N. 40 SENTENZA 23 gennaio - 8 marzo 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze
  stupefacenti o psicotrope - Pena minima edittale  della  reclusione
  nella misura di otto anni anziche' di sei. 
- Decreto del Presidente della Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309
  (Testo  unico  delle  leggi  in   materia   di   disciplina   degli
  stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,   cura   e
  riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),  art.  73,
  comma 1. 
-   
(GU n.11 del 13-3-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, 
  
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  73,  comma
1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza), promosso dalla Corte  d'appello
di Trieste, nel  procedimento  penale  a  carico  di  J.F.  C.M.  con
ordinanza del  17  marzo  2017,  iscritta  al  n.  113  del  registro
ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 23 gennaio  2019  il  Giudice
relatore Marta Cartabia. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 17 marzo 2017 (reg. ord. n. 113 del  2017),
la Corte d'appello di Trieste ha sollevato questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 73, comma  1,  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), per contrasto con gli artt.  3,  25  e  27  della
Costituzione, nella parte in cui, per effetto della  sentenza  n.  32
del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la pena minima  edittale
di otto anni anziche' di quella di sei  anni  introdotta  con  l'art.
4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti  per
garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le  prossime  Olimpiadi
invernali,    nonche'    la    funzionalita'     dell'Amministrazione
dell'interno.   Disposizioni   per   favorire    il    recupero    di
tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della  Repubblica
9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni,  nella  legge
21 febbraio 2006, n. 49. 
    Le questioni sono state  sollevate  nell'ambito  di  un  giudizio
avente ad oggetto una fattispecie di detenzione di circa cento grammi
di cocaina, occultati all'interno di tre condensatori  per  computer,
contenuti all'interno di  un  pacco  proveniente  dall'Argentina.  Il
giudice di prime cure ha ritenuto che la sostanza stupefacente  fosse
destinata in via prevalente alla cessione a terzi, cosi'  escludendo,
tenuto conto della quantita' di tale sostanza sequestrata e di  altri
elementi  di  contesto,  la  possibilita'  di  inquadrare  il   fatto
nell'ipotesi di lieve entita' di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R.
n. 309 del 1990. In esito a giudizio abbreviato, l'imputato e'  stato
condannato alla pena di anni quattro di reclusione e 14.000  euro  di
multa,   previo   riconoscimento   delle   attenuanti   generiche   e
l'applicazione della diminuente per il rito. 
    1.1.- L'ordinanza precisa che il difensore dell'imputato, pur non
contestando la responsabilita' penale per il fatto  ascritto,  ne  ha
chiesto la riqualificazione, ai sensi del citato art. 73, comma 5. In
via subordinata, permanendo la qualificazione giuridica del fatto  di
cui   all'imputazione,   ha   posto   in   dubbio   la   legittimita'
costituzionale dell'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990.  La
difesa privata si duole del fatto che tale disposizione prevede oggi,
all'esito  di  una  tortuosa  evoluzione  normativa,  un  trattamento
sanzionatorio con limite edittale minimo di otto anni di  reclusione,
pari al doppio del massimo previsto per il reato minore.  Infatti,  a
seguito  della  sentenza  n.  32  del   2014,   che   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 77, secondo
comma, Cost., degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l.  n.  272  del
2005, come convertito, ha ripreso applicazione l'art. 73  del  d.P.R.
n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche apportate  con  le
disposizioni dichiarate incostituzionali, cosi'  dando  luogo  a  una
grave incoerenza sistematica con i commi 5 e 5-bis. 
    1.2.-   L'ordinanza,   quindi,   riferisce   che   il   difensore
dell'imputato, proprio sul presupposto che detto trattamento edittale
e' «rivissuto per effetto dell'intervento della Corte  costituzionale
in un contesto normativo affatto diverso», ha eccepito, sulla  scorta
di analoghi argomenti  gia'  posti  a  sostegno  della  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata dal Tribunale di Rovereto il  3
marzo  2016  (reg.  ord.   n.   100   del   2016),   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 73, comma 1, del d.P.R.  n.  309  del  1990,
chiedendo la sospensione del giudizio in attesa della decisione della
Corte costituzionale. 
    2.- Su tali basi, la Corte d'appello triestina  ha  ritenuto  che
sussistano i presupposti per sollevare le questioni  di  legittimita'
costituzionale, per contrasto  con  gli  artt.  25,  3  e  27  Cost.,
dell'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui
detta disposizione prevede - a seguito della sentenza n. 32 del  2014
- la pena minima edittale di otto anni di reclusione. 
    3.- In  punto  di  rilevanza,  la  Corte  rimettente  afferma  di
condividere la qualificazione  giuridica  del  fatto-reato  data  dal
giudice di primo grado corrispondente al delitto di cui all'art.  73,
comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ostando alla sua  sussumibilita'
nell'ambito della cosiddetta «lieve entita'» una serie  di  elementi,
quali la quantita' di sostanza stupefacente (quasi cento grammi netti
di cocaina), rivelatasi, all'analisi tossicologica, dotata di elevata
percentuale di purezza (57%) e idonea al confezionamento di  ben  375
dosi; le  circostanze  del  traffico,  involgente  fornitori  d'oltre
oceano, con modalita' di trasferimento pianificate  per  impedire  il
rinvenimento dello stupefacente; la condotta dell'imputato, che, dopo
essersi procurato, appena  un  mese  prima,  oltre  cento  grammi  di
cocaina (benche' di peggiore qualita'),  accettava  di  ricevere  una
nuova consistente fornitura; il rinvenimento nella sua abitazione  di
3.700 euro in contanti, verosimilmente non riconducibili a guadagni e
risparmi. 
    4.- In punto di non manifesta infondatezza, la  Corte  rimettente
ha rilevato  il  contrasto  della  norma  censurata  in  relazione  a
distinti parametri costituzionali. 
    4.1.- In primo luogo, l'ordinanza  denuncia  una  violazione  del
principio della riserva di legge in materia penale, di  cui  all'art.
25, secondo comma, Cost.  A  tal  fine,  richiamandosi  all'ordinanza
della Corte di cassazione, sezione sesta penale, del 12 gennaio 2017,
con cui la Suprema Corte  aveva  a  sua  volta  sollevato  un'analoga
questione di legittimita' costituzionale (decisa da questa Corte  con
ordinanza   n.   184   del   2017   nel   senso    della    manifesta
inammissibilita'), la Corte d'appello rimettente rileva che,  proprio
in virtu' del citato principio della riserva di legge, gli interventi
in materia penale volti ad ampliare  le  fattispecie  di  reato  o  a
inasprire  le  sanzioni  appartengono  al  monopolio  esclusivo   del
legislatore, di modo che in tali casi non vi sarebbe spazio di azione
per sentenze manipolative in malam partem della Corte costituzionale.
Di qui la questione di legittimita' costituzionale sul  vigente  art.
73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, volta a ripristinare il piu'
mite trattamento sanzionatorio, gia' introdotto nel 2006,  da  sei  a
venti anni di reclusione. 
    4.2.- In secondo luogo, la Corte rimettente evidenzia il  difetto
di ragionevolezza della dosimetria della pena  prevista  dal  vigente
art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del  1990,  che  emergerebbe  nel
raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto per il  fatto  di
lieve entita' (da sei mesi a quattro anni  di  reclusione)  dall'art.
73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e con quello previsto per  le
cosiddette «droghe  leggere»  (da  due  a  sei  anni  di  reclusione)
dall'art. 73, comma 4,  del  d.P.R.  n.  309  del  1990.  Il  giudice
rimettente  evidenzia  che,  nonostante  la  linea  di   demarcazione
«naturalistica» tra le fattispecie «ordinaria» e «lieve» sia talvolta
non  netta,  il  «confine  sanzionatorio»   dell'una   e   dell'altra
incriminazione  e'  invece  troppo  e,   quindi,   irragionevolmente,
distante (intercorrendo ben quattro anni di  pena  detentiva  fra  il
minimo dell'una e il massimo dell'altra).  Pertanto,  il  trattamento
sanzionatorio sensibilmente diverso tra le fattispecie che si pongono
sul confine tra l'ipotesi lieve e l'ipotesi  ordinaria  determina  un
rapporto non ragionevole con il disvalore della condotta. 
    Su  tali  basi  e'  opinione  del  giudice  rimettente   che   il
riscontrato  iato  sanzionatorio  fra  le  raffrontate   fattispecie,
«ordinaria» e «lieve», sia del tutto irragionevole e in  quanto  tale
oggettivamente contrastante con l'art. 3 Cost.,  anche  tenuto  conto
della sussistenza nell'ordinamento di  ulteriori  norme,  quale  puo'
essere la disposizione punitiva del fatto di lieve entita' (art.  73,
comma 5) o quella riguardante le droghe "leggere" (art. 73, comma 4),
che possono offrire la grandezza predefinita che consente alla  Corte
costituzionale di rimediare  all'irragionevole  commisurazione  della
pena. 
    4.3.-  Connesso  a  quanto  appena  esposto  e'  l'ultimo  motivo
denunciato dalla Corte rimettente, ossia il contrasto del trattamento
sanzionatorio attualmente previsto dall'art. 73, comma 1, del  d.P.R.
n. 309 del 1990 «con il principio di proporzionalita' e il  principio
di colpevolezza e  di  necessaria  finalizzazione  rieducativa  della
pena, riconducibile al disposto degli artt. 3 e 27 Cost.». 
    A tal fine, l'ordinanza richiama la sentenza di questa  Corte  n.
236 del 2016, secondo cui «l'art. 3  Cost.  esige  che  la  pena  sia
proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in  modo  che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed  a  quella  di  tutela  delle   posizioni   individuali».
L'ordinanza richiama anche le pronunce di questa  Corte  n.  251  del
2012 e n. 341 del 1994, onde sostenere  che  la  pena  per  definirsi
giusta e, cosi', svolgere la  funzione  rieducativa  verso  cui  deve
tendere in applicazione dell'art. 27 Cost., va adeguata all'effettiva
responsabilita'   penale,   in   modo   da   assicurare   la    piena
proporzionalita' fra offesa, da una parte,  e  qualita'  e  quantita'
della sanzione,  dall'altra.  Sicche'  una  pena  ingiustificatamente
aspra tradirebbe, al contempo, il principio di proporzionalita' della
pena, sancito dall'art. 3 Cost., e quello della finalita' rieducativa
della stessa, posto dal richiamato art. 27 Cost. 
    4.4.- Alla  luce  di  quanto  sin  qui  esposto,  l'ordinanza  di
rimessione ribadisce che  nell'ordinamento  sono  rinvenibili  misure
della pena che  consentono  alla  Corte  di  emendare  i  vizi  della
disposizione censurata senza sovrapporsi al ruolo  del  Parlamento  e
chiede di rispristinare il trattamento sanzionatorio gia'  introdotto
nel 2006 in modo da ridurre il minimo edittale da otto a sei anni  di
reclusione. 
    5.- Con atto depositato il 26 settembre 2017, e' intervenuto  nel
presente  giudizio  il  Presidente  del   Consiglio   dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, alla  luce
dei principi affermati da questa Corte  nella  sentenza  n.  179  del
2017, secondo cui alla denunciata incongruenza normativa  puo'  porsi
rimedio   attraverso    una    pluralita'    di    soluzioni    tutte
costituzionalmente legittime. 
    A differenza di quanto opinato dal giudice a quo, l'interveniente
ritiene che non possa ritenersi che l'unica soluzione all'uopo idonea
sia  quella  di  rispristinare  il  trattamento  sanzionatorio   gia'
introdotto nel 2006, cosi' riducendo il minimo edittale da otto a sei
anni di reclusione. 
    Pertanto, ravvisata la necessita' di rispettare il primato  delle
valutazioni  del  legislatore  sulla   congruita'   dei   mezzi   per
raggiungere un fine costituzionalmente necessario, il Presidente  del
Consiglio dei ministri conclude  chiedendo  l'inammissibilita'  delle
sollevate questioni di legittimita' costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2017,
la Corte d'appello di Trieste ha sollevato questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 73, comma  1,  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), per contrasto con gli artt.  3,  25  e  27  della
Costituzione, nella parte in cui, per effetto della  sentenza  n.  32
del 2014 di questa Corte, prevede la pena  minima  edittale  di  otto
anni anziche' di quella di sei anni introdotta con l'art.  4-bis  del
decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per  garantire
la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi  invernali,
nonche'   la   funzionalita'    dell'Amministrazione    dell'interno.
Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e
modifiche al testo unico delle leggi in materia di  disciplina  degli
stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza,  di  cui  al
decreto del Presidente della Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309),
convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49. 
    La disposizione censurata punisce con la pena edittale minima  di
otto  anni  di  reclusione  i  casi  "non  lievi"  di   coltivazione,
produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta
o messa  in  vendita,  cessione  o  ricezione,  a  qualsiasi  titolo,
distribuzione,   commercio,   acquisto,   trasporto,    esportazione,
importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o  spedizione
in transito, consegna per qualunque  scopo  o  comunque  di  illecita
detenzione, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e  fuori  dalle
ipotesi previste dall'art. 75 (si tratta  dei  casi  di  destinazione
all'uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle
tabelle I e III previste dall'art. 14 (cosiddette  droghe  "pesanti")
dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990 (d'ora  in  avanti  anche:  Testo
unico sugli stupefacenti). 
    1.1.- La Corte d'appello di Trieste  ritiene  che  la  previsione
della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni
in luogo di quella di sei anni introdotta con l'art. 4-bis  del  d.l.
n. 272 del 2005, come modificato, violi anzitutto  l'art.  25  Cost.,
poiche' il vigente trattamento sanzionatorio sarebbe stato introdotto
nell'ordinamento come conseguenza della sentenza n. 32  del  2014  di
questa Corte, in violazione del principio della riserva di  legge  in
materia penale, in base al quale gli interventi volti a inasprire  le
sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del  legislatore,  senza
che in  tale  ambito  vi  sia  margine  di  azione  per  le  sentenze
manipolative di questa Corte. 
    In secondo luogo, l'ordinanza denuncia una violazione dell'art. 3
Cost. in quanto la disposizione censurata delineerebbe un trattamento
sanzionatorio irragionevole tenuto conto che, nonostante la linea  di
demarcazione «naturalistica» fra la fattispecie «ordinaria»,  di  cui
alla disposizione denunciata, e quella di  «lieve  entita'»,  di  cui
all'art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R. n. 309 del  1990,  non  sia
sempre  netta,  il  «confine  sanzionatorio»  dell'una  e  dell'altra
incriminazione e' invece eccessivamente e, quindi, irragionevolmente,
distante (intercorrendo ben quattro anni di  pena  detentiva  fra  il
minimo dell'una e il massimo dell'altra). 
    Infine,  il   giudice   a   quo   sostiene   che   la   predicata
irragionevolezza contrasterebbe con gli artt. 3 e 27  Cost.,  poiche'
la previsione di una pena ingiustificatamente aspra e  sproporzionata
rispetto alla gravita' del  fatto  ne  pregiudicherebbe  la  funzione
rieducativa. 
    2.- La questione sollevata in riferimento  all'art.  25,  secondo
comma, Cost. non e' ammissibile. 
    L'ordinanza lamenta l'illegittimita' dell'inasprimento della pena
determinatosi in conseguenza della sentenza di questa Corte n. 32 del
2014, in  riferimento  alle  fattispecie  ordinarie  (non  lievi)  di
traffico di stupefacenti, disciplinate dall'art.  73,  comma  1,  del
d.P.R. n. 309 del 1990. Secondo il giudice rimettente, questa  Corte,
intervenendo in materia penale in malam partem,  avrebbe  violato  la
riserva di legge stabilita all'art. 25 Cost. 
    La questione cosi' prospettata si risolve in  una  censura  degli
effetti della sentenza di  questa  Corte  n.  32  del  2014,  di  cui
costituisce un improprio tentativo di impugnazione. In  quanto  tale,
la questione e' inammissibile dato che «[c]ontro le  decisioni  della
Corte costituzionale non e' ammessa alcuna impugnazione»  (art.  137,
terzo comma, Cost.; ex multis, sentenza n. 29 del 1998, ordinanze  n.
184 del 2017, n. 261 del 2016, n. 108 del 2001, n. 461 del  1999,  n.
220 del 1998, n. 7 del 1991, n. 203, n. 93 e n. 27 del  1990,  n.  77
del 1981). 
    Per altro verso, occorre  evidenziare  che  non  trova  riscontro
nella giurisprudenza costituzionale l'assunto da cui muove il giudice
rimettente per cui la riserva di  legge  di  cui  all'art.  25  Cost.
precluderebbe in radice a questa Corte la possibilita' di intervenire
in  materia  penale  con  effetti   meno   favorevoli.   Invero,   la
giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenze
n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), ammette in particolari situazioni
interventi con possibili effetti in malam partem  in  materia  penale
(sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n.  394  del  2006),
restando   semmai   da   verificare    l'ampiezza    e    i    limiti
dell'ammissibilita' di tali interventi nei singoli  casi.  Certamente
il principio della riserva di legge di cui all'art. 25 Cost.  rimette
al legislatore «la scelta dei fatti da  sottoporre  a  pena  e  delle
sanzioni da applicare» (sentenza n. 5 del 2014), ma non  esclude  che
questa Corte possa assumere decisioni il cui effetto in malam  partem
non discende dall'introduzione di nuove norme o  dalla  manipolazione
di norme esistenti,  ma  dalla  semplice  rimozione  di  disposizioni
costituzionalmente illegittime.  In  tal  caso,  l'effetto  in  malam
partem  e'  ammissibile  in  quanto  esso  e'  una  mera  conseguenza
indiretta   della   reductio   ad   legitimitatem   di   una    norma
costituzionalmente  illegittima,   la   cui   caducazione   determina
l'automatica  riespansione  di  altra  norma  dettata  dallo   stesso
legislatore (sentenza n. 236 del 2018). 
    Analogamente, questa Corte, con la sentenza n. 32  del  2014,  ha
dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  degli  artt.  4-bis   e
4-vicies ter del d.l. n. 272 del  2005,  come  convertito,  per  vizi
procedimentali relativi all'art. 77, secondo comma,  Cost.  In  esito
alla dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  del  suddetto
decreto-legge, ha ripreso applicazione l'art. 73 del  d.P.R.  n.  309
del 1990, con effetti in parte piu' miti  e  in  parte  piu'  severi.
QQuesta Corte percio' si e' limitata a rimuovere dall'ordinamento  le
disposizioni costituzionalmente illegittime sottoposte al suo  esame,
nello svolgimento del compito assegnatole dall'art. 134 Cost., mentre
la conseguente configurazione del trattamento sanzionatorio dei reati
in materia  di  stupefacenti  e'  frutto  di  precedenti  scelte  del
legislatore  che  sono  tornate  ad  avere   applicazione   dopo   la
declaratoria di illegittimita' costituzionale di cui alla sentenza n.
32 del 2014 e che sono poi state modificate con il  decreto-legge  20
marzo 2014, n. 36 (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  disciplina
degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura   e
riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza,  di  cui  al
decreto del Presidente della  Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309,
nonche' di impiego dei medicinali),  convertito,  con  modificazioni,
nella legge 16 maggio 2014, n. 79, che ha ridotto il massimo edittale
della pena prevista per  i  fatti  lievi  e  ha  apportato  ulteriori
molteplici  adattamenti  alla  normativa,  conseguenti  alla   citata
sentenza n. 32 del 2014. 
    3.- Le ulteriori censure,  concernenti  l'irragionevolezza  e  la
sproporzione del trattamento sanzionatorio, sollevate con riferimento
agli artt. 3 e 27 Cost., meritano un esame congiunto perche' fra loro
strettamente interconnesse. 
    4.-    L'Avvocatura    generale     dello     Stato     eccepisce
l'inammissibilita' di tali questioni, in considerazione del fatto che
alla denunciata incongruenza normativa puo' porsi rimedio  attraverso
una  pluralita'  di  soluzioni  tutte  costituzionalmente  legittime,
sicche' spetterebbe soltanto al legislatore, e non  a  questa  Corte,
emendare i vizi della disposizione censurata. 
    4.1. - Vero e' che questa Corte finora si e'  sempre  pronunciata
nel senso della  inammissibilita'  delle  questioni  che  sono  state
ripetutamente sollevate in riferimento  all'art.  73,  comma  1,  del
d.P.R. n. 309 del 1990 (sentenze n. 179 del 2017, n. 148 e n. 23  del
2016; ordinanza n. 184 del  2017).  Tuttavia  le  ragioni  che  hanno
finora ostacolato l'esame nel merito non si ravvisano nel  caso  oggi
in esame. 
    Nelle sentenze n. 148 e n. 23 del 2016 le  questioni  sono  state
dichiarate inammissibili per una pluralita' di vizi  delle  ordinanze
di rimessione, tra  i  quali  l'indeterminatezza  del  petitum  e  la
mancata individuazione di un trattamento sanzionatorio alternativo  a
quello in vigore, che consentisse a questa Corte di sanare i vizi  di
costituzionalita' lamentati. Anche nell'ordinanza n. 184 del 2017  la
Corte ha ravvisato negli  atti  introduttivi  molteplici  ragioni  di
inammissibilita' connesse a vizi di rilevanza, a incompletezza  della
ricostruzione del quadro normativo, ad aspetti di  contraddittorieta'
della motivazione, al tentativo di impugnare una pronuncia di  questa
Corte  in  violazione  dell'art.  137,  terzo  comma,  Cost.  e  alla
conseguente pretesa  di  far  rivivere  la  disciplina  sanzionatoria
contenuta   in   una   disposizione   dichiarata   costituzionalmente
illegittima, per vizi del procedimento legislativo ex art. 77 Cost. 
    Diverse e, per alcuni  aspetti  piu'  affini  a  quelle  eccepite
dall'Avvocatura   nel   presente   giudizio,   le   ragioni   sottese
all'inammissibilita' pronunciata nella sentenza n. 179 del  2017.  In
tale decisione questa Corte ha ritenuto di non  poter  esaminare  nel
merito le questioni di legittimita' costituzionale sottoposte al  suo
esame,  perche'  i  giudici  rimettenti   non   avevano   individuato
"soluzioni costituzionalmente obbligate" idonee a rimediare al vulnus
costituzionale denunciato. In  quel  caso,  si  chiedeva  alla  Corte
costituzionale  di  colmare  il  divario  sanzionatorio  tra  le  due
fattispecie di cui ai commi 1 e 5 dell'art. 73, parificando il minimo
edittale previsto per il fatto non lieve al massimo edittale previsto
per il fatto lieve. Questa Corte  ha  escluso  che  debba  «ritenersi
imposto,  dal  punto  di  vista  costituzionale,  che  a  continuita'
dell'offesa debba necessariamente corrispondere  una  continuita'  di
risposta sanzionatoria» (sentenza  n.  179  del  2017),  ben  potendo
sussistere «spazi di discrezionalita'  discontinua»  nel  trattamento
sanzionatorio. Sicche' la richiesta di reductio ad legitimitatem  del
censurato comma 1 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990  attraverso
la parificazione del minimo edittale per il fatto non lieve  da  esso
previsto al massimo edittale (quattro  anni  di  reclusione  ed  euro
10329,00 di multa) comminato per il fatto lieve di cui al  successivo
comma 5, non poteva ritenersi costituzionalmente obbligata. 
    4.2.- Anche l'eccezione di inammissibilita' sollevata  in  questo
giudizio  si  basa  su  ragioni  connesse  all'assenza  di  soluzioni
costituzionalmente obbligate, ma si rivela infondata alla luce  degli
approdi cui e' giunta la piu' recente  giurisprudenza  costituzionale
relativa all'ampiezza e ai limiti  dell'intervento  di  questa  Corte
sulla  misura  delle  sanzioni  penali  stabilite  dal   legislatore,
sviluppatasi segnatamente a partire dalla sentenza n. 236 del 2016. 
    In particolare, con la recente sentenza n. 233 del  2018,  questa
Corte,  dopo  aver  ribadito  che  le  valutazioni  discrezionali  di
dosimetria della pena spettano anzitutto al legislatore, ha precisato
che non sussistono  ostacoli  al  suo  intervento  quando  le  scelte
sanzionatorie   adottate   dal   legislatore   si   siano    rivelate
manifestamente arbitrarie o irragionevoli e  il  sistema  legislativo
consenta l'individuazione di soluzioni, anche alternative  tra  loro,
che siano tali da «ricondurre a coerenza le scelte gia'  delineate  a
tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove
possibile, all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze» (in tal
senso richiamando la sentenza n. 236 del 2016). 
    Similmente, la sentenza n. 222 del 2018 di poco precedente  aveva
gia' ritenuto che al fine di consentire  l'intervento  correttivo  di
questa Corte non e' necessario  che  esista,  nel  sistema,  un'unica
soluzione costituzionalmente vincolata  in  grado  di  sostituirsi  a
quella dichiarata illegittima, come quella  prevista  per  una  norma
avente identica struttura e  ratio,  idonea  a  essere  assunta  come
tertium comparationis, essendo sufficiente che il  «sistema  nel  suo
complesso offra alla Corte "precisi punti di riferimento" e soluzioni
"gia'  esistenti"  (sentenza  n.  236  del  2016)»,   ancorche'   non
"costituzionalmente  obbligate",  «che   possano   sostituirsi   alla
previsione sanzionatoria dichiarata illegittima». 
    In  definitiva,  fermo  restando  che  non  spetta   alla   Corte
determinare autonomamente la misura della pena (sentenza n.  148  del
2016),   l'ammissibilita'    delle    questioni    di    legittimita'
costituzionale  che  riguardano  l'entita'  della  punizione  risulta
condizionata  non  tanto  dalla  presenza   di   un'unica   soluzione
costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza  nel  sistema  di
previsioni  sanzionatorie  che,  trasposte  all'interno  della  norma
censurata,  garantiscano  coerenza   alla   logica   perseguita   dal
legislatore (sentenza n. 233 del 2018). Nel rispetto delle scelte  di
politica sanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate,
occorre, infatti, evitare che  l'ordinamento  presenti  zone  franche
immuni dal sindacato di legittimita' costituzionale proprio in ambiti
in cui e' maggiormente impellente l'esigenza di assicurare una tutela
effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la  liberta'
personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore. 
    Alla luce di tali principi, le questioni prospettate dalla  Corte
d'appello di Trieste superano il  vaglio  di  ammissibilita',  avendo
individuato  nell'ordinamento  quale   soluzione   costituzionalmente
adeguata, benche' non obbligata, l'abbassamento del  minimo  edittale
per il fatto previsto dal comma 1 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309  del
1990 da otto a sei anni, misura a suo tempo prevista dall'art.  4-bis
del d.l. n. 272 del 2005 e tuttora in vigore, come pena  massima,  ai
sensi del comma 4 dell'art. 73 del d.P.R. n.  309  del  1990  per  la
fattispecie ordinaria delle droghe "leggere" di cui alle tabelle II e
IV previste dall'art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990, come  sostituito
dall'art.  1,  comma  3,  del  citato  d.l.  n.  36  del  2014,  come
convertito. 
    4.3.-  D'altra  parte,  l'intervento  di  questa  Corte  non   e'
ulteriormente  differibile,  posto  che  e'  rimasto  inascoltato  il
pressante  invito  rivolto  al   legislatore   affinche'   procedesse
«rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalita'
del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura  che  separa  le
pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e
1 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990», anche  in  considerazione
«dell'elevato numero dei giudizi,  pendenti  e  definiti,  aventi  ad
oggetto reati in materia di stupefacenti» (sentenza n. 179 del 2017). 
    Da ultimo,  ma  non  per  importanza,  deve  aggiungersi  che  la
questione in esame attiene a diritti fondamentali, che non  tollerano
ulteriori compromissioni, ragion per  cui  reiterate  sono  state  le
richieste di intervento rivolte a questa Corte dai giudici di  merito
e di legittimita'. 
    5.- Nel merito le questioni sono fondate. 
    Questa  Corte  ha  gia'  avuto  modo  di   evidenziare   che   la
divaricazione di ben quattro anni venutasi a  creare  tra  il  minimo
edittale di pena previsto dal comma 1 dell'art. 73 del d.P.R. n.  309
del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello
stesso  articolo  «ha  raggiunto  un'ampiezza  tale  da   determinare
un'anomalia sanzionatoria» (sentenza n. 179 del  2017)  all'esito  di
una articolata evoluzione legislativa e giurisprudenziale che occorre
richiamare per sommi capi. 
    5.1.-  L'originario  art.  73  del  d.P.R.  n.   309   del   1990
differenziava  il  trattamento  sanzionatorio  dei  reati  aventi  ad
oggetto le droghe "pesanti" (puniti al comma 1 con la  reclusione  da
otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati  aventi
ad oggetto le droghe "leggere" (puniti al comma 4 con  la  reclusione
da due a sei anni e con la multa). La stessa distinzione  tra  droghe
"pesanti" e "leggere" era riproposta  anche  per  i  fatti  di  lieve
entita', in relazione ai quali  il  comma  5  del  medesimo  art.  73
stabiliva un'attenuante ad effetto  speciale  cosiddetta  autonoma  o
indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i  fatti
concernenti le droghe "pesanti" e da sei mesi a quattro  anni  quelli
relativi  alle  droghe  "leggere",  oltre  alle  rispettive  sanzioni
pecuniarie. 
    Il d.l. n.  272  del  2005,  con  l'art.  4-bis  (poi  dichiarato
costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32 del 2014), aveva
soppresso la distinzione fondata sul tipo di  sostanza  stupefacente,
comminando la pena della reclusione da sei a venti anni  e  la  multa
per i fatti non lievi, nonche' la pena della reclusione da uno a  sei
anni e la multa per i casi in cui fosse applicabile l'attenuante  del
fatto di lieve entita'. 
    Con l'art. 2, comma 1, lettera a), del  successivo  decreto-legge
23 dicembre 2013, n. 146  (Misure  urgenti  in  tema  di  tutela  dei
diritti fondamentali dei detenuti e di  riduzione  controllata  della
popolazione carceraria), convertito, con modificazioni,  nella  legge
21 febbraio 2014, n. 10, e' stato sostituito il comma 5 dell'art. 73,
trasformando la circostanza attenuante del fatto di lieve entita'  in
fattispecie autonoma di reato e riducendo il limite edittale  massimo
della pena detentiva  da  sei  a  cinque  anni  di  reclusione.  Tale
modifica non e' stata intaccata dalla sentenza  n.  32  del  2014,  a
seguito della quale hanno ripreso vigore le disposizioni dell'art. 73
nella originaria formulazione. 
    Infine, il legislatore e' tornato nuovamente sulla  materia,  con
il d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n.
79 del 2014, che tra l'altro, all'art. 1, comma 24-ter,  lettera  a),
ha ulteriormente diminuito il massimo edittale  della  pena  prevista
per il fatto di  lieve  entita',  fissandolo  nella  misura  di  anni
quattro di reclusione oltre la multa. 
    E' a seguito di questa stratificazione di interventi  legislativi
e giurisprudenziali che si e' progressivamente scavata  la  lamentata
profonda frattura che separa il trattamento sanzionatorio  del  fatto
di non lieve  entita'  da  quello  del  fatto  lieve,  senza  che  il
legislatore  abbia  provveduto  a   colmarla   nonostante   i   gravi
inconvenienti applicativi che  essa  puo'  determinare,  come  questa
Corte ha rilevato nelle sue precedenti pronunce in materia. 
    5.2.- Anche se il costante orientamento della Corte di cassazione
e' nel senso che la fattispecie di lieve entita' di cui all'art.  73,
comma 5, puo'  essere  riconosciuta  solo  nella  ipotesi  di  minima
offensivita'  penale  della  condotta,  deducibile   sia   dal   dato
qualitativo e quantitativo,  sia  dagli  altri  parametri  richiamati
dalla disposizione  (ex  multis,  da  ultimo,  Corte  di  cassazione,
sezione settima penale, ordinanza 24  gennaio-12  febbraio  2019,  n.
6621; Corte di  cassazione,  sezione  settima  penale,  ordinanza  20
dicembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3350; Corte di cassazione,  sezione
quarta penale, sentenza 13 dicembre 2018-18 gennaio 2019,  n.  2312),
indubitabilmente molti casi si collocano in  una  "zona  grigia",  al
confine  fra  le  due  fattispecie  di  reato,  il  che   rende   non
giustificabile  l'ulteriore  permanenza  di  un  cosi'   vasto   iato
sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri  che
il minimo edittale del fatto di non lieve entita' e' pari  al  doppio
del  massimo  edittale  del  fatto  lieve.  L'ampiezza  del   divario
sanzionatorio condiziona inevitabilmente la  valutazione  complessiva
che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la  lieve
entita' del fatto (ritenuta doverosa da Corte di cassazione,  sezioni
unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n.  51063),  con
il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive,  in  eccesso  o  in
difetto, oltre che a  irragionevoli  difformita'  applicative  in  un
numero rilevante di condotte. 
    Ne  deriva   la   violazione   dei   principi   di   eguaglianza,
proporzionalita', ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,  oltre  che
del principio di rieducazione della pena di cui all'art. 27 Cost. 
    Infatti, come questa Corte ha  chiaramente  affermato  ancora  di
recente nella sentenza n. 222 del 2018, allorche' le  pene  comminate
appaiano manifestamente sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  del
fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e
27 Cost., giacche' una pena non proporzionata alla gravita' del fatto
si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa  (ex  multis,
sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del  2012  e  n.  341  del  1994).  I
principi di cui agli artt. 3 e 27  Cost.  «esigono  di  contenere  la
privazione della liberta' e la sofferenza inflitta alla persona umana
nella misura minima necessaria e sempre allo scopo  di  favorirne  il
cammino di recupero,  riparazione,  riconciliazione  e  reinserimento
sociale» (sentenza  n.  179  del  2017)  in  vista  del  «progressivo
reinserimento armonico della persona nella societa', che  costituisce
l'essenza  della  finalita'  rieducativa»  della  pena  (da   ultimo,
sentenza n. 149 del 2018).  Al  raggiungimento  di  tale  impegnativo
obiettivo  posto  dai  principi   costituzionali   e'   di   ostacolo
l'espiazione  di  una  pena  oggettivamente  non  proporzionata  alla
gravita' del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e
inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo
rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere. 
    5.3.- Alla stregua delle considerazioni che precedono,  non  puo'
essere ulteriormente differito l'intervento di questa Corte, chiamata
a porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali  evocati,
con  conseguente  accoglimento  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990  nei
termini in cui sono prospettate  dal  giudice  rimettente,  il  quale
chiede che sia dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione, nella parte in cui prevede un minimo edittale  di  otto
anni, anziche' di sei anni di reclusione. 
    La misura della pena  individuata  dal  rimettente,  benche'  non
costituzionalmente obbligata, non e'  tuttavia  arbitraria:  essa  si
ricava   da    previsioni    gia'    rinvenibili    nell'ordinamento,
specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria  dei  reati
in materia di stupefacenti, e si  colloca  in  tale  ambito  in  modo
coerente alla logica perseguita dal legislatore. 
    Il giudice rimettente, infatti, trae l'indicazione  della  misura
della pena minima per i fatti non lievi  anzitutto  dalla  previsione
introdotta con l'art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 per  i  medesimi
fatti, che ancora conserva viva traccia applicativa  nell'ordinamento
in considerazione degli effetti non retroattivi della sentenza n.  32
del 2014. Inoltre, sei anni e' altresi' la pena massima - a cui  pure
fa riferimento l'ordinanza di rimessione - prevista dal vigente comma
4 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti  di  non  lieve
entita' aventi ad oggetto le sostanze di cui alle  tabelle  II  e  IV
previste dal richiamato art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990. Sempre in
sei anni il legislatore aveva altresi' individuato  la  pena  massima
per i fatti di lieve entita' concernenti le droghe "pesanti", vigente
il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come
limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l.
n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione  tra
droghe "pesanti" e droghe "leggere". 
    In una parola,  la  pena  di  sei  anni  e'  stata  ripetutamente
indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti "di  confine",
che nell'articolato e complesso sistema punitivo dei  reati  connessi
al traffico di stupefacenti si pongono  al  margine  inferiore  delle
categorie di reati piu' gravi o a quello  superiore  della  categoria
dei reati meno gravi. In tale contesto, e' appropriata  la  richiesta
di ridurre a sei anni di reclusione la pena minima per i fatti di non
lieve entita' di cui al comma 1 dell'art. 73 del d.P.R.  n.  309  del
1990,  al  fine  di  porre  rimedio   ai   vizi   di   illegittimita'
costituzionale  denunciati.  Il   giudice   rimettente   ha   infatti
individuato  -  secondo  i  criteri  elaborati  dalla  giurisprudenza
costituzionale piu'  recente  -  una  previsione  sanzionatoria  gia'
rinvenibile nell'ordinamento che, trasposta all'interno  della  norma
censurata, si situa  coerentemente  lungo  la  dorsale  sanzionatoria
prevista dai vari commi dell'art. 73 del d.P.R. n.  309  del  1990  e
rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore  (sentenza
n. 233 del 2018). 
    E' appena il  caso  di  osservare  che  la  misura  sanzionatoria
indicata, non costituendo una opzione  costituzionalmente  obbligata,
resta soggetta a un diverso apprezzamento da  parte  del  legislatore
sempre nel rispetto del principio di  proporzionalita'  (sentenza  n.
222 del 2018). 
      
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 73,  comma  1,
del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre  1990,  n.  309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza),  nella  parte  in  cui  in  cui
prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto
anni anziche' di sei anni. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Marta CARTABIA, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria l'8 marzo 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA