N. 155 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 maggio 2019

Ordinanza del 17 maggio 2019 del Tribunale  di  Catania  sul  ricorso
proposto da Spoto Salvatore contro Auchan spa. 
 
Lavoro e  previdenza  (controversie  in  materia  di)  -  Impugnativa
  stragiudiziale del licenziamento - Inefficacia dell'impugnazione se
  non seguita, entro centottanta giorni, dal deposito del  ricorso  o
  dalla comunicazione alla controparte della richiesta  di  tentativo
  di  conciliazione  o  arbitrato  -  Mancata  previsione,  tra   gli
  adempimenti idonei  a  impedire  l'inefficacia,  del  deposito  del
  ricorso cautelare ante causam ex artt. 669-bis, 669-ter e 700  cod.
  proc. civ. 
- Legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali),
  art. 6, comma secondo. 
(GU n.41 del 9-10-2019 )
    Ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale  (articoli  134
della Costituzione e 23 legge 11 marzo  1953,  n.  87)  emessa  nella
causa civile iscritta al n.  12464/2018  R.G.L.  avente  ad  oggetto:
trasferimento del lavoratore - ricorso ex art. 700  del  c.p.c.  ante
causam; 
    Promossa da Salvatore Spoto, con  il  Patrocinio  dell'avv.to  S.
Papotto, domiciliato presso lo studio sito in  Catania,  via  Oliveto
Scammacca n. 17; ricorrente; 
    Contro Auchan s.p.a., in persona del l.r.  pro  tempore,  con  il
Patrocinio dell'avv.to G. Mandala', con domicilio  eletto  presso  lo
studio sito in Catania, via Francesco Crispi n. 225; resistente; 
1. Premessa. 
    Con  ricorso  cautelare  ante  causam,  ex  art.  700  codice  di
procedura civile, Salvatore Spoto, dipendente della  societa'  Auchan
s.p.a., ha impugnato il provvedimento datoriale del  4  giugno  2018,
con il quale, in ragione della chiusura dell'ipermercato  di  via  S.
Giuseppe la Rena sito in Catania ove era  adibito  dal  2002,  veniva
disposto il suo trasferimento presso la sede di Olbia. 
    Ha dedotto  l'illegittimita'  dell'atto  impugnato,  sia  per  la
propria qualita' di lavoratore appartenente alle  categorie  protette
(in quanto invalido civile, gia' affetto  da  patologia  neoplastica,
sottoposta a continuo monitoraggio  presso  l'Ospedale  Garibaldi  di
Catania, in collaborazione con l'Ospedale Gustave Roussy di  Parigi),
sia in ragione della sussistenza di diversi  punti  vendita  siti  in
Sicilia (tra cui Catania, Misterbianco,  Melilli,  Palermo,  Carini),
anche di societa' collegate, ove la societa' avrebbe potuto impiegare
la sua prestazione lavorativa, come peraltro previsto nell'ipotesi di
accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali. 
    Si e' costituita la societa' convenuta la quale,  nel  contestare
la  fondatezza  delle  doglianze  di  parte  attrice,   ha   eccepito
preliminarmente l'inammissibilita' ed infondatezza  del  ricorso  per
intervenuta decadenza dall'azione giudiziale ai sensi  dell'art.  32,
comma tre, lettera c) della legge n. 183/2010, che richiama l'art.  6
legge n. 604/1966. 
    In  particolare,  la  societa'  ha  formulato  due  eccezioni  di
decadenza. 
    Con la prima, ha eccepito che il ricorrente non avrebbe impugnato
stragiudizialmente la comunicazione di  trasferimento  del  4  giugno
2018, ma solo quella di conferma del  28  luglio  successiva,  e  che
pertanto non avrebbe proposto valida impugnazione stragiudiziale  nel
termine di  60  giorni  previsto  dall'art.  6,  comma  1,  legge  n.
604/1966. 
    Con la seconda, ha  eccepito  che  non  risultava  in  ogni  modo
proposta impugnazione giudiziale di merito nel termine  di  decadenza
di 180 giorni previsto dall'art.  6,  comma  2,  legge  n.  604/1966,
scaduto il 29 gennaio 2019,  poiche'  parte  ricorrente,  entro  tale
data, non aveva depositato ne' il ricorso di merito ex art.  414  del
codice di procedura civile, ne' aveva  comunicato  la  richiesta  del
tentativo  di  conciliazione  o  di  arbitrato.   L'odierna   domanda
cautelare ante  causami,  presentata  il  28  dicembre  2018,  doveva
pertanto  intendersi  inammissibile  ed  infondata,  in  ragione  del
rapporto di strumentalita' tra giudizio cautelare e sede di merito  e
dell'inidoneita' del ricorso cautelare ante causam ex  art.  700  del
codice di procedura civile ad impedire l'eccepita decadenza. 
    La causa, dopo un rinvio disposto per tentare  la  conciliazione,
con la formulazione da  parte  di  questo  ufficio  di  tre  proposte
transattive alternative rivelatesi infruttuose  per  mancato  accordo
tra le parti, e' stata discussa all'udienza del 13 marzo u.s. ove  e'
stata trattenuta per la decisione. 
    A  scioglimento  della  riserva  assunta,  si   reputa   che   la
controversia  non  possa  essere  decisa  senza   lo   scrutinio   di
legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 2, legge n.  604/1966,
in quanto richiamato dall'art. 32, comma terzo, lettera c), legge  n.
183/2010, nella parte in cui esso non prevede che «l'impugnazione  e'
inefficace  se  non  e'  seguita,  entro  il  successivo  termine  di
centottanta giorni», oltre che dagli adempimenti ivi indicati,  anche
«dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex articoli  669-bis,
669-ter, 700 c.p.c.». 
    Secondo gli indirizzi espressi  dalla  Corte  costituzionale,  la
questione, ancorche' sollevata nell'ambito di un giudizio  cautelare,
appare sotto tale  profilo  ammissibile  in  quanto  allo  stato  non
risulta esaurita la potestas iudicandi,  ne'  questa  puo'  ritenersi
tale con l'emanazione della misura  cautelare  interinale  che  viene
emessa con separato atto, contestualmente al presente  provvedimento,
la quale e' provvisoria e  rimarra'  efficace  fino  alla  Camera  di
consiglio successiva alla restituzione  degli  atti  da  parte  della
Corte costituzionale ed e' quindi  da  intendersi  condizionata  agli
esiti dello scrutinio di costituzionalita' richiesto (in  tal  senso,
Corte costituzionale 9 maggio 2013, n. 83; Corte  costituzionale,  30
gennaio 2018, n. 10). 
2. Rilevanza della questione. 
2.1. Ricostruzione del quadro normativo  applicabile  e  del  diritto
vivente. 
    Al fine di comprendere la rilevanza della questione, appare utile
effettuare  una  breve  ricostruzione   del   quadro   normativo   di
riferimento. 
    L'atto  datoriale  avversato  dalla  parte   ricorrente   e'   il
trasferimento ex art. 2103 del codice civile del 4 giugno 2018 con il
quale essa e' stata assegnata dalla  sede  di  Catania  a  quella  di
Olbia. 
    A seguito della legge 4 novembre 2010, n.  183,  i  trasferimenti
sono  assoggettati  al  regime  decadenziale  ivi  previsto   per   i
licenziamenti. 
    In particolare, l'art. 32, comma 3,  lettera  c),  legge  n.  183
cit., prevede che le disposizioni di cui all'art. 6  della  legge  15
luglio 1966, n.  604,  come  modificato  dal  comma  1  dello  stesso
articolo, si applicano anche al trasferimento ai sensi dell'art. 2103
del codice civile, con termine decorrente  dalla  data  di  ricezione
della comunicazione di trasferimento. 
    L'art.  6  legge  n.  604/1966,  come  ulteriormente   modificato
dall'art. 1, comma 38,  legge  n.  92/2012,  ed  applicabile  ratione
temporis, prevede al primo comma che «Il  licenziamento  deve  essere
impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni  dalla  ricezione
della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione,
anch'essa in forma scritta, dei  motivi,  ove  non  contestuale,  con
qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere  nota
la   volonta'   del   lavoratore   anche   attraverso    l'intervento
dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare  il  licenziamento
stesso» e al secondo comma che «L'impugna ione e' inefficace  se  non
e' seguita, entro il successivo termine di  centottanta  giorni,  dal
deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in  funzione  di
giudice del lavoro  o  dalla  comunicazione  alla  controparte  della
richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato,  ferma  restando
la  possibilita'  di  produrre  nuovi  documenti  formatisi  dopo  il
deposito  del  ricorso.  Qualora  la  conciliazione   o   l'arbitrato
richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al
relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a
pena di decadenza entro sessanta giorni dal  rifiuto  o  dal  mancato
accordo». 
    In   merito   all'interpretazione   del   secondo   comma   della
disposizione in esame, si rileva un indirizzo fermo, univoco  e  piu'
volte  affermato,  della  Sezione  lavoro  della  Suprema  Corte   di
cassazione, secondo il quale la domanda cautelare ante causam ex art.
700 del codice di procedura civile non  e'  idonea,  ai  sensi  della
predetta  disposizione,  a  mantenere  gli  effetti  dell'impugnativa
stragiudiziale prevista nel primo comma dell'art. 6 legge n. 604/1966
e, dunque, ad impedire lo scorrere del termine previsto dall'art.  6,
comma 2, legge n. 604 cit. 
    Tale indirizzo si fonda sul convincimento  che  la  disposizione,
allorquando fa uso del termine «ricorso», intenda indicare il ricorso
ordinario di merito (ex art.  414  del  codice  di  procedura  civile
ovvero, per i licenziamenti per i quali e' applicabile  la  legge  n.
92/2012, il ricorso ex art. 1, comma 48,  legge  n.  92/2012)  e  non
anche il ricorso cautelare ante causam ex articoli 669-bis e ss.  del
codice di procedura civile. 
    In particolare, con la sentenza 6 dicembre  2018,  n.  31647,  la
Corte di cassazione, ribadendo il senso  di  precedenti  arresti,  ha
pronunciato il seguente principio di diritto: «la proposizione di  un
procedimento cautelare ex art. 700 del codice  di  procedura  civile,
non   e'   idonea   a   mantenere    l'efficacia    dell'impugnazione
stragiudiziale del licenziamento effettuata ai sensi della  legge  n.
604 del 1966, art. 6, comma 2, (come novellata dalla legge n. 183 del
2010, art. 32) essendo necessaria  la  proposizione  di  un  giudizio
ordinario, ossia di un ricorso ex art. 414 del  codice  di  procedura
civile, nell'ambito del  quale  eventualmente  proporre  una  istanza
cautelare ex art. 700 c.p.c.». 
    Poco prima, la stessa Sezione lavoro  della  Suprema  Corte,  con
l'ordinanza del 15  novembre  2018,  n.  29429,  aveva  ritenuto  che
«l'art. 6, comma 2, della legge n.  604  del  1966,  come  modificato
dall'art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010,  va  interpretato
nel  senso  che,   ai   fini   della   conservazione   dell'efficacia
dell'impugnazione   stragiudiziale   del   licenziamento,   sono   da
considerare idonei il deposito del ricorso  ai  sensi  dell'art.  414
c.p.c. sostituito, per le domande di impugnativa  dei  licenziamenti,
dal ricorso di cui all'art. 1, commi 48 e ss., della legge n. 92  del
2012)   nella   cancelleria   del   giudice   del   lavoro    ovvero,
alternativamente, la comunicazione alla controparte  della  richiesta
di conciliazione o arbitrato; non e' invece idoneo a  tale  scopo  il
ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c., perche', da un  lato,
la  proposizione  di  una  domanda  di  provvedimento  d'urgenza   e'
incompatibile con il previo tentativo di conciliazione e,  dall'altro
lato, perche' l'assenza, nel sistema della  strumentalita'  attenuata
di cui all'art. 669-octies, comma 6, del codice di procedura  civile,
di un termine  entro  il  quale  instaurare  il  giudizio  di  merito
all'esito del procedimento cautelare vanificherebbe l'obiettivo della
disciplina introdotta dalla legge n. 183 del 2010,  di  provocare  in
tempi ristretti  una  pronuncia  di  merito  sulla  legittimita'  del
licenziamento». 
    Ancora, si rileva l'ordinanza 7 novembre 2017  n.  26309,  emessa
dalla Suprema Corte, Sezione lavoro, secondo  cui  «la  questione  in
rassegna e' stata  affrontata  e  risolta  da  questa  Corte  con  la
sentenza n. 14390 del 14 luglio 2016, che ha affermato che  la  legge
n. 604 del 1966,  art.  6,  comma  2,  va  interpretato  -  nel  caso
d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate  dall'art.  18
st.lav. e successive modificazioni - nel  senso  che  ai  fini  della
conservazione  dell'efficacia  dell'impugnazione  stragiudiziale  del
licenziamento, e' necessario che nel termine previsto venga  proposto
ricorso secondo il rito di cui alla legge n. 92  del  2012,  art.  1,
commi 48 e seguenti, restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto
ai sensi dell'art. 700 c.p.c.». 
    Ad analoghe conclusioni erano giunte le pronunce della Corte  nei
precedenti successivamente richiamati  (Cass.  Sez.  lav.  14  luglio
2016, sentenza n. 14390 e 5 ottobre 2016, sentenza n. 19919). 
    Come  anticipato,  l'indirizzo  sopra  riportato  si   basa   sul
convincimento che l'art. 6, comma secondo, legge n.  604/1966,  nella
parte in cui utilizza il termine  «ricorso»,  faccia  riferimento  al
ricorso ordinario ex art. 414 del codice di procedura civile  ovvero,
per i licenziamenti che vi sono assoggettati, al ricorso ex  art.  1,
comma 48, legge n. 92/2012. 
    Cio', secondo la  Suprema  Corte,  sotto  il  profilo  letterale,
sarebbe desumibile dal fatto che l'adempimento previsto del «deposito
del  ricorso»  e'  posto  in  alternativa  alla  «comunicazione  alla
controparte  della  richiesta  del  tentativo  di   conciliazione   o
arbitrato»,  e  che  il  tentativo  di  conciliazione   non   sarebbe
concepibile rispetto  ad  una  domanda  proposta  in  via  d'urgenza,
essendo stato disciplinato dagli articoli 410 e  ss.  del  codice  di
procedura civile come procedimento a cui  ha  facolta'  di  accedere,
preventivamente,  chi  intenda  proporre  in  giudizio  una   domanda
relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 del codice  di  procedura
civile (Cass. 15 novembre 2018, ordinanza 29429, cit., §14). 
    Secondo la  Suprema  Corte,  inoltre,  il  riferimento  contenuto
nell'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966 alla  «possibilita'  di
produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso»  non
potrebbe che essere riferita ad un ricorso ai sensi dell'art. 414 del
codice di procedura civile, il solo previsto per  l'impugnazione  dei
licenziamenti all'epoca della legge n. 183/2010, e non ad un  ricorso
d'urgenza per il quale non operano rigide preclusioni (ibidem, § 17). 
    Sotto  il  profilo  logico,   secondo   l'indirizzo   in   esame,
l'alternativa  contenuta  dall'art.  6,  comma  secondo,   legge   n.
604/1966, sarebbe quindi prospettata tra la proposizione immediata di
un ricorso ai sensi dell'art. 414 del codice di procedura civile (poi
sostituito, per le domande  di  impugnativa  dei  licenziamenti,  dal
ricorso di cui all'art. 1, comma 48,  legge  n.  92/2012)  oppure  il
previo avvio delle procedure di conciliazione ed arbitrato, senza che
possa residuare spazio per il ricorso d'urgenza (ibidem, §15). 
    Sotto  il  profilo  sistematico,   cio'   sarebbe   ulteriormente
comprovato dal fatto che il legislatore del  2010  ha  introdotto  un
ulteriore termine di decadenza per l'ipotesi in cui il  tentativo  di
conciliazione non abbia  avuto  esito  positivo  o  la  richiesta  di
arbitrato sia stata rifiutata, dovendo in  tal  caso  intendersi  che
l'adempimento  previsto  (deposito  del  ricorso  entro   l'ulteriore
termine di  giorni  60)  debba  essere  riferito  necessariamente  al
ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile,  sicche'  sarebbe
anomalo se nel  corpo  della  medesima  disposizione  il  legislatore
avesse  utilizzato  il  termine  ricorso  in  due  accezioni  diverse
(ibidem, §16). 
    Sotto il profilo teleologico, quanto sopra sarebbe confermato dal
fatto che  lo  scopo  della  disciplina  introdotta  dalla  legge  n.
183/2010, di provocare in tempi ristretti, una  pronuncia  di  merito
sulla   legittimita'   del   licenziamento,   sarebbe   completamente
vanificato ove si riconoscesse efficacia impeditiva  della  decadenza
anche al ricorso ex art. 700 del codice di  procedura  civile,  posto
che in tal caso l'instaurazione del giudizio di merito  sarebbe  solo
eventuale ai sensi dell'art. 669-octies, comma sesto, del  codice  di
procedura civile, come aggiunto dal decreto-legge n. 35/2005 (ibidem,
§18). 
    L'indirizzo espresso dalla Corte di cassazione,  Sezione  lavoro,
con la sentenza 25 maggio 2016 n. 10840 (1) , in materia  societaria,
stato quindi espressamente disatteso, in quanto  ritenuto  riferibile
«ad una fattispecie (esclusione  del  socio  lavoratore  di  societa'
cooperativa) assolutamente diversa da  quella  in  esame»,  e  tenuto
conto che «il principio ivi affermato non puo'  condurre  a  superare
l'inequivoco tenore letterale dell'art. 6,  legge  604/1966»  (cosi',
Corte Cassazione Sez. lav. 15  novembre  2018,  ordinanza  n.  29429,
cit., § 19, pag. 5). 
    Tutte  le  pronunce  sino  ad  ora  pronunziate  dalla  Corte  di
cassazione, in merito all'art. 6, comma secondo, legge  n.  604/1966,
ritengono che tale disposizione, al fine di  impedire  la  decadenza,
richieda la proposizione di un ricorso di merito (in alternativa alla
comunicazione del tentativo di conciliazione  o  della  richiesta  di
arbitrato), escludendo, quindi, che il ricorso ex art. 700 del codice
di procedura civile possa assumere alcuna rilevanza. 
    Trattasi di un indirizzo privo di contrasti, stabile  e  costante
ormai dalla meta' del 2016, espresso attraverso svariate pronunce, ed
esso appare quindi integrare gli estremi del «diritto vivente», ferma
restando ogni definitiva verifica, al riguardo, da parte della  Corte
costituzionale. 
    Al riferito orientamento hanno peraltro aderito la  locale  Corte
di Appello di Catania, Sez. lav. (Corte appello Catania,  Sez.  lav.,
28 febbraio 2017, n. 249), che ha sul punto riformato una sentenza di
opposto avviso emessa da questa sezione nel  2016  (n.  3134)  e,  da
ultimo, il Collegio reclami ex art. 669-terdecies di  questo  ufficio
(ordinanza 3 novembre 2017, proc. 8479/2017 R.G.L.). 
    Cio' posto, preso atto del diritto vivente, e di come pertanto la
disposizione in esame vada intesa,  si  reputa  necessario  sollevare
d'ufficio la presente questione, per i dubbi  che  la  norma  suscita
sotto il profilo costituzionale. 
    Come piu' volte evidenziato dalla giurisprudenza  costituzionale,
infatti,  «in   presenza   di   un   orientamento   giurisprudenziale
consolidato, il giudice a quo - se e' pur libero di non uniformarvisi
e di proporre una sua diversa esegesi,  essendo  la  «vivenza»  della
norma una vicenda per definizione aperta, ancor piu' quando si tratti
di  adeguarne  il  significato  a  precetti   costituzionali   -   ha
alternativamente la facolta' di assumere interpretazione censurata in
termini di «diritto vivente» e di richiederne su tale presupposto  il
controllo di compatibilita' con parametri costituzionali (sentenze n.
191 del 2013, n. 258 e n. 117 del 2012 e  n.  91  del  2004)»  (Corte
cost. 24 ottobre 2014 n. 242). 
2.2. Rilevanza con riguardo alla fattispecie in scrutinio. 
    Come anticipato in premessa, parte convenuta, nel  richiamare  la
disposizione prevista dall'art. 6 legge n. 604/1966, ha sollevato due
eccezioni preliminari di inammissibilita'  ed  infondatezza,  per  il
fatto che parte lavoratrice non avrebbe proposto valida  impugnazione
stragiudiziale nel termine di 60 giorni (art. 6, comma  1,  legge  n.
604/1966) e per la circostanza che non avrebbe  promosso  ricorso  di
merito, ne' formulato la  richiesta  di  conciliazione  o  arbitrato,
entro il termine di 180 giorni (art. 6, comma 2, legge n. 604/1966). 
    Trattasi  di   eccezioni   di   decadenza   che,   ove   fondate,
risulterebbero tali da potere definire il presente  giudizio,  atteso
che l'eventuale inutile decorso dei  termini  previsti  dall'art.  6,
legge n.  604/1966  precluderebbe  ogni  disamina  del  merito  della
legittimita' del trasferimento impugnato, che dovrebbe  in  tal  caso
considerarsi    indiscutibile    ed    inoppugnabile,    determinando
inevitabilmente la reiezione della domanda cautelare. 
    Cio' posto, va rilevato come  la  prima  eccezione  di  decadenza
appaia   infondata,   avendo   parte   ricorrente   proposto   valida
impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni. 
    Ed invero, la missiva all'uopo inviata il 2 agosto 2018 (doc.  4,
fasc.  ricorrente),  nel  rispetto   del   termine   decorrente   dal
trasferimento del 4 giugno 2018, deve intendersi  riferita  non  solo
alla comunicazione del 28 luglio 2018 - con la  quale,  peraltro,  la
societa' ribadiva il  disposto  trasferimento  -  ma  anche  all'atto
comunicato il 4 giugno cit., in  quanto  espressamente  richiamato  e
ribadito nella comunicazione  del  28  luglio  2018  (doc.  3,  fasc.
ricorrente). Si legge, del  resto,  nell'impugnazione  stragiudiziale
del 2 agosto 2018  la  chiara  volonta'  di  impugnare  «l'ordine  di
trasferimento presso la sede di Olbia»  oggetto  della  comunicazione
del 4 giugno. 
    La prima eccezione di decadenza va, quindi, respinta. 
    Per la soluzione da adottare in merito alla seconda eccezione  di
decadenza   appare    invece    determinante    lo    scrutinio    di
costituzionalita' richiesto. 
    Ed invero, dopo  la  valida  impugnazione  stragiudiziale,  parte
ricorrente, sia pure nel rispetto  termine  di  180  giorni  previsto
dall'art. 6,  comma  secondo,  legge  n.  604/1966,  ha  ritenuto  di
impugnare il trasferimento  solo  con  la  proposizione  dell'odierno
ricorso (depositato il 28 dicembre 2018), quest'ultimo qualificabile,
alla luce della rubrica utilizzata in epigrafe, nonche' del petitum e
della causa petendi, come domanda cautelare ante causam ex  art.  700
del codice di procedura civile. 
    Non sono stati invece proposti ne' il ricorso di merito  ex  art.
414 del codice di procedura civile ne' la richiesta di  conciliazione
o di arbitrato entro la scadenza del termine ultimo  del  29  gennaio
2019. 
    La disposizione dell'art. 6, legge n. 604/1966,  nella  parte  in
cui   richiede,   ai   fini   della   conservazione   degli   effetti
dell'impugnazione   stragiudiziale,   la   successiva    impugnazione
giudiziale, non esige espressamente che la parte lavoratrice promuova
un ricorso  di  merito  («L'impugnazione  e'  inefficace  se  non  e'
seguita, entro il  successivo  termine  di  centottanta  giorni,  dal
deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in  funzione  di
giudice del lavoro...»). 
    Cionondimeno,  come  visto,  il  diritto  vivente  e'  nel  senso
contrario, ritenendo che l'adempimento richiesto  del  «deposito  del
ricorso» debba intendersi riferito al ricorso ordinario ex  art.  414
codice  di  procedura  civile,  rimanendo  esclusa   conseguentemente
l'idoneita' della sola domanda cautelare ante causam ad  impedire  la
decadenza. 
    Alla luce di quanto precede, si comprende  appieno  la  rilevanza
della questione, posto che,  ove  questa  venisse  ritenuta  fondata,
anche la seconda eccezione preliminare sollevata dalla convenuta  non
sarebbe idonea a definire l'odierno giudizio (dovendosi in  tal  caso
rigettare) e la domanda cautelare potrebbe essere utilmente esaminata
ed esitata, non potendo peraltro escludersi, allo stato degli atti, e
per  come  emerge  da  un  primo  sommario  esame  (v.  provvedimento
cautelare interinale emesso con separato  atto),  la  sua  verosimile
fondatezza. 
    Secondo  la  stessa  giurisprudenza  di  legittimita',   infatti,
«l'efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse  dalla
Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni  consolidate
per effetto di intervenute  decadenze;  tale  limite,  tuttavia,  non
opera  quando  la  dichiarazione  di  illegittimita'   costituzionale
investe proprio la norma  che  avrebbe  dovuto  rendere  operante  la
decadenza» (Cass. civ. Sez. II ordinanza, 22 gennaio 2019, n. 1644). 
    Nel caso di specie,  la  dichiarazione  di  illegittimita'  della
disposizione in  scrutinio,  nel  senso  invocato,  consentirebbe  di
esitare nel merito la domanda cautelare, posto che  permetterebbe  di
ritenere rispettato il  termine  di  decadenza  dei  180  giorni  ivi
prescritto, dovendosi in tal  caso  concludere,  attesi  i  descritti
effetti retroattivi della pronuncia della Corte  costituzionale,  che
anche il ricorso cautelare ante causam ex  art.  700  del  codice  di
procedura civile  promosso  dalla  parte  ricorrente  costituisca  un
adempimento  utile  per  conservare  gli  effetti   dell'impugnazione
stragiudiziale tempestivamente proposta ai sensi dell'art.  6,  comma
1, legge  n.  604/1966  ed  impedire  quindi  la  decadenza  prevista
dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966. 
    Ove  invece  la  norma  venisse  reputata  esente  dai  vizi   di
legittimita' di cui si dubita, il giudizio, preso  atto  del  diritto
vivente  formatosi  nella  materia,  dovrebbe  concludersi   con   la
reiezione della domanda per evidente difetto  di  fumus  boni  iuris,
precludendo l'eccezione di decadenza  -  da  reputarsi  in  tal  caso
fondata ed assorbente - ogni ulteriore accertamento  in  ordine  alla
legittimita'   del   trasferimento   e   l'emissione   del    chiesto
provvedimento cautelare. 
    Per completezza, va rilevato  che,  a  fronte  dell'eccezione  di
decadenza sollevata dalla convenuta ex art.  6,  comma  2,  legge  n.
604/1966, non risulta allegato alcuno dei  presupposti  che  potrebbe
giustificare un'eventuale rimessione in termini della parte ai  sensi
dell'art. 153, comma  2,  codice  di  procedura  civile,  ne'  questi
potrebbero  rinvenirsi  nella   formazione   del   descritto   quadro
giurisprudenziale, essendo stato all'uopo affermato che il  principio
dell'affidamento  incolpevole  non  risulta  leso  dall'indirizzo  di
legittimita' espresso con riguardo all'art.  6,  comma  2,  legge  n.
604/1966, «non essendo intervenuto alcun mutamento di  giurisprudenza
rispetto  ad  un  precedente  consolidato  orientamento,  bensi'  una
statuizione di interpretazione di una normativa fortemente innovativa
che richiedeva, seminai, l'osservanza del  principio  di  precauzione
(cfr. in argomento Cassazione n. 46871  2011)»  (Cass.  sez.  lav.  6
dicembre 2018 n. 31647). 
    Inoltre, secondo  le  Sezioni  unite  della  Suprema  Corte,  «La
rimessione in termini  per  causa  non  imputabile,  in  entrambe  le
formulazioni che si sono succedute (articoli 184-bis e  153  c.p.c.),
ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volonta'
della parte, che presenti i caratteri dell'assolutezza  e  non  della
mera difficolta' e si ponga in rapporto causale determinante  con  il
verificarsi della decadenza, non e' invocabile in caso di  errori  di
diritto  nell'interpretazione  della  legge   processuale,   pur   se
determinati  da  difficolta'  interpretative  di  norme  nuove  o  di
complessa decifrazione,  in  quanto  imputabili  a  scelte  difensive
rivelatesi sbagliate  (Cass.  civ.  Sez.  unite,  12  febbraio  2019,
sentenza  n.  4135),  sicche',  secondo  gli  stessi   indirizzi   di
legittimita', e' da escludersi che la scelta  difensiva  della  parte
ricorrente di proporre solo il ricorso cautelare, senza il ricorso di
merito, possa giustificare un'eventuale rimessione in termini, e cio'
ad ulteriore conferma della rilevanza della questione. 
3. La non manifesta infondatezza della questione. 
    L'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 dispone: 
        «L'impugnazione e' inefficace se non  e'  seguita,  entro  il
successivo termine di centottanta giorni, dal  deposito  del  ricorso
nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del  lavoro  o
dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo  di
conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilita' di produrre
nuovi documenti formatisi dopo il deposito del  ricorso.  Qualora  la
conciliazione o l'arbitrato  richiesti  siano  rifiutati  o  non  sia
raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento,  il  ricorso
al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro  sessanta
giorni dal rifiuto o dal mancato accordo». 
    Laddove si ritenga corretta la ricostruzione del diritto  vivente
operata  sopra,  la  disposizione   in   esame,   con   riguardo   ai
trasferimenti (che  non  prevedono  per  la  loro  impugnazione  riti
speciali), deve leggersi nel  senso  che  segue:  «l'impugnazione  e'
inefficace  se  non  e'  seguita,  entro  il  successivo  termine  di
centottanta giorni, dal deposito del ricorso [ordinario ex  art.  414
c.p.c.] nella cancelleria del tribunale in funzione  di  giudice  del
lavoro o dalla comunicazione  alla  controparte  della  richiesta  di
tentativo  di  conciliazione   o   arbitrato,   ferma   restando   la
possibilita' di produrre nuovi documenti formatisi dopo  il  deposito
del  ricorso  [ex  art.  414  c.p.c.].  Qualora  la  conciliazione  o
l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia  raggiunto  l'accordo
necessario al relativo espletamento, il ricorso [ex art. 414  c.p.c.]
al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro  sessanta
giorni dal rifiuto o dal mancato accordo». 
    Si dubita della legittimita' costituzionale di tale disposizione,
nella parte in cui essa non prevede che «l'impugnazione e' inefficace
se non  e'  seguita,  entro  il  successivo  termine  di  centottanta
giorni», oltre che dal deposito del ricorso ordinario ex art. 414 del
codice di procedura civile o  dalla  comunicazione  alla  controparte
della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche «dal
deposito del ricorso  cautelare  ante  causam  ex  articoli  669-bis,
669-ter, 700 c.p.c.» per i seguenti motivi. 
A) Irragionevolezza ex art. 3 della  Costituzione;  violazione  degli
articoli 24, 111, 117, primo comma, della Costituzione, in  relazione
all'art. 6, comma  1,  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    Si dubita che la  disposizione  si  ponga  in  contrasto  con  il
principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, nonche' con
gli articoli 24,  111,  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 6, comma 1, della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto
1955, n. 848 (CEDU), per quanto di ragione. 
    Al riguardo, va  preliminarmente  ricordato  che  la  norma,  non
accordando alcun rilievo  al  ricorso  ex  art.  700  del  codice  di
procedura civile ante causam, impedisce che la proposizione  di  tale
strumento   possa    mantenere    gli    effetti    dell'impugnazione
stragiudiziale ex art. 6, comma 1, legge  n.  604/66,  la  quale,  in
assenza dell'utilizzo degli altri strumenti  ivi  indicati,  diverra'
inefficace decorso il termine di 180 giorni. 
    La norma, infatti, neppure prevede  che  il  giudizio  di  merito
possa essere instaurato successivamente alla definizione del giudizio
cautelare entro  un  determinato  termine,  alla  stregua  di  quanto
dispone con riguardo all'ipotesi del  tentativo  di  conciliazione  o
della richiesta di arbitrato in caso di rifiuto o mancato accordo. 
    L'indirizzo espresso dalla Suprema Corte, sul  punto,  e'  chiaro
nel ritenere che la proposizione della domanda cautelare ante  causam
ex art. 700 del codice di procedura civile «non e' idonea a mantenere
l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale... essendo necessaria la
proposizione di un giudizio ordinario», oppure la  comunicazione  del
tentativo di conciliazione o della richiesta di arbitrato (Cass. sez.
lav. 6 dicembre 2018, n. 31647, cit.). 
    La  proposizione  della  sola  domanda  cautelare,  quindi,   non
impedisce  lo  scorrere  e  la  successiva  maturazione  del  termine
decadenziale previsto dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966. 
    L'atto datoriale impugnato con il solo ricorso cautelare ex  art.
700 codice di procedura civile ante  causam,  pur  nel  rispetto  del
termine di 180 gg., diverra'  pertanto  inoppugnabile  decorso  detto
termine. 
    Cio' determina il  risultato,  invero  alquanto  paradossale,  di
precludere al  giudice  della  cautela,  richiesta  ante  causam,  di
potersi pronunciare nel merito  della  controversia  ove  il  termine
decadenziale dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966 scada nelle more
del processo (ad es., dopo l'instaurazione del  contraddittorio,  nel
corso  della  trattazione  della   fase   monocratica,   durante   la
trattazione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.), dovendo in tal
caso,   a    fronte    della    relativa    eccezione,    dichiararsi
l'inammissibilita' della domanda  cautelare  per  intervenuta  -  per
quanto  sopravvenuta  -  inoppugnabilita'  dell'atto  e   conseguente
carenza di interesse al giudizio. 
    Ed invero, non avendo la domanda cautelare  alcuna  incidenza  ai
fini  impeditivi  della  decadenza,  in  assenza  degli  altri  mezzi
previsti dall'art. 6 comma 2, legge n. 604/1966, scaduto il  termine,
l'atto opposto diverra' inoppugnabile ed il giudice della cautela,  a
fronte della relativa eccezione, non potra' che prendere  atto  della
sopravvenuta carenza di interesse della domanda  cautelare  e  dunque
della sua inammissibilita'. 
    Peraltro, che il termine ex art. 6, comma 2,  legge  n.  604/1966
possa scadere nelle more del processo  cautelare  ante  causam,  come
invocato anche dalla societa' resistente nel  presente  giudizio,  e'
una  circostanza  facilmente  verificabile,   considerati   i   tempi
necessari  per  la  predisposizione  della  difesa  tecnica  per   la
proposizione del ricorso ex art. 700 del codice di procedura  civile,
per l'instaurazione del contraddittorio, per  la  celebrazioni  delle
diverse fasi che  connotano  il  processo  cautelare  (monocratica  e
collegiale ex art. 669-terdecies, c.p.c.), per l'emissione  da  parte
degli organi giudicanti dei relativi provvedimenti. 
    Ulteriore conseguenza che la disposizione produce in questi  casi
e'  l'inammissibilita'  di  ogni  ulteriore  ricorso  avverso  l'atto
gravato, posto che la maturazione della decadenza dall'impugnativa ex
art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, e  l'inoppugnabilita'  dell'atto,
preclude  alla  parte  lavoratrice  di  coltivare  ulteriori   azioni
giudiziarie. 
    In definitiva, la disposizione, nel non considerare utile ai fini
impeditivi della decadenza ex art. 6, comma 2, legge n. 604/1966,  il
ricorso, ove proposto solo nelle forme  dell'art.  669-ter,  700  del
codice di procedura civile, anziche' anche nelle forme dell'art.  414
codice   di   procedura   civile,   ha   l'effetto   di   determinare
l'inammissibilita' di ogni ricorso avverso l'atto  impugnato:  quello
gia' proposto ante causam, ancorche'  nel  rispetto  dei  180  giorni
previsti, ed ogni altro ulteriore. 
    Quanto sopra  porta  a  dubitare  della  costituzionalita'  della
disposizione,  poiche',  determinando  una   siffatta   sanzione   di
inammissibilita' per questioni di  natura  formale  e  di  rito,  con
definitiva preclusione per la parte di  poter  coltivare  il  proprio
diritto di  difesa,  appare  prevedere  una  sanzione  eccessivamente
grave, sproporzionata ed irragionevole, rispetto agli obiettivi avuti
di mira dal legislatore con la sua introduzione. 
    La conseguenza che la disposizione determina, infatti, e'  quella
di rendere  definitivamente  interdetta  al  lavoratore,  per  motivi
meramente formali e di rito, e con riguardo agli atti  piu'  incisivi
della sua sfera giuridica (licenziamento, trasferimento, etc.),  ogni
possibilita'  di  avversare  l'atto   impugnato,   nonostante   parte
lavoratrice si sia attivata tempestivamente con la proposizione di un
mezzo idoneo, secondo l'ordinamento processuale,  ad  anticipare  gli
effetti del giudizio di merito (cfr. art. 669-octies, comma  6  e  8,
c.p.c.) e a manifestare al  datore  di  lavoro  la  sua  volonta'  di
ottenere la rimozione per via giudiziaria dell'atto  gia'  contestato
in via stragiudiziale. 
    Trattasi di conseguenza che, nell'ottica del bilanciamento  degli
interessi - da una parte, quello del datore di lavoro di sapere entro
termini  ristretti  se  il  lavoratore  intende   promuovere   azione
giudiziaria avverso l'atto contestato in via stragiudiziale ai  sensi
dell'art. 6, comma  1,  legge  n.  604/1966,  dall'altro  quello  del
lavoratore di poter esplicare il proprio diritto  di  difesa  avverso
l'atto ritenuto illegittimo - appare eccessivamente  severa,  perche'
definitivamente   preclusiva    del    diritto    di    difesa,    ed
ingiustificatamente sbilanciata in favore della parte datoriale. 
    L'esigenza di certezza di  quest'ultima,  cosi'  come  quella  di
impedire azioni speculative della parte  lavoratrice  a  distanza  di
tempo,  infatti,  appaiono   pienamente   soddisfatte   anche   dalla
proposizione della domanda cautelare ante causam nel termine previsto
dall'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966,  data  la  sua  idoneita'  a
provocare una decisione anticipatoria degli effetti della sentenza di
merito e considerata  la  possibilita'  riconosciuta  alle  parti  (e
dunque anche al datore  di  lavoro)  di  promuovere  il  giudizio  di
merito, ove ne abbiano interesse, anche subito  dopo  la  definizione
della fase cautelare, se non durante la celebrazione  della  medesima
(art. 669-octies, comma 6, ult. parte, c.p.c.). 
    La conseguenza che la norma comporta  e',  quindi,  irragionevole
anche ove si volesse ritenere che essa miri a provocare  entro  tempi
celeri la definizione della causa con una sentenza di  merito,  cioe'
con un provvedimento idoneo ad acquisire i connotati del giudicato. 
    Ed invero, la disposizione impedisce la  disamina  della  domanda
cautelare ante causam, consentendo  la  maturazione  del  termine  di
decadenza nelle more del processo cautelare, prima ancora che vi  sia
un esito dello stesso e prima ancora  che  le  stesse  parti  possano
decidere se accettarlo o proporre da subito il giudizio di merito per
ottenere entro tempi celeri  la  definitiva  regolazione  dei  propri
rapporti con la sentenza. 
    La disposizione, ancora, rende inutiler data financo  l'eventuale
ordinanza di accoglimento resa entro il termine ex art. 6,  comma  2,
legge n. 604/1966, ove entro lo stesso non venga proposto ricorso  ex
art. 414 del codice di procedura civile o  non  siano  comunicati  il
tentativo di conciliazione o  la  richiesta  di  arbitrato,  data  la
pacifica inidoneita' del ricorso cautelare ante  causam  ad  impedire
gli effetti della decadenza di cui all'art.  6,  comma  2,  legge  n.
604/1966. 
    Cio' non puo' che incoraggiare  comportamenti  speculativi  della
parte datoriale. 
    Ad esempio, il datore di lavoro, a fronte degli esiti sfavorevoli
conseguiti nella fase cautelare, laddove il lavoratore ivi vittorioso
non abbia coltivato anche il merito o la conciliazione o l'arbitrato,
potrebbe decidere di attendere il decorso del termine di cui all'art.
6, comma 2, legge n. 604/1966, per poi proporre il giudizio di merito
al solo fine di chiedere ed ottenere con la  sentenza  di  merito  la
revoca del  provvedimento  cautelare,  in  forza  della  sopravvenuta
inoppugnabilita' dell'atto resa  possibile  dalla  irrilevanza  della
domanda cautelare ante causam e della conseguente decadenza ai  sensi
dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966. 
    Cio' appare quanto piu' irragionevole se  si  considera  che,  in
caso  di  accoglimento  della  domanda  cautelare,  le  esigenze   di
accelerazione  e  certezza  dei  rapporti  perseguite   dalla   norma
risultano   pienamente   soddisfatte   attraverso    una    pronuncia
giurisdizionale che  interviene  prima  dello  spirare  degli  stessi
termini previsti dall'art. 6, comma 2, legge n.  604/1966  e  che  e'
capace di mantenere nel tempo  i  propri  effetti  (art.  669-octies,
comma 6 e  8,  c.p.c.),  nulla  impedendo  al  datore  di  lavoro  di
promuovere il giudizio ordinario, ove intenda effettivamente ottenere
la rimozione dell'ordinanza o comunque acquisire definitiva certezza,
con un provvedimento aventi i caratteri del giudicato, dei  risultati
conseguiti in sede cautelare. 
    Le conseguenze prodotte dalla disposizione vanno quindi ben oltre
l'obiettivo che il legislatore si era proposto, finendo  per  sancire
un'immotivata e sproporzionata chiusura alla  tutela  giurisdizionale
per motivi prettamente formali, per  di  piu'  gravante  sulla  parte
debole del rapporto, di regola in possesso di minori risorse e  mezzi
per poter apprestare le proprie difese, favorendo, dall'altra  parte,
comportamenti speculativi, contrari  ai  principi  di  buona  fede  e
correttezza processuale, del datore di lavoro. 
    Cio', non solo appare violare il principio di  ragionevolezza  ex
art. 3 Cost., poiche' introduce una sanzione eccessivamente  grave  e
sproporzionata  in  ragione  degli  obiettivi  perseguiti  (su  altra
fattispecie, ma con principi  che  appaiono  applicabili  anche  alla
presente, si richiama Corte costituzionale  sent.  n.  241/2017),  ma
sembra porsi in contrasto anche con il canone del giusto processo  ex
art. 111 della Costituzione, nonche' con  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 6, comma 1, Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, che
consentono le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per
motivi formali solo se proporzionate allo scopo perseguito. 
    Al riguardo, appare pertinente  richiamare  i  principi  espressi
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (l'incidenza dei  quali  e'
stata chiarita dalla Corte costituzionale, sentenze nn. 368 e 369 del
2007), con i quali si e' affermato  che  le  limitazioni  all'accesso
alla tutela giurisdizionale per motivi formali non  sono  compatibili
con l'art. 6, comma 1 Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  qualora  esse  non
perseguano uno  scopo  legittimo,  ovvero  qualora  non  vi  sia  una
ragionevole relazione di proporzionalita' tra il mezzo impiegato e lo
scopo perseguito (v. tra le tante, Corte EDU Walchli  c.  Francia  26
luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). 
    Tali principi ed arresti sono stati ribaditi dalla giurisprudenza
delle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione,  la  quale  ha
peraltro evidenziato che il principio del giusto processo, di cui  al
richiamato art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, non si esplicita nella  sola
durata ragionevole dello stesso, ma anche negli altri «valori in  cui
pure si sostanza il processo equo, quali il  diritto  di  difesa,  il
diritto al contraddittorio,  e,  in  definitiva,  il  diritto  ad  un
giudizio» (Cass. civ. Sez. Unite, 12 marzo 2014, sentenza n. 5700). 
    Nel caso di specie, la disposizione in  esame,  non  riconoscendo
alcuna rilevanza  alla  proposizione  della  domanda  cautelare  ante
causam, e consentendo la maturazione del termine  decadenziale  nelle
more dello stesso  processo  cautelare,  ovvero  anche  dopo  la  sua
favorevole conclusione, implicando la sanzione  dell'inammissibilita'
del ricorso cautelare e  di  ogni  altro  possibile  ricorso  avverso
l'atto impugnato per motivi prettamente formali  e  di  rito,  appare
determinare   un'irragionevole,    sproporzionata    ed    immotivata
limitazione all'accesso alla tutela giudiziaria, e per questo  appare
in conflitto con gli articoli 24, 111,  117,  della  Costituzione,  6
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, oltre che con il principio  di  ragionevolezza
ex art. 3 Cost. 
B) Irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione. 
    I dubbi di costituzionalita' sopra prospettati sono ulteriormente
confermati, sotto il profilo della ragionevolezza  ex  art.  3  della
Costituzione, nella misura in cui si considera che la disposizione in
esame, nel non riconoscere alcuna rilevanza  alla  domanda  cautelare
ante causam ex art. 700 del codice di procedura  civile,  la  assegna
invece espressamente non solo al ricorso ordinario ex  art.  414  del
codice di procedura civile, ma anche al tentativo di conciliazione  o
alla  richiesta  di  arbitrato,  cioe'  anche  ad  atti   di   natura
stragiudiziale,  propedeutici   all'instaurazione   di   procedimenti
facoltativi e non giurisdizionali -  quali  sono  i  procedimenti  di
conciliazione e arbitrato (art. 410 e ss. c.p.c) (2) -,  che  possono
concludersi anche senza la definitiva regolazione dei rapporti tra le
parti, come con il rifiuto o  il  mancato  accordo  per  il  relativo
espletamento (eventi a partire dai quali la disposizione  assegna  un
ulteriore  termine  di  decadenza  ai  fini  della  proposizione  del
giudizio), ovvero con esiti  a  loro  volta  impugnabili  innanzi  al
giudice e, dunque, non immutabili (per  il  lodo,  v.  articoli  412,
comma 4., 808-ter c.p.c.), ne' equiparabili ad una sentenza di merito
o ad un'ordinanza (art. 412, comma 2, del codice di procedura civile,
secondo cui «il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato...  produce
tra le parti gli effetti di cui all'art.  1372  e  all'art.  2113,  4
comma, del codice civile»). 
    Appare singolare che la disposizione, nel  riconoscere  efficacia
impeditiva della decadenza financo ad atti di natura  stragiudiziale,
quali la richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato, che
potrebbero  determinare  ulteriori  ingiustificate  dilazioni   della
controversia, senza risolverla, non  riconosca  alcuna  rilevanza  al
ricorso cautelare ante causam ex art. 700  del  codice  di  procedura
civile, strumento  appositamente  previsto  dal  sistema  processuale
vigente  per  provocare,  con  sollecitudine,  innanzi  all'autorita'
giurisdizionale, la regolazione dei rapporti tra le parti. 
    L'irragionevolezza di una tale previsione si coglie ancor di piu'
ove si consideri che la norma non consente  neppure  che  la  domanda
cautelare ante causam, proposta nel termine ex art. 6 comma 2,  legge
n. 604/1966, possa interrompere o sospendere i  termini  decadenziali
anche solo ai fini dell'espletamento dello stesso processo  cautelare
(come dispone per i procedimenti di conciliazione o  arbitrato),  ne'
prevede  che  il  giudizio  di   merito   possa   essere   instaurato
successivamente alla definizione  del  giudizio  cautelare  entro  un
determinato termine, alla stregua di quanto riconosce nell'ipotesi in
cui il tentativo di conciliazione o la  richiesta  di  arbitrato  non
raggiungano l'esito sperato (rifiuto o mancato accordo). 
    Cio' non appare obiettivamente giustificabile. 
    L'ordinamento processuale, infatti, accredita espressamente  alle
parti la  facolta'  di  promuovere  la  domanda  cautelare  prima  ed
indipendentemente dal giudizio di merito (art. 669-ter ,  669-octies,
6 comma, 700 c.p.c.). 
    La domanda cautelare ante causam, inoltre,  appare  rivestire  un
ruolo quantomeno  equipollente  a  quello  svolto  dal  tentativo  di
conciliazione o dalla richiesta di  arbitrato,  in  quanto  anch'essa
destinata,  peraltro  nella  piu'  solenne  sede,  quale  e'   quella
giurisdizionale, a manifestare al datore di lavoro l'interesse  della
parte lavoratrice di volere ottenere  la  rimozione  dell'atto,  gia'
opposto ai sensi dell'art. 6, comma 1, legge n. 604/1966, e di  voler
provocare   la   risoluzione   della   controversia    ancor    prima
dell'eventuale instaurazione di un giudizio ordinario. 
    Peraltro, cosi' come la conciliazione e il lodo arbitrale,  anche
l'ordinanza cautelare di accoglimento emessa a seguito  del  giudizio
cautelare ante causam ex art. 700 del codice di procedura  civile  si
presta a regolare nel tempo i rapporti tra le parti, poiche', laddove
il datore di lavoro soccombente  non  abbia  ulteriore  interesse  ad
ottenerne la rimozione per il tramite della proposizione del giudizio
di merito, tale provvedimento raggiunge l'obiettivo  di  definire  la
questione controversa, avendo l'attitudine non solo di anticipare gli
effetti dell'eventuale sentenza di merito, ma anche di mantenerli nel
tempo  indipendentemente  dalla  instaurazione  di   detta   fase   o
dall'eventuale  sua  successiva  estinzione  (commi  6  e   8,   art.
669-octies c.p.c.). 
    D'altro canto, quale che sia l'esito del giudizio cautelare,  ove
il  datore  di  lavoro  volesse  avere  la  definitiva  certezza  del
risultato  gia'  conseguito,  potra'  promuovere  fin  da  subito  il
giudizio  di  merito,  esercitando  una  facolta'  che  l'ordinamento
rimette nella piena  disponibilita'  delle  parti  (art.  669-octies,
comma 6, ult. parte, c.p.c.). 
    Sotto tale profilo, non si puo' omettere  di  ricordare  che  una
delle finalita' della riforma del processo cautelare  introdotta  dal
decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2006  n.
80, attraverso, peraltro, la previsione di cui  all'art.  669-octies,
commi 6 e 8, codice  di  procedura  civile,  era  proprio  quella  di
provocare una deflazione del contenzioso ordinario, ove la  questione
fosse stata gia' definita in sede cautelare e le parti  non  avessero
ulteriori interessi da  coltivare  ai  fini  della  proposizione  del
giudizio di merito (la cui instaurazione, nel regime previgente,  era
invece sempre necessaria ai fini della stessa conferma dell'ordinanza
di accoglimento ex art. 700 c.p.c.). 
    Il mancato riconoscimento della rilevanza della domanda cautelare
ante causam ex art. 700 del  codice  di  procedura  civile,  in  seno
all'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966,  appare  pertanto  anche  per
tale motivo irragionevole, in quanto introduce un elemento  di  forte
incoerenza nel sistema normativo, di fatto «disapplicando» l'istituto
cautelare in esame e la sua capacita' di anticipare gli effetti della
sentenza di merito. E cio' proprio con riguardo agli  atti  datoriali
che piu' di altri possono incidere nella sfera giuridica della  parte
lavoratrice (quali quelli attratti dal  regime  di  cui  all'art.  6,
legge n. 604/1966, anche in forza del richiamo ad opera dell'art. 32,
legge n. 183/2010, come i licenziamenti, i trasferimenti, etc.) ed in
relazione ai quali  la  parte  debole  del  rapporto  potrebbe  avere
maggiori necessita' di ricorrere in  via  d'urgenza,  senza  avere  i
tempi tecnici per potere apprestare da subito un'adeguata difesa  per
il giudizio ordinario, quest'ultimo, come  noto,  soggetto  a  rigide
preclusioni sia in punto di allegazioni sia  in  punto  di  deduzioni
probatorie (articoli 414 del codice di procedura civile e ss.)  e  la
cui predisposizione potrebbe esigere tempi  e  ponderazioni  maggiori
rispetto a quanto occorra per agire attraverso il rito cautelare. 
C) Violazione degli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  in
forza dell'art. 117 della Costituzione. 
    Si   dubita   ulteriormente   della    costituzionalita'    della
disposizione, avendo motivo di  ritenere  che  la  stessa,  incidendo
negativamente sui principi  di  certezza  del  diritto  e  di  tutela
dell'affidamento, possa a  sua  volta  compromettere  il  diritto  di
difesa della parte e il diritto della stessa ad un equo processo, con
possibile violazione degli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea
dei diritti dell'uomo, quest'ultima per mezzo dell'art. 117, comma 1,
della Costituzione. 
    L'art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, invero,  senza  contemplare
specifiche  deroghe  al  sistema  cautelare  vigente,  ne'  specifici
riferimenti letterali alla tipologia del ricorso da proporre, nel non
prevedere l'idoneita' dello strumento cautelare ante causam  ai  fini
in  esame,  appare  ledere   l'affidamento   generato   dal   sistema
processuale ex art. 669-bis e  ss.  codice  di  procedura  civile  in
merito  alla  capacita'  del  procedimento  ex  art.  700  codice  di
procedura civile di poter anticipare gli effetti  della  giudizio  di
merito e, dunque,  di  impedire  eventuali  decadenze  ancorate  alla
mancata proposizione del ricorso. 
    Ed invero, neppure dopo l'art. 32, comma 1,  legge  n.  183/2010,
che ha modificato l'art. 6, legge n. 604/1966, sono state  introdotte
limitazioni alla disciplina codicistica, nella parte in cui la stessa
consente di promuovere la domanda cautelare ante causam ex  art.  700
del codice di procedura civile a prescindere dalla  proposizione  del
merito e nella parte in  cui  riconosce  all'ordinanza  cautelare  di
accoglimento la forza di anticipare e  mantenere  gli  effetti  della
sentenza, indipendentemente dalla proposizione del giudizio ordinario
e  financo  anche  in  caso  di  sua  successiva   estinzione   (art.
669-octies, comma 6, 8, c.p.c.). 
    Lo stesso art. 6, comma 2, legge n. 604/1966, se pur interpretato
dalla giurisprudenza di legittimita' come richiedente la proposizione
del ricorso ex art. 414 del  codice  di  procedura  civile,  in  base
peraltro  ad  un'articolata  esegesi  di  carattere   sistematico   e
teleologico e non  ad  un'espressa  previsione  letterale,  non  reca
previsioni  specifiche  a  tal  riguardo,  ne'  contempla   parimenti
limitazioni o deroghe. 
    Cio' appare in grado di determinare una lesione del principio  di
certezza del diritto ovvero  dell'affidamento  generato  dal  sistema
processuale vigente, e dunque del diritto di difesa e del diritto  al
processo della parte, laddove quest'ultima, come nel caso di  specie,
in forza degli articoli 669-bis e ss. codice di  procedura  civile  e
della genericita' della  formula  dell'art.  6,  comma  2,  legge  n.
604/1966, confidi (o sia indotta a confidare) nell'utilita' del mezzo
cautelare per l'impedimento della  decadenza,  salvo  rendersi  conto
dell'inutilita'   dello   stesso   a   decadenza    maturata,    dopo
l'instaurazione  del  contraddittorio  o  nel  corso   del   processo
cautelare (per quanto concerne gli  effetti  della  disposizione,  si
rinvia a quanto osservato sopra sub A) e B)). 
    I dubbi di legittimita' costituzionale qui proposti sorgono dalla
considerazione che le norme limitative del diritto di  difesa  devono
rispondere  a  principi  di  chiarezza  ed  inequivocita'  del   loro
contenuto, dovendo esprimere in maniera  cristallina  l'esistenza  di
eventuali limitazioni all'esercizio del  detto  diritto  ovvero  agli
strumenti predisposti all'uopo dall'ordinamento. 
    I parametri  costituzionali  richiamati,  ivi  inclusa  la  norma
interposta dell'art. 6 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, in  forza  dell'art.
117, comma 1, Cost., nel  sancire  la  rilevanza  costituzionale  del
diritto di difesa della parte, del diritto all'accesso al giudizio  e
ad un equo processo,  portano  appunto  a  ritenere  che  i  predetti
diritti fondamentali non possano subire limitazioni,  se  non  quando
queste siano ragionevoli ed espresse in modo inequivoco e chiaramente
intellegibile, circostanza che obiettivamente non ricorre nel caso di
specie. 
    La descritta situazione di incertezza e di possibile lesione  dei
valori   costituzionali   sopra   evidenziati   non   appare    elisa
dall'interpretazione della Sezione lavoro della Corte di  cassazione,
di cui sopra si e' dato conto, perche' quest'ultima, per quanto possa
integrare i presupposti del  diritto  vivente,  non  ha  inciso,  ne'
ovviamente  poteva  incidere,  nella  formulazione  letterale   della
disposizione, per come promulgata e pubblicata ai sensi dell'art.  73
Cost., che  continua  a  fare  generico  riferimento  all'adempimento
costituito dal «deposito del ricorso nella cancelleria del  tribunale
in finzione di giudice  del  lavoro»,  peraltro  in  modo  del  tutto
sovrapponibile alla lettera dell'art. 669-bis del codice di procedura
civile  che  disciplina  la  forma  di  presentazione  delle  domande
cautelaci («la  domanda  si  propone  con  ricorso  depositato  nella
cancelleria del giudice competente»). 
    La Corte di cassazione, inoltre, ha escluso che possa  ravvisarsi
il fenomeno del c.d.  overruling,  con  la  motivazione  che  non  e'
intervenuto  «alcun  mutamento  di  giurisprudenza  rispetto  ad   un
consolidato orientamento bensi' una statuizione di interpretazione di
una   normativa fortemente   innovativa   che   richiedeva,   semmai,
l'osservanza  del  principio  di  precauzione  (cfr.   in   argomento
Cassazione n. 4687/2011)» (Cass., sez.  lav.,  6  dicembre  2018,  n.
31647, cit.), con  cio'  confermando,  perlomeno  indirettamente,  la
situazione di incertezza generata dalla disposizione in scrutinio. 
    Quest'ultima, peraltro, tra gli studiosi e in  opere  dottrinarie
di oggettivo rilievo,  ha  ricevuto  anche  interpretazioni  difformi
rispetto a quelle prospettate  dalla  Sezione  lavoro  della  Suprema
Corte,  essendo  stato  affermato  che  "Il  «ricorso»  al  quale  fa
riferimento il secondo comma dell'art. 6, novellato dall'art. 32,  e'
da intendersi come  iniziativa  giudiziaria  di  contestazione  della
legittimita' del licenziamento  senza  alcuna  limitazione  di  altro
genere. Pertanto, il ricorso, il cui  deposito  vale  a  stabilizzare
l'impugnativa del  licenziamento,  puo'  anche  essere  diretto  alla
richiesta  di  una  misura   cautelare   fondata   sulla   contestata
legittimita' del licenziamento»  (citazione  omessa  in  applicazione
dell'art. 118, 3 comma, dis. att. c.p.c.). 
    D'altro canto, non sussistono in materia pronunce  delle  Sezioni
unite e la medesima Sezione lavoro della Corte di cassazione, fino al
2016, sebbene con riferimento ad altra fattispecie normativa, ma  con
principi che  apparivano  poter  costituire  applicazione  di  canoni
generali  avuto  riguardo  al  sistema   cautelare   vigente,   aveva
evidenziato che «dell'eventuale  errore  della  parte  nella  scelta,
all'atto della introduzione della  lite,  del  rito  applicabile  non
potrebbe mai discendere il decorso del  termine  di  decadenza  dalla
azione... Il rimedio cautelare, alla luce della nuova  struttura  del
procedimento  ex  art.  700  c.p.c.,  e  degli  altri   provvedimenti
cautelari anticipatori,  delineata  nell'art.  669-octies,  comma  6,
codice di procedura civile, aggiunto  dal  decreto-legge  n.  35  del
2005, conv. con modif.  nella  legge  n.  n.  80  del  2005,  che  ha
introdotto una previsione di  attenuata  strumentalita'  rispetto  al
giudizio di merito, la cui instaurazione e' facoltativa, ha  assunto,
ad ogni effetto, le caratteristiche di un'autonoma azione  in  quanto
potenzialmente atto a soddisfare l'interesse della parte anche in via
definitiva pur senza attitudine al giudicato, sicche' la proposizione
del  ricorso  e'  idonea  ad  impedire  il  maturare  di  termini  di
decadenza... Interpretare le norme sulla decadenza nel diverso  senso
di richiedere quale atto tipico previsto dalla legge per impedire  la
decadenza una azione idonea a dare luogo al giudicato significherebbe
estendere l'ambito di applicazione della decadenza laddove  le  norme
che  la  prevedono  sono  di  stretta  interpretazione»   (Corte   di
cassazione, Sezione lavoro, 25 maggio 2016 sentenza n. 10840) (3) . 
    Tutto cio' a comprova della situazione di incertezza  che  l'art.
6, comma 2, legge n.  604/1966  puo'  generare,  tenuto  conto  della
ambiguita' della sua formulazione letterale e delle  connessioni  con
il sistema cautelare vigente. 
    Si  dubita,  pertanto,  che  tale  disposizione  possa  rivelarsi
incompatibile con gli articoli 3, 24, 111, 6 Convenzione europea  dei
diritti dell'uomo, quest'ultima per mezzo  dell'art.  117,  comma  1,
Cost., nella misura in cui, non prevedendo,  tra  gli  strumenti  ivi
contemplati, anche il ricorso cautelare ante causam ex art.  700  del
codice di procedura civile, la stessa appare in grado di pregiudicare
i principi di certezza del  diritto,  dell'affidamento  generato  dal
sistema cautelare vigente e, in definitiva, il diritto di difesa e al
giusto processo della parte debole del rapporto. 
4. Interpretazione costituzionalmente orientata. 
    Tenuto conto dell'indirizzo univoco della  Sezione  lavoro  della
Suprema Corte,  in  ordine  all'interpretazione  dell'art.  6,  comma
secondo,  legge  n.  604/1966,  appare  chiusa  la  possibilita'   di
procedere   attraverso   una   interpretazione   adeguatrice    della
disposizione,  posto  che   quest'ultima   non   e'   realisticamente
percorribile    in    considerazione     del     descritto     quadro
giurisprudenziale. 
5. Misure cautelari provvisorie. 
    Quanto  all'istanza  cautelare  proposta  dal  ricorrente,   come
anticipato  in  premessa,  si  e'   proceduto   con   separato   atto
all'emanazione  di  una  misura  cautelare  «interinale»  fino   alla
successiva  Camera  di  consiglio  da   tenersi   a   seguito   della
restituzione degli  atti  da  parte  della  Corte  costituzionale  e,
dunque,  da   ritenersi   con   efficacia   temporalmente   limitata,
«condizionata» agli esiti del giudizio di costituzionalita' richiesto
e inidonea a definire il giudizio (Corte costituzionale 9 maggio 2013
n. 83, Corte costituzionale, 30 gennaio 2018, n. 10, cit.). 

(1) Secondo  cui  «Il  rimedio  cautelare,  alla  luce  della   nuova
    struttura  del  procedimento  ex   art.   700   e   degli   altri
    provvedimenti   cautelari   anticipatori,   delineata   nell'art.
    669-octies, comma 6, c.p.c. aggiunto dal decreto-legge n. 35  del
    2005, conv. con modif.  nella  legge  n.  80  del  2005,  che  ha
    introdotto una previsione di attenuata strumentalita' rispetto al
    giudizio di merito,  la  cui  instaurazione  e'  facoltativa,  ha
    assunto, ad  ogni  effetto,  le  caratteristiche  di  un'autonoma
    azione in quanto potenzialmente  atto  a  soddisfare  l'interesse
    della parte anche in  via  definitiva  pur  senza  attitudine  al
    giudicato, sicche' la  proposizione  del  ricorso  e'  idonea  ad
    impedire il maturare di termini di decadenza. (Nella  specie,  la
    S.C. ha confermato la sentenza di  appello,  che  aveva  pertanto
    ritenuto evitata la decadenza di cui  all'art.  2553  del  codice
    civile per l'impugnazione di delibera di esclusione di  un  socio
    da una cooperativa)». 

(2) La natura  facoltativa  di  tali  istituti  e'  desumibile  dagli
    articoli  410  e  ss.  codice  di  procedura  civile,  per   come
    modificati dalla legge n. 183/2010, nonche' dall'abrogazione,  ad
    opera della medesima, degli articoli 410-bis e 412-bis codice  di
    procedura  civile,  che  prevedevano  il  termine  entro  cui  il
    tentativo   di   conciliazione   doveva   essere   espletato    e
    configuravano lo stesso come condizione di  procedibilita'  della
    domanda. 

(3) Come visto in punto di rilevanza, la  Suprema  Corte  ha  escluso
    l'applicabilita' di tali principi con riguardo all'art. 6,  comma
    2, legge n. 604/1966 (Corte  cassazione  Sez.  lav.  15  novembre
    2018, ordinanza n. 29429, cit., § 19, pag. 5). 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Visti gli articoli 3, 24, 111, 117, Cost., in relazione  all'art.
6 Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU); 
    Ritenuto,  in   relazione   alle   suddette   disposizioni,   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 6, comma secondo, legge n. 604/1966,  nella  parte  in  cui
esso non prevede che «l'impugnazione e' inefficace se non e' seguita,
entro il successivo termine di centottanta giorni», oltre  che  dagli
adempimenti ivi indicati, anche «dal deposito del  ricorso  cautelare
ante causam ex articoli 669-bis, 669-ter, 700 c.p.c.»; 
    Ritenuta la questione rilevante, per le  argomentazioni  indicate
in parte motiva; 
    Sospende il giudizio e  dispone  l'immediata  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga
notificata alle parti in causa e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati  e  del
Senato della Repubblica. 
        Cosi' deciso, in Catania 17 maggio 2019 
 
                  Il Giudice del lavoro: Fiorentino