N. 56 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 dicembre 2018

Ordinanza del 28 dicembre 2018 del Tribunale dei minorenni di  Reggio
Calabria nel procedimento penale a carico di P. F.. 
 
Esecuzione  penale  -  Esecuzione  delle  pene  nei   confronti   dei
  condannati minorenni - Misure penali di  comunita'  -  Applicazione
  dell'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge n. 354  del  1975  ai
  fini della concessione delle  misure  penali  di  comunita'  e  dei
  permessi premio e per l'assegnazione al lavoro esterno. 
- Decreto  legislativo   2   ottobre   2018,   n.   121   (Disciplina
  dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati  minorenni,
  in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82,  83  e  85,
  lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103), art. 2, comma 3. 
(GU n.16 del 17-4-2019 )
 
           IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI REGGIO CALABRIA 
 
    in funzione di Tribunale di sorveglianza, riunito  in  Camera  di
consiglio con l'intervento dei sigg.: 
        dott. Roberto Di Bella, Presidente; 
        dott. Sebastiano Finocchiaro, giudice; 
        dott. Aldo Musmeci, giudice onorario; 
        dott. Luciangela Piras, giudice onorario; 
    nel procedimento n. 9/2018 SIUS relativo a Paiano Francesco, nato
a Cinquefrondi (RC) il 3 luglio 1995, ha emesso la seguente 
 
                              Ordinanza 
 
    Con istanza depositata in data  19  ottobre  2018,  confermata  e
integrata all'udienza del 4 dicembre 2018, P F,  detenuto  condannato
alla pena di anni cinque di reclusione (con sentenza della  Corte  di
appello - sez. per i minorenni di Reggio Calabria in data  28  maggio
2015, in riforma della sentenza emessa dal g.u.p. presso il Tribunale
per i minorenni  di  Reggio  Calabria  in  data  19  settembre  2014,
divenuta irrevocabile in data 14 novembre 2017) per i reati  previsti
e puniti dagli articoli 416-bis codice penale, 2 e 7 legge 2  ottobre
1967, n. 895, in relazione all'art. 7 del decreto-legge  n.  152/1991
convertito in legge n. 23/1991  -  sollecitava  l'applicazione  della
misura della detenzione domiciliare da espiarsi in , via , o  in  una
struttura comunitaria del Nord Italia in relazione alla residua  pena
da  espiare  di  anni  uno,  mesi  cinque  e  giorni  quattordici  di
reclusione (scadenza pena  definitiva  11  marzo  2020),  cosi'  come
determinata con ordine di esecuzione della Procura generale presso la
Corte di appello di Reggio Calabria del 28 settembre 2018. 
    All'udienza  del  4  dicembre  2018,  in  sede   di   discussione
dell'instaurato procedimento di sorveglianza,  il  Procuratore  della
Repubblica  richiedeva  sollevarsi  la  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma terzo, del decreto  legislativo  n.
121/2018, nella  parte  in  cui  prevede  una  rigida  preclusione  e
comunque circostanze assai selettive nella concessione  delle  misure
penali di comunita' alla presenza dei cc.dd. reati  ostativi  di  cui
all'art.  4-bis  della  legge  n.  354/1975.   In   particolare,   il
Procuratore  della  Repubblica  adombrava  una  sospetta   violazione
dell'art. 76 Cost. (per inosservanza dei principi e criteri direttivi
indicati nella legge delega n. 103/2017), dell'art. 27,  comma  terzo
Cost.,  dell'art.  31,  comma  secondo  Cost.  (per  violazione   del
principio  della  finalita'  educativa  della  pena  prevista  per  i
minorenni e i giovani adulti) e dell'art. 117 Cost.  (per  violazione
degli impegni assunti dall'Italia con la firma e  la  ratifica  delle
numerose Convenzioni internazionali a tutela dell'infanzia).  In  via
vicaria, il medesimo Procuratore della  Repubblica  esprimeva  parere
favorevole all'applicazione della misura alternativa della detenzione
domiciliare in una comunita' educativa da reperirsi nel Nord Italia. 
    Analoga questione di legittimita' costituzionale formulava in via
subordinata il difensore del P , che  in  primo  luogo  segnalava  la
necessita' di concedere al condannato la misura alternativa richiesta
secondo un'interpretazione estensiva (e costituzionalmente orientata)
del principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
90 del 2017  in  relazione  all'art.  656,  comma  9  del  codice  di
procedura penale. Nel dettaglio, il difensore avvisava la  necessita'
di applicare al condannato la normativa antecedente (piu' favorevole)
a  quella  introdotta  dal  decreto  legislativo  n.   121/2018,   in
considerazione  della  natura  penale   e   non   processuale   delle
disposizioni sopravvenute e, in ogni caso, della continuita'  tra  la
presente procedura e quella analoga conclusasi con  provvedimento  di
rigetto emesso in data 18 settembre 2018 da questo tribunale. 
 
                      Rilevanza della questione 
 
    Cio' premesso, per un  corretto  inquadramento  della  questione,
occorre esaminare le vicissitudini  della  disciplina  relativa  alle
misure alternative all'esecuzione penale minorile. 
    Ad oltre quarant'anni di distanza dalla riforma penitenziaria del
1975 e da quella disposizione transitoria, l'art. 79,  che  estendeva
la disciplina esecutiva prevista per gli adulti anche  ai  condannati
minorenni in attesa di un  intervento  legislativo  ad  hoc,  con  il
decreto  legislativo  n.  121/2018  e'  stato  introdotto  il   nuovo
ordinamento penitenziario minorile in attuazione dell'art.  1,  comma
81, 83 e 85, lettera p) della legge delega 23 giugno 2017 n. 103. 
    L'assenza di una normativa dedicata tradiva  quella  specificita'
connessa con lo status di minorenne (trattamento differenziato  dagli
adulti) che e' il segno distintivo del nuovo modello di giurisdizione
punitiva pensato peri minori. In effetti era sembrato paradossale che
la tutela delle esigenze  educative  costituisse  il  tema  dominante
dell'intero processo minorile e ne forgiasse la peculiare  struttura,
ma venisse meno proprio nella fase esecutiva della pena, il  segmento
processuale a vocazione prettamente pedagogica. 
    Nella mancanza di interventi  legislativi,  era  stata  la  Corte
costituzionale ad avere svolto un progressivo lavoro  di  adeguamento
delle norme di ordinamento penitenziario  contenute  nella  legge  26
luglio  1975,  n.  354,  alle  esigenze  educative   del   condannato
minorenne; in particolare, la Consulta con una sentenza monito  aveva
dato un chiaro segnale al legislatore statuendo che l'assenza di ogni
diversificazione nel regime  trattamentale  tra  adulti  e  minorenni
comprometterebbe «quell'esigenza di specifica  individualizzazione  e
flessibilita' del trattamento che l'evolutivita'  della  personalita'
del minore e la  preminente  funzione  educativa  richiedono»  (Corte
cost., 25 marzo 1992, n. 125). 
    Tali indicazioni  sono  state  recepite  dalla  legge  delega  n.
103/2017 (art. 1, comma 85, lettera p), insieme all'attuazione  degli
impegni che il nostro Paese ha assunto con  la  sottoscrizione  delle
Carte internazionali che promuovono una giustizia penale a misura  di
minore (regole di Pechino, convenzione Onu sui diritti  dell'infanzia
e dell'adolescenza, Convenzione europea  sull'esercizio  dei  diritti
dell'uomo etc.). La delega  ha  tracciato  le  linee  dell'intervento
normativo seguendo tre direttrici: priorita' assegnata ai bisogni del
minorenne  e  alla   promozione   della   sua   persona,   attraverso
l'individualizzazione e la flessibilita'  dell'intervento  educativo;
preferenza accordata alle  misure  alternative  alla  detenzione  che
delineano un modello penitenziario incentrato sui bisogni del singolo
condannato e che,  di  conseguenza,  cambiano  l'attuale  prospettiva
punitiva incentrata sul carcere; riorganizzazione degli istituti  per
i  minorenni  in  modo  da  favorire  la  responsabilizzazione  e  il
rafforzamento delle relazioni con il mondo esterno, in funzione di un
proficuo inserimento sociale che riduca il piu' possibile il  rischio
di commissione di nuovi reati. 
    In attuazione della  legge  delega,  il  decreto  legislativo  n.
121/2018, entrato in vigore in data 10  novembre  2018,  introduce  e
disciplina le misure penali di comunita',  quali  misure  alternative
alla  detenzione  qualificate  dall'essere  destinate  ai  condannati
minorenni e  giovani  adulti:  l'affidamento  in  prova  al  servizio
sociale, l'affidamento in prova al servizio  sociale  con  detenzione
domiciliare,   la   detenzione   domiciliare,   la   semiliberta'   e
l'affidamento in prova terapeutico. 
    Tali misure, tuttavia, non possono essere  concesse  in  presenza
dei   reati   cosiddetti   ostativi    previsti    dall'art.    4-bis
dell'ordinamento  penitenziario,  in  virtu'  dell'inequivoco  tenore
letterale  dell'art.  2,  comma  III,  del  decreto  legislativo   n.
121/2018, secondo cui: «Fermo quanto previsto dall'art. 1,  comma  1,
ai fini della concessione delle misure  penali  di  comunita'  e  dei
permessi premio e per l'assegnazione del lavoro  esterno  si  applica
l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354». 
    Ne consegue che non hanno trovato puntuale attuazione i punti 5 e
6 della delega, a proposito dell'ampliamento dei criteri  di  accesso
alle misure alternative alla detenzione e  all'eliminazione  di  ogni
automatismo e preclusione per la concessione o la revoca dei benefici
penitenziari. Invero, il testo approvato, pur riprendendo  l'impianto
generale,  differisce  radicalmente  dalla  bozza   elaborata   dalla
Commissione   ministeriale   per    la    riforma    dell'ordinamento
penitenziario minorile e di modelli di giustizia riparativa in ambito
esecutivo. 
    La previsione citata sembra, pertanto, porsi in conflitto con  il
punto 6 dell'art. 1, comma 85 della  legge  delega  n.  103/2017,  il
quale prevede l'eliminazione di ogni «automatismo e  preclusione  per
la  revoca  o  per  la  concessione  dei  benefici  penitenziari,  in
contrasto con la funzione rieducativa della pena e con  il  principio
dell'individualizzazione del trattamento». 
    Cio' premesso, ne  consegue  la  rilevanza  della  questione  nel
presente giudizio, in quanto l'applicazione della norma precluderebbe
la valutazione del merito dell'istanza, se non alle rigide condizioni
previste che non appaiono in linea con le attuali esigenze  educative
dell'istante, in quanto il P risulta condannato per i reati  ostativi
previsti e puniti dall'art. 416-bis codice penale e dagli articoli  2
e 7 legge del 2 ottobre 1967, n. 895, in  relazione  all'art.  7  del
decreto-legge n. 152/1991 convertito in legge n. 23/1991. 
    La  questione  assume  poi  ulteriore  pregnanza   nel   presente
procedimento,  in  quanto  questo  Tribunale  di  sorveglianza,   con
ordinanza emessa in data  18  settembre  2018  ha  rigettato  analoga
richiesta del P segnalando - in  ottemperanza  ad  un'interpretazione
estensiva (costituzionalmente orientata delle misure alternative alla
detenzione  per  i  minorenni)  dei  principi  indicati  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 90 del 2017 - che, nel caso  di  un
proposto  mutamento  territoriale  del   domicilio   da   parte   del
condannato, la domanda avrebbe potuto essere ripresentata (cosi' come
e' accaduto) e, sussistendone  le  ulteriori  condizioni  di  merito,
rivalutata  (evidentemente  a  prescindere  dalle  rigide  condizioni
indicate dall'art. 4-bis ord. pen., in ragione del positivo  percorso
rieducativo  gia'  svolto,  sia  durante  la   pregressa   detenzione
carceraria   che   successivamente,    e    della    necessita'    di
individualizzare il trattamento - in un territorio diverso da  quello
di provenienza - in funzione delle sue specifiche esigenze di giovane
adulto). 
    Aggiungasi, a conforto della superiore proposizione, che le nuove
misure penali di comunita' contengono degli  adeguamenti  dispositivi
(possibilita'  di   esecuzione   extraterritoriale   e   prescrizioni
finalizzate al reinserimento sociale)  che  potrebbero  essere  utili
alle esigenze educative espresse dal condannato, nella sua  specifica
condizione di giovane adulto disposto ad allontanarsi - per il  pieno
recupero - dal territorio e dal contesto familiare di appartenenza al
fine di interrompere i collegamenti  con  il  circuito  della  locale
criminalita' organizzata per cui e' stata emessa nei  suoi  confronti
sentenza irrevocabile di condanna (1) . 
    L'applicazione  delle  stesse  e',  tuttavia,  resa  estremamente
difficile - se non, di fatto, automatica esclusa -  dalle  condizioni
(non ricorrenti nel caso che occupa) previste  dall'art.  4-bis  ord.
pen. nei termini in cui sono state via via interpretate dalla Suprema
Corte, secondo cui in tema di misure alternative, e'  causa  ostativa
all'applicazione della detenzione domiciliare la condanna  alla  pena
per uno dei delitti indicati dalla citata norma, a  nulla  rilevando:
1)  l'accertata  recisione  dei  collegamenti  con  la   criminalita'
organizzata,  occorrendo   anche   il   requisito   della   effettiva
collaborazione del condannato  con  la  giustizia,  alla  quale  sono
equiparate la collaborazione impossibile e  quella  c.d.  irrilevante
(Cass. Pen. Sez. I sentenza n. 12982 del 19  febbraio  2004);  2)  la
inesigibilita' della collaborazione con la giustizia,  posto  che  il
rinvio operato dalla disposizione sulla detenzione domiciliare e'  al
catalogo dei  reati  di  cui  all'indicato  articolo  e  non  al  suo
contenuto (cfr. Cassazione Pen. Sez. I,  sentenza  n.  20145  del  27
aprile  2011);  3)  la   mancata   prova   della   attualita'   della
pericolosita' sociale che non equivale alla  prova  della  esclusione
dell'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata
(Cass. Pen., sezione I, sentenza n. 7314 del 28 gennaio 2013). 
    Invero,  la   rigidita'   delle   disposizioni   richiamate   non
consentirebbe un adeguamento della residua  sanzione  da  espiare  ai
progressi compiuti dal P che,  pur  non  avendo  intrapreso  un  (non
irrilevante  alla  luce  delle  evidenze  processuali)  percorso   di
collaborazione con  la  giustizia,  ha  manifestato  l'intenzione  di
trasferirsi definitivamente a C (in un  domicilio  dichiarato  idoneo
dalla Questura del medesimo centro) assecondando un progetto  in  cui
il lavoro, la condivisione con la fidanzata e la netta cesura con  la
vita pregressa rappresenterebbero le direttrici principali (v., a tal
proposito, anche la relazione stilata dall'U.S.S.M di Reggio Calabria
in data 3 dicembre 2018). 
    Per completezza di esposizione  ai  fini  della  rilevanza  della
questione, non possono condividersi i rilievi difensivi  secondo  cui
occorrerebbe applicare al  caso  de  quo  la  normativa  penale  piu'
favorevole risultante dall'interpretazione estensiva  della  sentenza
n. 90 del 2017 con cui la  Consulta  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 656, comma  9,  lettera  a)  del  codice  di
procedura penale, per contrasto con gli articoli 27, terzo  comma,  e
31, secondo comma, Costituzione. 
    Fermo restando che tale disposizione riguarda le  competenze  del
pubblico ministero nella fase esecutiva delle  pene  detentive,  deve
osservarsi che il decreto  legislativo  n.  121/2018  e'  intervenuto
successivamente alla citata sentenza (che,  secondo  un  orientamento
giurisprudenziale,  ripercuoterebbe  i  suoi  effetti   anche   sulle
decisioni del Tribunale di sorveglianza), con la quale  sembra  porsi
in contrapposizione rispetto ai principi informatori. 
    Ne consegue che  un'esegesi  costituzionalmente  orientata  della
disposizione censurata (art. II, comma terzo, decreto legislativo  n.
121/2018), potrebbe dar luogo ad un'interpretazione evolutiva  e  non
estensiva della norma,  con  sostanziale  abrogazione  della  stessa,
vietata  perche'  snatura  la  funzione  di  giudice  da  organo   di
applicazione in quello di  formazione  della  legge  (cfr.  Corte  di
cassazione sez. 3, n. 2230 dell'11 gennaio 1980, Pasculli). 
    Aggiungasi  che  la  normativa  introdotta  dal  citato   decreto
delegato   ha   palesemente   natura   processuale    al    di    la'
dell'intitolazione (misure penali di  comunita'),  sicche'  non  puo'
trovare  applicazione  -  pur  nella  prospettiva   difensiva   della
normativa  antecedente  piu'  favorevole  -  il   principio   sancito
dall'art. 2 del codice penale e dall'art. 25 della Costituzione. 
    La Suprema Corte, con numerose pronunce (v., tra le altre,  Cass.
Pen. Sez. I, sentenza n. 11580 del 5 febbraio 2013; Cass.  Pen,  sez.
I, sentenza n. 32000  del  6  luglio  2006,  Cass.  Pen.  Sez.  Unite
sentenza  n.  24561  del  30  maggio  2006),  ha  stabilito  che   le
disposizioni concernenti  l'esecuzione  delle  pene  detentive  e  le
misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento  del
reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita'  esecutive
della stessa; pertanto, esse non  hanno  carattere  di  norme  penali
sostanziali e soggiacciono al principio «tempus regit  actum»  e  non
alle regole dettate in materia di successione  di  norme  penali  nel
tempo dall'art. 2 codice di procedura penale  e  dall'art.  25  della
Costituzione. 
    Ne consegue che, in virtu' del citato canone interpretativo, deve
essere applicata al caso che occupa la  nuova  normativa  entrata  in
vigore in data 10 novembre 2018. 
    Cio' stabilito, non vi e' dubbio che la questione di legittimita'
costituzionale, cosi' come prospettata,  ha  indubbia  rilevanza  nel
presente procedimento di sorveglianza che non  puo'  essere  definito
nel merito indipendentemente dalla risoluzione del quesito sollevato. 
Profilo di non manifesta infondatezza 
    Prima questione: sospetto contrasto con gli articoli 2, 3, 76, 27
terzo comma e 31, secondo comma, Cost. 
    L'art. 2, comma terzo, del decreto  legislativo  n.  121/2018  si
espone ad  un  sospetto  di  intrinseca  irragionevolezza,  eccedendo
peraltro i principi  e  i  criteri  direttivi  indicati  nella  legge
delega, nella parte in cui introduce un rigido automatismo preclusivo
o comunque pone condizioni assolutamente selettive per la concessione
di misure alternative alla detenzione alla  presenza  di  determinati
reati. 
    Nel ricostruire la questione appare utile prendere le mosse dalla
sentenza n. 90 del 2017 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lett. a)  del
codice di procedura penale, per contrasto con gli  articoli  27,  III
comma, e 31, comma secondo Costituzione, nella parte in cui osta alla
sospensione dell'esecuzione della pena detentiva  nei  confronti  dei
minorenni condannati per i delitti ivi indicati, ossia quelli di  cui
all'art. 4-bis citato. 
    Come e' noto, l'art. 656 codice di procedura penale prevede  che,
nell'ipotesi in cui la sanzione da scontare - anche  ove  costituisca
residuo di maggior pena - rientri nei limiti  previsti  per  le  c.d.
pene detentive brevi, il pubblico ministero e' tenuto a disporre, con
decreto, la sospensione dell'esecuzione. 
    Tale provvedimento era pero', escluso, ai sensi del comma 9 della
medesima  disposizione  normativa,  nei   confronti   delle   persone
condannate per i gravi delitti di  cui  all'art.  4-bis  ord.  penit,
nonche' per i reati previsti dagli articoli 423-bis,  572,  comma  2,
612-bis, comma  3  e  624-bis  codice  penale,  con  l'eccezione  dei
soggetti  tossicodipendenti  o  alcooldipendenti,  aventi  in   corso
programmi terapeutici e sottoposti agli arresti domiciliari, ai sensi
dell'art. 89 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990.  In
tali ipotesi, alla luce di una presunzione di  pericolosita'  sociale
effettuata dal legislatore,  l'eventuale  applicazione  delle  misure
alternative   poteva   avvenire   unicamente   una   volta   iniziata
l'esecuzione  della  pena  detentiva,  alla  presenza  dei   relativi
presupposti di ammissibilita'. 
    In ragione della mancanza di un'apposita  normativa  dedicata  ai
soggetti minorenni, concernente la fase dell'esecuzione penale  e  la
disciplina dell'ordinamento penitenziario, la previsione  codicistica
sopra  delineata  si  applicava  anche  alle   persone   non   ancora
diciottenni al momento della commissione del fatto. 
    Tale  disposizione   e'   stata   dichiarata   costituzionalmente
illegittima dalla Consulta - adita dalla Corte di appello di Milano -
che  ha  segnalato  come  l'esigenza  di  prevedere  un   trattamento
differenziato dell'imputato  minorenne  discende  direttamente  dalla
Costituzione: l'art. 31, comma secondo Cost. dispone, infatti, che lo
Stato italiano «protegge la maternita', l'infanzia  e  la  gioventu',
favorendo gli istituti necessari a tale scopo». 
    Ripercorrendo  il  contenuto  di  numerose  sentenze,  la   Corte
costituzionale ha ricordato come il cuore  della  giustizia  minorile
debba consistere in valutazioni fondate su prognosi individualizzate,
le quali siano in grado di  assolvere  al  compito  di  recupero  del
minore deviante: solo in tal modo  e',  infatti,  possibile  giungere
alla  realizzazione  di  un  trattamento  flessibile,   adatto   alla
personalita'  in  fieri  del  minore  e  che  valorizzi  la  funzione
rieducativa della pena. 
    Secondo la Consulta,  l'importanza  dell'individualizzazione  del
trattamento  non  viene  meno  con  la  chiusura  del   processo   di
cognizione. Anche l'esecuzione  penale  minorile  deve  rispettare  i
medesimi principi, avendo come scopo  primario  la  risocializzazione
del  condannato,  con  la  necessaria  conseguenza   di   abbandonare
qualsiasi automatismo che escluda il ricorso a benefici  o  a  misure
alternative. 
    In piena coerenza con i principi espressi nei propri  precedenti,
la Corte  costituzionale  ha  ritenuto  che  la  preclusione  operata
dall'art. 656, comma 9, lett. a) dell'art. 656 c.p.p.  contrasti  con
gli articoli 27, comma terzo, e 31, comma secondo, Cost. 
    L'automatismo  posto  dalla  previsione  codicistica  si   fonda,
infatti, su una presunzione di pericolosita' esclusivamente  radicata
sul titolo di reato commesso. Essa impedisce, pertanto,  agli  organi
giurisdizionali di effettuare una valutazione nel merito del  singolo
caso concreto  e,  conseguentemente,  di  valorizzare  le  specifiche
esigenze educative del condannato. 
    Tale statuizione costituisce  l'ultima  di  una  lunga  serie  di
pronunce rese dalla Corte costituzionale in tema di esecuzione penale
minorile. Invero, numerosi sono stati gli interventi  della  Consulta
che hanno tentato di sopperire alle mancanze  del  legislatore,  onde
consentire  un  effettivo  adeguamento  del  trattamento  del  minore
condannato alle esigenze di recupero e di rieducazione,  stabilite  a
livello costituzionale. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo,
alla dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  67,
legge 24 novembre 1981,  n.  689,  in  quanto  prevedeva,  anche  nei
confronti  dei  minorenni,  il  divieto  di   disporre   una   misura
alternativa nel caso di condanna a pena  detentiva,  derivante  dalla
conversione conseguente alla violazione di  prescrizioni  inerenti  a
sanzioni  sostitutive.  Parimenti  rilevante  la  pronuncia  che   ha
censurato l'art. 59 legge 24 novembre 1981, n. 689,  nella  parte  in
cui  estendeva  ai  condannati  minorenni  le  condizioni  soggettive
previste per l'applicazione delle  sanzioni  sostituite,  nonche'  la
sentenza della Corte costituzionale che ha rilevato  l'illegittimita'
dell'art. 58-quater, comma 2 ord. penitenziario, ai sensi del  quale,
a seguito della revoca di una misura alternativa, era preclusa  anche
al condannato detenuto  minore  d'eta'  la  concessione  di  benefici
penitenziari per un periodo di anni tre. 
    I precedenti richiamati, come la sentenza del 2017, evidenziavano
come non fosse piu' rinviabile un intervento legislativo  in  materia
che recepisse gli insegnamenti della Consulta e che  si  conformasse,
altresi', ai principi espressi in numerosi atti internazionali. 
    Sul punto,  infatti,  si  sono  espresse  le  Nazioni  Unite,  il
Consiglio d'Europa e le istituzioni eurounitarie. In merito, vale  la
pena di  ricordare  le  Regole  minime  per  l'amministrazione  della
giustizia minorile, c.d. regole di Pechino (approvate  dall'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite in data 29 novembre 1985), le regole ONU
per la  protezione  dei  minori  privati  della  liberta'  (approvate
dall'Assemblea Generale delle  Nazioni  Unite  in  data  14  dicembre
1990), c.d. regole dell'Havana, la Raccomandazione del  Comitato  dei
Ministri del Consiglio d'Europa in data 5 novembre 2008 sulle  regole
del trattamento per i condannati minorenni sottoposti a sanzioni o  a
misure restrittive della liberta' personale, le linee  guida  su  una
giustizia a misura di minore  adottate  dal  Consiglio  d'Europa  nel
2010, nonche',  da  ultimo,  la  direttiva  2016/800  del  Parlamento
europeo  e  del  Consiglio  dell'11  maggio   2016   sulle   garanzie
procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. 
    Le  indicazioni  che  accomunano  tutti  gli  atti  citati   sono
essenzialmente riconducibili all'esigenza che le autorita'  nazionali
ricorrano alla privazione della  liberta'  personale  del  condannato
minorenne quale misura di ultima istanza.  Si  richiede  inoltre  che
venga sempre privilegiato il ricorso alle misure alternative, che  il
minore detenuto sia collocato in istituti separati rispetto a  quelli
degli adulti e che gli venga garantito un  trattamento  penitenziario
specificamente disegnato sulle sue peculiari necessita'. 
    Al fine di garantire l'effettiva  preminenza  della  funzione  di
recupero del minorenne rispetto alla pretesa punitiva dello Stato, in
ossequio ai principi costituzionali e alle indicazioni  delle  citate
convenzioni internazionali, la legge (di riforma)  delega  23  giugno
2017, n.  103,  ha  prescritto  che  siano  ampliati  i  criteri  per
l'accesso alle misure  alternative.  Recependo  i  principi  espressi
dalla     giurisprudenza      costituzionale      e      valorizzando
l'individualizzazione del trattamento, il  legislatore  delegante  ha
poi incaricato il legislatore delegato  di  eliminare  automatismi  e
preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi  sia
per   gli    autori    di    determinate    categorie    di    reati,
l'individualizzazione del trattamento rieducativo. 
    Assolutamente  pertinente  alla  vicenda  in   oggetto   e'   poi
l'estensione della  previsione  che  sollecita  l'applicazione  della
normativa  penitenziaria  minorile  anche  ai  c.d.  giovani  adulti,
categoria che identifica i soggetti di eta' compresa tra i diciotto e
i venticinque anni. Sul punto vale la pena ricordare come  la  delega
in esame abbia recepito le conclusioni elaborate dal Tavolo  V  degli
Stati Generali dell'esecuzione penale, appunto dedicate ai  minorenni
autori di reato. In tale contesto,  infatti,  era  stata  evidenziata
l'opportunita' di estendere alla  citata  categoria  di  soggetti  le
prescrizioni dedicate ai minorenni, al fine di  favorire,  anche  per
essi, i processi educativi in atto (2) . 
    Cio' premesso, deve osservarsi come  il  decreto  legislativo  n.
121/2018, all'art. 2, III comma, ribadisce la preclusione  automatica
per i reati previsti dall'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26
luglio 1975, n. 354, e comunque richiama le condizioni  assolutamente
selettive della citata norma, che rendono  estremamente  difficoltoso
concedere misure  alternative  privilegiando  -  sulla  base  di  una
presunzione di pericolosita' - l'istanza punitiva rispetto  a  quella
preminente (secondo i dettami della stessa Corte  costituzionale)  di
recupero del minorenne o del giovane adulto. 
    Nella  misura  segnalata,  la  disposizione  sembra   essere   in
contrasto con i principi e i criteri direttivi  fissati  dalla  legge
delega  (art.  1,  punti  5  e  6  dei   comma   85),   a   proposito
dell'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative  alla
detenzione e all'eliminazione di ogni automatismo e  preclusione  per
la concessione o la revoca dei benefici penitenziari. 
    Nel dettaglio, la non manifesta infondatezza della  questione  si
ravvisa nell'evidente asimmetria e irragionevole  diseguaglianza  tra
le disposizioni citate della legge delega 23 giugno 2017, n. 103, che
vieta automatismi e indica la necessita' di un trattamento di  favore
e individualizzato per i minorenni e i giovani adulti  e  l'art.  II,
comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 che  introduce,  per
contro, una preclusione fondata su una sorta di pericolosita' sociale
ricollegata a determinate categorie di reati. 
    Al riguardo, per  la  definizione  di  eccesso  di  delega  resta
fondamentale il richiamo della storica sentenza 3/1957,  nella  quale
la Corte costituzionale ha ritenuto  ascriversi  alla  categoria  «la
mancanza, anche parziale, di delegazione  nonche'  l'uso  del  potere
normativa da parte del legislatore delegato oltre il termine fissato,
ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per  uno
scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa e' delegata». 
    Nei  piu'  recenti  e  consolidati  precedenti,  la  Consulta  ha
stabilito che, per valutare se il legislatore delegato sia incorso in
eccesso di delega, occorre individuare  la  ratio  della  delega  per
individuare se la norma delegata sia con questa coerente, secondo uno
schema assimilabile al giudizio  di  non  manifesta  irragionevolezza
(cfr., tra le altre, Corte costituzionale, sentenza 98/2008). 
    Orbene, applicando i principi ermeneutici  sopra  richiamati,  la
scelta di operare il richiamo all'art. 4-bis ordinanza  pen.  operata
dal legislatore delegato non appare coerente con i riassunti principi
e i criteri direttivi della legge delega. 
    Nella relazione di accompagnamento (p.4) al decreto  delegato  si
legge che «per mantenere indenne dalla riforma la disciplina  di  cui
all'art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, individuato dalla  legge
delega  quale  criterio  generale  che  deve  orientare   tutti   gli
interventi in materia  di  ordinamento  penitenziario,  ivi  compreso
quello minorile (comma 85 dell'art. 1 della legge 103 del  2017),  si
rende  necessario   consentire   l'applicabilita'   dell'art.   4-bis
ordinanza pen.  ai  minorenni,  norma  il  cui  citato  art.  241-bis
ordinanza pen. rinvia». 
    In realta', non  puo'  non  osservarsi  come  non  esiste  alcuna
interdipendenza tra il divieto  automatico  di  accesso  ai  benefici
penitenziari e la sospensione delle regole trattamentali; tra  i  due
regimi vi e' solo la condivisione  di  alcune  fattispecie  gravi  di
reato che li legittimano, ma la loro applicazione resta autonoma  nei
presupposti e nella disciplina (financo i destinatari  sono  diversi:
condannati nel caso di cui all'art. 4-bis ordinanza pen.,  anche  gli
imputati per l'art. 41-bis ordinanza pen.). 
    Cio' premesso, ne  segue  che,  per  rispettare  i  dettami  e  i
principi della legge delega, il legislatore delegato  avrebbe  dovuto
escludere la  presunzione  legale  di  pericolosita'  che  osta  alla
concessione delle misure penitenziarie di favore o che, comunque,  ne
rende  assai  difficile  l'applicazione  non   consentendo   adeguate
prognosi individualizzate.  Il  che  non  vorrebbe  dire  fruibilita'
automatica dei benefici anche per i gravi reati di  cui  al  comma  1
dell'art. 4-bis ordinanza  pen.,  ma  significherebbe  consentire  al
Tribunale di sorveglianza di valutare caso per caso la  meritevolezza
di  tali  misure,  secondo  il  progetto  educativo  costruito  sulle
esigenze del singolo minorenne e nel rispetto di  quel  principio  di
flessibilita' attraverso cui e' possibile realizzare  il  recupero  e
l'inserimento sociale. 
    Pertanto, l'irragionevole asimmetria sembrerebbe porre un profilo
di costituzionalita' della norma (art. II, comma terzo,  del  decreto
legislativo n. 121/2018) con riferimento al combinato disposto  degli
articoli 3 e 76 della Costituzione. 
    Inoltre,  la   medesima   disposizione   sembrerebbe   porsi   in
irragionevole contrasto con la ratio dell'art. 656, comma 9 codice di
procedura penale nel testo risultante dalla sentenza n. 90  del  2017
della Corte costituzionale, in quanto la sospensione  dell'esecuzione
consentita al pubblico ministero risulterebbe inutiliter data  se  il
Tribunale di sorveglianza non potesse poi valutare nel  merito  -  se
non alle rigide condizioni ivi previste, difficilmente  esigibili  da
un minorenne o da un giovane adulto la cui personalita' e' ancora  in
fieri - le istanze di misure alternative alla detenzione  anche  alla
presenza dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis o.p. 
    In altri termini, mentre il codice di procedura penale,  all'art.
656, comma 9, lettera a), si rivolge  al  pubblico  ministero,  prima
impedendogli e poi, dopo la sentenza nr. 90 del 2017 della  Consulta,
consentendogli l'emissione dell'ordine di esecuzione con  sospensione
anche alla presenza di reati ostativi, il nuovo  decreto  legislativo
n. 121/2018 non si rivolge affatto al pubblico ministero (almeno  non
nelle ipotesi  in  cui  quest'ultimo  dovrebbe  emettere  decreto  di
carcerazione senza sospensione) ma solo al Tribunale di sorveglianza,
impedendo a quest'ultimo di concedere le misure penali  di  comunita'
in  caso  di  reati  ostativi,  ovvero  in  casi  analoghi  a  quelli
analizzati dal pubblico ministero nella sua diversa prospettiva. 
    Pertanto, l'art. 2, comma III,  del  citato  decreto  legislativo
legittima un sospetto di contrasto con il  principio  di  eguaglianza
formale e sostanziale consacrato nell'art. 3 Cost., che comporta  che
siano trattate ugualmente situazioni eguali e diversamente situazioni
diverse, con la conseguenza che  ogni  differenziazione,  per  essere
giustificata,  deve  risultare   ragionevole,   cioe'   razionalmente
correlata al fine per cui si e' inteso stabilirla. 
    Tale razionalita' non sembra potersi rintracciare  nel  caso  che
occupa,  in  quanto  non  si  ravvisano  argomenti  plausibili  della
disomogeneita' della norma rispetto ai principi della legge delega  e
a quelli richiamati dall'art. 656,  comma  9,  nel  testo  risultante
dalla sentenza della Corte  costituzionale,  in  relazione  ai  quali
«l'estensione  ai  detenuti  minorenni  della   disciplina   generale
contrasta con le esigenze di recupero e della  risocializzazione  dei
minori  devianti,  esigenze   che   comportano   la   necessita'   di
differenziare il  trattamento  dei  minorenni  rispetto  ai  detenuti
adulti e di eliminare automatismi applicativi  nell'esecuzione  della
pena». 
    Piu' in generale, la norma richiamata si pone anche  in  antitesi
irragionevole con altri istituti  del  processo  penale  minorile  di
cognizione, come ad esempio quello della sospensione del  processo  e
messa alla prova di cui all'art.  28  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 22 settembre 1988, n. 448,  applicabili  senza  il  rigido
sbarramento previsto dall'art. 4-bis ord. pen. anche alla presenza di
gravi reati come  quelli  per  cui  e'  stato  condannato  l'istante,
secondo  un'ottica   che   privilegia   le   esigenze   di   recupero
dell'imputato minorenne o  del  giovane  adulto  rispetto  alla  mera
pretesa punitiva. 
    Tale asimmetria non  appare  ragionevole  in  virtu'  dell'intero
impianto del processo minorile e dei principi a tutela  dell'infanzia
cui lo stesso si ispira, cosi' come richiamati dalla legge  delega  e
dallo stesso decreto legislativo n. 121/2018, che all'art.  2,  comma
2, stabilisce che «le misure penali di comunita' sono disposte quando
risultano idonee a favorire l'evoluzione positiva della  personalita'
del minorenne, un proficuo percorso educativo e di recupero ...». 
    Inoltre, tra i  principi  informatori  dell'intero  impianto  del
processo minorile - con cui sembra  porsi  in  contrasto  l'art.  II,
comma terzo, del decreto legislativo n. 121/2018 -  non  possono  non
menzionarsi quelli  indicati  dagli  articoli  37,  lett.  b)  e  40,
paragrafi 1 e 4, della  Convenzione  di  New  York  sui  diritti  del
fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con  la  legge  27  maggio
1991,  n.  176,  secondo  cui:  1)  «L'arresto,   la   detenzione   o
l'imprigionamento  di  un  fanciullo  devono  essere  effettuati   in
conformita' con la  legge,  costituire  un  provvedimento  di  ultima
risorsa ed avere la durata piu' breve possibile (art. 37)»;  2)  «Gli
Stati parti riconoscono ad  ogni  fanciullo  sospettato,  accusato  o
riconosciuto colpevole di reato penale il diritto ad  un  trattamento
da favorire il suo senso della dignita' e del valore  personale,  che
rafforzi il suo rispetto per i diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali  e  che  tenga  conto  della  sua  eta'  nonche'   della
necessita' di facilitare il suo reinserimento  nella  societa'  e  di
fargli volgere un ruolo costruttivo  in  seno  a  quest'ultima...  4.
Sara' prevista tutta una gamma di disposizioni .., nonche'  soluzioni
alternative all'assistenza istituzionale, in vista di  assicurare  ai
fanciulli un trattamento conforme al loro benessere  e  proporzionato
sia alla loro situazione che al reato» (art. 40). 
    Parallelamente, l'art. II, comma terzo, del  decreto  legislativo
n. 121/2018 sembrerebbe in  potenziale  contrasto  con  il  principio
sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost.,  da  ritenersi  intimamente
connesso con quelli di cui agli articoli 2,  3  e  31  secondo  comma
Cost.,  in  quanto  la  necessita'  di   prevedere   un   trattamento
differenziato  per  i  minorenni  e   i   giovani   adulti   discende
direttamente  dalla  Costituzione:  l'art.  31  comma  secondo   Cost
dispone, infatti, che lo  Stato  italiano  «protegge  la  maternita',
l'infanzia e la gioventu', favorendo gli istituti  necessari  a  tale
scopo». 
    E',  infatti,  costante   nella   giurisprudenza   costituzionale
l'affermazione della esigenza che il sistema  di  giustizia  minorile
sia caratterizzato fra l'altro dalla «necessita' di  valutazioni,  da
parte dello stesso giudice, fondate su prognosi  individualizzate  in
funzione del recupero del minore deviante» (sentenze n. 143 del 1966,
n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del  1978),
anzi su «prognosi particolarmente individualizzate» (sentenza  n.  78
del 1989),  questo  essendo  «l'ambito  di  quella  protezione  della
gioventu' che trova fondamento nell'ultimo comma 31 Cost.»  (sentenze
n. 128 del 1987 e n. 222 del 1983): vale a dire  della  «esigenza  di
specifica individualizzazione e  flessibilita'  del  trattamento  che
l'evolutivita' della personalita' del minore e  la  preminenza  della
funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 125 del 1992). 
    Secondo la Corte, inoltre, l'importanza  dell'individualizzazione
del trattamento non viene  meno  con  la  chiusura  del  processo  di
cognizione. Anche l'esecuzione  penale  minorile  deve  rispettare  i
medesimi principi, avendo come scopo  primario  la  risocializzazione
del  condannato,  con  la  necessaria  conseguenza  che  deve  essere
abbandonato qualsiasi automatismo che escluda il ricorso a benefici o
a misure alternative. 
    Ne consegue che l'art. 2, comma terzo, del decreto legislativo n.
121/2018 nella misura in cui estende ai minorenni e ai giovani adulti
le analoghe preclusioni  previste  per  gli  adulti  non  sembrerebbe
rispettoso della  necessaria  flessibilita'  e  attenzione  che  deve
prestarsi in relazione alle peculiari esigenze  di  risocializzazione
del minore, con  correlata  violazione  della  finalita'  rieducativa
della pena e dei diritti inviolabili delle persone di minore  eta'  o
dei giovani adulti. 
    La  sanzione  penale  e,  quindi,  le  misure  alternative   alla
detenzione rispettano il principio di rieducazione previsto dall'art.
27, comma terzo Cost., adempiendo, nel  contempo,  alla  funzione  di
difesa sociale e di tutela delle posizioni individuali - la' dove  si
traducano in una valutazione nella  quale  si  trattino  diversamente
situazioni differenti, ovvero quando i trattamenti siano  distinti  e
coerenti con l'esigenza di risocializzazione dell'autore del reato, a
maggior ragione se si tratti di un minorenne o di un giovane adulto. 
    Cio' premesso, l'automatismo posto dall'art. 2, comma terzo,  del
decreto legislativo n. 121/2018, fondandosi  su  una  presunzione  di
pericolosita' esclusivamente radicata sul titolo di  reato  commesso,
impedisce agli organi giurisdizionali di effettuare  una  valutazione
nel  merito  del  singolo  caso  concreto  e,  conseguentemente,   di
valorizzare le specifiche esigenze educative del condannato minorenne
o giovane adulto, se non alle rigide  condizioni  previste  dall'art.
4-bis,  commi  1  e  1-bis,  ordinanza  pen.  (il  piu'  delle  volte
difficilmente esigibili, secondo l'id quod plerumque accidit, da  chi
ha una personalita' ancora in fieri). 
    In altri termini, il richiamo  dell'art.  II,  comma  terzo,  del
decreto legislativo n. 121/2018 all'art. 4-bis ordinanza pen.  sembra
operato - privilegiando la pretesa punitiva - in  un'ottica  che  non
appare  puerocentrica,  ovvero  rispettosa  della   personalita'   in
evoluzione del minorenne autore del  reato  e  delle  sue  preminenti
esigenze educative, che possono variare  -  rispetto  al  momento  di
commissione del reato - con la progressiva maturazione. 
    Pertanto,  e'  da  ritenersi  che  il  divieto  generalizzato   e
automatico di un determinato beneficio e,  comunque,  la  concessione
dello stesso alle condizioni restrittive previste  per  i  condannati
maggiorenni   contrasti   con   «il   criterio,    costituzionalmente
vincolante, che esclude siffatti rigidi automatismi, e  richiede  sia
resa possibile invece una valutazione  individualizzata  e  caso  per
caso, in presenza delle condizioni generali costituenti i presupposti
per  l'applicazione  della  misura,  della  idoneita'  di  questa   a
conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione  che  debbono
presiedere all'esecuzione penale minorile (sentenza n. 436 del 1999). 
    Seconda questione:  sospetto  contrasto  con  l'art.  117,  primo
comma,  Costituzione  in  riferimento  alla  direttiva  2016/800  del
Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 e all'art. 49,
3° paragrafo, Carta dei diritti fondamentali dell'UE. 
    La  stessa  disposizione  e',  ad  avviso  di   questo   giudice,
attraversata da un altro  profilo  di  sospetta  incostituzionalita',
intimamente connesso a quelli  prima  esaminati.  Potrebbe,  infatti,
prospettarsi la violazione dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.  per
mancata attuazione degli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800
del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 che chiede
ai legislatori nazionali di provvedere affinche':  1)  sia  garantito
«il diritto del  minore  ad  una  valutazione  individuale»;  2)  «in
qualsiasi  fase  del  procedimento  la  privazione   della   liberta'
personale del minore sia limitata al piu' breve  periodo  possibile»;
2) «ogni qualvolta sia possibile, le autorita' competenti ricorrano a
misure alternative alla detenzione». 
    Norme  che,  sebbene  dettate  per  il  processo  di  cognizione,
potrebbero essere estensivamente  applicate  anche  per  la  fase  di
esecuzione della pena in virtu'  dei  medesimi  principi  ispiratori,
cosi' come del resto auspicato dalla regole della convenzione di  New
York sui diritti del fanciullo del 1989,  dalle  regole  ONU  per  la
protezione   dei   minori   privati   della    liberta'    (approvate
dall'Assemblea Generale delle  Nazioni  Unite  in  data  14  dicembre
1990), c.d. regole dell'Havana, dalla  Raccomandazione  del  Comitato
dei Ministri del Consiglio d'Europa in data  5  novembre  2008  sulle
regole del  trattamento  per  i  condannati  minorenni  sottoposti  a
sanzioni o a misure restrittive della liberta' personale,  dalle  «Le
linee guida  su  una  giustizia  a  misura  di  minore  adottate  dal
Consiglio d'Europa nel 2010». 
    Le  norme  indicate  costituiscono  esempio   di   parametro   di
costituzionalita' in quanto al legislatore nazionale e' richiesta una
produzione legislativa conforme alle disposizioni contenute nel testo
della direttiva ai sensi dell'art. 117,  primo  comma,  Cost..  Detto
parametro si definisce interposto in quanto riproduce  uno  strumento
normativo  sovra  nazionale  (fonte  -   fatto),   recuperato   nella
vincolativita' attraverso l'art. 117, primo comma Cost. («La potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  Regioni  nel  rispetto
della Costituzione, nonche' dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali»). 
    Le disposizioni raccolte nella direttiva europea sono, atteso  il
chiaro tenore dell'art. 288 del trattato di funzionamento dell'Unione
europea, vincolanti per gli  Stati  membri  quanto  al  risultato  da
ottenere, salva restando la competenza delle autorita'  nazionali  in
merito alla forma e ai mezzi, pur essendo prive di efficacia diretta. 
    La vincolativita' delle statuizioni della direttiva si  manifesta
in piu' direzioni. 
    Anzitutto,  si  prevede  in  capo  alle   autorita'   giudiziarie
l'obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme, quando
sia reso possibile dal tenore letterale delle disposizioni  nazionali
(CGUE,  16  giugno  2005,  C-105,  Pupino).  Inoltre,  per  risolvere
antinomie  non  componibili  nell'interpretazione,  la   disposizione
comunitaria quando e' priva di effetto diretto  integra  il  disposto
dell'art.   117,   1   comma,   Cost.,   inserendosi   nel   discorso
costituzionale al pari di parametro interposto. 
    La vincolativita' della direttiva, inoltre, comporta l'insorgenza
in capo allo  Stato,  che  sia  rimasto  inadempiente  rispetto  agli
obblighi  comunitari,  di  una  responsabilita'  nei  confronti   del
cittadino  danneggiato  dalla  violazione  del  diritto   comunitario
(CGUE,05.03.1996, C-46, Brasserie du oeucher Sa). 
    Tanto premesso in ordine generale, seguendo le  direttrici  delle
sentenze  «gemelle»  n.  348  e  n.  349   del   2007   della   Corte
costituzionale, non  si  puo'  non  riconoscere  che,  tra  normativa
interna di rango primario e la Costituzione, si e'  «interposta»  una
direttiva, attuativa di un  trattato  internazionale,  che,  pur  non
direttamente applicabile, crea obblighi del nostro Paese, quale Stato
contraente. 
    Tali obblighi, in primo luogo, impongono  al  giudice  comune  di
«interpretare la norma interna in  modo  conforme  alla  disposizione
internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai  testi
delle norme. Qualora cio' non sia possibile, ovvero il giudice dubiti
della  compatibilita'  della  norma  interna  con   la   disposizione
convenzionale "interposta", egli deve investire  questa  Corte  della
relativa  questione  di  legittimita'  costituzionale   rispetto   al
parametro dell'art. 117, primo comma ... spettera' poi alla Corte ...
accertare il contrasto e,  in  caso  affermativo,  verificare  se  le
stesse norme .. garantiscono  una  tutela  dei  diritti  fondamentali
almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione  italiana»
(Corte Cost. 349/2007). 
    Cio'  premesso,  e'  indubbio  che  il  contrasto  tra  l'attuale
formulazione dell'art. 2,  comma  III,  del  decreto  legislativo  n.
121/2018  e  la  direttiva   richiamata   sia   insanabile   in   via
interpretativa e non puo' trovare rimedio nella disapplicazione della
norma nazionale  da  parte  del  giudice  comune,  essendo  la  norma
dell'Unione europea priva di efficacia diretta. 
    Peraltro, la stessa violazione dell'art. 117 Cost. si  propone  -
in punto di  proporzionalita'  e  di  flessibilita'  del  trattamento
sanzionatorio con riferimento alle specifiche esigenze del  minorenne
o del giovane adulto - in relazione all'art. 49, 3  paragrafo,  Carta
dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea (adottata  al  Consiglio
europeo di Nizza il 7 dicembre 2000), la' dove pretende che «Le  pene
inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». 
    Tale norma deve  interpretarsi  secondo  un'accezione  riferibile
anche alle misure alternative alla detenzione e alla necessita' di un
loro adattamento flessibile non solo alle circostanze  del  fatto  ma
anche alle condizioni specifiche  del  minorenne  autore  del  reato,
quali risultanti dall'evoluzione della sua personalita' nel corso del
trattamento sanzionatorio. 
    Il contrasto segnalato deve,  pertanto,  essere  sottoposto  alla
verifica di costituzionalita' del  giudice  ad  quem.  Questa  appare
l'unica soluzione idonea (e propedeutica) a  garantire  l'adeguamento
del diritto interno agli  obblighi  comunitari  assunti  in  materia,
oltre che un trattamento  sanzionatorio  proporzionato  in  relazione
alle esigenze evolutive del minorenne autore del reato, funzionale al
principio di rieducazione della pena. 
    Infine,  quanto  alla  richiesta   subordinata   di   sospensione
dell'esecuzione   della    pena    con    scarcerazione,    formulata
nell'interesse del P  all'udienze  del  20  novembre  2018  e  del  4
dicembre 2018, la stessa deve essere  rimessa  al  Procuratore  della
Repubblica competente per le determinazioni  eventuali  ex  art.  656
codice di procedura penale. 

(1) Al  riguardo,  pare  significativa  e  meritevole  di   verifica,
    unitamente  alle  positive  informazioni  fornite   dai   servizi
    minorili dell'amministrazione della giustizia,  la  dichiarazione
    di intenti resa dal  P  all'udienza  del  4  dicembre  2018:  «Ho
    cambiato vita rispetto al passato, la detenzione carceraria mi ha
    profondamente prostrato dal punto di vista emotivo  e  oggi  sono
    una persona diversa ... Dopo le vicende penali per cui  mi  trovo
    oggi qui non ho avuto ulteriori denunce e la mia  prospettiva  e'
    quella di farmi una vita nuova, insieme alla mia fidanzata a C  o
    comunque nel Nord Italia. Non ho intenzione  di  rientrare  in  ,
    terra che ha provocato sofferenze a me e alla mia famiglia.  Sono
    anche disponibile alla detenzione domiciliare in una comunita' da
    individuarsi a C o in un'altra localita' del Nord Italia». 

(2) Nel  recente  passato,  il  legislatore  ha  gia'  dimostrato  di
    prestare attenzione alla condizione detentiva dei giovani adulti,
    modificando l'art. 24, comma 1 disp. Att. min. e cosi' stabilendo
    che «le misure cautelari,  le  misure  alternative,  le  sanzioni
    sostitutive, le pene  detentive  e  le  misure  di  sicurezza  si
    eseguono secondo le norme previste  per  i  minorenni  anche  nei
    confronti  di  coloro  che  nel  corso  dell'esecuzione   abbiano
    compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di eta'». 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. II, comma  terzo,  del  decreto
legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, nella parte in  cui  dispone  che
«ai fini della concessione delle misure penali  di  comunita'  e  dei
permessi premio e per l'assegnazione del lavoro esterno,  si  applica
l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975,  n.  354»,
per contrasto con gli articoli 2,  3,  27,  III  comma,  31,  secondo
comma, e 117, I comma, della Costituzione; 
    Sospende il procedimento  di  sorveglianza  in  corso  e  dispone
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
    Dispone che, a  cura  della  cancelleria  in  sede,  la  presente
ordinanza sia notificata al Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
nonche' a P F, al difensore e al pubblico ministero; 
    Ordina che, a cura della cancelleria  in  sede,  l'ordinanza  sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; 
    Dispone che la richiesta di sospensione dell'ordine di esecuzione
formulata nell'interesse di P F alle udienze del 20 novembre  2018  e
del 4 dicembre 2018 sia comunicata al  Procuratore  della  Repubblica
competente per le determinazioni eventuali  ai  sensi  dell'art.  656
codice di procedura penale. 
 
        Reggio Calabria, 4 dicembre 2018 
 
                       Il Presidente: Di Bella