, terzo comma, codice  di  procedura  civile,  essa
sarebbe stata immune dalle censure qui svolte. 
    Va anche evidenziato  come  l'attuale  formulazione  della  norma
determini una estrema incertezza in ordine all'entita' della condanna
adottabile, tenuto conto che nella prassi sono stati individuati vari
criteri per quantificarla. 
    Infatti secondo un indirizzo occorre far riferimento, a tal fine,
ad una percentuale del valore della controversia (Trib. Milano,  sez.
VIII, 13 giugno 2012); secondo altra opinione la  somma  puo'  essere
parametrata  all'indennizzo  da  irragionevole  durata  del  processo
(Trib. Roma, 18  ottobre  2006;  Tribunale  Milano,  22  marzo  2006;
Tribunale Modena, 24 aprile 2009, Cassazione, sez.  II,  18  febbraio
2011,  n.  3993),  mentre   secondo   un   ulteriore   indirizzo   e'
determinabile in una percentuale della somma liquidata in concreto  a
titolo di spese di lite, esclusi gli accessori (Trib.  Pordenone,  18
marzo 2011; Tribunale Milano, 25 novembre 2014; Tribunale  Milano  21
ottobre 2014; Tribunale Padova 10 marzo 2015 e  nella  giurisprudenza
di legittimita', tra le altre, Cassazione civ. sez. 30 novembre 2012,
n. 21570). 
    Non va poi trascurato che alcune  decisioni,  pur  addivenendo  a
condanne per lite temeraria di importo  elevato,  non  utilizzano  un
criterio oggettivo  per  tale  quantificazione.  Cosi',  ad  esempio,
Cassazione,  sez.  III  civile,  29  settembre  2016,  n.  19285,  ha
affermato  come  l'unico  limite  al  quantum  della   sanzione   sia
costituito  dalla   equita',   da   intendersi   come   sinonimo   di
ragionevolezza. 
    E' evidente, ad avviso di questo giudice, come questa difformita'
di soluzioni, e la conseguente, evidente  disparita'  di  trattamento
per  situazioni  che  possono   risultare   analoghe,   finisca   per
pregiudicare  la  funzione   deterrente   dell'istituto,   risultando
impossibile,  a  fronte  di   essa,   valutare   preventivamente   le
conseguenze economiche della proposizione di una causa temeraria. 
    E' altrettanto evidente che i limiti  quantitativi  mancanti  non
possono essere recuperati in via interpretativa poiche' la fissazione
di essi compete al legislatore. 
    La norma risulta quindi in contrasto con gli articoli  23  e  25,
comma 2, Cost., che, come chiarito dalla pronuncia della Cassazione a
sezioni unite n.  16601/2017,  costituiscono  i  parametri  ai  quali
soggiace ogni imposizione di una prestazione personale. 
 
                               P.Q.M. 
 
    dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale, dell'art. 96,  terzo  comma,  codice  di
procedura civile. nella parte in cui non prevede l'entita'  minima  e
quella massima della somma oggetto della condanna, per contrasto  con
gli articoli 23 e 25, comma 2, Cost.; 
    rimette gli atti del presente giudizio alla Corte  costituzionale
e dispone la sospensione del procedimento in attesa  della  decisione
nel giudizio ad quem; 
    ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei  ministri,  al  presidente
della  Camera  dei  deputati  e  al  presidente  del   Senato   della
Repubblica. 
        Verona, 23 gennaio 2018 
 
                         Il Giudice: Vaccari