N. 183 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 luglio 2018
Ordinanza del 16 luglio 2018 del Tribunale di Agrigento nel procedimento penale a carico di P. S.. Esecuzione penale - Sospensione della esecuzione delle pene detentive brevi - Esclusione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto in abitazione di cui all'art. 624-bis cod. pen. - Codice di procedura penale, art. 656, comma 9, lettera a).(GU n.1 del 2-1-2019 )
TRIBUNALE DI AGRIGENTO Sezione I penale Il giudice dell'esecuzione, dott. Alessandro Quattrocchi, letti gli atti del procedimento penale di esecuzione nei confronti di P. S. , nato a il, condannato con sentenza del Tribunale di Agrigento emessa in data 21 ottobre 2015 (confermata dalla Corte di appello di Palermo in data 31 marzo 2017, definitiva in data 14 febbraio 2018) alla pena di mesi otto di reclusione ed euro 300,00 di multa per il reato di cui agli articoli 110, 624-bis codice penale, perche', come da contestazione del P.M., in concorso con altro soggetto, «al fine di trarne profitto, si introducevano nell'abitazione di M. S. sita in e s'impossessavano di un televisore marca Philips 32 pollici, sottraendolo allo stesso»; letta l'istanza con cui il condannato, personalmente, chiedeva, attraverso la procedura incidentale di esecuzione, ai sensi dell'art. 670 codice di procedura penale, la sospensione dell'ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dal pubblico ministero presso il Tribunale di Agrigento in data 10 marzo 2018 al fine di accedere alle misure alternative alla detenzione in carcere previste dagli articoli 47 e ss. della legge 26 luglio 1975, n. 354, atteso che, in uno all'ordine di esecuzione, il pubblico ministero non aveva emesso il decreto di sospensione ai sensi dell'art. 656, comma 5, codice di procedura penale; sentite le parti in Camera di consiglio; Osserva 1. - Preliminarmente, va rilevato che la disciplina di cui all'art. 656, comma 9, codice di procedura penale elenca tutte le fattispecie in relazione alle quali il pubblico ministero e' tenuto ad emettere ordine di carcerazione, non potendo viceversa disporre la contestuale sospensione dell'esecuzione ex art. 656, comma 5, codice di procedura penale, volta ad una preventiva valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza in ordine all'accessibilita' del condannato alle misure alternative alla detenzione in carcere. In particolare, le ipotesi tipizzate alla lettera a) del succitato comma 9 dell'art. 656 codice di procedura penale rinvengono la propria ratio nella scelta legislativa di ritenere (rectius, presumere) la maggiore pericolosita' dei condannati per taluni reati (ex multis, Cassazione, Sez. 1, n. 16708 del 18 marzo 2008). L'art. 656, comma, 9, lett a), codice di procedura penale originariamente prevedeva che non potesse sospendersi l'ordine di carcerazione esclusivamente «nei confronti dei condannati per i delitti dl cui all'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354», vale a dire per quei reati che gia' nella normativa sull'ordinamento penitenziario sono gravati dal «divieto di concessione dei benefici». Il che risponde ad una scelta di evidente razionalita', atteso che non soddisferebbe alcuna logica sospendere l'ordine di carcerazione per coloro i quali non hanno in nessun caso la possibilita' di accedere a misure alternative alla detenzione carceraria. Successivamente, l'art. 2, lettera m), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125 e facente parte del c.d. «pacchetto sicurezza», varato al fine di «contrastare fenomeni di illegalita' diffusa collegati all'immigrazione illegale e alla criminalita' organizzata», ha esteso tale elenco mediante l'aggiunta, nel summenzionato comma 9, lettera a), dell'art. 656 codice di procedura penale, della previsione per cui la sospensione non trova applicazione neppure per i delitti «di cui agli articoli 423-bis, 624, quando ricorrono due o piu' circostanze tra quelle indicate dall'art. 625, 624-bis del codice penale» («nonche' per i delitti in cui ricorre l'aggravante di cui all'art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice», sebbene quest'ultima previsione sia stata dichiarata incostituzionale in via conseguenziate con sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010). Da ultimo, con l'art, 1, comma 1, lett, b), n. 3, punto a), del decreto-legge 1º luglio 2013, n. 78, convertito con modificazioni nella legge 21 febbraio 2013, n. 94, alla lettera a) del comma 9 dell'art. 656 codice di procedura penale sono state apportate ulteriori modificazioni, eliminando dall'elenco dei reati che non ammettono sospensione dell'ordine di carcerazione il furto pluriaggravato e introducendo i reati di cui agli articoli 572, secondo comma, e 612-bis, terzo comma, codice penale. Per tale gruppo di reati, dunque, la sospensione dell'esecuzione, prevista all'art. 656, comma 5, codice di procedura penale per l'esecuzione di pene detentive - anche se costituenti residuo di maggiore pena - non superiori a tre anni (quattro anni, alla stregua della sentenza della Corte costituzionale, n. 41 del 2018), non puo' essere disposta; anche se non e' stata modificata la disciplina che consente al Tribunale di sorveglianza di valutare senza ulteriori limiti la possibilita' di concedere - a posteriori - delle misure alternative al condannato gia' detenuto, non essendovi stato un allineamento del disposto dell'art. 656, comma 9, codice di procedura penale con quello di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Ne consegue che, per effetto della vigente normativa, la pena comminata agli autori dei reati indicati dall'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale deve essere ab origine espiata in regime di detenzione carceraria, non essendo consentita una preventiva valutazione, da parte del Tribunale di sorveglianza, precedente all'ingresso in carcere del condannato, relativamente all'applicazione di misure alternative alla detenzione carceraria. E cio' anche - come nel caso di specie - in relazione al reato di furto in abitazione ex art. 624-bis codice di procedura penale, che l'ordinamento considera, con una presunzione iuris et de iure, espressivo di una maggiore capacita' a delinquere del suo autore, come tale non meritevole ex ante dei benefici previsti dalla normativa sull'ordinamento penitenziario. 2. - Tanto premesso, va in primo luogo affermata la competenza di questo giudice a promuovere il giudizio di legittimita' costituzionale. Sotto il profilo procedurale, competente a conoscere dell'esecuzione della sentenza sopra indicata e' il giudice dell'esecuzione del Tribunale di Agrigento che l'ha deliberata, ai sensi dell'art. 665, comma 1 e 2, codice di procedura penale, essendo stato il provvedimento, ancorche' impugnato, confermato in sede di appello e divenuto irrevocabile a seguito della pronuncia di inammissibilita' del proposto ricorso in Cassazione. Si deve escludere una competenza sul titolo esecutivo del Tribunale di sorveglianza, che e' invece competente a valutare la concepibilita' di misure alternative, nonche' del pubblico ministero, che in questa fase e' organo con funzioni esecutive e amministrative e i cui provvedimenti, per l'effetto, sono sottratti a qualsiasi mezzo impugnatorio. E invero, al fine di evitare il verificarsi di situazioni pregiudizievoli per il condannato, l'ordine di esecuzione puo' essere sottoposto al controllo del giudice dell'esecuzione, il quale, se richiesto dalla parte interessata, dovra' pronunciarsi, osservando le garanzie giurisdizionali proprie del procedimento previsto dall'art. 666 codice di procedura penale, con ordinanza ricorribile per Cassazione. In questi termini la pacifica giurisprudenza della Suprema Corte, alla cui stregua «L'ordine di esecuzione, emesso dal pubblico ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, non puo' essere annullato dal giudice dell'esecuzione ma esclusivamente dichiarato temporaneamente inefficace, per consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione» (cfr., da ultimo, Cass., n. 41592 del 13 ottobre 2009, n. 41592). 3. - In merito al giudizio costituzionalita' ex art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 86 prevede che la questione di legittimita' costituzionale possa essere sollevata con ordinanza, anche di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio, dopo aver valutato la rilevanza della questione rispetto alla decisione della causa e la sua non manifesta infondatezza; tale duplice valutazione e' di competenza dell'autorita' giurisdizionale chiamata a pronunciarsi sulla causa, trattandosi di valutazione che implica un giudizio sui termini e limiti della controversia nonche' sulla applicazione della norma nel caso concreto. Ebbene, il giudicante ritiene che la questione di legittimita' costituzionale per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione dell'art. 656, comma 9, lettera a), nella parte in cui non consente la sospensione dell'esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto in abitazione (art. 624-bis codice penale) sia di primaria rilevanza nell'ambito del presente procedimento (non potendo essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale medesima) e non manifestamente infondata. 4. - Quanto alla rilevanza della prospettata questione di legittimita' costituzionale, il giudice osserva di essere chiamato ad esercitare una effettiva e attuale potestas decidendi proprio in relazione alla disposizione sospettata di incostituzionalita', venendo la stessa in rilevo nell'ambito del procedimento di esecuzione instaurato dall'istante per ottenere la sospensione dell'ordine di esecuzione della carcerazione emesso dal pubblico ministero al fine di accedere alla richiesta di pena alternativa. Ove la questione non fosse prospettata, infatti, questo giudice dovrebbe respingere l'istanza formulata, atteso che il disposto normativo di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale non lascia adito ad interpretazioni costituzionalmente o convenzionalmente orientate che possano permettere di accogliere la richiesta formulata ne' appare suscettibile di disapplicazione. Infatti, stante la tassativita' della elencazione contenuta nella disposizione tacciata di incostituzionalita', non risulta possibile addivenire ad una interpretazione diversa, essendo stato inserito il reato di furto in abitazione di cui all'art. 624-bis codice penale nell'elenco di quelli ostativi alla preventiva sospensione dell'ordine di esecuzione carceraria ex art. 656, comma 5, codice di procedura penale. 5. - E' parimenti evidente la non manifesta infondatezza della questione. Il disposto dell'art. 656, comma 9, lettera a), cosi' come formulato nella parte in cui richiama il furto in abitazione di cui all'art. 624-bis codice penale, viola l'art. 3 della Costituzione essendo in contrasto con i principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalita'. In via preliminare va ricordato che l'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, rubricato «divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosita' sociale dei condannati per taluni delitti», elenca quei reati (c.d. ostativi) considerati dal legislatore espressione di una particolare capacita' a delinquere e ritenuti di tale gravita' da far presumere - in via assoluta - la pericolosita' sociale di chi li ha commessi. Tra questi, a mero titolo esemplificativo e senza pretese di esaustivita', si ricordano: il delitto di cui all'art. 416-bis codice penale, i delitti aggravati dall'art. 7 legge 18 luglio 1991, n. 203, i delitti di cui agli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies codice penale. L'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale, in maniera parzialmente complementare, elenca i reati per i quali non e' ammessa sospensione dell'ordine di carcerazione, rinviando in primo luogo a quelli di cui all'art. 4-bis o.p. summenzionato: non avrebbe infatti senso sospendere l'esecuzione della pena detentiva per chi sia stato condannato per reati che non ammettono misure alternative alla detenzione carceraria medesima. Lo stesso art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale, nondimeno, impedisce la preventiva sospensione dell'ordine di carcerazione per un ulteriore novero di reati, i cui condannati possono richiedere misure alternative alla detenzione solo a valle dell'ingresso nell'istituto di pena. Come visto, alla luce della precedentemente rassegnata evoluzione normativa, tali reati sono quelli previsti dagli articoli 423-bis, 572, comma 2, 612-bis, comma 3, e 624-bis codice penale sub specie di furto in abitazione. Si evidenzia che in nessuna delle due elencazioni figurano ne' la rapina, ne' l'estorsione (nella loro versione non aggravata), ne' il furto pluriaggravato (a seguito del ripensamento legislativo con sua espunzione dall'elenco di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale), ne' il furto con strappo di cui al secondo comma dell'art. 624-bis codice penale (a seguito della declaratoria di incostituzionalita' avvenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 6 aprile 2016). Non puo' allora farsi a meno di denunciare, sotto il profilo dell'irragionevolezza della disposizione, come il furto in abitazione presenti elementi, da un lato comuni, dall'altro meno gravi, con le altre fattispecie incriminatrici che ammettono la sospensione ex art. 656, comma 5, codice di procedura penale, tali da rendere del tutto irrazionale la sua permanenza nell'elenco dei reati che ostano alla preventiva sospensione dell'ordine di carcerazione per consentire al condannato di accedere alle misure alternative alla detenzione di cui all'agli articoli 47 e ss. o.p., che del resto non gli sono comunque precluse a posteriori. In primo luogo, furto in abitazione, furto con strappo e furto pluriaggravato hanno quale comune denominatore la condotta costituita dall'impossessamento del bene mobile altrui con sottrazione a chi lo detiene, ancorche' circostanziato da ulteriori elementi rilevanti ai fini della qualificazione giuridica e della pena da irrogare e in particolare: la commissione del furto nei luoghi destinati in tutto o in parte a privata dimora (secondo i confini concettuali tratteggiati da Cassazione pen., Sez. U, n. 31345 del 23 marzo 2017); la commissione del furto con violenza immediatamente rivolta verso la cosa e che, solo indirettamente, si riverbera sulla persona che la detiene; la commissione del furto con due o piu' delle aggravanti descritte dall'art. 625 codice penale. In secondo luogo, il furto in abitazione risulta per molteplici versi meno grave dei reati di rapina e di estorsione, anche nelle loro forme di manifestazione non aggravate. Il furto in abitazione, infatti, tutela tanto il patrimonio quanto il privato domicilio - inteso come proiezione spaziale della liberta' personale della persona - e, pur essendo tale tipo di condotta sintomatica di una maggiore audacia e pericolosita' dell'agente rispetto alla fattispecie di furto semplice, non si realizza con modalita' direttamente lesive dell'incolumita' della persona stessa o della sua liberta' morale, essendo indifferente ai fini della consumazione la presenza o meno del soggetto passivo nell'abitazione al momento della condotta attiva. Diversamente, la rapina, quale paradigmatico esempio di «reato plurioffensivo», ricomprende nella propria oggettivita' giuridica tanto l'elemento patrimoniale, quanto la tutela della liberta' morale del soggetto passivo, postulando, quale modalita' vincolata della propria realizzazione, la violenza o la minaccia direttamente rivolta al soggetto passivo del reato; parimenti dicasi dell'estorsione, reato lesivo sia del patrimonio sia della liberta' di autodeterminazione della persona, anch'esso tipicamente perpetrato con condotta violenta o minacciosa. Tali considerazioni trovano riscontro nel trattamento sanzionatorio tratteggiato dal legislatore in termini gradualmente crescenti: parificato tra furto in abitazione e furto con strappo (reclusione da tre a sei anni), aumentato nel massimo per il furto pluriaggravato (reclusione da tre a dieci anni), ulteriormente aggravato, anche nel minimo, per la rapina (reclusione da quattro a dieci anni) e per l'estorsione (reclusione da cinque a dieci anni). Posto che la ratio dell'autonoma (e piu' intensa) tutela penale prevista per il furto in abitazione e' proprio la protezione della sicurezza fisica della vittima che possa trovarsi all'interno dell'abitazione al momento del fatto, la cui naturale progressione nell'iter criminis e' rappresentata dal piu' grave delitto di rapina (propria o impropria), risulta paradossale la scelta legislativa di prevedere una modalita' esecutiva piu' gravosa per il condannato per l'art. 624-bis codice penale rispetto a quella prevista per tutte le altre fattispecie incriminatrici summenzionate e, in particolar modo, per la rapina stessa. Come osservato dalla stessa Corte costituzionale nella recente pronuncia n. 125 del 2016, che ha dichiarato l'incostituzionalita' del divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione in relazione al furto con strappo di cui allo stesso art. 624-bis codice penale, «non sono rari i casi in cui, nel progredire dell'azione delittuosa, il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessita' di vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria, per la necessita' di contrastare la reazione della vittima dopo la sottrazione della cosa». A parere di questo giudicante, tale constatazione, per le ragioni suesposte, e' perfettamente estendibile al furto in abitazione, non casualmente punito dalla medesima disposizione che incrimina il furto con strappo: anche tra furto in abitazione e rapina sussiste infatti una astratta progressione nell'offesa, in quanto la lesione posta in essere dal soggetto attivo del furto e' suscettibile di estendersi dal patrimonio alla persona, ove presente nell'abitazione al momento della condotta attiva, giungendo a metterne in pericolo anche l'integrita' fisica. Vero e' che l'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale, laddove pone il divieto della sospensione dell'esecuzione prevista dal comma 5 dello stesso articolo, si fonda su una «presunzione di pericolosita' che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo» indicato in tale lettera (ordinanza della Corte costituzionale, n. 166 del 2010). Tuttavia, gli indici di pericolosita' ravvisabili nel furto in abitazione si rinvengono, incrementati, anche nella rapina. E' dunque incongrua la vigente disciplina che, pur prevedendo per la rapina una pena assai piu' grave, riconosce a chi ne e' autore un trattamento piu' vantaggioso in sede di esecuzione della pena; e la disparita' di trattamento tanto meno si giustifica per le caratteristiche dei due reati, che non consentono di assegnare all'autore di un furto in abitazione una pericolosita' maggiore di quella riscontrabile nell'autore di una rapina attuata mediante violenza alla persona. 6. - L'irrazionalita' della disposizione emerge non solo in ragione del trattamento sanzionatorio, che, come visto, permette di irrogare una pena, nel minimo e nel massimo, piu' alta per reati che non sono tuttavia ostativi alla sospensione ex art. 656, comma 5, codice di procedura penale, ma altresi' per il fatto che viene considerato pericoloso - e dunque meritevole di immediata carcerazione - anche chi astrattamente abbia commesso un reato di modesta gravita' e abbia riportato condanna ad una pena detentiva breve (come nel giudizio a quo), a differenza del soggetto il quale si sia reso responsabile di un reato piu' grave e percio' sia stato condannato ad una pena detentiva elevata, tenuto conto che il limite di tre anni (rectius, quattro anni), previsto dall'art. 656, comma 5, codice di procedura penale ai fini della sospensione dell'esecuzione trova applicazione anche con riguardo alle pene residue. La norma censurata ha quindi introdotto una aprioristica presunzione di pericolosita', oltrepassando il limite della non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative (sul punto, sia consentito il rinvio alle sentenze della Corte costituzionale n. 148 del 2008 e n. 206 del 2006); presunzione di cui si rileva lo stridente contrasto con il principio costituzionale di ragionevolezza. Infatti, l'indiscussa discrezionalita' del legislatore nella scelta relativa alle modalita' di esecuzione della pena in relazione ai diversi titoli di reato non puo' trasmodare nel totale arbitrio dello stesso, come giustamente ribadito dalla medesima Corte costituzionale laddove ha reputato «ammissibile l'esistenza di regimi sanzionatori differenziati, frutto di scelte discrezionali del legislatore, a condizione che queste ultime non trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio» (cfr. sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004 e n. 287 del 2001). 7. - Il disposto normativo censurato, a parere del giudicante, viola altresi' l'art. 27, comma 3, della Costituzione, che impone che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato: tale finalita', pur non potendo essere limitata alla sola fase esecutiva, certamente trova in tale momento l'ambito di massima realizzazione, che non puo' quindi essere circoscritto al solo trattamento penitenziario (si rinvia, al riguardo, alle pronunce della Corte costituzionale n. 12 del 1966; n. 21 del 1971; n. 167 del 1973; nn. 143 e 264 del 1974; n. 119 del 1975; n. 25 del 1979; n. 104 del 1982; n. 137 del 1983; n. 237 del 1984; nn. 23, 102 e 169 del 1985; n. 1023 del 1988) e che, di fatto, viene frustrata da un sistema automatico di carcerazione immediata. L'applicazione, rigida ed automatica, della detenzione carceraria, senza possibilita' di una valutazione - anteriore all'ingresso nell'istituto di pena del condannato - da parte del Tribunale di sorveglianza circa l'idoneita' ed opportunita' di eventuali misure alternative alla detenzione, risulta in contrasto con il finalismo rieducativo della pena, in forza del quale e' senz'altro prevalente l'esigenza di garantire il recupero sociale del condannato, attraverso la valorizzazione delle sue caratteristiche individuali. Il costante orientamento espresso dalla Corte costituzionale in tale ambito esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi automatismi e postula, invece, una valutazione individualizzata del prevenuto, cosi da fondare la concessione o meno del beneficio sulla sua attitudine a porre il condannato sulla via dell'emenda e del reinserimento sociale (ex multis, Corte costituzionale n. 189 del 2010, n. 255 del 2006, n. 436 del 1999). Sul punto, inoltre, non appare superfluo ricordare che la Corte costituzionale si e' gia' pronunciata nel senso che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerunque accidit» (v. sentenza n. 265 del 2010). Segnatamente, «l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenza n. 139 del 2010, in conformita' alla sentenza n. 41 del 1999). Proprio con riferimento alla presunzione di pericolosita', la Corte costituzionale ha affermato che la stessa, pur ammissibile in seno all'ordinamento, diviene costituzionalmente incompatibile laddove «non abbia fondamento nell'id quod plerunque accidit» (gia' sentenza n. 139 del 1982). Orbene, nel caso di specie, l'aprioristica preclusione dell'accesso alle misure alternative alla detenzione per l'espiazione di una pena breve - nel giudizio a quo, otto mesi di reclusione - conseguente alla commissione del reato di furto in abitazione non trova ragion d'essere nel sistema ordinamentale alla luce dei principi costituzionali sopra ricordati. Le misure alternative alla detenzione si ricollegano all'esigenza di individualizzazione della pena in fase esecutiva, in rapporto alla quale la valutazione di pericolosita' sociale del condannato - da condursi caso per caso, e non sulla base di arbitrarie presunzioni assolute - viene, per converso, in primario rilievo. Nell'ordinamento italiano, come gia' in precedenza evocato, l'ingresso in carcere dei soggetti condannati a pene detentive brevi, potenzialmente in condizione di usufruire delle misure alternative alla detenzione, e' sospeso ab origine in ragione di una presunzione di scarsa pericolosita' sociale sulla base dell'entita' di pena irrogata; simmetricamente, i divieti alla sospensione dell'esecuzione previsti dall'art. 656, comma 9, codice di procedura penale, sono fondati sulla presunzione di pericolosita' in relazione al titolo del reato, alla gravita' della sanzione edittale o al particolare allarme sociale destato da talune condotte criminose, cui si affiancano condizioni d'accertata pericolosita'. In questa prospettiva, il meccanismo della sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi trova giustificazione proprio nel finalismo rieducativo della pena, essendo volto ad evitare l'impatto con la struttura carceraria di chi sarebbe destinato a restarvi brevemente, ed a favorire, in tal modo, la riabilitazione del condannato che venga poi ammesso ad espiare la stessa pena in regime alternativo alla detenzione. La disposizione censurata, laddove ha esteso le ipotesi in cui non e' concessa la sospensione dell'ordine di carcerazione oltre quelle in cui non e' ammessa alcuna misura alternativa alla detenzione ex art. 4-bis o.p., ha quindi introdotto una aprioristica presunzione di pericolosita' del tutto eccentrica nel sistema dell'esecuzione delle pene detentive brevi, con conseguenze paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con i principi di uguaglianza, sub specie di ragionevolezza, nonche' di finalita' rieducativa della pena. 8. - Pur senza affiancare ai parametri «interni» della prospettata questione di legittimita' costituzionale, rappresentati dai citati articoli 3 e 27 della Costituzione, quello «interposto» costituito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, risulta comunque opportuno evidenziare che la presente eccezione di incostituzionalita' trae forza anche nell'ordinamento convenzionale e, segnatamente, nell'interpretazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali fornita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. In questa prospettiva devono essere ricordate le sentenze sentenza Sulejmanovic contro Italia del 2009 e la sentenza Torreggiani contro Italia del 2013, che non solo hanno imposto all'ordinamento italiano l'obbligo del superamento del sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma altresi' il dovere di rimodulare l'esecuzione della pena in carcere in termini congruenti a tutti i parametri integranti l'osservanza dell'art. 3 CEDU, anche con forme rimediali preventive. I criteri di riforma dell'ordinamento penitenziario dettati dal comma 85 dell'articolo 1 della legge di delega n. 103 del 2017 costituiscono l'adempimento di tale obbligo, inveratosi in un disegno riformatore che ambisce ad andare al cuore della funzione della pena per valorizzarne le potenzialita' di recupero sociale, anche attraverso una necessaria progressivita' trattamentale: progressivita' orientata alla rinuncia dell'opzione «carcerocentrica» in favore di una piu' coraggiosa scelta di recupero del reo mediante articolate misure alternative sulla scorta del dettato costituzionale (art. 27, comma 3, Cost.), che allude significativamente non gia' alla «pena» - al singolare - bensi' alle «pene» - al plurale - la cui comune finalita' e' la rieducazione del condannato. Il principio costituzionale dell'umanizzazione delle pene e del concreto e costante adattamento delle loro modalita' attuative alla finalita' della rieducazione del condannato, favorendo, nella misura massima possibile, l'applicazione di misure alternative alla detenzione per i condannati a pene di breve durata - vivificato dalla summenzionata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo come anche dai piu' recenti interventi riformatori - trova dunque un ostacolo invalicabile e, per quanto predetto, del tutto irragionevole ed eccentrico rispetto al maturato contesto ordinamentale, nel dettato dell'art. 656, comma 9, lettera a), che, per tutte le sopra illustrate ragioni, appare incostituzionale nella parte in cui prevede che per il reato di cui all'art. «624-bis del codice penale» non possa essere sospeso l'ordine di esecuzione della carcerazione emesso dal P.M.. In forza delle considerazioni sopra esposte, il presente giudizio deve essere sospeso e i relativi atti devono essere immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale.
P.Q.M. Visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale n. 1 del 9 febbraio 1948, 23 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953; ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della disposizione di cui all'art. 656, comma 9, lettera a) del codice di procedura penale nella parte in cui prevede «624-bis del codice penale», per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione; sospende il presente giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'istante, al suo difensore, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Agrigento, 16 luglio 2018 Il Giudice: Quattrocchi