N. 59 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 dicembre 2018

Ordinanza  del  20  dicembre  2018  della  Corte  di  cassazione  nel
procedimento penale a carico di C. S.. 
 
Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Permessi premio -
  Condannato all'ergastolo per  delitti  commessi  avvalendosi  delle
  condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen.,  ovvero  al  fine  di
  agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste - Mancata
  collaborazione con la giustizia -  Preclusione  all'accesso  di  un
  permesso premio. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento  penitenziario
  e sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della
  liberta'), art. 4-bis, comma 1. 
(GU n.17 del 24-4-2019 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
                        Prima Sezione Penale 
 
    Composta dai consiglieri: 
        Giuseppe Santalucia - Presidente 
        Stefano Aprile 
        Gaetano Di Giuro 
        Antonio Minchella 
        Alessandro Centonze - Relatore 
    ha pronunciato la seguente ordinanza 
    Sul ricorso proposto da: 
        1) C     S      ,  nato il            ; 
    Avverso  l'ordinanza  emessa  il  10/04/2018  dal  Tribunale   di
sorveglianza dell'Aquila; 
    Sentita la  relazione  fatta  dal  Consigliere  dott.  Alessandro
Centonze; 
    Lette le conclusioni del Procuratore generale, nella  persona  di
Paolo  Canevelli,  che  ha  concluso,  previa  declaratoria  di   non
manifesta infondatezza e di rilevanza della questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  4-bis,  comma  1,  Ord.   Pen.,   per   la
trasmissione degli atti alta Corte costituzionale; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.  Con  ordinanza  emessa  il   10/04/2018   il   Tribunale   di
sorveglianza dell'Aquila rigettava  il  reclamo  proposto  da  S     
C        avverso decreto di inammissibilita' della sua  richiesta  di
permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen., pronunciato dal  Magistrato
di sorveglianza dell'Aquila il 16/11/2017. 
    Occorre  premettere   che   il   condannato   espiava   la   pena
dell'ergastolo con isolamento  diurno  per  la  durata  di  un  anno,
irrogatagli  per  i  delitti  di  associazione   mafiosa,   omicidio,
soppressione di  cadavere,  porto  e  detenzione  illegale  di  armi,
commessi tra il 1996 e il 1998. Tali reati si ritenevano eseguiti per
agevolare   l'attivita'    dell'associazione    mafiosa    denominata
clan            , com'era desumibile dalla sentenza di  condanna  per
gli omicidi di M      V      e  G       R      , per i  quali  veniva
applicata l'aggravante dei motivi abietti, individuati  nel  fine  di
affermare l'egemonia e il  prestigio  della  consorteria  alla  quale
l'imputato era affiliato. 
    Il provvedimento di rigetto veniva pronunciato dal  Tribunale  di
sorveglianza dell'Aquila sul presupposto che la pena  scontata  da  C
era esclusivamente riferibile a delitti ostativi, per i quali, pur in
assenza di una contestazione formale dell'aggravante speciale di  cui
all'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito,  con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203,  non  sussistevano
condotte di collaborazione  con  la  giustizia,  rilevanti  ai  sensi
dell'art. 58-ter Ord. Pen., cosi' come  richiamato  dall'art.  4-bis,
comma  1,  Ord.  Pen.;  quest'ultima   disposizione,   com'e'   noto,
stabilisce il divieto di concessione di benefici penitenziari,  fatti
salvi i casi di collaborazione con la giustizia, sia per  le  ipotesi
delittuose previste dagli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen. sia per i
reati  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  previste   dall'art.
416-bis cod. pen. ovvero  al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle
associazioni previste dallo stesso articolo. 
    Secondo  il  Tribunale  di   sorveglianza   dell'Aquila,   queste
conclusioni erano avvalorate  dalla  giurisprudenza  di  legittimita'
consolidata, secondo  cui  il  divieto  di  concessione  di  benefici
penitenziari previsto dall'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen. opera anche
quando l'aggravante di cui all'art. 7 del decreto-legge  n.  152  del
1991 non e' oggetto di formale contestazione e si ritiene sussistente
sulla base della sentenza di  condanna,  dovendosi  fare  riferimento
alla qualificazione sostanziale dei delitti giudicati. 
    Si   affrontava,   infine,   la   questione    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen. - nella  parte  in
cui subordina la  concessione  del  permesso  premio  in  favore  dei
condannati alla pena dell'ergastolo per un delitto ostativo alla loro
collaborazione ex art. 58-ter Ord. Pen. - che si riteneva  infondata,
sulla base della giurisprudenza costituzionale e di legittimita'  che
reputa insussistente un'ipotesi di preclusione  assoluta  all'accesso
ai  benefici  penitenziari,  essendo   rimessa   al   condannato   la
possibilita' di superare il divieto normativo attraverso  una  scelta
collaborativa, rilevante ai sensi dell'art. 58-ter Ord. Pen. 
    2. Avverso tale ordinanza S      C         ,  a  mezzo  dell'avv.
Valerio Vianello Accorretti, ricorreva per cassazione, deducendo  due
motivi di ricorso. 
    Con il primo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge
del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 4-bis,  30-ter
e 58-ter  Ord.  Pen.,  conseguente  al  fatto  che  il  Tribunale  di
sorveglianza dell'Aquila riteneva che i delitti  di  omicidio  per  i
quali il ricorrente aveva riportato  la  condanna  all'ergastolo  non
consentivano la concessione  del  permesso  premio  richiesto,  senza
considerare che a C       non era mai stata  contestata  l'aggravante
speciale dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991. 
    A  sostegno  di  tale  doglianza,  si  richiamava  l'orientamento
giurisprudenziale secondo cui il divieto di cui all'art. 4-bis, comma
1, Ord. Pen. puo'  operare  solo  in  presenza  di  una  sentenza  di
condanna che riconosca, sulla  base  di  una  contestazione  formale,
l'aggravante di cui all'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991. 
    Con il secondo motivo di  ricorso  si  deduceva  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, Ord.  Pen.,  in  riferimento
agli artt. 17, 18 e 22 cod. pen.,  per  violazione  degli  artt.  27,
comma terzo, 117 Cost., in relazione all'art. 3 CEDU, conseguente  ai
fatto che la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata  si
poneva  in  contrasto  Con  la  funzione  rieducativa   della   pena,
costituzionalmente garantita, sia perche' impediva il  raggiungimento
delle finalita' riabilitative proprie del  trattamento  penitenziario
sia perche'  appariva  disarmonica  rispetto  ai  principi  affermati
dall'art. 3 CEDU; quest'ultima  norma,  infatti,  impone  agli  Stati
membri di prevedere dei parametri temporali certi in base  ai  quali,
in presenza di una condanna all'ergastolo, al detenuto  e'  garantita
la  possibilita'  di  ottenere,  in  conseguenza  del.  suo  percorso
rieducativo, la revisione della condanna. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  In  via  preliminare,  deve   rilevarsi   che   il   presente
procedimento  deve  essere  sospeso   per   rimessione   alla   Corte
costituzionale della questione di legittimita' dell'art. 4-bis, comma
1,  Ord.  Pen.,  nella  parte  in  cui  esclude  che  il   condannato
all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle  condizioni  di
cui  all'art.  416-bis  cod.  pen.  ovvero  al  fine   di   agevolare
l'attivita' delle associazioni previste dalla stessa norma,  che  non
abbia collaborato con la  giustizia,  nei  termini  di  cui  all'art.
58-ter Ord. Pen., possa essere ammesso alla fruizione di un  permesso
premio. 
    2. Tanto premesso, allo scopo di valutare la rilevanza e  la  non
manifesta infondatezza della questione prospettata  dalla  difesa  di
S       C         occorre anzitutto  esaminare  il  primo  motivo  di
ricorso, per il quale si deve esprimere un giudizio di infondatezza. 
    Osserva, in proposito, il Collegio che il  contrasto  ermeneutico
evocato  con  tale  doglianza,  in  ordine   all'operativita'   della
preclusione prevista dall'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen., in  assenza
di contestazione  formale  dell'aggravante  di  cui  all'art.  7  del
decreto-legge n. 152 del 1991, appare definitivamente superato  dalla
piu'  recente   giurisprudenza   di   legittimita',   che   si   deve
ulteriormente ribadire, secondo cui: «Nell'ipotesi  di  condanna  per
uno dei reati indicati dall'art.  4-bis  Ord.  Pen.,  il  divieto  di
concessione di benefici penitenziari, opera anche quando l'aggravante
di cui all'art. 7 D.L. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203
del  1991,  non  sia  stata  formalmente  contestata,  ma  ne   venga
riscontrata la sussistenza attraverso  l'esame  del  contenuto  della
sentenza di condanna» (Sez. 1, n. 44168 del 13/06/2016,  Rv.  268297;
si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 6065 del
21/02/2017, Rv. 272394). 
    Ne discende che, nelle ipotesi in cui venga formulata  un'istanza
di permesso  premio  da  detenuti  condannati  per  delitti  commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare  l'attivita'  di  un'associazione  mafiosa,  per
valutare la sussistenza di condizioni  ostative  all'ottenimento  del
beneficio assume rilievo decisivo che il delitto risulti commesso con
le  modalita'  richiamate,   rispetto   alle   quali   l'assenza   di
contestazione  formale  dell'aggravante  speciale  dell'art.  7   del
decreto-legge   n.   152   del   1991   e'   irrilevante   ai    fini
dell'applicazione della disciplina prevista dall'art. 4-bis, comma 1,
Ord. Pen. 
    Il Tribunale di sorveglianza  dell'Aquila,  pertanto,  richiamava
correttamente l'orientamento sopra riportato che, tenuto conto  delle
sentenze di condanna presupposte,  induceva  a  ritenere  irrilevante
l'assenza di contestazione formale dell'art. 7 del  decreto-legge  n.
152 del 1991, dedotta dalla difesa di C 
    Queste ragioni impongono di ritenere infondato il primo motivo di
ricorso. 
    3. Ai  fini  dell'esame  della  residua  doglianza,  con  cui  si
deduceva l'illegittimita' costituzionale dell'art.  4-bis,  comma  1,
Ord. Pen., in relazione agli articoli 17, 18  e  22  cod.  pen.,  per
violazione degli artt. 27,  comma  terzo,  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 3 CEDU,  occorre  premettere  che  S       C          ,  che
espiava la pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di
un   anno,   proponeva   reclamo   avverso   la    declaratoria    di
inammissibilita' della domanda di permesso premio presentata ex  art.
30-ter Ord.  Pen.,  per  la  cui  concessione  e'  necessario  che  i
condannati all'ergastolo abbiano scontato almeno dieci anni,  abbiano
tenuto in carcere una  condotta  regolare  e  non  siano  socialmente
pericolosi. 
    Nel  rigettare  la  domanda,   il   Tribunale   di   sorveglianza
dell'Aquila  dichiarava  manifestamente  infondata  la  questione  di
costituzionalita' richiamando la giurisprudenza costituzionale (Corte
cost., sent. n. 135 del 2003) e di legittimita' (Sez. 1, n. 26073 del
20/12/2017, , Rv.  273123)  consolidatasi  in  tema  di  applicazione
dell'art. 4-bis, comma  1,  Ord.  Pen.  ai  soggetti  condannati  per
delitti ostativi, secondo cui la preclusione stabilita da tale  norma
non e' assoluta, potendo essere superata se il  detenuto  sceglie  di
collaborare con la giustizia nei termini di cui all'art. 58-ter  Ord.
Pen. 
    3.1.  In  questa  cornice,  assume  rilevanza   il   tema   della
pericolosita' sociale che l'art.  30-ter  Ord.  Pen.  individua  come
elemento fondamentale per la valutazione, positiva o negativa, di una
domanda di permesso premio, analoga a quella  richiesta  da  S       
C          . 
    L'aspetto di pericolosita' non  e'  stato  oggetto  di  specifica
valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza  che  ha  ritenuto
impeditivo di un  concreto  esame  il  disposto  normativo  dell'art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen. 
    Cio' non priva di rilevanza la questione,  perche'  la  rimozione
dell'ostacolo costituito dalla presunzione assoluta di  pericolosita'
sarebbe l'unico modo per consentire  la  rimessione  al  giudice  del
merito, come  giudice  del  rinvio,  del  compito  di  verificare  in
concreto la ricorrenza dei  presupposti  richiesti  dall'art.  30-ter
Ord. Pen. per la concessione del beneficio, in particolare  l'assenza
di pericolosita' sociale. 
    3.2. Osserva,  in  proposito,  il  Collegio  che  il  tema  della
pericolosita' sociale di persone imputate o  indagate  per  reati  di
criminalita'  organizzata  e'  stato  ripetutamente  vagliato   dalla
giurisprudenza costituzionale, richiamata  dal  Procuratore  generale
nella  sua  esemplare  requisitoria,  alla  luce   della   previsione
dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  e  dei  criteri  che  devono
orientare  il  giudice  nell'applicazione  delle   misure   cautelaci
personali. 
    Si consideri anzitutto che, con la sentenza n. 57  del  2013,  la
Corte costituzionale dichiarava l'illegittimita' dell'art. 275, comma
3, secondo periodo, cod. proc. pen.,  come  modificato  dall'art.  2,
comma 1, decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, nella parte «in cui -
nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza  in
ordine ai delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  previste
dall'art. 416-bis del codice  penale  ovvero  al  fine  di  agevolare
l'attivita' delle associazioni previste  dallo  stesso  articolo,  e'
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -
non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre  misure»
(Corte cost., sent. n. 57 del 2013). 
    Secondo la Corte costituzionale,  le  presunzioni  assolute,  ove
limitative  di  diritti  fondamentali,  violano   il   principio   di
eguaglianza  se  sono  arbitrarie  e  irrazionali  ovvero   «se   non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod plerumque accidit» (Corte cost., sent. n. 57 del
2013, cit.). 
    Al contempo, la possibile estraneita' dell'autore di tali delitti
a un'associazione mafiosa fa escludere che si sia sempre in  presenza
di  un  reato  che  presupponga  la  necessita'  di  un  vincolo   di
appartenenza alla consorteria considerata. Infatti,  l'evocazione  di
un  sodalizio  criminale,  finalizzata  ad  accrescere   la   portata
intimidatoria della condotta illecita, si riflette  certamente  sulla
gravita' del reato e integra la fattispecie aggravata dall'art. 7 del
decreto-legge n. 152 del 1991, ma non puo' essere  equiparata,  sotto
il profilo dei presupposti applicativi della  custodia  cautelare  in
carcere, alla commissione di un delitto che implichi  necessariamente
un vincolo di appartenenza a una consorteria mafiosa. 
    Successivamente, la Corte costituzionale ha approfondito il  tema
della pericolosita' sociale, in relazione a quello  dell'applicazione
delle misure cautelari personali, con la sentenza n. 48 del 2015, con
cui dichiarava  l'illegittimita'  dell'art.  275,  comma  3,  secondo
periodo, cod. proc. pen., nella parte «in cui -  nel  prevedere  che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine  al  delitto
di cui all'art. 416-bis cod. pen., e' applicata custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi',  rispetto  al
concorrente esterno nel suddetto  delitto,  l'ipotesi  in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure» (Corte cost., sent. n. 48 del 2015). 
    Secondo la Corte costituzionale, nei  confronti  del  concorrente
esterno non e' ravvisabile quel vincolo  di  adesione  permanente  al
sodalizio   mafioso   necessario    a    legittimare,    sul    piano
giurisdizionale, il ricorso  esclusivo  alla  custodia  cautelare  in
carcere,  quale  unico  strumento  idoneo  a  recidere   i   rapporti
dell'indiziato  con  l'ambiente  associativo,   neutralizzandone   la
pericolosita'. Infatti, il contesto mafioso  in  cui  si  colloca  la
condotta concorsuale non offre una piattaforma  presuntiva  adeguata,
atteso che il comportamento del concorrente esterno,  pur  esprimendo
una posizione  di  contiguita'  mafiosa,  si  differenzia  da  quello
dell'associato  e  non  consente   di   ritenere   costituzionalmente
legittima la presunzione assoluta di cui all'art. 275, comma 3,  cod.
proc. pen., non risultando l'indagato  stabilmente  inserito  in  una
consorteria connotata per la sua elevata pericolosita' (Corte  cost.,
sent. n. 48 del 2015, cit.). 
    In questo contesto si inserisce problematicamente  l'art.  4-bis,
comma 1, Ord. Pen. che, in relazione alla  concessione  del  permesso
premio, ne preclude l'accesso, in senso assoluto, a tutte le  persone
condannate  per  delitti  ostativi  che   non   hanno   fornito   una
collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi  dell'art.  58-ter
Ord. Pen. 
    Invero, tale  preclusione  assoluta,  non  distinguendo  tra  gli
affiliati di  un'organizzazione  mafiosa  e  gli  autori  di  delitti
commessi avvalendosi delle condizioni di cui  all'art.  416-bis  cod.
pen. ovvero al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni
previste dalla stessa  norma,  appare  confliggente  con  i  principi
affermati dalla  Corte  costituzionale  che,  nelle  pronunzie  sopra
richiamate (Corte cost., sent. n. 57 del  2013,  cit.;  Corte  cost.,
sent.  n.  48  del  2015,  cit.),  ha  affermato   l'incompatibilita'
costituzionale delle presunzioni assolute  di  pericolosita'  sociale
quando  applicate  alle  condotte  illecite  che  non   presuppongono
l'affiliazione a un'associazione mafiosa. 
    3.3. Nella stessa cornice, merita di essere segnalato il percorso
ermeneutico  seguito  dalla  Corte  costituzionale  in   materia   di
compatibilita'  tra  il   divieto   di   concessione   dei   benefici
penitenziari previsto  dall'art.  4-bis,  comma  1,  Ord.  Pen.  e  i
principi  che  governano  l'esecuzione  della   pena,   correttamente
richiamato dal Procuratore generale nella sua requisitoria. 
    Si  consideri  anzitutto  la  sentenza  n.  239  del  2014,   che
dichiarava l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma  1,
Ord. Pen., nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione
dei  benefici  penitenziari,  da  esso  stabilito,  la  misura  della
detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della
medesima legge» e nella parte «in cui  non  esclude  dal  divieto  di
concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito,  la  misura
della detenzione domiciliare  prevista  dall'art.  47-ter,  comma  1,
lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando  la  condizione
dell'insussistenza  di  un  concreto  pericolo  di   commissione   di
ulteriori delitti» (Corte cost., sent. n. 239 del 2014). 
    Secondo  la  Corte  costituzionale,  la  scelta  legislativa   di
accomunare nel regime detentivo prefigurato dall'art. 4-bis, comma 1,
Ord. Pen.  fattispecie  e  misure  alternative  tra  loro  eterogenee
risultava  lesiva  dei  parametri  costituzionali,  essendo  illogica
rispetto all'obiettivo di incentivare la  collaborazione  processuale
quale strategia di contrasto alla criminalita' organizzata.  Infatti,
la  subordinazione  dell'accesso  ai  benefici  penitenziari   a   un
effettivo ravvedimento del condannato e' giustificata solo quando  si
discuta di  misure  alternative  che  mirano  alla  rieducazione  del
condannato e non quando  «al  centro  della  tutela  si  collochi  un
interesse "esterno" ed eterogeneo [...]» (Corte cost., sent.  n.  239
del 2014, cit.). 
    Analogo rilievo ermeneutico deve essere attribuito alla  sentenza
n.  76  del  2017,  con  cui  la  Corte   costituzionale   dichiarava
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47-quinquies, comma  1-bis,
Ord. Pen., limitatamente all'inciso «salvo che  nei  confronti  delle
madri condannate per taluno dei delitti  indicati  nell'art.  4-bis,»
(Corte cost., sent. n. 76 del 2017). 
    Con  tale  pronuncia,  la  Corte  costituzionale  introduceva  un
ulteriore elemento di censura  alle  norme  previste  in  materia  di
benefici penitenziari, con riferimento  alla  detenzione  domiciliare
speciale di cui all'art. 47-quinquies, comma Ord. Pen., evidenziando,
nel caso di specie, l'inammissibilita' di  presunzioni  assolute  che
neghino l'accesso della madre alle modalita' agevolate di  espiazione
della  pena,  impedendo  al  giudice  di  valutare  in  concreto   la
pericolosita' sociale e  facendo  ricorso  a  indici  presuntivi  che
comportano «il totale sacrificio dell'interesse  del  minore»  (Corte
cost., sent. n. 76 del 2017, cit.). 
    Questo percorso proseguiva con la sentenza n. 149 del  2018,  con
cui la Corte  costituzionale  dichiarava  l'illegittimita'  dell'art.
58-quater, comma 4, Ord. Pen., nella parte  «in  cui  si  applica  ai
condannati all'ergastolo per il  delitto  di  cui  all'art.  630  del
codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato» e nella
parte «in cui si applica ai condannati all'ergastolo per  il  delitto
di cui all'art. 289-bis del codice penale che  abbiano  cagionato  la
morte del sequestrato» (Corte cost., sent. n. 149 del 2018). 
    Si ribadivano, in  tal  modo,  i  principi  della  progressivita'
trattamentale e della flessibilita' della pena radicati nell'art. 27,
comma terzo,  Cost.,  che  garantisce  il  graduale  inserimento  del
condannato all'ergastolo  nel  contesto  sociale,  evidenziando  che,
rispetto  a  tali  scopi,  la  disciplina  scrutinata  frustrava  gli
obiettivi perseguiti dalla liberazione  anticipata,  che  costituisce
«un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario [...] e
della filosofia della risocializzazione che ne sta alla  base  [...]»
(Corte cost., sent. n. 149 del 2018, cit.). 
    Del  resto,  tali  obiettivi  di   risocializzazione,   che   non
consentono l'applicazione  di  presunzioni  assolute  in  materia  di
benefici  penitenziari,   erano   ulteriormente   corroborati   dalla
giurisprudenza della Corte EDU  che,  nella  decisione  della  Grande
Camera del 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno  Unito,  citata
dalla   Corte   costituzionale,   richiamava   «la    responsabilita'
individuale del condannato nell'intraprendere un cammino di revisione
critica  del  proprio  passato  e  di  ricostruzione  della   propria
personalita', in linea con le esigenze minime di rispetto dei  valori
fondamentali su cui si  fonda  la  convivenza  civile  [...]»  (Corte
cost., sent. n. 149 del 2018, cit.). 
    4. La giurisprudenza  costituzionale,  richiamata  nei  paragrafi
precedenti, impone alcune considerazioni sull'art.  4-bis,  comma  1,
Ord. Pen. alla luce della peculiare  posizione  del  ricorrente,  che
risulta ininterrottamente detenuto dal  27/06/1998  e  ha  mantenuto,
durante questo lungo  arco  temporale,  un  comportamento  carcerario
rispettoso del programma rieducativo attivato nei suoi confronti. 
    Osserva,  in  proposito,  il  Collegio,  in  linea   con   quanto
evidenziato dal Procuratore  generale  nella  sua  requisitoria,  che
«prevedere il possibile accesso ai benefici penitenziari,  per  tutte
le categorie di detenuti condannati per una delle diverse ipotesi  di
reato descritte nell'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen., solo nei casi in
cui tali detenuti collaborino con  la  giustizia  a  norma  dell'art.
58-ter  Ord.  Pen.,   ha   l'effetto   di   valorizzare   la   scelta
collaborativa, come momento di rottura e di definitivo distacco dalle
organizzazioni  criminali,  anche  nei  confronti  di  detenuti   non
inseriti in contesti associativi». 
    Al contempo, se l'obiettivo prioritario «della norma censurata e'
stato  indicato  nella  incentivazione  alla  collaborazione,   quale
strategia di contrasto della criminalita' organizzata  attraverso  la
rescissione  definitiva   dei   legami   con   le   associazioni   di
appartenenza, appare priva di  ragionevolezza  una  disposizione  che
assimili condotte delittuose cosi diverse tra  loro,  precludendo  ad
una categoria cosi' ampia e diversificata di condannati il diritto di
ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione,
senza che sia data  al  giudice  la  possibilita'  di  verificare  in
concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosita'  sociale
tali da giustificare percorsi penitenziari non  aperti  alla  realta'
esterna». 
    E' un dato consolidato che la scelta  di  fornire  un  contributo
collaborativo,  rilevante  ai  sensi  dell'art.  58-ter  Ord.   Pen.,
rappresenta, per un detenuto appartenente a una consorteria  mafiosa,
una manifestazione inequivocabile del  suo  definitivo  distacco  dal
sodalizio  in  cui  gravitava,  come  costantemente  affermato  dalla
giurisprudenza di legittimita' (Sez. 1, n. 37578 del 03/02/2016,  Rv.
268250; Sez. 1, n. 45593 del 30/11/2010, dep. 2011, Rv. 249174). 
    Tuttavia, che la cessazione dei legami consortili di un  detenuto
con il gruppo  criminale  di  riferimento  possa  essere  dimostrata,
durante la fase di esecuzione della pena, solo attraverso le condotte
collaborative di cui all'art. 58-ter Ord. Pen.  e'  affermazione  che
non puo'  assumere  valore  incontrovertibile e  assurgere  a  canone
valutabile in termini di presunzione assoluta,  a  prescindere  dalle
emergenze concrete. 
    Essa  sembra   non   trovare   copertura   nella   giurisprudenza
costituzionale prima richiamata che, come ha bandito dal  sistema  le
presunzioni assolute di pericolosita',  cosi  non  puo'  avallare  la
conclusione che la  scelta  collaborativa  costituisca  prova  legale
esclusiva di ravvedimento. 
    La rilevanza, ammessa dalla Corte  costituzionale  (Corte  cost.,
sent. n. 48 del 2015, cit.; Corte cost., sent. n. 57 del 2013, cit.),
di elementi specifici  da  cui,  pur  in  presenza  di  comportamenti
criminosi   riconducibili   alla    sfera    di    operativita'    di
un'organizzazione  mafiosa,  si  possa  ricavare  l'insussistenza  di
esigenze cautelari ovvero la possibilita' che queste  possono  essere
soddisfatte con altre misure, rende non manifestamente  infondato  il
dubbio circa la ragionevolezza  dell'equiparazione  assoluta  tra  la
mancata collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter Ord. Pen. e la
condizione di perdurante pericolosita' sociale del condannato. 
    Del  resto,  le  ragioni  che  possono  indurre   un   condannato
all'ergastolo ostativo a non effettuare una scelta  collaborativa  ex
art.  58-ter  Ord.  Pen.  non  risultano  univocamente   dimostrative
dell'attualita' della pericolosita'  sociale  e  non  necessariamente
coincidono con la volonta' di rimanere legato al sodalizio mafioso di
provenienza. 
    Tale scelta, infatti, puo' trovare spiegazione in valutazioni che
prescindono  dal  percorso  rieducativo,  tra  le  quali,  a   titolo
meramente  esemplificativo,  si  possono  citare   il   rischio   per
l'incolumita' propria e  dei  propri  familiari;  rifiuto  morale  di
rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un  congiunto  o  di
persone legate da vincoli affettivi; ripudio di una collaborazione di
natura mera mente utilitaristica. 
    4.1.  I  dubbi  di  costituzionalita'  -  per  la  parte  in  cui
l'interpretazione  che  si   e'   consolidata   ha   strutturato   la
collaborazione con la giustizia in termini di prova legale  esclusiva
del  ravvedimento  e,  soprattutto,  dell'assenza  di   pericolosita'
sociale - aumentano  sol  che  si  considerino  le  peculiarita'  del
permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen. 
    I  permessi  premio,  infatti,  possiedono  una  connotazione  di
contingenza che non ne consente l'assimilazione integrale alle misure
alternative  alla  detenzione,  perche'  essi   non   modificano   le
condizioni restrittive del condannato.  Soltanto  rispetto  a  queste
ultime le ragioni di  politica  criminale  sottese  alla  preclusione
assoluta di cui all'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.  possono  apparire
rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalita' organizzata. 
    Strumentali, al pari delle misure alternative alla detenzione, al
reinserimento sociale attraverso contatti  episodici  con  l'ambiente
esterno,  i  permessi  premio  costituiscono  parte  essenziale   del
trattamento rieducativo,  si'  da  compromettere,  ove  mancanti  per
presunzione di pericolosita'  non  altrimenti  vincibile,  le  stesse
finalita' costituzionali della pena detentiva. 
    I permessi premio, infatti, trovano  fondamento  anzitutto  nella
realizzazione di una finalita' immediata, costituita  dalla  cura  di
interessi affettivi, culturali e di lavoro, che li caratterizza  come
strumento di soddisfazione di esigenze anche molto  limitate  seppure
non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessita'. 
    Questa  Corte,  invero,  ha  gia'  ribadito,  con  giurisprudenza
risalente e non contraddetta, che la concessione dei permessi  premio
e' legata a valutazioni ben  diverse  da  quelle  necessarie  per  la
concessione  dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale,  con
argomenti  estensibili  alla  comparazione  con   le   altre   misure
alternative (Sez. 1, n. 5126 del 25/11/1993, dep. 1994, , Rv. 196096;
Sez. 1, n. 2609 del 04/06/1991, Rv. 188097). 
    In ragione di questa peculiare funzione, occorre allora chiedersi
se non sussista un'area  valutativa  differente  da  quella  espressa
dalla collaborazione con la giustizia che, pur in assenza di  questa,
possa condurre a verificare  in  concreto  la  mancanza  di  elementi
significativi di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  o
addirittura di  elementi  denotanti  un  significativo  distacco  dal
sistema subculturale criminale. 
    Senza considerare che anche  una  concessione  premiale  per  una
finalita'  limitata  e  contingente  potrebbe  sortire  l'effetto  di
incentivare il detenuto a collaborare con l'istituzione carceraria. 
    Osserva, pertanto, il Collegio che  l'innalzamento  della  scelta
collaborativa a prova legale non solo di  ravvedimento  ma  anche  di
assenza di' pericolosita', senza alcuna possibilita' di apprezzamento
in concreto della situazione del detenuto alla stregua  del  criterio
di  individualizzazione  del  trattamento,  non  tiene  conto   della
diversita' strutturale del permesso premio ex art. 30-ter Ord.  Pen.,
dalla natura  contingente,  rispetto  alle  misure  alternative  alla
detenzione, condizionando negativamente il trattamento  del  detenuto
in violazione dell'art. 27 Cost. 
    Queste conclusioni, da ultimo, sembrano avvalorate dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 149 del 2018, che ha ribadito che,  per
il condannato all'ergastolo che abbia raggiunto nell'espiazione della
pena le soglie temporali stabilite dal legislatore e abbia dato prova
di una partecipazione  attiva  al  percorso  rieducativo,  eventuali,
indiscriminate,  preclusioni  all'accesso  ai  benefici  penitenziari
possono legittimarsi sul piano costituzionale solo sulla base di  una
valutazione individualizzata del trattamento  penitenziario,  fondata
su esigenze di prevenzione speciale  concretamente  riscontrate,  non
essendo «possibile sacrificare la funzione  rieducativa  riconosciuta
dall'art. 27, terzo comma, Costituzione sull'altare  di  ogni  altra,
pur legittima, funzione della pena» (Corte cost., sent.  n.  149  del
2018, cit.). 
    5. Le considerazioni esposte impongono di dichiarare rilevante  e
non manifestamente infondata, con riferimento agii artt. 3 e 27 della
Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n.  354,  nella  parte  in  cui
esclude  che  il  condannato  all'ergastolo,  per  delitti   commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste,
che non abbia collaborato  con  la  giustizia,  nei  termini  di  cui
all'art. 58-ter Ord. Pen., possa essere ammesso alla fruizione di  un
permesso premio. 
    A norma dall'art. 23 legge 11 marzo  1953,  n.  87,  deve  essere
dichiarata la sospensione del presente procedimento, con  l'immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    La Cancelleria, infine, provvedera' alla notifica di copia  della
presente ordinanza alle parti  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera
dei Deputati e del Senato della Repubblica. 
 
                                P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 L. n. 87  del  1953,  dichiara  rilevante  e  non
manifestamente infondata, con riferimento agli artt.  3  e  27  della
Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
4-bis, comma 1, legge n. 354 del 1975, nella parte in cui esclude che
il condannato all'ergastolo, per delitti commessi  avvalendosi  delle
condizioni di cui all'art. 416-bis  cod.  pen.,  ovvero  al  fine  di
agevolare l'attivita' delle associazioni in esso  previste,  che  non
abbia  collaborato  con  la  giustizia,  possa  essere  ammesso  alla
fruizione di un permesso premio. 
    Sospende il presente procedimento. 
    Manda la cancelleria per gli  adempimenti  di  cui  all'art.  23,
ultimo comma, legge n. 87 del 1953 e dispone l'immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
        Cosi' deciso il 20 novembre 2018 
 
                      Il Presidente: Santalucia 
 
                                   Il Consigliere estensore: Centonze