N. 63 SENTENZA 20 febbraio - 21 marzo 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Sanzioni  amministrative -  Modifiche  alla  parte  V   del   decreto
  legislativo n. 58 del 1998 - Applicazione alle violazioni  commesse
  dopo l'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione  adottate
  dalla CONSOB  e  dalla  Banca  d'Italia  -  Abuso  di  informazioni
  privilegiate. 
- Decreto  legislativo  12  maggio  2015,  n.  72  (Attuazione  della
  direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga
  le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l'accesso
  all'attivita' degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli
  enti creditizi  e  sulle  imprese  di  investimento.  Modifiche  al
  decreto  legislativo  1°  settembre  1993,  n.  385  e  al  decreto
  legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), art. 6, comma 2. 
-   
(GU n.13 del 27-3-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, 
  
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 2,
del decreto legislativo 12  maggio  2015,  n.  72  (Attuazione  della
direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE  e  abroga
le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto  concerne  l'accesso
all'attivita' degli enti creditizi e la vigilanza  prudenziale  sugli
enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al  decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e  al  decreto  legislativo  24
febbraio 1998, n. 58), promosso dalla Corte  di  appello  di  Milano,
sezione prima civile, nel  procedimento  vertente  tra  G.  P.  e  la
Commissione nazionale per  le  societa'  e  la  borsa  (CONSOB),  con
ordinanza del 19 marzo 2017, iscritta al n. 87 del registro ordinanze
2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  25,
prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visti gli atti di costituzione di G. P. e della  CONSOB,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  5  febbraio  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi gli avvocati Andrea Giussani per G. P., Paolo  Palmisano  e
Salvatore Providenti per la CONSOB e  l'avvocato  dello  Stato  Paolo
Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del  19  marzo  2017,  la  Corte  d'appello  di
Milano, sezione prima civile, ha sollevato, in  riferimento  all'art.
77  (recte:  76)  della  Costituzione,  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 6,  comma  2,  del  decreto  legislativo  12
maggio 2015,  n.  72  (Attuazione  della  direttiva  2013/36/UE,  che
modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive  2006/48/CE  e
2006/49/CE, per quanto concerne l'accesso  all'attivita'  degli  enti
creditizi e la vigilanza prudenziale sugli  enti  creditizi  e  sulle
imprese  di  investimento.  Modifiche  al  decreto   legislativo   1°
settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998,  n.
58), «nella parte in cui ha modificato le sanzioni  di  cui  all'art.
187 bis» del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico
delle disposizioni in  materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai
sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n.  52)  «in
attuazione dell'art. 3, comma 1, letter[e] i) e  l),  della  legge  7
ottobre 2014, n. 154» (Delega al Governo  per  il  recepimento  delle
direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea  -
Legge di delegazione europea 2013 - secondo semestre). 
    Con la medesima ordinanza,  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art.
7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 6,  comma  2,  del
d.lgs. n. 72 del 2015, «nella parte in cui ha modificato le  sanzioni
di cui all'art. 187 bis» del d.lgs. n. 58 del 1998, «nella  parte  in
cui ha modificato le sanzioni di cui all'art. 187 bis»  del  medesimo
decreto legislativo «in attuazione dell'art. 3 della legge delega  n.
154/2014, escludendo la retroattivita' in mitius della normativa piu'
favorevole prevista dall'art. 6, comma 3» del d.lgs. n. 72 del 2015. 
    1.1.- Il Collegio rimettente espone anzitutto di essere investito
della opposizione  proposta  da  G.  P.  avverso  la  delibera  della
Commissione nazionale per le societa' e la borsa  (CONSOB)  n.  19659
del 6 luglio 2016, che aveva irrogato nei suoi confronti una sanzione
amministrativa pecuniaria pari a 100.000 euro, unitamente alla misura
interdittiva accessoria di due  mesi  di  sospensione  dall'esercizio
dell'attivita' e alla pubblicazione, per estratto, della delibera nel
Bollettino della CONSOB, per l'illecito amministrativo  di  abuso  di
informazioni privilegiate di cui  all'allora  vigente  art.  187-bis,
comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, integrato  -  secondo
la prospettazione della CONSOB - dall'invio di una e-mail da parte di
G. P. alla propria consorte, in calce alla quale  era  illustrato  un
piano di rafforzamento patrimoniale della societa' presso la quale lo
stesso G. P. lavorava, reso pubblico al mercato soltanto un mese piu'
tardi. 
    Accanto ad altre doglianze, il ricorrente G. P. aveva dedotto  la
violazione, da parte della CONSOB, dell'art. 6, comma 3,  del  d.lgs.
n. 72 del 2015, che  esclude  l'applicazione  della  quintuplicazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal  d.lgs.  n.  58
del 1998, stabilita dall'art. 39, comma 3, della  legge  28  dicembre
2005,  n.  262  (Disposizioni  per  la  tutela  del  risparmio  e  la
disciplina dei mercati  finanziari).  Conseguentemente,  la  sanzione
minima a lui applicabile avrebbe dovuto essere pari a 20.000 euro, in
luogo dei 100.000 euro effettivamente irrogatigli. 
    La  CONSOB  aveva,  tuttavia,   eccepito   che   all'applicazione
dell'art. 6, comma 3,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015,  invocato  dal
ricorrente, ostava il disposto del comma 2 del medesimo articolo, che
espressamente esclude  l'applicazione  retroattiva  in  mitius  delle
modifiche al trattamento sanzionatorio degli  illeciti  previsti  dal
d.lgs. n. 58 del 1998, introdotte dallo stesso d.lgs. n. 72 del 2015.
Alla medesima conclusione si sarebbe dovuti d'altra parte  pervenire,
secondo la CONSOB, in forza della disciplina generale delle  sanzioni
amministrative  stabilita  dalla  legge  24  novembre  1981,  n.  689
(Modifiche  al  sistema  penale),  che  non  prevede   l'applicazione
retroattiva delle modifiche sanzionatorie piu' favorevoli. 
    1.2.- La Corte d'appello rimettente dubita, in primo luogo, della
legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 77  (recte:  76)
Cost., dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, «nella  parte
in cui ha modificato le sanzioni di  cui  all'art.  187  bis  TUF  in
attuazione dell'art. 3, comma 1, lettere i) e l) della  legge  delega
n. 154/2014». 
    Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata costituirebbe
l'attuazione del criterio indicato nell'art. 3, comma 1, lettera  m),
numero 1), della legge n. 154 del 2014, che delegava il Governo, «con
riferimento alla  disciplina  sanzionatoria  adottata  in  attuazione
delle lettere i) e l)», a «valutare l'estensione  del  principio  del
favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento  in
cui e' stata commessa la violazione». Le lettere i) e  l),  peraltro,
non menzionerebbero l'art. 187-bis tra le «norme da riformulare sotto
il profilo  delle  sanzioni»;  cio'  che  profilerebbe  un  possibile
eccesso di delega. 
    In ogni caso, a parere della Corte rimettente «il Governo,  dando
attuazione alla legge delega  sopra  citata,  avrebbe  dovuto  meglio
valutare l'opportunita' di estendere il principio del favor  rei  con
riguardo alla disciplina sanzionatoria della fattispecie di "abuso di
informazioni     privilegiate"     in     questione,      esercitando
discrezionalmente  un  potere  che  gli  era  stato   conferito   dal
legislatore delegante». 
    1.3.- Il  giudice  a  quo  dubita,  inoltre,  della  legittimita'
costituzionale dello stesso art. 6, comma 2, del  d.lgs.  n.  72  del
2015, «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di  cui  all'art.
187 bis TUF  [...]  escludendo  la  retroattivita'  in  mitius  della
normativa piu' favorevole  prevista  dall'art.  6,  comma  3»,  dello
stesso d.lgs. n. 72 del 2015, in riferimento  agli  artt.  3  e  117,
primo comma Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU. 
    1.3.1.-  Tali  questioni  sarebbero,  anzitutto,  rilevanti   dal
momento che l'invocata declaratoria di illegittimita'  costituzionale
comporterebbe  la  possibilita'  di  irrogare   nei   confronti   del
ricorrente   G.   P.,   ove   ritenuto   responsabile   dell'illecito
ascrittogli, la sanzione piu' mite di 20.000 euro, in luogo di quella
di 100.000 determinata dalla CONSOB. 
    1.3.2.- Sotto il profilo della non manifesta  infondatezza  delle
questioni in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.,  la  Corte
rimettente osserva che, secondo  un  consolidato  orientamento  della
Corte europea dei diritti dell'uomo, le garanzie stabilite dalla CEDU
«si  applicano  a  tutti  i  precetti  di  carattere   afflittivo   a
prescindere  dalla   loro   qualificazione   come   sanzioni   penali
nell'ordinamento di provenienza» (sono richiamate le  sentenze  della
Corte EDU 8 giugno  1976,  Engel  e  altri  contro  Paesi  Bassi;  27
settembre 2011, Menarini Diagnostics srl contro  Italia;  e  4  marzo
2014, Grande Stevens e altri contro Italia). 
    Anche la sanzione di cui  si  controverte  nel  giudizio  a  quo,
secondo la Corte rimettente, avrebbe natura "punitiva", essendo posta
a tutela dei mercati finanziari e perseguendo  prevalentemente  scopi
deterrenti e  punitivi  mediante  la  comminatoria  di  una  sanzione
severa, in particolare ove si consideri il massimo applicabile. 
    Dall'affermata natura "punitiva" della sanzione discenderebbe,  a
parere del giudice a quo, la sua necessaria soggezione  al  principio
di legalita' dei reati e  delle  pene  ai  sensi  dell'art.  7  CEDU;
principio   che   contempla   tra   i   propri   corollari,   secondo
l'interpretazione offertane dalla  Corte  EDU,  anche  la  necessaria
retroattivita' della legge penale piu' favorevole entrata  in  vigore
successivamente alla  commissione  del  fatto.  Di  qui,  secondo  il
rimettente, la violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione, appunto, all'art. 7 CEDU. 
    1.3.3.- D'altra parte, la «scelta di non ricorrere  al  principio
della retroattivita' del trattamento  sanzionatorio  piu'  favorevole
con riferimento alle sanzioni previste dall'art. 187-bis del TUF,  di
natura sostanzialmente  penale»  porrebbe  altresi'  «un  consistente
dubbio sulla compatibilita' di detto regime con l'art. 3 Cost. e  con
i principi di uguaglianza e di ragionevolezza». 
    Rammentata la  giurisprudenza  di  questa  Corte  in  materia  di
retroattivita' in mitius della legge  penale,  e  in  particolare  il
criterio  secondo  cui  solo  gravi  motivi  di  interesse   generale
potrebbero  giustificare,  al  metro  dell'art.  3  Cost.,  eventuali
deroghe a tale principio, il Collegio  rimettente  osserva  che  «nel
caso in esame, non sarebbe ravvisabile  alcuna  giustificazione,  men
che meno di rango costituzionale, tale da legittimare  il  sacrificio
del trattamento piu' favorevole previsto dall'art. 6, comma 3 del  D.
Lgs. 72/2015. Difatti, nonostante nella legge delega  fosse  indicata
detta possibilita' nella materia de qua, risulta  alquanto  difficile
ravvisare  una  ratio  alla  scelta  fatta  in  senso   opposto   dal
legislatore delegato». 
    La Corte di appello evidenzia, in proposito, come il legislatore,
in plurime disposizioni relative a sanzioni amministrative in materia
tributaria e valutaria e di responsabilita' degli  enti,  abbia  piu'
volte in passato contemplato la retroattivita' della lex  mitior:  ad
esempio nell'art. 23-bis aggiunto al d.P.R. 31  marzo  1988,  n.  148
(Approvazione del  testo  unico  delle  norme  di  legge  in  materia
valutaria) dall'art. l, comma 2, della legge 7 novembre 2000, n.  326
(Modifiche al testo unico approvato con decreto del Presidente  della
Repubblica 31 marzo 1988, n. 148,  in  materia  di  sanzioni  per  le
violazioni  valutarie);  nell'art.  3  del  decreto  legislativo   18
dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia  di  sanzioni
amministrative  per  le  violazioni  di  norme  tributarie,  a  norma
dell'articolo 3. comma 133, della legge 23 dicembre  1996,  n.  662);
nell'art. 46 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 (Riordino
del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della  delega
prevista dalla legge 28 settembre 1998,  n.  337);  nell'art.  3  del
decreto  legislativo  8  giugno  200l,  n.  231   (Disciplina   della
responsabilita'  amministrativa  delle  persone   giuridiche,   delle
societa' e delle associazioni anche prive di personalita'  giuridica,
a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300). 
    In mancanza tuttavia di una espressa disposizione che  conferisca
effetto  retroattivo  alla  nuova   disciplina   sanzionatoria   piu'
favorevole - e anzi in presenza di  una  esplicita  disposizione  che
condiziona   la   sua   applicazione   all'adozione   di   specifiche
disposizioni  di  attuazione  da  parte  della  CONSOB  -  la   Corte
rimettente ritiene, in conformita' a quanto stabilito dalla Corte  di
cassazione, sezione prima civile, nella sentenza  2  marzo  2016,  n.
4114,  di  non  potere   essa   stessa   procedere   all'applicazione
retroattiva del nuovo quadro sanzionatorio discendente  dall'art.  6,
comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015. 
    Il giudice a quo richiama, altresi', la sentenza n. 193 del  2016
di  questa  Corte,  che  ha  ritenuto  infondata  una  questione   di
legittimita' costituzionale, parimenti sollevata in riferimento  agli
artt. 3 e 117, primo comma, Cost., dell'art. 1 della legge n. 689 del
1981, nella parte in cui non  prevede  la  retroattivita'  in  mitius
nella generale disciplina dell'illecito  amministrativo.  Osserva  il
rimettente che, in quell'occasione, questa Corte ha escluso che dalla
giurisprudenza della Corte EDU sia ricavabile  l'affermazione  di  un
vincolo di matrice convenzionale  in  ordine  alla  previsione  negli
ordinamenti dei singoli Stati del  principio  di  retroattivita'  con
riferimento alla generalita' delle sanzioni amministrative, dovendosi
piuttosto  procedere  a  una  preventiva  valutazione  della  singola
sanzione come «convenzionalmente penale»  alla  luce  dei  cosiddetti
criteri Engel. La questione ora prospettata, tuttavia, si riferirebbe
«unicamente  a  una  previsione  normativa  di  carattere  certamente
afflittivo», la cui  mancata  applicazione  retroattiva  «non  appare
ragionevole»;  e  cio'  anche  alla  luce  della  considerazione  che
«l'insider trading  e'  un  illecito  civile  che  ha  anche  rilievo
penale»,  di  talche'  non  vi  sarebbero  «ragioni   per   escludere
l'applicazione della legge piu' favorevole in tale  specifico  campo,
come e' avvenuto per le violazioni tributarie». 
    1.3.4.-  Il  contrasto   con   i   parametri   costituzionali   e
convenzionali  invocati,  peraltro,  «non  potrebbe  essere   risolto
ricorrendo a un'interpretazione conforme alla Convenzione  EDU  e  ai
parametri costituzionali, in quanto e' riscontrabile una  consolidata
giurisprudenza di legittimita' che in piu' occasioni ha  ribadito  la
non applicabilita'  del  principio  della  retroattivita'  della  lex
mitior al  settore  degli  illeciti  amministrativi»;  giurisprudenza
fondata  «sul  rifiuto  generalizzato  di  un'applicazione  analogica
dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche alla luce dell'art.  14»
delle Preleggi. 
    1.3.5.- Osserva infine la Corte rimettente  che  la  disposizione
censurata, una volta riconosciutene la natura sostanzialmente penale,
parrebbe «in netto contrasto anche con il principio di  cui  all'art.
49 della Carta dei  diritti  fondamentali  dell'Unione  europea»,  il
quale stabilisce che  «[s]e,  successivamente  alla  commissione  del
reato, la legge  prevede  l'applicazione  di  una  pena  piu'  lieve,
occorre applicare quest'ultima». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato. 
    2.1.- Ad avviso dell'interveniente,  la  questione  sollevata  in
relazione all'art. 77 (recte:  76)  Cost.  sarebbe  inammissibile  e,
comunque, infondata. 
    2.1.1.- Anzitutto, la questione sarebbe irrilevante, in quanto la
disposizione oggetto del dubbio di  legittimita'  costituzionale  non
sarebbe applicabile al caso oggetto del processo a quo. 
    Cio' in quanto il  regime  intertemporale  dettato  dall'art.  6,
comma 2,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015  riguarderebbe  soltanto  le
modifiche direttamente apportate  dal  medesimo  decreto  legislativo
alle disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998, e non gia' la previsione
- contenuta nell'art. 6, comma  3,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015  -
dell'inapplicabilita'   della   quintuplicazione    delle    sanzioni
amministrative pecuniarie, disposta  dall'art.  39,  comma  3,  della
legge n. 262 del 2005. Tale quintuplicazione  -  rileva  l'Avvocatura
generale dello Stato - non si sarebbe mai  tradotta  in  una  diretta
modifica delle sanzioni stabilite dal d.lgs.  n.  58  del  1998,  dal
momento che il suo ambito applicativo si estende anche alle  sanzioni
previste dal decreto legislativo 1° settembre  1993,  n.  385  (Testo
unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e dalla legge  12
agosto 1982, n. 576 (Riforma della  vigilanza  sulle  assicurazioni).
L'inapplicabilita' della quintuplicazione delle sanzioni previste dal
d.lgs. n. 58 del 1998, stabilita dal comma 3 dell'art. 6  del  d.lgs.
n. 72 del 2015, non potrebbe, pertanto, essere qualificata  come  una
delle «modifiche apportate alla parte V del  decreto  legislativo  24
febbraio 1998, n. 58» cui si riferisce il comma  2,  in  questa  sede
censurato. 
    Il regime intertemporale della disciplina di cui al  comma  3  si
fonderebbe, pertanto, non gia' sul precedente  comma  2,  bensi'  sul
«generale principio di irretroattivita' della legge di  cui  all'art.
11 disp. prel. cod. civ.», che  comunque  osterebbe  all'applicazione
retroattiva  del  piu'  favorevole  regime  sanzionatorio   derivante
dall'inapplicabilita' della quintuplicazione delle sanzioni. 
    Di qui l'irrilevanza della questione. 
    2.1.2.- La questione sarebbe, comunque, infondata nel merito.  La
previsione   dell'inapplicabilita',   in    via    generale,    della
quintuplicazione delle sanzioni previste dal d.lgs. n.  58  del  1998
costituirebbe, infatti, una  coerente  attuazione  del  principio  di
delega fissato dall'art. 3, comma 1, lettera i), numero  1.2),  della
legge n. 154 del 2014, che dava mandato  al  Governo  di  rivedere  i
minimi e i massimi delle sanzioni  in  modo  tale  che  «la  sanzione
applicabile alle persone fisiche sia compresa tra un minimo di  5.000
euro e un massimo di 5 milioni di euro» (lettera i, numero 1.2.2). 
    La  disposizione  censurata,  pertanto,  non  solo  non   avrebbe
ecceduto i confini della legge di delegazione,  ma  anzi  ne  avrebbe
costituito puntuale attuazione. 
    2.2.- Parimenti inammissibili, e comunque  infondate,  sarebbero,
ad avviso dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,  le  questioni  di
legittimita' costituzionale formulate in riferimento agli artt.  3  e
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU. 
    2.2.1.-  Le  questioni  sarebbero  anzitutto  inammissibili   dal
momento che la  disposizione  che  rende  non  retroattiva  la  nuova
disciplina  sanzionatoria  risultante   dall'inapplicabilita'   della
quintuplicazione delle sanzioni amministrative in forza dell'art.  6,
comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015 non sarebbe il censurato  art.  6,
comma 2,  del  medesimo  decreto  legislativo,  bensi'  il  principio
generale sancito dall'art. 11 delle Preleggi. 
    2.2.2.- Le questioni sarebbero, comunque, infondate nel merito. 
    Ad avviso  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  Collegio
rimettente  intenderebbe  applicare  il  principio  del   favor   rei
all'intero ambito delle sanzioni  amministrative  dal  t.u.  finanza,
travalicando in tal modo l'obbligo discendente dall'art. 7 CEDU,  che
riguarderebbe invece  -  come  sottolineato  da  questa  Corte  nella
sentenza  n.  193  del  2016  -  «singole  e  specifiche   discipline
sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi  come
amministrative ai sensi dell'ordinamento  interno,  siano  idonee  ad
acquisire  caratteristiche  "punitive"  alla  luce   dell'ordinamento
convenzionale». 
    La  questione  sarebbe,  d'altra  parte,   infondata   anche   in
riferimento all'art. 3 Cost.  La  legge  di  delega  aveva,  infatti,
prescritto al legislatore  delegato  di  «valutare  l'estensione  del
principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina  vigente
al momento in cui e' stata commessa la violazione» (art. 3, comma  1,
lettera m, numero 1, della legge n. 154  del  2014):  il  legislatore
delegato disponeva dunque di ampia  discrezionalita'  nell'orientarsi
in un senso o nell'altro. Sarebbe stato, allora, onere del giudice  a
quo dimostrare in modo concreto e specifico,  al  metro  dell'art.  3
Cost.,  la  manifesta  irragionevolezza  della  scelta,  operata  dal
legislatore, di non estendere tale principio  alle  nuove  piu'  miti
sanzioni introdotte con il d.lgs. n. 72 del 2015.  L'inosservanza  di
tale onere renderebbe la questione anche inammissibile,  per  difetto
di motivazione. 
    2.3.- Inammissibile sarebbe, infine,  la  questione  relativa  al
possibile contrasto con l'art.  49,  paragrafo  1,  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,
contrasto  che  avrebbe  potuto  semmai  formare  oggetto  di  rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. 
    Nel  merito,  tale  questione  sarebbe  comunque  infondata,  dal
momento  che  anche  alla  stregua  del  diritto  dell'Unione,   come
interpretato dalla  Corte  di  Lussemburgo,  le  sanzioni  in  esame,
introdotte in adempimento  di  obblighi  comunitari,  conserverebbero
valore amministrativo e non penale. 
    In ogni caso, secondo i principi affermati  nella  giurisprudenza
della Corte di giustizia UE, l'apparato sanzionatorio  amministrativo
per gli abusi di mercato dovrebbe pur sempre essere caratterizzato da
adeguatezza,   dissuasivita',   effettivita'   e    proporzionalita'.
Conseguentemente, il principio della retroattivita' della lex  mitior
sancito dall'art.  49,  paragrafo  1,  CDFUE  non  potrebbe  comunque
«condurre a soluzioni che siano tali da privare di effetto  utile  le
norme  dell'Unione  applicate  nei  procedimenti   che   vengono   in
considerazione; o  a  soluzioni  manifestamente  sproporzionate  (per
eccesso  o  per  difetto)  rispetto  agli  interessi  che  le   norme
dell'Unione applicate in quei procedimenti  mirano  a  tutelare».  Di
talche', ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, «in linea di
principio,  l'articolo  49  CDFUE  non  osta  alla  previsione  della
irretroattivita'  della   lex   mitior   in   materia   di   sanzioni
amministrative  quando  cio'  sia  necessario  [ad]  assicurare   una
risposta effettiva, proporzionata e dissuasiva per le  violazioni  di
rilevanti interessi dell'Unione»; e cio' in quanto  il  principio  di
cui all'art. 49 della Carta  sarebbe  «indubbiamente  riservato  alle
sole sanzioni qualificabili come penali». 
    3.- Si e' costituita la CONSOB, deducendo  l'inammissibilita'  e,
comunque, l'infondatezza delle questioni di legittimita'  prospettate
dalla Corte di appello di Milano. 
    3.1.- La prima questione di legittimita' costituzionale  sarebbe,
sotto piu' profili, inammissibile, in  quanto  formulata  in  termini
dubitativi  e  perplessi,  tanto   da   determinare   ambiguita'   ed
indeterminatezza del petitum. 
    Inconferente  nella  specie  si  rivelerebbe,  in   effetti,   il
censurato  art.  6,  comma  2,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015   che,
contrariamente  a  quanto  opinato  dalla   Corte   rimettente,   non
recherebbe  alcuna  disposizione  in   materia   sanzionatoria,   non
modificando - in particolare - il trattamento sanzionatorio  per  gli
abusi di mercato. La norma denunciata non  si  porrebbe  comunque  in
contrasto con alcun criterio di delega, limitandosi a prevedere -  in
conformita' ai principi  generali  vigenti  in  materia  di  illeciti
amministrativi, e al principio  generale  posto  dall'art.  11  delle
Preleggi - l'efficacia soltanto per il futuro della nuova disciplina,
che il  legislatore  avrebbe  oltre  tutto  ragionevolmente  posposto
all'entrata in vigore della disciplina regolamentare di attuazione da
parte della CONSOB e della Banca d'Italia. 
    La questione sarebbe, infine, inammissibile  anche  per  «carenza
assoluta di motivazione sulla rilevanza». 
    3.2.-   Quanto   alla   seconda   questione    di    legittimita'
costituzionale  sollevata  dal  Collegio  rimettente,  essa   sarebbe
inammissibile e, comunque, infondata. 
    3.2.1.- Anzitutto, si tratterebbe  di  questione  irrilevante  ai
fini della decisione. L'art. 6, comma 2, del d.lgs. n.  72  del  2015
non sarebbe, infatti, una norma che regola il quantum  sanzionatorio,
ma  solo  una  disposizione  transitoria  che,  tenuto  conto   della
necessita'  di  interventi  attuativi  di  matrice   secondaria,   ha
differito  l'entrata  in  vigore  della  novella  fino   al   momento
dell'emanazione degli stessi. 
    L'irretroattivita' - e, dunque,  l'inapplicabilita'  al  caso  di
specie -  della  regola  della  "dequintuplicazione"  delle  sanzioni
amministrative pecuniarie, stabilita dall'art. 6, comma 3, del d.lgs.
n. 72 del 2015, non dipenderebbe dalla disposizione censurata, bensi'
da principi generali, che non abbisognano di espressa  specificazione
normativa e che derivano dall'art. 11 delle Preleggi  e  dall'art.  1
della legge n. 689 del 1981. 
    3.2.2.- Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata,  dal
momento che - come ripetutamente affermato  dalla  giurisprudenza  di
legittimita' e da quella amministrativa, nonche' dalla giurisprudenza
della stessa Sezione di Corte  d'appello  rimettente  -  non  sarebbe
ravvisabile, in tema di sanzioni amministrative, un vincolo di natura
costituzionale che comporti, in modo generalizzato, la retroattivita'
delle disposizioni piu' favorevoli entrate in vigore  successivamente
alla commissione del fatto. Ne'  un  tale  vincolo  potrebbe  dedursi
dalla giurisprudenza  della  Corte  EDU,  la  cui  qualificazione  in
termini "punitivi" di taluni illeciti in materia di abusi di  mercato
resterebbe pur sempre circoscritta ai  casi  specifici  di  volta  in
volta esaminati, e sarebbe in ogni caso da intendere - come precisato
dalla giurisprudenza di legittimita' (Corte  di  cassazione,  sezione
seconda civile, sentenza 5 ottobre 2015, n. 19865)  -  ai  soli  fini
della garanzia del processo  equo  di  cui  all'art.  6  CEDU,  senza
potersi estendere automaticamente al principio del favor rei. 
    L'infondatezza   della    questione    discenderebbe,    inoltre,
dall'inesistenza di idonei tertia  comparationis  atti  a  dimostrare
l'illegittimita' della mancata estensione del principio del favor rei
alla disciplina dell'illecito amministrativo di cui e' causa,  quelli
menzionati dal rimettente essendo costituiti  da  norme  esse  stesse
derogatorie rispetto ai principi generali, e  del  tutto  disomogenee
rispetto a quella di cui e' causa:  come  tali,  dunque,  inidonee  a
supportare la tesi di un esercizio «palesemente irragionevole»  della
discrezionalita' legislativa nel  determinare  se  stabilire  o  meno
l'applicazione  retroattiva  delle   modifiche   sanzionatorie   piu'
favorevoli in materia di illeciti amministrativi. 
    4.- Si e' costituito, altresi', l'opponente G. P., a  parere  del
quale l'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015 costituirebbe  una
disposizione transitoria speciale derogatoria alla regola generale di
cui all'art. 1 della legge n. 689 del 1981. 
    Conseguentemente, G. P. ha  chiesto,  in  via  alternativa,  alla
Corte costituzionale: a) di «dichiarare, con sentenza  interpretativa
di    accoglimento,     l'illegittimita'     costituzionale     della
interpretazione dell'art. 6, comma 2 e/o comma 3, del D.Lgs. 72/2015,
che non preveda l'estensione del principio del favor rei ai  casi  di
modifica della disciplina vigente al momento in cui e' stata commessa
la violazione  ogni  qualvolta  non  vi  osti  uno  specifico  valore
costituzionale  almeno  equivalente  chiaramente  individuato»,   per
contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., in relazione agli artt. 7 CEDU
e 49 CDFUE; ovvero, b) di «dichiarare l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 6, comma 2 e/o comma 3, del  D.Lgs.  72/2015,  [...]  nella
parte in cui, nell'attuare il disposto dell'art. 3,  comma  1,  lett.
m), n. 1) della L. 7 ottobre 2014, n. 154, non  prevede  l'estensione
del principio del favor rei ai  casi  di  modifica  della  disciplina
vigente al momento in  cui  e'  stata  commessa  la  violazione  ogni
qualvolta non vi osti  uno  specifico  valore  costituzionale  almeno
equivalente chiaramente  individuato»,  per  «eccesso  di  delega  in
violazione dell'art. 77 Cost.»; ovvero,  ancora,  c)  di  «dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 2 e/o comma 3, del
D.Lgs. 72/2015, nella parte  in  cui  non  prevede  l'estensione  del
principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina  vigente
al momento in cui e' stata commessa la violazione ogni qualvolta  non
vi  osti  uno  specifico  valore  costituzionale  almeno  equivalente
chiaramente individuato», per contrasto con gli artt. 3 e 117  Cost.,
in relazione agli artt. 7 CEDU e 49 CDFUE. 
    5.- In prossimita' dell'udienza, lo stesso G.  P.  ha  depositato
memoria,  nella  quale  ha  analiticamente  confutato  gli  argomenti
spiegati  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  e  dalla   CONSOB,
reiterando poi le conclusioni gia'  formulate  nel  proprio  atto  di
costituzione. 
    6.- Anche l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria
nella quale, ribadite le eccezioni svolte nell'atto di intervento, ha
in particolare rilevato che, nelle more  del  presente  giudizio,  e'
entrato in vigore il decreto legislativo  10  agosto  2018,  n.  107,
recante  «Norme  di  adeguamento  della  normativa   nazionale   alle
disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di
mercato  e  che  abroga  la  direttiva  2003/6/CE  e   le   direttive
2003/124/UE,  2003/125/CE  e  2004/72/CE»,   che   ha   ulteriormente
modificato   le   sanzioni   edittali   previste    per    l'illecito
amministrativo di cui all'art. 187-bis del d.lgs.  n.  58  del  1998.
Cio' comporterebbe, ad avviso dell'Avvocatura generale  dello  Stato,
che la portata della pronuncia sulla questione sollevata dalla  Corte
di appello di Milano sara' limitata all'arco temporale nel quale sono
state applicabili le disposizioni del d.lgs. n. 72 del 2015. 
    7.- Infine, anche la CONSOB ha depositato memoria in  prossimita'
dell'udienza, nella quale ha essa pure posto l'accento sulla  novella
rappresentata dal d.lgs. n. 107 del 2018; novella  che  peraltro,  ad
avviso della CONSOB, non muterebbe sul piano  sostanziale  i  termini
delle questioni poste dal giudice rimettente, e in particolare  della
seconda questione. Cio' in quanto il  nuovo  limite  edittale  minimo
della sanzione pecuniaria prevista per l'illecito  amministrativo  di
cui all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, pari a  20.000  euro,
coincide con quello  risultante  dalla  "dequintuplicazione"  operata
dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015;  di  talche',  anche
nell'ipotesi di una restituzione degli atti  al  giudice  a  quo  per
esame dello ius superveniens, sarebbe del  tutto  agevole  ipotizzare
che il giudice a quo sollevi identica questione con riferimento  alla
nuova disciplina, nella parte in cui non e'  prevista  l'applicazione
retroattiva in favore di chi abbia commesso il fatto sotto il  vigore
della disciplina vigente prima dell'entrata in vigore del  d.lgs.  n.
72 del 2015. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte  d'appello  di
Milano ha sollevato, in riferimento all'art.  77  (recte:  76)  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  6,
comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015,  n.  72  (Attuazione
della direttiva 2013/36/UE, che modifica la  direttiva  2002/87/CE  e
abroga le direttive 2006/48/CE  e  2006/49/CE,  per  quanto  concerne
l'accesso  all'attivita'  degli  enti  creditizi   e   la   vigilanza
prudenziale sugli enti creditizi e  sulle  imprese  di  investimento.
Modifiche al decreto legislativo 1°  settembre  1993,  n.  385  e  al
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella parte in  cui  ha
modificato  le  sanzioni  di  cui  all'art.   187-bis   del   decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico  delle  disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli  8
e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) in attuazione  dell'art.  3,
comma 1, lettere i) e l), della legge delega 7 ottobre 2014,  n.  154
(Delega al Governo per  il  recepimento  delle  direttive  europee  e
l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione
europea 2013 - secondo semestre). 
    Con  la  stessa  ordinanza,  la  Corte  d'appello  di  Milano  ha
sollevato altresi' - in riferimento agli artt. 3 e 117, primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 - questioni di legittimita'
costituzionale del medesimo art. 6, comma 2, del  d.lgs.  n.  72  del
2015, nella parte in cui tale disposizione «ha modificato le sanzioni
di cui all'art. 187 bis» del d.lgs. n. 58  del  1998  «in  attuazione
dell'art.  3  della  legge  delega   n.   154/2014,   escludendo   la
retroattivita' in mitius della  normativa  piu'  favorevole  prevista
dall'art. 6, comma 3» del d.lgs. n. 72 del 2015. 
    2.-  Ai  fini  della  valutazione  dell'ammissibilita'  e   della
fondatezza delle questioni prospettate, e'  opportuna  una  sintetica
ricapitolazione delle  vicende  normative  che  ne  costituiscono  lo
sfondo. 
    2.1.- L'abuso di informazioni privilegiate fu per la prima  volta
previsto quale delitto nell'ordinamento italiano con l'art. 2,  comma
1, della legge 17 maggio 1991, n.  157  (Norme  relative  all'uso  di
informazioni riservate nelle operazioni in valori  mobiliari  e  alla
Commissione nazionale per le societa' e la borsa), in  attuazione  di
obblighi imposti, a livello comunitario, dalla  direttiva  89/592/CEE
del  Consiglio,  del  13  novembre  1989,  sul  coordinamento   delle
normative concernenti le operazioni effettuate da persone in possesso
di informazioni privilegiate (insider trading). Tale delitto conflui'
poi, con importanti modificazioni, nell'art. 180 del t.u. finanza, di
cui al d.lgs. n. 58 del 1998. 
    In sede di trasposizione della direttiva 2003/6/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa  all'abuso  di
informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi  di
mercato)  -  attuata  mediante  la  legge  18  aprile  2005,  n.   62
(Disposizioni    per    l'adempimento    di    obblighi     derivanti
dall'appartenenza   dell'Italia   alle   Comunita'   europee.   Legge
comunitaria 2004), con la quale fu tra  l'altro  modificato  il  t.u.
finanza del 1998 -  all'abuso  di  informazioni  privilegiate  furono
dedicate due nuove disposizioni del  novellato  testo  unico:  l'art.
184, che continuo' a configurare la condotta come delitto,  sia  pure
in una versione modificata rispetto  alla  disciplina  previgente;  e
l'art. 187-bis, che introdusse una sino ad allora inedita  figura  di
illecito amministrativo di abuso di  informazioni  privilegiate,  dai
confini  piu'   ampi   rispetto   alla   corrispondente   fattispecie
delittuosa,  e  punita  con  sanzioni  amministrative  pecuniarie  da
ventimila a tre milioni di euro, aumentabili - ai sensi del  comma  5
dello stesso articolo - fino al triplo o fino al maggiore importo  di
dieci volte il  prodotto  o  il  profitto  conseguito  dall'illecito,
quando esse apparissero inadeguate anche se  applicate  nel  massimo,
avuto  riguardo  alle  qualita'  personali   del   colpevole   ovvero
all'entita' del prodotto o del profitto conseguito. 
    2.2.- Pochi mesi dopo,  sull'onda  di  noti  scandali  finanziari
medio tempore verificatisi, l'art. 39 della legge 28  dicembre  2005,
n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina  dei
mercati  finanziari)  stabili'  in  via  generale,  al  comma  1,  il
raddoppio delle pene stabilite  per  i  reati  previsti  dal  decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo  unico  delle  leggi  in
materia bancaria e creditizia), dal t.u. finanza  e  dalla  legge  12
agosto 1982, n. 576 (Riforma della vigilanza sulle assicurazioni),  e
al comma 5 - per quanto in  questa  sede  direttamente  rileva  -  la
quintuplicazione  di  tutte  le  sanzioni  amministrative  pecuniarie
previste in tali corpora normativi. 
    Per effetto di tale riforma, dunque, la  sanzione  amministrativa
pecuniaria  prevista  per  l'illecito  amministrativo  di  abuso   di
informazioni privilegiate, di cui all'art. 187-bis del d.lgs.  n.  58
del 1998, fu innalzata a centomila  euro  nel  minimo  e  a  quindici
milioni di euro nel massimo. 
    2.3.- Nove anni piu' tardi, la legge n. 154 del 2014  delego'  il
Governo a rivedere le  cornici  edittali  delle  sanzioni  pecuniarie
amministrative previste dal t.u. bancario e dal t.u. finanza (art. 3,
comma 1, lettere i e m), con il compito, tra gli altri, di  «valutare
l'estensione del principio del favor rei ai casi  di  modifica  della
disciplina vigente al momento in cui e' stata commessa la violazione»
(art. 3, comma 1, lettera m, numero 1). 
    In sede di attuazione della delega, l'art. 6, comma 3, del d.lgs.
n. 72 del 2015 dispose che «[a]lle sanzioni  amministrative  previste
dal decreto legislativo 24 febbraio  1998,  n.  58,  non  si  applica
l'articolo 39, comma 3, della legge 28 dicembre 2005, n. 262»: con un
effetto, dunque, di ripristino della cornice edittale originariamente
stabilita dalla legge n. 62 del 2005 per gli illeciti  amministrativi
da  essa  previsti,  al  netto  della  quintuplicazione   introdotta,
appunto, dalla legge n. 262 del 2005. 
    Per effetto dunque dell'art. 6, comma 3, del  d.lgs.  n.  72  del
2015, l'illecito amministrativo previsto dall'art. 187-bis del d.lgs.
n.  58  del  1998  tornava  a  essere   punito   con   una   sanzione
amministrativa pecuniaria da ventimila a tre milioni di  euro,  salva
la possibilita' di procedere agli aumenti di cui  al  comma  5  dello
stesso art. 6. 
    L'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015  -  in  questa  sede
censurato - stabili', tuttavia, che «[l]e  modifiche  apportate  alla
parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano
alle violazioni commesse dopo l'entrata in vigore delle  disposizioni
adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia  secondo  le  rispettive
competenze [...].  Alle  violazioni  commesse  prima  della  data  di
entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla  Consob  e  dalla
Banca d'Italia continuano ad applicarsi le norme della  parte  V  del
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della  data
di entrata in vigore del presente decreto legislativo». 
    In  tal  modo,  il  legislatore  delegato  non  soltanto  escluse
implicitamente che alle modifiche apportate alla  Parte  V  (relativa
alle disposizioni sanzionatorie)  del  t.u.  finanza  potesse  essere
attribuita efficacia retroattiva rispetto  ai  fatti  commessi  prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n.  72  del  2015,  ma  addirittura
rinvio'  l'applicabilita'  delle  nuove   disposizioni   al   momento
dell'entrata in vigore dei regolamenti che la  Banca  d'Italia  e  la
Commissione nazionale per le societa' e la borsa  (CONSOB)  avrebbero
dovuto adottare in forza del decreto legislativo medesimo. 
    Tali regolamenti furono, in effetti, adottati dalla CONSOB con la
delibera 24 febbraio 2016, n. 19521  (Modifiche  al  regolamento  sul
procedimento sanzionatorio della Consob  ai  sensi  dell'articolo  24
della legge 28 dicembre 2005, n. 262, adottato con delibera n.  18750
del 19 dicembre 2013 e successive modificazioni),  che  modifico'  il
vigente  regolamento  sul  procedimento  sanzionatorio  della  stessa
CONSOB, e poi dalla Banca d'Italia con  provvedimento  del  3  maggio
2016, che parimenti modifico' il proprio procedimento sanzionatorio. 
    2.4.- Successivamente alla proposizione dell'odierna questione di
legittimita'    costituzionale,    la    disciplina     dell'illecito
amministrativo in parola e' stata nuovamente modificata dall'art.  4,
comma 9, del decreto legislativo 10  agosto  2018,  n.  107,  recante
«Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del
regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di  mercato  e  che
abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE
e 2004/72/CE», che - in attuazione della legge 25  ottobre  2017,  n.
163 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive  europee  e
l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione
europea 2016 - 2017) -  ha  adeguato  la  legislazione  nazionale  al
regolamento (UE) n. 596/2014, modificando ulteriormente,  per  quanto
in questa sede rileva, l'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. 
    In particolare, la disposizione novellata  descrive  le  condotte
costitutive  dell'illecito  (ridenominato  «Abuso   e   comunicazione
illecita di informazioni privilegiate»)  attraverso  un  mero  rinvio
alle ipotesi indicate  nell'art.  14  del  predetto  regolamento  UE,
disponendo poi  che  tali  condotte  siano  punite  con  la  sanzione
amministrativa pecuniaria da ventimila  a  cinque  milioni  di  euro,
aumentabili fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci  volte
il  profitto  conseguito  ovvero  le  perdite  evitate  per   effetto
dell'illecito, nei casi  previsti  dal  comma  5  dello  stesso  art.
187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. 
    A  seguito  di  tali   ultime   modifiche,   dunque,   l'illecito
amministrativo   in   parola   resta   punibile   con   la   sanzione
amministrativa pecuniaria minima di ventimila euro, mentre il massimo
edittale e' ora innalzato a cinque milioni di euro (salvi gli aumenti
nei casi previsti dal comma 5). 
    3.-  La  Corte  d'appello  di  Milano  dubita,  anzitutto,  della
compatibilita' dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72  del  2015  con
l'art. 77 Cost., con riferimento alla disciplina della legge  n.  154
del 2014.  All'evidenza,  la  Corte  rimettente  intende  in  realta'
riferirsi al  parametro  costituzionale  rappresentato  dall'art.  76
Cost., e denunciare dunque un possibile eccesso di  delega  da  parte
del Governo. 
    Come correttamente eccepito dalla CONSOB, la questione  e'  pero'
inammissibile,  in  ragione  dell'oscurita'  del  petitum   e   della
contraddittorieta' della motivazione:  vizi  da  ritenere  assorbenti
rispetto a quelli ulteriori eccepiti dall'Avvocatura  generale  dello
Stato. 
    Il giudice a quo censura infatti - nel dispositivo dell'ordinanza
di rimessione - l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del  2015  «nella
parte in cui ha modificato le sanzioni di cui all'art. 187 bis TUF in
attuazione dell'art. 3, comma 1, lettera i) e l) della  legge  delega
n. 154/2014». 
    Tuttavia, l'art. 6, comma 2, censurato non  modifica  affatto  le
sanzioni di cui all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58  del  1998,  ma  si
limita,  come  gia'  si  e'  rammentato  (supra,   punto   2.3.),   a
disciplinare il regime intertemporale delle modifiche introdotte  dal
d.lgs. n. 72 del 2015 all'intera Parte V del d.lgs. n. 58  del  1998.
Inconferenti sono, pertanto, i  criteri  di  delega  menzionati,  che
concernono la revisione della disciplina sanzionatoria degli illeciti
previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998. 
    L'unico significato plausibile della  censura  potrebbe,  allora,
riferirsi alla  scelta  compiuta  dal  legislatore  di  modificare  -
attraverso l'art. 6, comma  3,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015  -  la
disciplina sanzionatoria dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998;
e cio' al di fuori  -  in  ipotesi  -  del  mandato  contenuto  nelle
precedenti lettere i) e l). Tuttavia, da un lato una  simile  lettura
della censura si  porrebbe  in  aperta  distonia  rispetto  al  senso
complessivo dell'ordinanza di  rimessione,  che  mira  ad  assicurare
l'applicabilita', nel caso oggetto del procedimento a quo,  del  piu'
mite quadro sanzionatorio introdotto dall'art. 6,  comma  3,  la  cui
legittimita' sotto il  profilo  della  compatibilita'  con  la  legge
delega verrebbe cosi' - contraddittoriamente  -  a  essere  posta  in
discussione; dall'altro lato, ove fosse cosi'  intesa,  la  questione
apparirebbe  comunque  viziata  da  aberratio   ictus,   in   ragione
dell'espressa indicazione da  parte  del  rimettente,  quale  oggetto
della censura, del comma 2 (anziche' del comma  3)  dell'art.  6  del
d.lgs. n. 72 del 2015. 
    4.- Le altre questioni sollevate della Corte d'appello di  Milano
concernono la legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma  2,  del
d.lgs. n. 72 del 2015, in riferimento  agli  artt.  3  e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU. 
    4.1.- Anche in questo caso, il giudice rimettente incorre  in  un
errore  nella  formulazione  del  petitum,  censurando  il  comma   2
dell'art. 6 del d.lgs. n.  72  del  2015,  «nella  parte  in  cui  ha
modificato le sanzioni di cui all'art. 187  bis»  del  t.u.  finanza,
quando invece la modificazione del quadro sanzionatorio in parola  e'
stata operata - come appena osservato - dal comma 3 del medesimo art.
6. 
    Dal tenore  complessivo  dell'ordinanza  di  rimessione  risulta,
peraltro, evidente che il giudice a quo intende in realta'  sollevare
questioni   di   legittimita'   costituzionale   della   disposizione
transitoria contenuta nel censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72
del  2015,  che  differisce  l'entrata  in  vigore  delle   modifiche
apportate al regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte
V del t.u. finanza al momento dell'emanazione dei  regolamenti  della
Banca d'Italia e della CONSOB, delimitando  peraltro  tali  questioni
alle sole modifiche che hanno avuto ad oggetto le  sanzioni  previste
dall'art. 187-bis del medesimo testo unico (le uniche, del resto,  su
cui il rimettente e' chiamato a pronunciarsi). 
    Il petitum dell'ordinanza di rimessione deve, dunque,  rettamente
intendersi  come  mirante  alla   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale della disposizione  transitoria  di  cui  all'art.  6,
comma 2, del d.lgs. n. 72 del  2015,  nella  sola  parte  in  cui  si
riferisce alle modifiche apportate alle sanzioni  previste  dall'art.
187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998; modifiche che  il  giudice  a  quo
vorrebbe, invece, si applicassero  anche  alle  violazioni  pregresse
ancora sub iudice, in forza del principio di retroattivita' della lex
mitior in  materia  penale  sotteso  ai  parametri  costituzionali  e
convenzionali evocati. 
    4.2.- Tanto l'Avvocatura generale dello Stato  quanto  la  CONSOB
hanno eccepito l'inammissibilita' anche di questo secondo  gruppo  di
questioni in quanto, a loro avviso, il particolare regime transitorio
introdotto dal censurato comma 2 dell'art. 6 del  d.lgs.  n.  72  del
2015 non si  applicherebbe  alla  regola  della  "dequintuplicazione"
delle sanzioni disposta dal comma 3 del medesimo  articolo,  e  cioe'
alla regola che neutralizza gli effetti della quintuplicazione  delle
sanzioni, operata a suo tempo dall'art. 39, comma 3, della  legge  n.
262 del 2005, per  gli  illeciti  amministrativi  previsti  dal  t.u.
finanza  (supra,  punti  2.2.  e   2.3.).   Da   cio'   discenderebbe
l'irrilevanza della questione nel giudizio a quo, in cui si discute -
appunto - della possibilita' di  sanzionare  l'opponente  sulla  base
delle sanzioni previste dall'art. 187-bis del d.lgs. n. 58  del  1998
al netto della quintuplicazione operata dalla legge n. 262 del 2005. 
    L'eccezione e', tuttavia, infondata. 
    Il rimettente muove evidentemente dalla premessa  interpretativa,
del tutto plausibile, che il comma 2 dell'art. 6 del d.lgs. n. 72 del
2015,  dettando  una  disciplina  transitoria  per  «[l]e   modifiche
apportate alla parte V del decreto legislativo 24 febbraio  1998,  n.
58» dalle altre disposizioni dello stesso  d.lgs.  n.  72  del  2015,
abbia inteso abbracciare anche la modifica, apportata dal  successivo
comma 3, alla disciplina sanzionatoria degli illeciti previsti  dalla
Parte V del t.u. finanza:  e  cioe'  la  modifica  consistente  nella
"dequintuplicazione" delle sanzioni amministrative previste, appunto,
nella Parte V del testo unico, nella  quale  e'  collocata  anche  la
disciplina  sanzionatoria  dell'abuso  di  informazioni  privilegiate
(art. 187-bis) che in questa sede viene in considerazione. 
    Nella prospettiva interpretativa del rimettente, dunque, anche la
regola della "dequintuplicazione" prevista dal comma 3 soggiace  alla
disciplina transitoria stabilita dal censurato comma  2  dell'art.  6
del d.lgs. n. 72 del 2015, risultando cosi' applicabile soltanto alle
violazioni commesse  dopo  l'entrata  in  vigore  delle  disposizioni
adottate dalla CONSOB e dalla Banca d'Italia sulla base dello  stesso
d.lgs. n. 72 del 2015, e inapplicabile  invece  ai  fatti  pregressi,
come quello contestato all'opponente nel giudizio a quo. 
    Tanto basta a considerare rilevanti, e pertanto ammissibili sotto
questo profilo, le questioni aventi ad oggetto l'art. 6, comma 2, del
d.lgs. n. 72 del 2015, prospettate in riferimento agli artt. 3 e 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU. 
    4.3.  -  Una  seconda  eccezione  di  inammissibilita'  di   tali
questioni, sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato, concerne i
poteri di questa Corte di sindacare eventuali  profili  di  contrasto
della disciplina  censurata  con  le  disposizioni  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007:
profili evocati nella parte motiva dell'ordinanza, ove si  sottolinea
tra l'altro l'incompatibilita' della disciplina  transitoria  dettata
dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n 72 del 2015 con  il  principio  di
necessaria retroattivita' delle norme penali piu' favorevoli  sancito
dall'art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE. 
    Nemmeno questa eccezione, tuttavia, coglie nel segno. 
    Anche a prescindere dal rilievo che l'art. 49, paragrafo 1, CDFUE
non e' richiamato nel dispositivo dell'ordinanza di  rimessione,  ove
il giudice a quo ha inteso formulare in termini chiari  e  definitivi
le questioni sottoposte all'esame di questa Corte, occorre in  questa
sede ribadire -  sulla  scorta  dei  principi  gia'  affermati  nelle
sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 - che a  questa  Corte  non
puo'  ritenersi  precluso  l'esame  nel  merito  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri
interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale,  sia
- per il tramite degli artt. 11 e 117,  primo  comma,  Cost.  -  alle
norme corrispondenti della Carta  che  tutelano,  nella  sostanza,  i
medesimi diritti; e cio' fermo restando il potere del giudice  comune
di procedere egli  stesso  al  rinvio  pregiudiziale  alla  Corte  di
giustizia UE, anche dopo  il  giudizio  incidentale  di  legittimita'
costituzionale, e - ricorrendone i presupposti -  di  non  applicare,
nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame,  la  disposizione
nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. 
    Laddove pero' sia stato lo stesso giudice comune a sollevare  una
questione di legittimita' costituzionale che coinvolga anche le norme
della Carta, questa Corte non potra' esimersi,  eventualmente  previo
rinvio pregiudiziale alla Corte di  giustizia  UE,  dal  fornire  una
risposta a tale questione con  gli  strumenti  che  le  sono  propri:
strumenti  tra  i  quali  si  annovera  anche  la  dichiarazione   di
illegittimita'  costituzionale   della   disposizione   ritenuta   in
contrasto con la Carta (e pertanto con gli  artt.  11  e  117,  primo
comma, Cost.), con  conseguente  eliminazione  dall'ordinamento,  con
effetti erga omnes, di tale disposizione. 
    Da cio' consegue l'ammissibilita', anche  sotto  questo  profilo,
delle questioni prospettate. 
    5.- Prima di esaminare il merito di tali questioni,  e'  peraltro
necessario vagliare la possibile rilevanza nel giudizio a  quo  dello
ius superveniens rappresentato dal d.lgs. n. 107 del 2018, su cui  si
sono soffermate le parti  nelle  memorie  depositate  in  prossimita'
dell'udienza e nella discussione orale. 
    Come gia' rammentato (supra, punto 2.4.), l'art. 4, comma 9,  del
d.lgs.  n.  107  del  2018  ha  nuovamente   modificato   il   quadro
sanzionatorio previsto dall'art. 187-bis del d.lgs. n. 58  del  1998,
in particolare tenendo fermo il minimo edittale di ventimila euro, ma
innalzando il massimo da tre a  cinque  milioni  di  euro,  salva  la
possibilita' di ulteriori aumenti nei casi previsti dal comma 5 dello
stesso art. 187-bis. 
    Nulla ha disposto, pero',  il  legislatore  del  2018  in  merito
all'applicazione nel tempo  della  nuova  disciplina,  facendo  cosi'
ritenere che  abbia  inteso  assegnarle  efficacia  soltanto  per  il
futuro. Cio' esclude  che  sia  necessario  restituire  gli  atti  al
giudice a quo. 
    6.- Nel  merito,  le  questioni  sono  fondate,  in  relazione  a
entrambi i parametri invocati dal rimettente. 
    Il principio della retroattivita' della  lex  mitior  in  materia
penale e' infatti fondato, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
tanto sull'art. 3 Cost., quanto sull'art. 117,  primo  comma,  Cost.,
eventuali  deroghe  a  tale  principio  dovendo  superare  un  vaglio
positivo di ragionevolezza in relazione alla necessita'  di  tutelare
controinteressi di  rango  costituzionale  (infra,  punto  6.1.).  Il
principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni
amministrative che abbiano natura "punitiva" (infra, punto 6.2.).  Le
sanzioni  amministrative  previste  per   l'abuso   di   informazioni
privilegiate di cui all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998  hanno
natura "punitiva", e rientrano come tali nell'ambito di  applicazione
del principio della retroattivita' in mitius (infra, punto 6.3.).  La
deroga alla retroattivita' in mitius stabilita dall'art. 6, comma  2,
del d.lgs. n. 72 del 2015,  qui  censurato,  non  supera  il  "vaglio
positivo  di  ragionevolezza"  ed  e',  pertanto,  costituzionalmente
illegittima, nella parte in cui  esclude  l'applicazione  retroattiva
delle modifiche in  mitius  apportate  alle  sanzioni  amministrative
previste per l'illecito di abuso di informazioni privilegiate di  cui
all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (infra, punto 6.4.). 
    6.1.-  Secondo  la  costante  giurisprudenza  di   questa   Corte
(sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n.  393  del  2006),  la
regola della retroattivita' della lex mitior in materia penale non e'
riconducibile alla sfera  di  tutela  dell'art.  25,  secondo  comma,
Cost.,  che  sancisce  piuttosto  il   principio   -   apparentemente
antinomico - secondo cui «[n]essuno puo'  essere  punito  se  non  in
forza di una  legge  che  sia  entrata  in  vigore  prima  del  fatto
commesso». 
    Tale principio deve, invero, essere  interpretato  nel  senso  di
vietare  l'applicazione  retroattiva  delle  sole  leggi  penali  che
stabiliscano  nuove   incriminazioni,   ovvero   che   aggravino   il
trattamento sanzionatorio gia' previsto per  un  reato,  non  ostando
cosi'  a  una  possibile  applicazione  retroattiva  di  leggi   che,
all'opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il
trattamento sanzionatorio gia' previsto per un reato.  L'applicazione
retroattiva della lex  mitior  non  puo',  pero',  ritenersi  imposta
dall'art. 25, secondo comma, Cost., la cui ratio immediata  e'  -  in
parte qua - quella di  tutelare  la  liberta'  di  autodeterminazione
individuale,  garantendo  al   singolo   di   non   essere   sorpreso
dall'inflizione di una sanzione penale per  lui  non  prevedibile  al
momento della commissione del fatto. Una simile garanzia non e' posta
in discussione  dall'applicazione  di  una  norma  penale,  pur  piu'
gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque
in vigore al momento del fatto: e cio' «per l'ovvia ragione che,  nel
caso considerato, la lex  mitior  sopravviene  alla  commissione  del
fatto, al quale l'autore si  era  liberamente  autodeterminato  sulla
base del pregresso (e per lui meno  favorevole)  panorama  normativo»
(sentenza n. 394 del 2006). 
    Cionondimeno, la regola dell'applicazione retroattiva  della  lex
mitior in  materia  penale  -  sancita,  a  livello  di  legislazione
ordinaria, dall'art. 2, secondo, terzo e  quarto  comma,  del  codice
penale - non e' sprovvista di fondamento  costituzionale:  fondamento
che la costante giurisprudenza di questa Corte ravvisa anzitutto  nel
principio di eguaglianza di cui all'art. 3  Cost.,  «che  impone,  in
linea di massima, di  equiparare  il  trattamento  sanzionatorio  dei
medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano  stati
commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto
l'abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n.  394  del
2006). Cio' in quanto, in via generale,  «[n]on  sarebbe  ragionevole
punire (o continuare a punire piu' gravemente)  una  persona  per  un
fatto  che,  secondo  la  legge  posteriore,  chiunque   altro   puo'
impunemente commettere (o per il quale  e'  prevista  una  pena  piu'
lieve)» (sentenza n. 236 del 2011). 
    La riconduzione della retroattivita' della lex mitior in  materia
penale all'alveo dell'art. 3 Cost. anziche' a  quello  dell'art.  25,
secondo comma, Cost., segna pero'  anche  il  limite  della  garanzia
costituzionale  della  quale  la   regola   in   parola   costituisce
espressione. Mentre, infatti, l'irretroattivita' in peius della legge
penale costituisce un «valore assoluto  e  inderogabile»,  la  regola
della retroattivita'  in  mitius  della  legge  penale  medesima  «e'
suscettibile  di  limitazioni   e   deroghe   legittime   sul   piano
costituzionale,  ove  sorrette  da   giustificazioni   oggettivamente
ragionevoli» (sentenza n. 236 del 2011). 
    Il criterio di valutazione della legittimita'  costituzionale  di
eventuali deroghe legislative alla retroattivita' della lex mitior in
materia penale, alla stregua dell'art. 3 Cost., e' stato  oggetto  di
approfondita analisi da parte di questa Corte nella sentenza  n.  393
del 2006. In quell'occasione, la Corte osservo' che la retroattivita'
in mitius della legge penale e' ormai affermata non solo,  a  livello
di legislazione ordinaria, dall'art.  2  cod.  pen.,  ma  trova  ampi
riconoscimenti nel diritto internazionale e nel  diritto  dell'Unione
europea. La retroattivita' della lex mitior in materia penale  e'  in
particolare enunciata tanto dall'art. 15, comma 1, terzo periodo, del
Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,  concluso
a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge
25 ottobre 1977, n. 881; quanto  dall'art.  49,  paragrafo  1,  terzo
periodo, CDFUE. Cio' ha indotto questa  Corte  a  concludere  che  il
valore tutelato dal principio in parola «puo' essere  sacrificato  da
una legge ordinaria solo in favore di interessi  di  analogo  rilievo
[...]. Con la conseguenza che lo scrutinio  di  costituzionalita'  ex
art. 3 Cost., sulla scelta di derogare  alla  retroattivita'  di  una
norma piu' favorevole al reo deve  superare  un  vaglio  positivo  di
ragionevolezza, non essendo a  tal  fine  sufficiente  che  la  norma
derogatoria non sia manifestamente irragionevole»  (sentenza  n.  393
del 2006). 
    In applicazione di tale criterio, la stessa sentenza n.  393  del
2006  giudico'  non  ragionevole,   e   pertanto   costituzionalmente
illegittima, la  deroga  alla  retroattivita'  delle  modifiche  piu'
favorevoli, introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in  materia  di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione  delle
circostanze di reato per i recidivi, di  usura  e  di  prescrizione),
alla disciplina della prescrizione  del  reato,  con  riferimento  ai
processi pendenti in primo grado in cui fosse stata  gia'  dichiarata
l'apertura del dibattimento. La successiva sentenza n.  72  del  2008
escluse invece  l'incostituzionalita'  di  tale  deroga  rispetto  ai
processi gia' pendenti in grado di appello, in ragione  dell'esigenza
di tutelare gli interessi di rango costituzionale  dell'efficienza  e
della  salvaguardia  dei  diritti  dei  destinatari  della   funzione
giurisdizionale, potenzialmente pregiudicati dalla dispersione  delle
attivita'   processuali   gia'   svolte   che   sarebbe    conseguita
all'applicazione generalizzata dei nuovi  e  piu'  brevi  termini  di
prescrizione a processi gia' conclusi in primo grado. 
    La questione della legittimita' costituzionale della deroga  alla
retroattivita', per i processi pendenti in grado  di  appello,  delle
piu' favorevoli disposizioni in materia  di  prescrizione  introdotte
dalla legge n. 251 del 2005 torno' qualche anno piu' tardi  all'esame
di questa Corte, in  ragione  del  fatto  nuovo  rappresentato  dalla
sentenza della Grande Camera della  Corte  EDU,  17  settembre  2009,
Scoppola contro Italia. Tale pronuncia aveva,  per  la  prima  volta,
dedotto dall'art. 7 CEDU il principio secondo cui «se la legge penale
in vigore al momento della commissione del reato e  le  leggi  penali
posteriori adottate prima della pronuncia sono  diverse,  il  giudice
deve applicare  quella  le  cui  disposizioni  sono  piu'  favorevoli
all'imputato»;  il  che  aveva  indotto  la  Corte  di  cassazione  a
sollevare questione di  legittimita'  costituzionale  della  medesima
disciplina transitoria gia' giudicata legittima, quanto ai  parametri
allora dedotti, dalla sentenza n. 72 del 2008,  sotto  il  profilo  -
questa volta - di un suo possibile contrasto con  l'art.  117,  primo
comma, Cost. in relazione all'art. 7 CEDU,  come  interpretato  dalla
sentenza Scoppola. 
    Con la gia' menzionata sentenza n. 236  del  2011,  questa  Corte
affermo' che -  proprio  in  seguito  alla  sentenza  Scoppola  -  il
«principio di retroattivita' in mitius» ha, «attraverso  l'art.  117,
primo   comma,   Cost,   acquistato   un   nuovo    fondamento    con
l'interposizione dell'art. 7  della  CEDU,  come  interpretato  dalla
Corte di Strasburgo»; aggiungendo, peraltro, che - anche  nel  prisma
del diritto convenzionale - a tale principio  non  puo'  riconoscersi
carattere assoluto, ben potendo il legislatore «introdurre deroghe  o
limitazioni alla sua  operativita',  quando  siano  sorrette  da  una
valida giustificazione». La sentenza n. 236  del  2011  ritenne,  per
l'appunto, sussistere una simile valida giustificazione per la deroga
legislativa alla retroattivita' in mitius  sottoposta  nuovamente  al
suo esame; e cio' per le medesime ragioni  che  avevano  condotto  la
sentenza n. 72 del 2008 a risolvere in senso  positivo  la  questione
della sua compatibilita' con l'art. 3 Cost. 
    La giurisprudenza costituzionale  e',  in  tal  modo,  giunta  ad
assegnare al principio  della  retroattivita'  della  lex  mitior  in
materia penale un duplice, e  concorrente,  fondamento.  L'uno  -  di
matrice  domestica  -  riconducibile  allo  spettro  di  tutela   del
principio di eguaglianza di cui  all'art.  3  Cost.,  nel  cui  alveo
peraltro la  sentenza  n.  393  del  2006,  in  epoca  immediatamente
precedente alle sentenze "gemelle" n. 348 e n. 349  del  2007,  aveva
gia' fatto confluire gli obblighi internazionali derivanti  dall'art.
15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai  diritti  civili  e
politici  e  dall'art.  49,  paragrafo  1,  CDFUE,   considerati   in
quell'occasione come criteri interpretativi (sentenza n. 15 del 1996)
delle  stesse  garanzie  costituzionali.   L'altro   -   di   origine
internazionale,  ma  avente  ora  ingresso  nel  nostro   ordinamento
attraverso l'art. 117, primo comma, Cost. - riconducibile all'art.  7
CEDU, nella lettura  offertane  dalla  giurisprudenza  di  Strasburgo
(oltre alla sentenza Scoppola, Corte europea dei  diritti  dell'uomo,
decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; sentenza 24 gennaio
2012, Mihai Toma contro Romania; sentenza 12 gennaio  2016,  Gouarre'
Patte contro Andorra; sentenza 12 luglio 2016, Ruban contro Ucraina),
nonche' alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani
vincolanti per l'Italia che enunciano il medesimo principio, tra  cui
gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto  internazionale  relativo  ai
diritti civili e politici e  49,  paragrafo  1,  CDFUE,  quest'ultimo
rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell'art. 11 Cost. 
    A tale pluralita' di basi normative nel testo costituzionale  fa,
peraltro, da contraltare la comune ratio della garanzia in questione,
identificabile in sostanza nel diritto dell'autore del reato a essere
giudicato, e se del caso punito, in  base  all'apprezzamento  attuale
dell'ordinamento relativo al disvalore del fatto da  lui  realizzato,
anziche' in base all'apprezzamento sotteso alla legge  in  vigore  al
momento della sua commissione. 
    Comune e' altresi' il limite della  tutela  assicurata,  assieme,
dalla Costituzione e dalle  carte  internazionali  a  tale  garanzia:
tutela che la giurisprudenza di questa Corte ritiene non assoluta, ma
aperta a possibili deroghe, purche' giustificabili al metro  di  quel
«vaglio positivo di ragionevolezza» richiesto dalla sentenza  n.  393
del 2006, in relazione alla necessita' di tutelare interessi di rango
costituzionale  prevalenti  rispetto  all'interesse  individuale   in
gioco. 
    6.2.- Se poi, ed eventualmente in che misura, il principio  della
retroattivita' della lex mitior sia applicabile anche  alle  sanzioni
amministrative, e' questione recentemente  esaminata  funditus  dalla
sentenza n. 193 del 2016. 
    In  quell'occasione,   questa   Corte   ha   rilevato   come   la
giurisprudenza di Strasburgo non  abbia  «mai  avuto  ad  oggetto  il
sistema delle sanzioni amministrative  complessivamente  considerato,
bensi'  singole  e  specifiche  discipline   sanzionatorie,   ed   in
particolare quelle che, pur  qualificandosi  come  amministrative  ai
sensi   dell'ordinamento   interno,   siano   idonee   ad   acquisire
caratteristiche "punitive" alla luce dell'ordinamento convenzionale».
In difetto, pertanto, di alcun «vincolo di matrice  convenzionale  in
ordine alla previsione  generalizzata,  da  parte  degli  ordinamenti
interni   dei   singoli   Stati   aderenti,   del   principio   della
retroattivita' della legge piu' favorevole, da trasporre nel  sistema
delle sanzioni amministrative»,  la  sentenza  n.  193  del  2016  ha
giudicato non fondata una questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1 della legge  24  novembre  1981,  n.  689  (Modifiche  al
sistema penale), del quale il giudice a quo sospettava  il  contrasto
con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in  relazione
agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in  cui  non  prevede  una  regola
generale di applicazione della legge successiva piu' favorevole  agli
autori  degli  illeciti  amministrativi:  regola  generale   la   cui
introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe  finito
«per disattendere la necessita' della  preventiva  valutazione  della
singola sanzione (qualificata "amministrativa" dal  diritto  interno)
come "convenzionalmente penale", alla  luce  dei  cosiddetti  criteri
Engel». 
    Rispetto, pero', a singole sanzioni  amministrative  che  abbiano
natura e finalita' "punitiva", il complesso  dei  principi  enucleati
dalla Corte di Strasburgo a proposito della "materia  penale"  -  ivi
compreso, dunque, il principio di retroattivita'  della  lex  mitior,
nei limiti appena precisati (supra, punto  6.1.)  -  non  potra'  che
estendersi anche a tali sanzioni. 
    A tale conclusione non osta l'assenza, sino a questo momento,  di
precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di  Strasburgo.
Come questa Corte  ha  avuto  recentemente  occasione  di  affermare,
infatti,  «e'  da  respingere  l'idea  che  l'interprete  non   possa
applicare la CEDU, se non con riferimento  ai  casi  che  siano  gia'
stati  oggetto  di  puntuali  pronunce  da  parte  della   Corte   di
Strasburgo» (sentenza n. 68 del 2017). 
    L'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior  in
materia  di  sanzioni  amministrative  aventi   natura   e   funzione
"punitiva"  e',  del  resto,  conforme  alla  logica   sottesa   alla
giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla  base  dell'art.  3
Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti,
la sanzione amministrativa abbia natura "punitiva", di regola non  vi
sara' ragione per continuare ad applicare  nei  confronti  di  costui
tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente  considerato  non
piu' illecito;  ne'  per  continuare  ad  applicarla  in  una  misura
considerata  ormai  eccessiva  (e  per  cio'  stesso  sproporzionata)
rispetto al mutato  apprezzamento  della  gravita'  dell'illecito  da
parte dell'ordinamento. E cio' salvo che sussistano  ragioni  cogenti
di  tutela  di  controinteressi  di  rango  costituzionale,  tali  da
resistere al medesimo «vaglio positivo  di  ragionevolezza»,  al  cui
metro debbono  essere  in  linea  generale  valutate  le  deroghe  al
principio di retroattivita' in mitius nella materia penale. 
    6.3.- Non v'e' dubbio che  la  sanzione  amministrativa  prevista
dall'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 abbia natura punitiva,  e
soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione  e  il  diritto
internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale,  ivi
compresa la garanzia della retroattivita' della lex mitior. 
    Questa Corte  ha  gia'  avuto  occasione  di  affermare,  in  due
distinte occasioni, la natura sostanzialmente punitiva della confisca
per equivalente prevista per l'illecito amministrativo  di  abuso  di
informazioni privilegiate (sentenze n. 223  del  2018  e  n.  68  del
2017); ma tale qualificazione deve necessariamente  estendersi  anche
alla sanzione amministrativa  pecuniaria  prevista  per  il  medesimo
illecito,  che  qui  viene  immediatamente  in  considerazione.  Tale
sanzione non  puo'  essere  considerata  come  una  misura  meramente
ripristinatoria dello status quo ante, ne' semplicemente mirante alla
prevenzione di  nuovi  illeciti.  Si  tratta,  infatti,  di  sanzione
dall'elevatissima carica afflittiva, che puo' giungere, oggi, sino  a
cinque milioni di euro (a loro volta elevabili sino al triplo  ovvero
al maggior importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite
evitate), e che e' comunque sempre destinata,  nelle  intenzioni  del
legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito
dall'autore, a sua volta oggetto, di separata  confisca.  Una  simile
carica  afflittiva  si  spiega  soltanto  in  chiave   di   punizione
dell'autore dell'illecito in questione, in funzione di una  finalita'
di deterrenza, o prevenzione generale  negativa,  che  e'  certamente
comune anche alle pene in senso stretto. 
    Del resto, proprio in considerazione della «finalita' repressiva»
di questa sanzione  amministrativa  e  del  suo  «elevato  carico  di
severita'», la Corte di giustizia UE ha recentemente affermato la sua
natura «penale» ai sensi  dell'art.  50  CDFUE  (Corte  di  giustizia
dell'Unione europea, sentenza 20 marzo 2018,  Di  Puma  e  altri,  in
cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38). 
    6.4.- Resta, dunque, da verificare se la deroga, stabilita  dalla
disposizione in questa sede censurata, alla retroattivita' in  mitius
del piu' favorevole regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n.  72
del  2015  (il  cui  principale  effetto  pratico,  come  piu'  sopra
evidenziato,  consiste  nella  "dequintuplicazione"  delle   sanzioni
amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del  1998)  possa  ritenersi
legittima al metro del vaglio positivo di ragionevolezza di cui si e'
detto. 
    A tale quesito non puo' che rispondersi negativamente. 
    Nella relazione illustrativa allo schema di decreto  legislativo,
in attuazione della legge n. 154 del 2014, il  Governo  dichiaro'  la
propria intenzione di non introdurre nel  decreto  il  principio  del
favor rei «sia per la sospetta irragionevolezza dell'introduzione  di
detto principio con riferimento solo ad alcune disposizioni, sia  per
evitarne l'applicazione a tutti i procedimenti  ancora  sub  iudice»,
con conseguente «rischio di ripercussioni  negative  su  procedimenti
sanzionatori in corso». 
    La prima ragione e' ictu oculi infondata: e'  semmai  la  mancata
generalizzata  previsione  della   retroattivita'   delle   modifiche
sanzionatorie in melius a  essere  sospetta  di  irragionevolezza,  e
bisognosa pertanto di una specifica  giustificazione  in  termini  di
necessita' di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti.
Tali  controinteressi  non  possono,  d'altra  parte,   identificarsi
semplicemente nell'esigenza di  evitare  «ripercussioni  negative  su
procedimenti sanzionatori in corso», posto che l'influenza della  lex
mitior sui procedimenti sanzionatori non ancora conclusi  al  momento
della  sua  entrata  in  vigore  e'  la  conseguenza  necessaria  del
principio di retroattivita' della lex mitior stessa. 
    Ne' la scelta del legislatore di  posporre  l'entrata  in  vigore
delle modifiche al regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla
Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 al momento dell'entrata  in  vigore
delle nuove disposizioni regolamentari della Banca d'Italia  e  della
CONSOB appare  essa  stessa  sorretta  dalla  finalita'  di  tutelare
cogenti  controinteressi  di  rango  costituzionale,  di   importanza
assimilabile a quella che legittimo', nella valutazione delle  citate
sentenze  n.  72  del  2008  e  n.  236  del  2011,  la  deroga  alla
retroattivita' delle  disposizioni  piu'  favorevoli  in  materia  di
prescrizione del reato introdotte dalla legge n.  251  del  2005  con
riferimento ai giudizi pendenti in grado di appello (ove si  trattava
di evitare, per effetto della maturazione dei piu' brevi  termini  di
prescrizione introdotti dalla nuova  disciplina,  la  dispersione  di
tutte le attivita' processuali svolte nei giudizi  gia'  conclusi  in
primo grado, rispetto a fatti che continuavano a  essere  considerati
come reato e a essere puniti  con  la  medesima  pena  in  vigore  al
momento della loro commissione). I menzionati regolamenti della Banca
d'Italia   e   della   CONSOB,   infatti,    concernono    pressoche'
esclusivamente la procedura di accertamento  della  sanzione,  e  non
influiscono sulla configurazione degli illeciti,  ne'  -  se  non  in
misura marginalissima  -  sulla  modalita'  di  determinazione  delle
sanzioni amministrative pecuniarie, che  qui  viene  direttamente  in
considerazione. 
    Conseguentemente, la scelta del legislatore del 2015 di  derogare
alla retroattivita' dei nuovi e piu' favorevoli  quadri  sanzionatori
risultanti dal d.lgs. n. 72 del 2015 sacrifica  irragionevolmente  il
diritto  degli  autori  dell'illecito  di   abuso   di   informazioni
privilegiate  a  vedersi  applicare  una  sanzione  proporzionata  al
disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore.
Mutato apprezzamento che riflette, evidentemente,  la  consapevolezza
del carattere non proporzionato di un minimo  edittale  di  centomila
euro. 
    Da cio' consegue  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  6,
comma 2, del d.lgs. n. 72  del  2015,  nella  parte  in  cui  esclude
l'applicazione retroattiva delle  modifiche  apportate  dal  comma  3
dello  stesso  art.  6  alle  sanzioni  amministrative  previste  per
l'illecito disciplinato dall'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998. 
    7.- La dichiarazione di illegittimita' costituzionale deve essere
estesa in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27  della  legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte  costituzionale),  alla  mancata  previsione  -  da  parte  del
censurato art. 6, comma  2,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015  -  della
retroattivita' delle modifiche apportate dal  comma  3  dello  stesso
art. 6  alle  corrispondenti  sanzioni  amministrative  previste  per
l'illecito di cui all'art. 187-ter (Manipolazione  del  mercato)  del
d.lgs. n. 58 del 1998. 
    Tale illecito e', infatti, corredato da un  quadro  sanzionatorio
identico a quello previsto dall'art. 187-bis, rispondente esso pure a
un'evidente logica punitiva, gia' riconosciuta come tale dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo (sentenza 4 marzo 2014, Grande  Stevens
e altri contro Italia, paragrafi 94-101), dalla Corte di giustizia UE
(Grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson e altri,  in  causa
C-537/16,  paragrafi  34-35)  e  dalla  stessa  Corte  di  cassazione
(sezione quinta civile, sentenza 30 ottobre 2018, n. 27564). 
    Anche  rispetto  alla  disciplina   sanzionatoria   dell'illecito
amministrativo previsto dall'art. 187-ter, d'altra parte,  la  deroga
al principio della retroattivita'  della  lex  mitior  apportata  dal
legislatore delegato non supera il vaglio positivo di ragionevolezza,
per le medesime ragioni gia' evidenziate a  proposito  del  parallelo
illecito di cui all'art. 187-bis. 
    Dal  che,  per  l'appunto,  la  necessita'   di   dichiarare   la
illegittimita' costituzionale della  disciplina  transitoria  dettata
dalla disposizione censurata anche nella parte in  cui  essa  esclude
l'applicazione retroattiva delle modifiche in melius  apportate  alle
sanzioni previste per l'illecito di cui all'art. 187-ter. 
      
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 2,
del decreto legislativo 12  maggio  2015,  n.  72  (Attuazione  della
direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE  e  abroga
le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto  concerne  l'accesso
all'attivita' degli enti creditizi e la vigilanza  prudenziale  sugli
enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al  decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e  al  decreto  legislativo  24
febbraio 1998, n. 58), nella  parte  in  cui  esclude  l'applicazione
retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6
alle sanzioni amministrative  previste  per  l'illecito  disciplinato
dall'art. 187-bis del decreto legislativo 24  febbraio  1998,  n.  58
(Testo  unico  delle  disposizioni  in  materia  di   intermediazione
finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della  legge  6  febbraio
1996, n. 52); 
    2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art.  27  della
legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e   sul
funzionamento   della   Corte    costituzionale),    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella
parte in  cui  esclude  l'applicazione  retroattiva  delle  modifiche
apportate  dal  comma  3  dello   stesso   art.   6   alle   sanzioni
amministrative previste per l'illecito di cui  all'art.  187-ter  del
d.lgs. n. 58 del 1998; 
    3)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 6, comma 2,  del  d.lgs.  n.  72  del  2015,
sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dalla Corte
d'appello di Milano, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA