N. 56 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 dicembre 2018
Ordinanza del 28 dicembre 2018 del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria nel procedimento penale a carico di P. F.. Esecuzione penale - Esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni - Misure penali di comunita' - Applicazione dell'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge n. 354 del 1975 ai fini della concessione delle misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione al lavoro esterno. - Decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121 (Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103), art. 2, comma 3.(GU n.16 del 17-4-2019 )
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI REGGIO CALABRIA in funzione di Tribunale di sorveglianza, riunito in Camera di consiglio con l'intervento dei sigg.: dott. Roberto Di Bella, Presidente; dott. Sebastiano Finocchiaro, giudice; dott. Aldo Musmeci, giudice onorario; dott. Luciangela Piras, giudice onorario; nel procedimento n. 9/2018 SIUS relativo a Paiano Francesco, nato a Cinquefrondi (RC) il 3 luglio 1995, ha emesso la seguente Ordinanza Con istanza depositata in data 19 ottobre 2018, confermata e integrata all'udienza del 4 dicembre 2018, P F, detenuto condannato alla pena di anni cinque di reclusione (con sentenza della Corte di appello - sez. per i minorenni di Reggio Calabria in data 28 maggio 2015, in riforma della sentenza emessa dal g.u.p. presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria in data 19 settembre 2014, divenuta irrevocabile in data 14 novembre 2017) per i reati previsti e puniti dagli articoli 416-bis codice penale, 2 e 7 legge 2 ottobre 1967, n. 895, in relazione all'art. 7 del decreto-legge n. 152/1991 convertito in legge n. 23/1991 - sollecitava l'applicazione della misura della detenzione domiciliare da espiarsi in , via , o in una struttura comunitaria del Nord Italia in relazione alla residua pena da espiare di anni uno, mesi cinque e giorni quattordici di reclusione (scadenza pena definitiva 11 marzo 2020), cosi' come determinata con ordine di esecuzione della Procura generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria del 28 settembre 2018. All'udienza del 4 dicembre 2018, in sede di discussione dell'instaurato procedimento di sorveglianza, il Procuratore della Repubblica richiedeva sollevarsi la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018, nella parte in cui prevede una rigida preclusione e comunque circostanze assai selettive nella concessione delle misure penali di comunita' alla presenza dei cc.dd. reati ostativi di cui all'art. 4-bis della legge n. 354/1975. In particolare, il Procuratore della Repubblica adombrava una sospetta violazione dell'art. 76 Cost. (per inosservanza dei principi e criteri direttivi indicati nella legge delega n. 103/2017), dell'art. 27, comma terzo Cost., dell'art. 31, comma secondo Cost. (per violazione del principio della finalita' educativa della pena prevista per i minorenni e i giovani adulti) e dell'art. 117 Cost. (per violazione degli impegni assunti dall'Italia con la firma e la ratifica delle numerose Convenzioni internazionali a tutela dell'infanzia). In via vicaria, il medesimo Procuratore della Repubblica esprimeva parere favorevole all'applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare in una comunita' educativa da reperirsi nel Nord Italia. Analoga questione di legittimita' costituzionale formulava in via subordinata il difensore del P , che in primo luogo segnalava la necessita' di concedere al condannato la misura alternativa richiesta secondo un'interpretazione estensiva (e costituzionalmente orientata) del principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 90 del 2017 in relazione all'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale. Nel dettaglio, il difensore avvisava la necessita' di applicare al condannato la normativa antecedente (piu' favorevole) a quella introdotta dal decreto legislativo n. 121/2018, in considerazione della natura penale e non processuale delle disposizioni sopravvenute e, in ogni caso, della continuita' tra la presente procedura e quella analoga conclusasi con provvedimento di rigetto emesso in data 18 settembre 2018 da questo tribunale. Rilevanza della questione Cio' premesso, per un corretto inquadramento della questione, occorre esaminare le vicissitudini della disciplina relativa alle misure alternative all'esecuzione penale minorile. Ad oltre quarant'anni di distanza dalla riforma penitenziaria del 1975 e da quella disposizione transitoria, l'art. 79, che estendeva la disciplina esecutiva prevista per gli adulti anche ai condannati minorenni in attesa di un intervento legislativo ad hoc, con il decreto legislativo n. 121/2018 e' stato introdotto il nuovo ordinamento penitenziario minorile in attuazione dell'art. 1, comma 81, 83 e 85, lettera p) della legge delega 23 giugno 2017 n. 103. L'assenza di una normativa dedicata tradiva quella specificita' connessa con lo status di minorenne (trattamento differenziato dagli adulti) che e' il segno distintivo del nuovo modello di giurisdizione punitiva pensato peri minori. In effetti era sembrato paradossale che la tutela delle esigenze educative costituisse il tema dominante dell'intero processo minorile e ne forgiasse la peculiare struttura, ma venisse meno proprio nella fase esecutiva della pena, il segmento processuale a vocazione prettamente pedagogica. Nella mancanza di interventi legislativi, era stata la Corte costituzionale ad avere svolto un progressivo lavoro di adeguamento delle norme di ordinamento penitenziario contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354, alle esigenze educative del condannato minorenne; in particolare, la Consulta con una sentenza monito aveva dato un chiaro segnale al legislatore statuendo che l'assenza di ogni diversificazione nel regime trattamentale tra adulti e minorenni comprometterebbe «quell'esigenza di specifica individualizzazione e flessibilita' del trattamento che l'evolutivita' della personalita' del minore e la preminente funzione educativa richiedono» (Corte cost., 25 marzo 1992, n. 125). Tali indicazioni sono state recepite dalla legge delega n. 103/2017 (art. 1, comma 85, lettera p), insieme all'attuazione degli impegni che il nostro Paese ha assunto con la sottoscrizione delle Carte internazionali che promuovono una giustizia penale a misura di minore (regole di Pechino, convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dell'uomo etc.). La delega ha tracciato le linee dell'intervento normativo seguendo tre direttrici: priorita' assegnata ai bisogni del minorenne e alla promozione della sua persona, attraverso l'individualizzazione e la flessibilita' dell'intervento educativo; preferenza accordata alle misure alternative alla detenzione che delineano un modello penitenziario incentrato sui bisogni del singolo condannato e che, di conseguenza, cambiano l'attuale prospettiva punitiva incentrata sul carcere; riorganizzazione degli istituti per i minorenni in modo da favorire la responsabilizzazione e il rafforzamento delle relazioni con il mondo esterno, in funzione di un proficuo inserimento sociale che riduca il piu' possibile il rischio di commissione di nuovi reati. In attuazione della legge delega, il decreto legislativo n. 121/2018, entrato in vigore in data 10 novembre 2018, introduce e disciplina le misure penali di comunita', quali misure alternative alla detenzione qualificate dall'essere destinate ai condannati minorenni e giovani adulti: l'affidamento in prova al servizio sociale, l'affidamento in prova al servizio sociale con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semiliberta' e l'affidamento in prova terapeutico. Tali misure, tuttavia, non possono essere concesse in presenza dei reati cosiddetti ostativi previsti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, in virtu' dell'inequivoco tenore letterale dell'art. 2, comma III, del decreto legislativo n. 121/2018, secondo cui: «Fermo quanto previsto dall'art. 1, comma 1, ai fini della concessione delle misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione del lavoro esterno si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354». Ne consegue che non hanno trovato puntuale attuazione i punti 5 e 6 della delega, a proposito dell'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e all'eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la concessione o la revoca dei benefici penitenziari. Invero, il testo approvato, pur riprendendo l'impianto generale, differisce radicalmente dalla bozza elaborata dalla Commissione ministeriale per la riforma dell'ordinamento penitenziario minorile e di modelli di giustizia riparativa in ambito esecutivo. La previsione citata sembra, pertanto, porsi in conflitto con il punto 6 dell'art. 1, comma 85 della legge delega n. 103/2017, il quale prevede l'eliminazione di ogni «automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell'individualizzazione del trattamento». Cio' premesso, ne consegue la rilevanza della questione nel presente giudizio, in quanto l'applicazione della norma precluderebbe la valutazione del merito dell'istanza, se non alle rigide condizioni previste che non appaiono in linea con le attuali esigenze educative dell'istante, in quanto il P risulta condannato per i reati ostativi previsti e puniti dall'art. 416-bis codice penale e dagli articoli 2 e 7 legge del 2 ottobre 1967, n. 895, in relazione all'art. 7 del decreto-legge n. 152/1991 convertito in legge n. 23/1991. La questione assume poi ulteriore pregnanza nel presente procedimento, in quanto questo Tribunale di sorveglianza, con ordinanza emessa in data 18 settembre 2018 ha rigettato analoga richiesta del P segnalando - in ottemperanza ad un'interpretazione estensiva (costituzionalmente orientata delle misure alternative alla detenzione per i minorenni) dei principi indicati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 90 del 2017 - che, nel caso di un proposto mutamento territoriale del domicilio da parte del condannato, la domanda avrebbe potuto essere ripresentata (cosi' come e' accaduto) e, sussistendone le ulteriori condizioni di merito, rivalutata (evidentemente a prescindere dalle rigide condizioni indicate dall'art. 4-bis ord. pen., in ragione del positivo percorso rieducativo gia' svolto, sia durante la pregressa detenzione carceraria che successivamente, e della necessita' di individualizzare il trattamento - in un territorio diverso da quello di provenienza - in funzione delle sue specifiche esigenze di giovane adulto). Aggiungasi, a conforto della superiore proposizione, che le nuove misure penali di comunita' contengono degli adeguamenti dispositivi (possibilita' di esecuzione extraterritoriale e prescrizioni finalizzate al reinserimento sociale) che potrebbero essere utili alle esigenze educative espresse dal condannato, nella sua specifica condizione di giovane adulto disposto ad allontanarsi - per il pieno recupero - dal territorio e dal contesto familiare di appartenenza al fine di interrompere i collegamenti con il circuito della locale criminalita' organizzata per cui e' stata emessa nei suoi confronti sentenza irrevocabile di condanna (1) . L'applicazione delle stesse e', tuttavia, resa estremamente difficile - se non, di fatto, automatica esclusa - dalle condizioni (non ricorrenti nel caso che occupa) previste dall'art. 4-bis ord. pen. nei termini in cui sono state via via interpretate dalla Suprema Corte, secondo cui in tema di misure alternative, e' causa ostativa all'applicazione della detenzione domiciliare la condanna alla pena per uno dei delitti indicati dalla citata norma, a nulla rilevando: 1) l'accertata recisione dei collegamenti con la criminalita' organizzata, occorrendo anche il requisito della effettiva collaborazione del condannato con la giustizia, alla quale sono equiparate la collaborazione impossibile e quella c.d. irrilevante (Cass. Pen. Sez. I sentenza n. 12982 del 19 febbraio 2004); 2) la inesigibilita' della collaborazione con la giustizia, posto che il rinvio operato dalla disposizione sulla detenzione domiciliare e' al catalogo dei reati di cui all'indicato articolo e non al suo contenuto (cfr. Cassazione Pen. Sez. I, sentenza n. 20145 del 27 aprile 2011); 3) la mancata prova della attualita' della pericolosita' sociale che non equivale alla prova della esclusione dell'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata (Cass. Pen., sezione I, sentenza n. 7314 del 28 gennaio 2013). Invero, la rigidita' delle disposizioni richiamate non consentirebbe un adeguamento della residua sanzione da espiare ai progressi compiuti dal P che, pur non avendo intrapreso un (non irrilevante alla luce delle evidenze processuali) percorso di collaborazione con la giustizia, ha manifestato l'intenzione di trasferirsi definitivamente a C (in un domicilio dichiarato idoneo dalla Questura del medesimo centro) assecondando un progetto in cui il lavoro, la condivisione con la fidanzata e la netta cesura con la vita pregressa rappresenterebbero le direttrici principali (v., a tal proposito, anche la relazione stilata dall'U.S.S.M di Reggio Calabria in data 3 dicembre 2018). Per completezza di esposizione ai fini della rilevanza della questione, non possono condividersi i rilievi difensivi secondo cui occorrerebbe applicare al caso de quo la normativa penale piu' favorevole risultante dall'interpretazione estensiva della sentenza n. 90 del 2017 con cui la Consulta ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) del codice di procedura penale, per contrasto con gli articoli 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Costituzione. Fermo restando che tale disposizione riguarda le competenze del pubblico ministero nella fase esecutiva delle pene detentive, deve osservarsi che il decreto legislativo n. 121/2018 e' intervenuto successivamente alla citata sentenza (che, secondo un orientamento giurisprudenziale, ripercuoterebbe i suoi effetti anche sulle decisioni del Tribunale di sorveglianza), con la quale sembra porsi in contrapposizione rispetto ai principi informatori. Ne consegue che un'esegesi costituzionalmente orientata della disposizione censurata (art. II, comma terzo, decreto legislativo n. 121/2018), potrebbe dar luogo ad un'interpretazione evolutiva e non estensiva della norma, con sostanziale abrogazione della stessa, vietata perche' snatura la funzione di giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge (cfr. Corte di cassazione sez. 3, n. 2230 dell'11 gennaio 1980, Pasculli). Aggiungasi che la normativa introdotta dal citato decreto delegato ha palesemente natura processuale al di la' dell'intitolazione (misure penali di comunita'), sicche' non puo' trovare applicazione - pur nella prospettiva difensiva della normativa antecedente piu' favorevole - il principio sancito dall'art. 2 del codice penale e dall'art. 25 della Costituzione. La Suprema Corte, con numerose pronunce (v., tra le altre, Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 11580 del 5 febbraio 2013; Cass. Pen, sez. I, sentenza n. 32000 del 6 luglio 2006, Cass. Pen. Sez. Unite sentenza n. 24561 del 30 maggio 2006), ha stabilito che le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita' esecutive della stessa; pertanto, esse non hanno carattere di norme penali sostanziali e soggiacciono al principio «tempus regit actum» e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 codice di procedura penale e dall'art. 25 della Costituzione. Ne consegue che, in virtu' del citato canone interpretativo, deve essere applicata al caso che occupa la nuova normativa entrata in vigore in data 10 novembre 2018. Cio' stabilito, non vi e' dubbio che la questione di legittimita' costituzionale, cosi' come prospettata, ha indubbia rilevanza nel presente procedimento di sorveglianza che non puo' essere definito nel merito indipendentemente dalla risoluzione del quesito sollevato. Profilo di non manifesta infondatezza Prima questione: sospetto contrasto con gli articoli 2, 3, 76, 27 terzo comma e 31, secondo comma, Cost. L'art. 2, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 si espone ad un sospetto di intrinseca irragionevolezza, eccedendo peraltro i principi e i criteri direttivi indicati nella legge delega, nella parte in cui introduce un rigido automatismo preclusivo o comunque pone condizioni assolutamente selettive per la concessione di misure alternative alla detenzione alla presenza di determinati reati. Nel ricostruire la questione appare utile prendere le mosse dalla sentenza n. 90 del 2017 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lett. a) del codice di procedura penale, per contrasto con gli articoli 27, III comma, e 31, comma secondo Costituzione, nella parte in cui osta alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i delitti ivi indicati, ossia quelli di cui all'art. 4-bis citato. Come e' noto, l'art. 656 codice di procedura penale prevede che, nell'ipotesi in cui la sanzione da scontare - anche ove costituisca residuo di maggior pena - rientri nei limiti previsti per le c.d. pene detentive brevi, il pubblico ministero e' tenuto a disporre, con decreto, la sospensione dell'esecuzione. Tale provvedimento era pero', escluso, ai sensi del comma 9 della medesima disposizione normativa, nei confronti delle persone condannate per i gravi delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit, nonche' per i reati previsti dagli articoli 423-bis, 572, comma 2, 612-bis, comma 3 e 624-bis codice penale, con l'eccezione dei soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti, aventi in corso programmi terapeutici e sottoposti agli arresti domiciliari, ai sensi dell'art. 89 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990. In tali ipotesi, alla luce di una presunzione di pericolosita' sociale effettuata dal legislatore, l'eventuale applicazione delle misure alternative poteva avvenire unicamente una volta iniziata l'esecuzione della pena detentiva, alla presenza dei relativi presupposti di ammissibilita'. In ragione della mancanza di un'apposita normativa dedicata ai soggetti minorenni, concernente la fase dell'esecuzione penale e la disciplina dell'ordinamento penitenziario, la previsione codicistica sopra delineata si applicava anche alle persone non ancora diciottenni al momento della commissione del fatto. Tale disposizione e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Consulta - adita dalla Corte di appello di Milano - che ha segnalato come l'esigenza di prevedere un trattamento differenziato dell'imputato minorenne discende direttamente dalla Costituzione: l'art. 31, comma secondo Cost. dispone, infatti, che lo Stato italiano «protegge la maternita', l'infanzia e la gioventu', favorendo gli istituti necessari a tale scopo». Ripercorrendo il contenuto di numerose sentenze, la Corte costituzionale ha ricordato come il cuore della giustizia minorile debba consistere in valutazioni fondate su prognosi individualizzate, le quali siano in grado di assolvere al compito di recupero del minore deviante: solo in tal modo e', infatti, possibile giungere alla realizzazione di un trattamento flessibile, adatto alla personalita' in fieri del minore e che valorizzi la funzione rieducativa della pena. Secondo la Consulta, l'importanza dell'individualizzazione del trattamento non viene meno con la chiusura del processo di cognizione. Anche l'esecuzione penale minorile deve rispettare i medesimi principi, avendo come scopo primario la risocializzazione del condannato, con la necessaria conseguenza di abbandonare qualsiasi automatismo che escluda il ricorso a benefici o a misure alternative. In piena coerenza con i principi espressi nei propri precedenti, la Corte costituzionale ha ritenuto che la preclusione operata dall'art. 656, comma 9, lett. a) dell'art. 656 c.p.p. contrasti con gli articoli 27, comma terzo, e 31, comma secondo, Cost. L'automatismo posto dalla previsione codicistica si fonda, infatti, su una presunzione di pericolosita' esclusivamente radicata sul titolo di reato commesso. Essa impedisce, pertanto, agli organi giurisdizionali di effettuare una valutazione nel merito del singolo caso concreto e, conseguentemente, di valorizzare le specifiche esigenze educative del condannato. Tale statuizione costituisce l'ultima di una lunga serie di pronunce rese dalla Corte costituzionale in tema di esecuzione penale minorile. Invero, numerosi sono stati gli interventi della Consulta che hanno tentato di sopperire alle mancanze del legislatore, onde consentire un effettivo adeguamento del trattamento del minore condannato alle esigenze di recupero e di rieducazione, stabilite a livello costituzionale. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 67, legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto prevedeva, anche nei confronti dei minorenni, il divieto di disporre una misura alternativa nel caso di condanna a pena detentiva, derivante dalla conversione conseguente alla violazione di prescrizioni inerenti a sanzioni sostitutive. Parimenti rilevante la pronuncia che ha censurato l'art. 59 legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui estendeva ai condannati minorenni le condizioni soggettive previste per l'applicazione delle sanzioni sostituite, nonche' la sentenza della Corte costituzionale che ha rilevato l'illegittimita' dell'art. 58-quater, comma 2 ord. penitenziario, ai sensi del quale, a seguito della revoca di una misura alternativa, era preclusa anche al condannato detenuto minore d'eta' la concessione di benefici penitenziari per un periodo di anni tre. I precedenti richiamati, come la sentenza del 2017, evidenziavano come non fosse piu' rinviabile un intervento legislativo in materia che recepisse gli insegnamenti della Consulta e che si conformasse, altresi', ai principi espressi in numerosi atti internazionali. Sul punto, infatti, si sono espresse le Nazioni Unite, il Consiglio d'Europa e le istituzioni eurounitarie. In merito, vale la pena di ricordare le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile, c.d. regole di Pechino (approvate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in data 29 novembre 1985), le regole ONU per la protezione dei minori privati della liberta' (approvate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in data 14 dicembre 1990), c.d. regole dell'Havana, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 5 novembre 2008 sulle regole del trattamento per i condannati minorenni sottoposti a sanzioni o a misure restrittive della liberta' personale, le linee guida su una giustizia a misura di minore adottate dal Consiglio d'Europa nel 2010, nonche', da ultimo, la direttiva 2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Le indicazioni che accomunano tutti gli atti citati sono essenzialmente riconducibili all'esigenza che le autorita' nazionali ricorrano alla privazione della liberta' personale del condannato minorenne quale misura di ultima istanza. Si richiede inoltre che venga sempre privilegiato il ricorso alle misure alternative, che il minore detenuto sia collocato in istituti separati rispetto a quelli degli adulti e che gli venga garantito un trattamento penitenziario specificamente disegnato sulle sue peculiari necessita'. Al fine di garantire l'effettiva preminenza della funzione di recupero del minorenne rispetto alla pretesa punitiva dello Stato, in ossequio ai principi costituzionali e alle indicazioni delle citate convenzioni internazionali, la legge (di riforma) delega 23 giugno 2017, n. 103, ha prescritto che siano ampliati i criteri per l'accesso alle misure alternative. Recependo i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale e valorizzando l'individualizzazione del trattamento, il legislatore delegante ha poi incaricato il legislatore delegato di eliminare automatismi e preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo. Assolutamente pertinente alla vicenda in oggetto e' poi l'estensione della previsione che sollecita l'applicazione della normativa penitenziaria minorile anche ai c.d. giovani adulti, categoria che identifica i soggetti di eta' compresa tra i diciotto e i venticinque anni. Sul punto vale la pena ricordare come la delega in esame abbia recepito le conclusioni elaborate dal Tavolo V degli Stati Generali dell'esecuzione penale, appunto dedicate ai minorenni autori di reato. In tale contesto, infatti, era stata evidenziata l'opportunita' di estendere alla citata categoria di soggetti le prescrizioni dedicate ai minorenni, al fine di favorire, anche per essi, i processi educativi in atto (2) . Cio' premesso, deve osservarsi come il decreto legislativo n. 121/2018, all'art. 2, III comma, ribadisce la preclusione automatica per i reati previsti dall'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e comunque richiama le condizioni assolutamente selettive della citata norma, che rendono estremamente difficoltoso concedere misure alternative privilegiando - sulla base di una presunzione di pericolosita' - l'istanza punitiva rispetto a quella preminente (secondo i dettami della stessa Corte costituzionale) di recupero del minorenne o del giovane adulto. Nella misura segnalata, la disposizione sembra essere in contrasto con i principi e i criteri direttivi fissati dalla legge delega (art. 1, punti 5 e 6 dei comma 85), a proposito dell'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e all'eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la concessione o la revoca dei benefici penitenziari. Nel dettaglio, la non manifesta infondatezza della questione si ravvisa nell'evidente asimmetria e irragionevole diseguaglianza tra le disposizioni citate della legge delega 23 giugno 2017, n. 103, che vieta automatismi e indica la necessita' di un trattamento di favore e individualizzato per i minorenni e i giovani adulti e l'art. II, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 che introduce, per contro, una preclusione fondata su una sorta di pericolosita' sociale ricollegata a determinate categorie di reati. Al riguardo, per la definizione di eccesso di delega resta fondamentale il richiamo della storica sentenza 3/1957, nella quale la Corte costituzionale ha ritenuto ascriversi alla categoria «la mancanza, anche parziale, di delegazione nonche' l'uso del potere normativa da parte del legislatore delegato oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa e' delegata». Nei piu' recenti e consolidati precedenti, la Consulta ha stabilito che, per valutare se il legislatore delegato sia incorso in eccesso di delega, occorre individuare la ratio della delega per individuare se la norma delegata sia con questa coerente, secondo uno schema assimilabile al giudizio di non manifesta irragionevolezza (cfr., tra le altre, Corte costituzionale, sentenza 98/2008). Orbene, applicando i principi ermeneutici sopra richiamati, la scelta di operare il richiamo all'art. 4-bis ordinanza pen. operata dal legislatore delegato non appare coerente con i riassunti principi e i criteri direttivi della legge delega. Nella relazione di accompagnamento (p.4) al decreto delegato si legge che «per mantenere indenne dalla riforma la disciplina di cui all'art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, individuato dalla legge delega quale criterio generale che deve orientare tutti gli interventi in materia di ordinamento penitenziario, ivi compreso quello minorile (comma 85 dell'art. 1 della legge 103 del 2017), si rende necessario consentire l'applicabilita' dell'art. 4-bis ordinanza pen. ai minorenni, norma il cui citato art. 241-bis ordinanza pen. rinvia». In realta', non puo' non osservarsi come non esiste alcuna interdipendenza tra il divieto automatico di accesso ai benefici penitenziari e la sospensione delle regole trattamentali; tra i due regimi vi e' solo la condivisione di alcune fattispecie gravi di reato che li legittimano, ma la loro applicazione resta autonoma nei presupposti e nella disciplina (financo i destinatari sono diversi: condannati nel caso di cui all'art. 4-bis ordinanza pen., anche gli imputati per l'art. 41-bis ordinanza pen.). Cio' premesso, ne segue che, per rispettare i dettami e i principi della legge delega, il legislatore delegato avrebbe dovuto escludere la presunzione legale di pericolosita' che osta alla concessione delle misure penitenziarie di favore o che, comunque, ne rende assai difficile l'applicazione non consentendo adeguate prognosi individualizzate. Il che non vorrebbe dire fruibilita' automatica dei benefici anche per i gravi reati di cui al comma 1 dell'art. 4-bis ordinanza pen., ma significherebbe consentire al Tribunale di sorveglianza di valutare caso per caso la meritevolezza di tali misure, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo minorenne e nel rispetto di quel principio di flessibilita' attraverso cui e' possibile realizzare il recupero e l'inserimento sociale. Pertanto, l'irragionevole asimmetria sembrerebbe porre un profilo di costituzionalita' della norma (art. II, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018) con riferimento al combinato disposto degli articoli 3 e 76 della Costituzione. Inoltre, la medesima disposizione sembrerebbe porsi in irragionevole contrasto con la ratio dell'art. 656, comma 9 codice di procedura penale nel testo risultante dalla sentenza n. 90 del 2017 della Corte costituzionale, in quanto la sospensione dell'esecuzione consentita al pubblico ministero risulterebbe inutiliter data se il Tribunale di sorveglianza non potesse poi valutare nel merito - se non alle rigide condizioni ivi previste, difficilmente esigibili da un minorenne o da un giovane adulto la cui personalita' e' ancora in fieri - le istanze di misure alternative alla detenzione anche alla presenza dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis o.p. In altri termini, mentre il codice di procedura penale, all'art. 656, comma 9, lettera a), si rivolge al pubblico ministero, prima impedendogli e poi, dopo la sentenza nr. 90 del 2017 della Consulta, consentendogli l'emissione dell'ordine di esecuzione con sospensione anche alla presenza di reati ostativi, il nuovo decreto legislativo n. 121/2018 non si rivolge affatto al pubblico ministero (almeno non nelle ipotesi in cui quest'ultimo dovrebbe emettere decreto di carcerazione senza sospensione) ma solo al Tribunale di sorveglianza, impedendo a quest'ultimo di concedere le misure penali di comunita' in caso di reati ostativi, ovvero in casi analoghi a quelli analizzati dal pubblico ministero nella sua diversa prospettiva. Pertanto, l'art. 2, comma III, del citato decreto legislativo legittima un sospetto di contrasto con il principio di eguaglianza formale e sostanziale consacrato nell'art. 3 Cost., che comporta che siano trattate ugualmente situazioni eguali e diversamente situazioni diverse, con la conseguenza che ogni differenziazione, per essere giustificata, deve risultare ragionevole, cioe' razionalmente correlata al fine per cui si e' inteso stabilirla. Tale razionalita' non sembra potersi rintracciare nel caso che occupa, in quanto non si ravvisano argomenti plausibili della disomogeneita' della norma rispetto ai principi della legge delega e a quelli richiamati dall'art. 656, comma 9, nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale, in relazione ai quali «l'estensione ai detenuti minorenni della disciplina generale contrasta con le esigenze di recupero e della risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano la necessita' di differenziare il trattamento dei minorenni rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi nell'esecuzione della pena». Piu' in generale, la norma richiamata si pone anche in antitesi irragionevole con altri istituti del processo penale minorile di cognizione, come ad esempio quello della sospensione del processo e messa alla prova di cui all'art. 28 decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, applicabili senza il rigido sbarramento previsto dall'art. 4-bis ord. pen. anche alla presenza di gravi reati come quelli per cui e' stato condannato l'istante, secondo un'ottica che privilegia le esigenze di recupero dell'imputato minorenne o del giovane adulto rispetto alla mera pretesa punitiva. Tale asimmetria non appare ragionevole in virtu' dell'intero impianto del processo minorile e dei principi a tutela dell'infanzia cui lo stesso si ispira, cosi' come richiamati dalla legge delega e dallo stesso decreto legislativo n. 121/2018, che all'art. 2, comma 2, stabilisce che «le misure penali di comunita' sono disposte quando risultano idonee a favorire l'evoluzione positiva della personalita' del minorenne, un proficuo percorso educativo e di recupero ...». Inoltre, tra i principi informatori dell'intero impianto del processo minorile - con cui sembra porsi in contrasto l'art. II, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 - non possono non menzionarsi quelli indicati dagli articoli 37, lett. b) e 40, paragrafi 1 e 4, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176, secondo cui: 1) «L'arresto, la detenzione o l'imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformita' con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata piu' breve possibile (art. 37)»; 2) «Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di reato penale il diritto ad un trattamento da favorire il suo senso della dignita' e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e che tenga conto della sua eta' nonche' della necessita' di facilitare il suo reinserimento nella societa' e di fargli volgere un ruolo costruttivo in seno a quest'ultima... 4. Sara' prevista tutta una gamma di disposizioni .., nonche' soluzioni alternative all'assistenza istituzionale, in vista di assicurare ai fanciulli un trattamento conforme al loro benessere e proporzionato sia alla loro situazione che al reato» (art. 40). Parallelamente, l'art. II, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 sembrerebbe in potenziale contrasto con il principio sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost., da ritenersi intimamente connesso con quelli di cui agli articoli 2, 3 e 31 secondo comma Cost., in quanto la necessita' di prevedere un trattamento differenziato per i minorenni e i giovani adulti discende direttamente dalla Costituzione: l'art. 31 comma secondo Cost dispone, infatti, che lo Stato italiano «protegge la maternita', l'infanzia e la gioventu', favorendo gli istituti necessari a tale scopo». E', infatti, costante nella giurisprudenza costituzionale l'affermazione della esigenza che il sistema di giustizia minorile sia caratterizzato fra l'altro dalla «necessita' di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante» (sentenze n. 143 del 1966, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978), anzi su «prognosi particolarmente individualizzate» (sentenza n. 78 del 1989), questo essendo «l'ambito di quella protezione della gioventu' che trova fondamento nell'ultimo comma 31 Cost.» (sentenze n. 128 del 1987 e n. 222 del 1983): vale a dire della «esigenza di specifica individualizzazione e flessibilita' del trattamento che l'evolutivita' della personalita' del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 125 del 1992). Secondo la Corte, inoltre, l'importanza dell'individualizzazione del trattamento non viene meno con la chiusura del processo di cognizione. Anche l'esecuzione penale minorile deve rispettare i medesimi principi, avendo come scopo primario la risocializzazione del condannato, con la necessaria conseguenza che deve essere abbandonato qualsiasi automatismo che escluda il ricorso a benefici o a misure alternative. Ne consegue che l'art. 2, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 nella misura in cui estende ai minorenni e ai giovani adulti le analoghe preclusioni previste per gli adulti non sembrerebbe rispettoso della necessaria flessibilita' e attenzione che deve prestarsi in relazione alle peculiari esigenze di risocializzazione del minore, con correlata violazione della finalita' rieducativa della pena e dei diritti inviolabili delle persone di minore eta' o dei giovani adulti. La sanzione penale e, quindi, le misure alternative alla detenzione rispettano il principio di rieducazione previsto dall'art. 27, comma terzo Cost., adempiendo, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e di tutela delle posizioni individuali - la' dove si traducano in una valutazione nella quale si trattino diversamente situazioni differenti, ovvero quando i trattamenti siano distinti e coerenti con l'esigenza di risocializzazione dell'autore del reato, a maggior ragione se si tratti di un minorenne o di un giovane adulto. Cio' premesso, l'automatismo posto dall'art. 2, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018, fondandosi su una presunzione di pericolosita' esclusivamente radicata sul titolo di reato commesso, impedisce agli organi giurisdizionali di effettuare una valutazione nel merito del singolo caso concreto e, conseguentemente, di valorizzare le specifiche esigenze educative del condannato minorenne o giovane adulto, se non alle rigide condizioni previste dall'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, ordinanza pen. (il piu' delle volte difficilmente esigibili, secondo l'id quod plerumque accidit, da chi ha una personalita' ancora in fieri). In altri termini, il richiamo dell'art. II, comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 all'art. 4-bis ordinanza pen. sembra operato - privilegiando la pretesa punitiva - in un'ottica che non appare puerocentrica, ovvero rispettosa della personalita' in evoluzione del minorenne autore del reato e delle sue preminenti esigenze educative, che possono variare - rispetto al momento di commissione del reato - con la progressiva maturazione. Pertanto, e' da ritenersi che il divieto generalizzato e automatico di un determinato beneficio e, comunque, la concessione dello stesso alle condizioni restrittive previste per i condannati maggiorenni contrasti con «il criterio, costituzionalmente vincolante, che esclude siffatti rigidi automatismi, e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso, in presenza delle condizioni generali costituenti i presupposti per l'applicazione della misura, della idoneita' di questa a conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale minorile (sentenza n. 436 del 1999). Seconda questione: sospetto contrasto con l'art. 117, primo comma, Costituzione in riferimento alla direttiva 2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 e all'art. 49, 3° paragrafo, Carta dei diritti fondamentali dell'UE. La stessa disposizione e', ad avviso di questo giudice, attraversata da un altro profilo di sospetta incostituzionalita', intimamente connesso a quelli prima esaminati. Potrebbe, infatti, prospettarsi la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. per mancata attuazione degli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 che chiede ai legislatori nazionali di provvedere affinche': 1) sia garantito «il diritto del minore ad una valutazione individuale»; 2) «in qualsiasi fase del procedimento la privazione della liberta' personale del minore sia limitata al piu' breve periodo possibile»; 2) «ogni qualvolta sia possibile, le autorita' competenti ricorrano a misure alternative alla detenzione». Norme che, sebbene dettate per il processo di cognizione, potrebbero essere estensivamente applicate anche per la fase di esecuzione della pena in virtu' dei medesimi principi ispiratori, cosi' come del resto auspicato dalla regole della convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, dalle regole ONU per la protezione dei minori privati della liberta' (approvate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in data 14 dicembre 1990), c.d. regole dell'Havana, dalla Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 5 novembre 2008 sulle regole del trattamento per i condannati minorenni sottoposti a sanzioni o a misure restrittive della liberta' personale, dalle «Le linee guida su una giustizia a misura di minore adottate dal Consiglio d'Europa nel 2010». Le norme indicate costituiscono esempio di parametro di costituzionalita' in quanto al legislatore nazionale e' richiesta una produzione legislativa conforme alle disposizioni contenute nel testo della direttiva ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost.. Detto parametro si definisce interposto in quanto riproduce uno strumento normativo sovra nazionale (fonte - fatto), recuperato nella vincolativita' attraverso l'art. 117, primo comma Cost. («La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»). Le disposizioni raccolte nella direttiva europea sono, atteso il chiaro tenore dell'art. 288 del trattato di funzionamento dell'Unione europea, vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorita' nazionali in merito alla forma e ai mezzi, pur essendo prive di efficacia diretta. La vincolativita' delle statuizioni della direttiva si manifesta in piu' direzioni. Anzitutto, si prevede in capo alle autorita' giudiziarie l'obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme, quando sia reso possibile dal tenore letterale delle disposizioni nazionali (CGUE, 16 giugno 2005, C-105, Pupino). Inoltre, per risolvere antinomie non componibili nell'interpretazione, la disposizione comunitaria quando e' priva di effetto diretto integra il disposto dell'art. 117, 1 comma, Cost., inserendosi nel discorso costituzionale al pari di parametro interposto. La vincolativita' della direttiva, inoltre, comporta l'insorgenza in capo allo Stato, che sia rimasto inadempiente rispetto agli obblighi comunitari, di una responsabilita' nei confronti del cittadino danneggiato dalla violazione del diritto comunitario (CGUE,05.03.1996, C-46, Brasserie du oeucher Sa). Tanto premesso in ordine generale, seguendo le direttrici delle sentenze «gemelle» n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, non si puo' non riconoscere che, tra normativa interna di rango primario e la Costituzione, si e' «interposta» una direttiva, attuativa di un trattato internazionale, che, pur non direttamente applicabile, crea obblighi del nostro Paese, quale Stato contraente. Tali obblighi, in primo luogo, impongono al giudice comune di «interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme. Qualora cio' non sia possibile, ovvero il giudice dubiti della compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma ... spettera' poi alla Corte ... accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme .. garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana» (Corte Cost. 349/2007). Cio' premesso, e' indubbio che il contrasto tra l'attuale formulazione dell'art. 2, comma III, del decreto legislativo n. 121/2018 e la direttiva richiamata sia insanabile in via interpretativa e non puo' trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, essendo la norma dell'Unione europea priva di efficacia diretta. Peraltro, la stessa violazione dell'art. 117 Cost. si propone - in punto di proporzionalita' e di flessibilita' del trattamento sanzionatorio con riferimento alle specifiche esigenze del minorenne o del giovane adulto - in relazione all'art. 49, 3 paragrafo, Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea (adottata al Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000), la' dove pretende che «Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Tale norma deve interpretarsi secondo un'accezione riferibile anche alle misure alternative alla detenzione e alla necessita' di un loro adattamento flessibile non solo alle circostanze del fatto ma anche alle condizioni specifiche del minorenne autore del reato, quali risultanti dall'evoluzione della sua personalita' nel corso del trattamento sanzionatorio. Il contrasto segnalato deve, pertanto, essere sottoposto alla verifica di costituzionalita' del giudice ad quem. Questa appare l'unica soluzione idonea (e propedeutica) a garantire l'adeguamento del diritto interno agli obblighi comunitari assunti in materia, oltre che un trattamento sanzionatorio proporzionato in relazione alle esigenze evolutive del minorenne autore del reato, funzionale al principio di rieducazione della pena. Infine, quanto alla richiesta subordinata di sospensione dell'esecuzione della pena con scarcerazione, formulata nell'interesse del P all'udienze del 20 novembre 2018 e del 4 dicembre 2018, la stessa deve essere rimessa al Procuratore della Repubblica competente per le determinazioni eventuali ex art. 656 codice di procedura penale. (1) Al riguardo, pare significativa e meritevole di verifica, unitamente alle positive informazioni fornite dai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, la dichiarazione di intenti resa dal P all'udienza del 4 dicembre 2018: «Ho cambiato vita rispetto al passato, la detenzione carceraria mi ha profondamente prostrato dal punto di vista emotivo e oggi sono una persona diversa ... Dopo le vicende penali per cui mi trovo oggi qui non ho avuto ulteriori denunce e la mia prospettiva e' quella di farmi una vita nuova, insieme alla mia fidanzata a C o comunque nel Nord Italia. Non ho intenzione di rientrare in , terra che ha provocato sofferenze a me e alla mia famiglia. Sono anche disponibile alla detenzione domiciliare in una comunita' da individuarsi a C o in un'altra localita' del Nord Italia». (2) Nel recente passato, il legislatore ha gia' dimostrato di prestare attenzione alla condizione detentiva dei giovani adulti, modificando l'art. 24, comma 1 disp. Att. min. e cosi' stabilendo che «le misure cautelari, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguono secondo le norme previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell'esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di eta'».
P.Q.M. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. II, comma terzo, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, nella parte in cui dispone che «ai fini della concessione delle misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione del lavoro esterno, si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354», per contrasto con gli articoli 2, 3, 27, III comma, 31, secondo comma, e 117, I comma, della Costituzione; Sospende il procedimento di sorveglianza in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che, a cura della cancelleria in sede, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' a P F, al difensore e al pubblico ministero; Ordina che, a cura della cancelleria in sede, l'ordinanza sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; Dispone che la richiesta di sospensione dell'ordine di esecuzione formulata nell'interesse di P F alle udienze del 20 novembre 2018 e del 4 dicembre 2018 sia comunicata al Procuratore della Repubblica competente per le determinazioni eventuali ai sensi dell'art. 656 codice di procedura penale. Reggio Calabria, 4 dicembre 2018 Il Presidente: Di Bella