N. 160 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 aprile 2019

Ordinanza  del  30  aprile  2019  del  Tribunale  di   Brindisi   nel
procedimento penale a carico di B. A.. 
 
Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1,  della
  legge n. 354 del 1975 - Inserimento di determinati reati contro  la
  pubblica amministrazione tra i reati ostativi alla  concessione  di
  alcuni benefici penitenziari - Applicabilita'  al  delitto  di  cui
  all'art.  314,  primo  comma,  cod.  pen.  commesso   anteriormente
  all'entrata in vigore della novella. 
- Legge 9 gennaio 2019, n. 3  (Misure  per  il  contrasto  dei  reati
  contro  la  pubblica  amministrazione,  nonche'   in   materia   di
  prescrizione del reato e in materia di trasparenza  dei  partiti  e
  movimenti politici), art. 1,  comma  6,  lettera  b),  modificativo
  dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
  sull'ordinamento penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
  privative e limitative della liberta'), in relazione  all'art.  314
  [, primo comma,] del codice penale. 
(GU n.42 del 16-10-2019 )
 
                        TRIBUNALE DI BRINDISI 
 
 
                           Sezione Penale 
 
    Il Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice  dell'esecuzione
penale, composto dai magistrati: 
        dott. Francesco Cacucci - Presidente rel.; 
        dott. Maurizio Rubino - giudice; 
        dott. Ambrogio Colombo - giudice; 
    Letti  gli  atti  del  procedimento  di  esecuzione  in  epigrafe
indicato nei confronti di B. A., nato a... il..., difeso  di  fiducia
dall'avv. R.M. Marchionna; 
    Sentite le parti all'udienza del 17 aprile 2019; 
 
                               Osserva 
 
Premesso in fatto. 
    Con sentenza del 25  marzo  2015  il  Tribunale  di  Brindisi  ha
condannato il B. alla pena di due anni e otto mesi di  reclusione  in
relazione ai delitti di cui agli articoli 110, 56, 314, comma 1°,  61
n. 9 del codice penale commesso l'11 agosto 2011 (Capo L), 110, 117 e
314, comma 1°, del codice penale commesso il 18 luglio 2011 (Capo  M)
e 314, comma 1°, del codice penale commesso il 24 febbraio 2011 (Capo
P). 
    La sentenza e' divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019. 
    In data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso nei
confronti del B. - ex art. 656, comma  1°  del  codice  di  procedura
penale - l'ordine di esecuzione per la carcerazione in relazione alla
pena detentiva su indicata, facendo applicazione dell'art.  1,  comma
6°, lettera b) della legge n. 3/2019; in esecuzione di tale ordine il
B. risulta attualmente detenuto presso un istituto penitenziario. 
    Ha  proposto  incidente  di  esecuzione  il  difensore   del   B.
richiedendo: 
        in via  principale  dichiararsi  «la  temporanea  inefficacia
dell'ordine di carcerazione emesso nei confronti del B .»; 
        in via subordinata, «sollevare la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 656, comma 9º del codice di procedura penale
come  integrato   dall'art.   4-bis,   comma   1°,   dell'ordinamento
penitenziario, recentemente modificato dall'art. 1, comma  6°,  della
legge n. 3/2019, per contrasto con i parametri di cui  agli  articoli
3, 25, 27 e 111 della Costituzione». 
    Il difensore istante ha dedotto, al riguardo: 
        che l'art. l, comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019, in vigore
dal 21 gennaio 2019 ha novellato l'art. 4-bis della legge n. 354/1975
previa   inclusione   tra   i   reati   ostativi   alla   sospensione
dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione anche il delitto  di  cui
all'art. 314, comma 1°, del codice penale; 
        che, di conseguenza, il B., pur essendo stato  condannato  ad
una pena inferiore a quattro anni, atteso il rinvio operato dall'art.
656, comma 9, lettera A) del  codice  di  procedura  penale  all'art.
4-bis dell'ordinamento penitenziario, come  modificato  dall'art.  1,
comma 6°, lettera b) della legge n. 3/2019, non ha visto  sospendersi
l'ordine di esecuzione della pena nei suoi confronti; 
        che l'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge  n.  3/2019  -
che ha inserito nell'elenco  dell'art.  4-bis  ordinanza  pen.  anche
l'art. 314, comma 1°, del codice penale - non prevede alcuna norma di
diritto  intertemporale,  in  tal   modo   demandando   «al   giudice
dell'esecuzione il compito di valutare se sia individuabile un limite
temporale a partire dal quale la  norma  di  nuova  introduzione  sia
applicabile»; 
        che'  nonostante  le  norme  dell'ordinamento   penitenziario
abbiano natura processuale,  «non  puo'  non  riconoscersi  che  esse
incidono sostanzialmente  sulla  natura  afflittiva  della  pena:  di
conseguenza una modifica peggiorativa di dette norme determina  gravi
pregiudizi per il condannato, aggredendo  in  modo  significativo  la
liberta' personale»; 
        che «non e' revocabile in dubbio che il bene  primario  della
liberta' personale possa  essere  ugualmente  aggredito  tanto  dalla
legge  penale  c.d.  sostanziale  quanto  dalla  legge  penale   c.d.
processuale....; cio' e' proprio quel che  accade  in  base  all'art.
659, comma 9°, lettera a) del codice di procedura penale, cosi'  come
novellato, dove il condannato si ritrova  a  non  vedersi  sospendere
l'ordine di esecuzione per una pena  di  due  anni  e  otto  mesi  di
reclusione, nonostante egli abbia commesso il reato  di  peculato  in
epoca  antecedente  all'intervento  peggiorativo  del   legislatore»;
quindi,   «sotto   il   profilo   intertemporale,   le    conseguenze
dell'applicazione della norma in commento per il  condannato  che  ha
commesso il fatto prima della sua approvazione,  si  riverberano  non
semplicemente sulla modalita' di  esecuzione  della  pena,  ma  sulla
stessa  natura  della  sanzione  che  in  fase  iniziale  impone   la
detenzione anche se il soggetto risultera' meritevole di  una  misura
alternativa»; 
        che, conseguentemente, applicare retroattivamente  una  norma
«che incide sulla portata comminatoria e non  sulla  sola  dimensione
esecutiva, ovvero una norma penale a tutti gli effetti», integra  una
violazione «dell'art. 117 Costituzione, integrato dall'art.  7  CEDU,
cosi' come interpretato dalla Corte EDU,  nonche'  gli  articoli  25,
comma 2° Costituzione e 2 del codice penale». 
    A scioglimento della riserva di cui  all'udienza  del  17  aprile
2019,  ritiene  il   Tribunale   doversi   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale in relazione agli articoli 24, 25,  comma
2°,  117,  1°  comma,  Costituzione,  7  della  Convenzione  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in
avanti «CEDU»), come interpretato dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, con riferimento all'art. 1, comma  6°,  lettera  b)  della
legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in  cui,  modificando  l'art.
4-bis, comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354, norma  richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lettera a) del codice di  procedura  penale,
si applica anche al delitto di cui all'art. 314, comma 1°, del codice
penale commesso anteriormente all'entrata in  vigore  della  medesima
legge. 
    In punto di rilevanza della questione, sussistono  i  presupposti
per l'applicazione dell'art. 1, comma 6°, lettera b) della  legge  n.
3/2019; infatti: 
        B. A. e' stato  condannato  con  sentenza  del  Tribunale  di
Brindisi del 25 marzo 2015, irrevocabile il 13 marzo 2019, alla  pena
di due anni e otto mesi di reclusione in relazione a piu' delitti  di
cui all'art. 314, comma 1°, del codice penale  commessi  in  Brindisi
nel febbraio, nel luglio e nell'agosto del 2011; 
        in data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso
a carico del B. ordine di  esecuzione  per  la  carcerazione  per  la
ridetta pena detentiva; cio' ha fatto in virtu' dell'art. 4-bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354 che, come modificato dall'art. 6,  comma
1°, lettera b) della legge 9  gennaio  2019,  n.  3,  ha  incluso  il
delitto di cui all'art. 314, comma 1º del codice penale tra  i  reati
ostativi di «prima fascia» che impediscono la sospensione dell'ordine
di esecuzione della pena; 
        senza la modifica operata dall'art. 1, comma 6°,  lettera  b)
della  legge  n.  3/2019  -  intervenuta,  si  ribadisce,  in   epoca
successiva alla commissione dei delitti per vi e' stata condanna - il
B.  avrebbe  potuto  richiedere  la   concessione   di   una   misura
extramuraria senza un periodo di osservazione in carcere. 
Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della questione. 
    1 - L'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n.
3 ha modificato l'art. 4-bis, comma 1°, della legge 26  luglio  1975,
n.  354,  ricomprendendo  tra  i  reati  ostativi  alla   sospensione
dell'esecuzione di cui all'art. 656, comma 5º del codice di procedura
penale, taluni delitti contro la pubblica amministrazione tra i quali
quello di peculato, nell'ipotesi di cui al comma 1° dell'art. 314 del
codice penale. 
    La condanna  per  una  delle  fattispecie  elencate  non  potra',
pertanto, piu' essere «sospesa» e, per l'effetto,  potra'  consentire
l'accesso alle misure alternative solo a  fronte  dell'accoglimento -
da parte del magistrato di sorveglianza - dell'istanza  proposta  dal
condannato durante l'esecuzione della  pena  detentiva,  accoglimento
subordinato  alla  collaborazione  del  condannato  ai  sensi   degli
articoli  58-ter  dell'ordinamento  penitenziario  (ossia   dopo   la
condanna definitiva), o  dell'art.  323-bis,  comma  2º,  del  codice
penale (norma, quest'ultima, che prevede come circostanza  attenuante
«la collaborazione» in  relazione  alle  fattispecie  previste  dagli
articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis del  codice
penale; dunque non per il peculato). 
    In assenza di una disciplina  transitoria,  l'applicazione  della
disposizione in commento e' regolata dal principio del «tempus  regit
actum»; infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimita', le disposizioni  concernenti  l'esecuzione  delle  pene
detentive e le misure  alternative  alla  detenzione  non  riguardano
l'accertamento del  reato  e  l'irrogazione  della  pena,  bensi'  le
«modalita' esecutive della stessa»  e,  pertanto,  nel  caso  in  cui
manchi una disciplina intertemporale, sono suscettibili di  immediata
applicabilita' anche ai fatti commessi in epoca precedente, in quanto
sottratte alle regole dettate in  materia  di  successione  di  norme
penali nel tempo  dall'art.  2  del  codice  penale  e  dall'art.  25
Costituzione. 
    Questo principio e' stato espressamente affermato  da  Cassazione
SS.UU. n. 24561 del 30 maggio 2006: 
        «Le  disposizioni   concernenti   l'esecuzione   delle   pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali
sostanziali e  pertanto  (in  assenza  di  una  specifica  disciplina
transitoria), soggiacciono al principio "tempus regit actum",  e  non
alle regole dettate in materia di successione  di  norme  penali  nel
tempo  dall'art.  2  del  codice  penale,  e   dall'art.   25   della
Costituzione. (In applicazione  di  tale  principio,  le  S.U.  hanno
ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il  delitto
di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per
effetto dell'art. 15 della legge 6 febbraio 2006, n. 38,  tra  quelli
previsti dall'art. 4-bis  dell'ordinamento  penitenziario  in  quanto
tali, e non piu' soltanto  come  reati-fine  di  un'associazione  per
delinquere,  comportasse  l'operativita',  altrimenti  esclusa,   del
divieto della sospensione dell'esecuzione, ai  sensi  dell'art.  656,
comma nono, lettera a), del codice di procedura penale,  non  essendo
ancora  esaurito  il  relativo  procedimento  esecutivo  al   momento
dell'entrata in vigore  della  novella  legislativa)»;  nello  stesso
senso cfr.: Cassazione n. 37578 del 3 febbraio  2016;  Cassazione  n.
52578 dell'11 novembre 2014; Cassazione n. 6910 del 14 ottobre  2011;
Cassazione n. 11580 del 5 febbraio 2013; Cassazione n.  46924  del  9
dicembre 2009; Cassazione n. 29155 del 10 giugno 2008; Cassazione  n.
34040 del 22 settembre 2006; Cassazione n.  33062  del  19  settembre
2006; Cassazione n. 25113 dell'11 luglio 2006;  Cassazione  n.  24767
del 5 luglio 2006; Cassazione n. 31430 del 22 luglio 2006; Cassazione
n. 30792 del 6 giugno 2006. 
    Per opportuna completezza si segnala che la  Corte  d'appello  di
Milano  (ordinanza  del  27  marzo  2019),  proprio  in  adesione  al
richiamato  consolidato  orientamento  della   S.C.,   dovendo   fare
applicazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 3/2019,
ha ritenuto «priva di rilevanza ogni questione  di  legittimita'  che
muova dal presupposto che non puo' trovare  applicazione  retroattiva
una legge che modifichi in senso sfavorevole al reo la disciplina  di
istituti che in vario modo incidano sul trattamento penale». 
    2 - Secondo il «diritto interno»,  quindi,  le  disposizioni  che
disciplinano l'esecuzione della pena e  le  misure  alternative  alla
detenzione  non  attengono  ne'  alla  cognizione   del   reato   ne'
all'irrogazione  della  pena,  bensi'  alle  modalita'  esecutive  di
questa, tanto da non essere soggette, in caso di successione di norme
diverse, alle regole stabilite dall'art. 2 del codice penale  ne'  al
principio di irretroattivita' delle  modifiche  in  peius,  bensi'  a
quelle vigenti al momento della loro applicazione. 
    Il  Tribunale  ritiene,  tuttavia,  che  le  eccezioni  stabilite
dall'art. 656, comma 9°, lettera a) del codice di procedura  penale -
attraverso  il  richiamo  all'art.  4-bis  legge  n.  354/1975   come
modificato dall'art. 1, comma 6°, lettera b) legge n.  3/2019 -  alla
regola generale della sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  della
pena detentiva prevista dal comma 5° della stessa norma, non incidano
esclusivamente sulle «modalita' esecutive della pena» ma anche  sulla
sua effettiva portata e natura, poiche' impongono al  condannato  che
si trovi nelle condizioni per accedere ad una misura alternativa alla
detenzione  carceraria  una  temporanea  anticipazione   del   regime
detentivo («un assaggio di pena»,  e'  stato  detto  con  espressione
icastica), in attesa delle decisioni del magistrato  di  sorveglianza
sul possibile accesso ad una di tali misure; il tutto, peraltro,  con
possibili frizioni con la finalita' rieducativa della  pena  prevista
dall'art. 27 Costituzione. 
    Vale osservare,  su  quest'ultimo  punto,  che  come  di  recente
ribadito  da  Corte  costituzionale  n.   41/2018,   la   sospensione
automatica dell'ordine di esecuzione e' conseguente alla sentenza  n.
569/1989 con cui il giudice delle leggi estese a chi  si  trovava  in
stato di liberta' la  possibilita'  di  accedere  all'affidamento  in
prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria;  «il
legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di  principio
incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi
potuto godere di una misura specificamente pensata  per  favorire  la
risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a  perseguire
al massimo grado l'obiettivo di risparmiare il carcere al condannato,
sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche  all'art.
656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio  1975,  n.
354, e successive modificazioni), l'art. 656 del codice di  procedura
penale e introducendo l'automatica sospensione dell'esecuzione  della
pena detentiva, entro un limite pari a  quello  previsto  per  godere
della misura alternativa». 
    D'altra parte, nemmeno pare ultroneo ricordare che il legislatore
aveva   limitato   l'applicabilita'   «ai   soli    reati    commessi
successivamente  all'entrata  in  vigore  della  legge»  in  sede  di
emanazione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella
legge 12 luglio 1991, n. 203, che circoscrisse l'applicabilita' della
norma limitativa della  concessione  dei  benefici  penitenziari  per
taluni delitti (di cui all'art. 58-quater, 4° comma, della  legge  n.
354/1975); la previsione, in quel caso, di una  specifica  disciplina
intertemporale equivale all'implicito riconoscimento del principio di
irretroattivita' di una norma meno favorevole, anche se  «concernente
l'esecuzione delle  pene  detentive  e  le  misure  alternative  alla
detenzione». 
    Ed allora  l'art.  4-bis  della  legge  n.  354/1975,  richiamato
dall'art. 656, comma 9, lettera a) del codice  di  procedura  penale,
benche' «nominalmente» processuale, nella «sostanza» ha un  contenuto
«afflittivo» per le ricadute sulla liberta' personale del condannato,
nei termini evidenziati. 
    3 - Se, dunque, nella sostanza ci si trova  al  cospetto  di  una
«norma penale» a tutti gli effetti, l'applicazione della deroga  alla
sospensione dell'ordine di carcerazione anche per  chi  abbia  subito
condanna per il delitto di peculato commesso  prima  dell'entrata  in
vigore della legge n. 3/2019, implica una violazione  degli  articoli
25, comma 2° e 117, comma 1°,  Costituzione,  integrato  dall'art.  7
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  cosi'  come  interpretato  dalla  Corte  EDU;
diversamente si consentirebbe agli stati membri di  applicare  misure
che ridefiniscono retroattivamente la portata e la natura della  pena
inflitta a detrimento della persona condannata. 
    Come gia' rilevato nelle ordinanze che  hanno  sollevato  analoga
questione di legittimita' costituzionale (Tribunale  di  sorveglianza
di Venezia, ordinanza dell'8 aprile 2019; Corte di appello di  Lecce,
ordinanza del 4 aprile 2019; giudice per le indagini  preliminari  di
Napoli, ordinanza del 2 aprile  2019),  ai  fini  del  riconoscimento
delle  garanzie  convenzionali  la   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
attribuisce    alla    nozione    di    «pena»    una    connotazione
«sostanzialistica»,   privilegiando   alla   qualificazione   formale
assegnata dall'ordinamento una valutazione in ordine  al  tipo,  alla
durata, agli effetti  nonche'  alle  modalita'  di  esecuzione  della
sanzione o della misura applicata. 
    In  particolare,   l'esigenza   della   verifica   dell'effettivo
carattere «sostanziale» della norma  oggetto  di  scrutinio  e,  come
tale, suscettibile di rientrare «nella protezione offerta dall'art. 7
CEDU», e' stata affermata dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo
nella sentenza 21 ottobre 2013, «Del Rio Prada c/Spagna». 
    Nell'occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilita'  con
l'art.  7  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali della c.d.  «doctrina  Parot»
(si trattava di un diverso e successivo orientamento  espresso  dalla
giurisprudenza  di  legittimita'  spagnola  circa  l'applicazione  di
alcuni benefici penitenziari), la Corte europea dei diritti dell'uomo
ha evidenziato che: «per  rendere  effettiva  la  protezione  offerta
dall'art. 7, la  Corte  deve  rimanere  libera  di  andare  oltre  le
apparenze e valutare da sola se una particolare  misura  equivale  in
sostanza  a  una   "pena"   ai   sensi   di   questa   disposizione»;
conseguentemente,  la  Corte  ha  riconosciuto  rilevanza  anche   al
mutamento giurisprudenziale  riguardante  un  istituto  qualificabile
come «liberazione anticipata» in quanto  suscettibile  di  comportare
effetti peggiorativi, giungendo a sostenere che «ai fini del rispetto
del principio dell'affidamento del consociato circa la prevedibilita'
della sanzione penale, occorre avere  riguardo  non  solo  alla  pena
irrogata ma anche alla sua esecuzione». 
    4 - La stessa Corte costituzionale ha, in piu' occasioni,  esteso
la garanzia del regime di  «retroattivita'»,  sancito  dall'art.  25,
comma   2°,   Costituzione   a   varie   disposizioni   a   carattere
«intrinsecamente punitivo», cio' in linea con la giurisprudenza della
Corte europea dei  diritti  dell'uomo  che  da  tempo  sottolinea  la
necessita' di «andare al di la' delle qualificazioni giuridiche»  per
valutare «se  una  determinata  misura  costituisce  pena»  (CEDU,  9
febbraio 1995, Welch c. Regno  Unito);  ne  costituiscono  esempi  le
sentenze n. 196/2010 e n. 223/2018. 
    Con la prima pronuncia  la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale, «per violazione dell'art. 117, primo
comma, Costituzione, dell'art. 186, comma 2, lettera c), cod. strada,
come modificato dall'art. 4, comma 1, lettera b),  del  decreto-legge
23 maggio 2008, n. 92, convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,
comma 1, della legge 24  luglio  2008,  n.  125,  limitatamente  alle
parole «ai sensi dell'art. 240, secondo comma,  del  codice  penale»;
infatti, «la confisca in esame, al di la'  della  sua  qualificazione
formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di  misura  di
sicurezza  in  senso  proprio,  e  riveste  una  funzione   meramente
repressiva  e  non  preventiva»;  conseguentemente,  «il  riferimento
all'art. 240, secondo comma,  del  codice  penale -  contenuto  nella
censurata disposizione,  che  prevede,  in  caso  di  condanna  o  di
patteggiamento per il reato di guida sotto  l'influenza  dell'alcool,
l'obbligatoria confisca del veicolo con il quale e' stato commesso il
reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona  estranea  al
reato - determina l'applicazione retroattiva della confisca  anche  a
fatti commessi prima dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  92
del 2008, secondo il regime proprio delle misure di sicurezza che, ai
sensi dell'art. 200 del codice penale, sono regolate dalla  legge  in
vigore al tempo della loro applicazione».  Tuttavia,  «l'applicazione
retroattiva  di  una  misura  propriamente  sanzionatoria  viola   il
principio di irretroattivita' della pena sancito  dall'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali ed  esteso  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo a tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo». 
    Con la sentenza n. 223/2018, il giudice delle leggi ha dichiarato
«l'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge 18
aprile 2005,  n.  62  (Disposizioni  per  l'adempimento  di  obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee. Legge
comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca  per
equivalente prevista dall'art. 187-sexies del decreto legislativo  24
febbraio 1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni  in  materia  di
intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli  8  e  21  della
legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorche' il  procedimento
penale  non  sia  stato  definito,  anche  alle  violazioni  commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62
del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente
all'intervento  di  depenalizzazione   risulti   in   concreto   piu'
sfavorevole  di  quello   applicabile   in   base   alla   disciplina
previgente». 
    Questa conclusione si fonda sulla premessa secondo cui: 
        «E'  generalmente  riconosciuto  che  dall'art.  25,  secondo
comma, Costituzione («Nessuno puo' essere punito se non in  forza  di
una legge che sia  entrata  in  vigore  prima  del  fatto  commesso»)
discende un duplice divieto: un divieto di  applicazione  retroattiva
di  una  legge  che  incrimini  un  fatto  in  precedenza  penalmente
irrilevante; e un divieto di applicazione retroattiva  di  una  legge
che  punisca  piu'  severamente   un   fatto   gia'   precedentemente
incriminato. Tale secondo divieto e', del  resto,  esplicitato  nelle
parallele disposizioni delle carte internazionali dei  diritti  umani
e, piu' in particolare, nell'art. 7, paragrafo  l,  secondo  periodo,
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali («Parimenti, non puo' essere inflitta una
pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il  reato  e'
stato commesso»); nell'art. 15, paragrafo l, secondo  periodo,  della
Convenzione internazionale sui diritti civili e politici,  firmata  a
New York il 16 dicembre 1966, ratificata e resa esecutiva  in  Italia
con la legge 25  ottobre  1977,  n.  881  (Patto  internazionale  sui
diritti civili e politici), («Cosi' pure, non  puo'  essere  inflitta
una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato e'
stato  commesso»);  nonche'  nell'art.  49,  paragrafo   1,   seconda
proposizione,  della  Carta  dei  diritti  fondamentali   dell'Unione
europea,  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo il  12  dicembre  2007  (CDFUE),  che  riproduce  in  modo
identico la formulazione contenuta nella CEDU. Entrambi i divieti  in
parola  trovano   applicazione   anche   al   diritto   sanzionatorio
amministrativo, al quale pure si estende, come questa Corte  ha  gia'
in piu' occasioni riconosciuto (sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del
2014), la fondamentale garanzia di irretroattivita' sancita dall'art.
25, secondo comma, Costituzione, interpretata anche alla  luce  delle
indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e
in particolare dalla giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti
dell'uomo relativa all'art. 7  CEDU.  Anche  rispetto  alle  sanzioni
amministrative a carattere punitivo si  impone  infatti  la  medesima
esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema  penale  in
senso stretto, di non sorprendere la persona  con  una  sanzione  non
prevedibile al momento della commissione del fatto». 
    5 - La modifica in senso sfavorevole della disposizione della cui
legittimita' costituzionale si dubita, inoltre, vanifica il legittimo
«affidamento» del condannato per  il  delitto  di  peculato  commesso
sotto la vigenza dell'originario art. 4-bis,  legge  n.  354/1975,  a
vedersi sospeso l'ordine di esecuzione della pena detentiva nel  caso
- come quello in scrutinio - di condanna inferiore a quattro anni  di
reclusione. 
    L'incidenza della modifica normativa in oggetto  sull'affidamento
da  parte  dell'imputato/condannato  ad  una   regola   di   giudizio
accessibile e prevedibile - da apprezzarsi in termini  di  violazione
degli articoli 117  Costituzione  e  7  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e'
stata evidenziata dalla Corte  di  cassazione;  in  un  obiter  della
sentenza n. 12541 del 14 marzo 2019, i giudici di legittimita'  hanno
affermato che: 
        «non  parrebbe  manifestamente  infondata  la  prospettazione
difensiva secondo  la  quale,  l'avere  il  legislatore  cambiato  in
itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria
presenti tratti  di  dubbia  conformita'  con  l'art.  7  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali e, quindi, con l'art.  117  Costituzione,  la'  dove  si
traduce nel passaggio "a sorpresa" - e, dunque, non prevedibile -  da
una sentenza patteggiata senza "assaggio di pena" ad una sanzione con
necessaria  incarcerazione,  giusta  il  gia'  rilevato  operare  del
combinato disposto degli articoli  656,  comma  9,  lettera  a),  del
codice di procedura penale e 4-bis ord. pen. D'altronde in precedenza
il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate  a
temperare il principio  di  immediata  applicazione  delle  modifiche
all'art. 4-bis, comma  1°,  legge  23  dicembre  2002,  n.  279  (che
inseriva i reati di cui agli articoli  600,  601  e  602  del  codice
penale nell'art. 4-bis cit.)  limitandone  l'applicabilita'  ai  soli
reati commessi successivamente all'entrata  in  vigore  della  legge»
(nell'occasione  la  questione  e'  stata  dichiarata  non  rilevante
poiche' non afferente l'impugnazione della sentenza  di  applicazione
della pena oggetto di quel giudizio). 
    6 - Da queste premesse discende che il procedimento di esecuzione
riguardante l'ordine di carcerazione adottato ai sensi dell'art. 656,
comma 1° del codice di procedura penale in relazione ad una  condanna
per uno dei reati ostativi introdotti dall'art. 1, comma  6,  lettera
b) legge n. 3/2019 - tra cui, come detto, il delitto di peculato - ha
titolo per rientrare nel raggio di  azione  dell'art.  6  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali in materia di «processo equo»;  cio'  in  considerazione
dello stretto legame tra la nozione di «pena» di cui all'art. 7 della
Convenzione e quella di «accusa in materia penale» ex art. 6 citato. 
    Ad esempio, nella sentenza Gurguchiani c/Spagna del  15  dicembre
2009, la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha  qualificato  come
«pena» - ex art. 7 della Convenzione -  la  sostituzione  della  pena
detentiva con quella dell'espulsione con divieto  di  reingresso  per
dieci anni nel territorio dello Stato  applicata,  in  forza  di  una
legge sopravvenuta rispetto alla condanna definitiva, ad un  imputato
che stava espiando una pena detentiva; conseguentemente, la Corte  ha
riscontrato una violazione dell'art. 6 CEDU: 
        «e' dunque  possibile  concludere  che  al  pari  della  pena
comminata in occasione della condanna dell'interessato, si  configuri
come pena anche la sostituzione  della  pena  detentiva  di  diciotto
mesi, inflitta al ricorrente, con la  misura  dell'espulsione  e  del
divieto di ingresso nel territorio per la durata di dieci anni, senza
che il medesimo fosse  stato  interrogato  e  senza  tener  conto  di
circostanze diverse dall'applicazione quasi  automatica  della  nuova
versione dell'art. 89 del codice penale in vigore dal 2003». 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  gia'  avuto  modo  di
ritenere  in  contrasto  con  la  garanzia  convenzionale   stabilita
dall'art. 6 citato taluni procedimenti giurisdizionali previsti dalla
legislazione italiana (le censure riguardavano la mancata  previsione
della pubblicita' delle udienze); cio' e' avvenuto  con  riguardo  al
procedimento applicativo delle misure  di  prevenzione  (sentenza  13
novembre 2007, Bocellari e Rizza c/Italia; sentenza 17  maggio  2011,
Capitani e Campanella c/Italia; sentenza 2 febbraio  2010,  Leone  c/
Italia; sentenza 5  gennaio  2010,  Bongiorno  c/Italia;  sentenza  8
luglio 2008, Perre c/Italia) ed al procedimento  per  la  riparazione
dell'ingiusta  detenzione  (sentenza  10  aprile   2012,   Lorenzetti
c/Italia). 
    Quanto  alla  possibilita'  di  attribuire  al  procedimento   di
esecuzione penale la natura di giudizio che verte sul  fondamento  di
un'«accusa penale», gli organi della Convenzione europea dei  diritti
dell'uomo avevano distinto tra la procedura relativa  all'«esecuzione
della sentenza» (che esulerebbe dall'ambito applicativo dell'art.  6;
cfr. decisione del 7 maggio 1990 Aldrian c/Austria)  e  la  procedura
riguardante la «fissazione della misura della condanna gia' inflitta»
(che, viceversa, vi rientrerebbe; cfr. sentenza  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali 5 luglio 2001 Phillips c/Regno Unito). 
    Sull'argomento, con la gia' citata  sentenza  nel  caso  Del  Rio
Prada c/Spagna, la Grande Camera della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  -
seppure  in  relazione  all'applicabilita'  dell'art.  7  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali   con   riferimento   a   mutamenti    giurisprudenziali
suscettibili   di   incidere    sull'esecuzione    della    pena    e
sull'ottenimento  di  benefici   penitenziari -   ha   operato   «una
distinzione tra la misura che costituisce in sostanza una "pena" e la
misura relativa all'"esecuzione" o all'"applicazione" della pena.  Di
conseguenza, quando la natura e lo scopo di una misura riguardano  la
riduzione di una pena o un cambiamento  nel  sistema  di  liberazione
condizionale, tale misura non fa parte  integrante  della  "pena"  ai
sensi dell'art. 7 (si vedano, tra le altre, Hosein  c.  Regno  Unito,
nn. 26293/95, decisione della Commissione del 28 febbraio 1996, Grava
c. Italia, n. 43522/98, § 51, 10 luglio 2003, Kafkaris, sopra citata,
§ 142, Scoppola c.  Italia  (n.  2)  [GC],  n.  10249/03,  §  98,  17
settembre 2009, e M c. Germania, n.  19359/04,  §  121,  17  dicembre
2009)». 
    La Corte, tuttavia, non ha mancato di rilevare che «nella pratica
la distinzione fra le  due  non  e'  sempre  netta  (Kafkaris,  sopra
citata, § 142, e Gurguchiani)». 
    Ed  invero,  come  e'  stato  condivisibilmente  evidenziato   in
dottrina,  non  vi  sarebbero  ostacoli  ad  estendere  le   garanzie
dell'art. 6 Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali anche ad istituti  rientranti
nel  «procedimento  di  esecuzione»  che  concorrono  a   determinare
l'effettiva durata della privazione della liberta' da  scontare;  tra
questi ultimi possono  annoverarsi,  oltre  al  procedimento  di  cui
all'art. 671 del codice di procedura penale relativo all'applicazione
della continuazione in sede esecutiva, anche quelli in cui si discuta
della validita' e/o dell'efficacia del titolo esecutivo o dell'ordine
di  carcerazione,  apparendo,  diversamente,  irragionevole   offrire
all'imputato tutta una serie di garanzie nel processo di  cognizione,
per poi  sottrargliele  proprio  nella  fase  in  cui  devono  essere
determinati gli effetti sulla sua persona dell'eventuale condanna. 
    7 - La Corte  costituzionale  ha  offerto  utili  indicazioni  in
ordine alla qualificazione di una misura come «pena» o come  relativa
all'«esecuzione»  o  all'«applicazione»  della  pena,   in   funzione
dell'estensione delle garanzie sul «processo equo»; ci  si  riferisce
alle   questioni   di   legittimita'    costituzionale    riguardanti
procedimenti  camerali  in  cui  sia  «in  gioco»  un  bene  primario
dell'individuo quale la liberta' personale. 
    In ben  tre  circostanze  la  Consulta  ha,  infatti,  esteso  le
garanzie previste dall'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali a procedimenti di
«esecuzione penale», ossia disciplinati dagli articoli 666  e  ss.gg.
del codice  di  procedura  penale;  con  le  sentenze  n.  93/2010  e
135/2014,  la  Corte  ha,  infatti,   dichiarato   costituzionalmente
illegittime - per contrasto con l'art. 117, 1° comma, Costituzione le
disposizioni relative al procedimento per l'applicazione delle misure
di prevenzione (art. 4, legge n. 1423/1956) ed  al  procedimento  per
l'applicazione delle misure di sicurezza  (articoli  666,  comma  3°,
678, comma 1°, 679, comma 1° del codice di  procedura  penale)  nella
parte in cui non consentono, su istanza  degli  interessati,  che  le
procedure si svolgano nelle forme dell'udienza pubblica; sulla stessa
linea  si  colloca  la  sentenza  n.  97/2015,  che   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale degli articoli 666,  comma  3°,  678,
comma l °, del codice di procedura penale, nella  parte  in  cui  non
consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti
al Tribunale di sorveglianza, nelle materie  di  sua  competenza,  si
svolga nelle forme dell'udienza pubblica. 
    L'avere ricondotto i richiamati procedimenti camerali  nel  solco
della  norma  convenzionale  sul  «processo   equo»   sottintende   e
presuppone, necessariamente, l'affermazione che tali procedure  hanno
natura di giudizi che vertono sul fondamento di  un'«accusa  penale»;
non a caso la Corte ha evidenziato: 
        che «si tratta di un  procedimento  all'esito  del  quale  il
giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio  di  merito,  idoneo  ad
incidere in  modo  diretto,  definitivo  e  sostanziale  su  un  bene
primario  dell'individuo,  costituzionalmente  tutelato,   quale   la
liberta' personale» (sentenza n. 135/2014); 
        che «si tratta di provvedimenti in tema di  esecuzione  della
pena distinti ed ulteriori rispetto a  quelli  adottati  in  sede  di
cognizione -  anche  se  ad  essi  ovviamente  collegati  -  i  quali
incidono, spesso in modo particolarmente  rilevante,  sulla  liberta'
personale dell'interessato» (sentenza n. 95/2017). 
    Atteso il gia' evidenziato  stretto  legame  tra  la  nozione  di
«accusa in materia penale» ex  art.  6  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
quella di «pena» ex art. 7 CEDU, ove al  procedimento  di  esecuzione
penale azionato ex art. 666 del codice di  procedura  penale  avverso
l'ordine di carcerazione  emesso  dal  pubblico  ministero  ai  sensi
dell'art. 656 del codice  di  procedura  penale  si  riconoscesse  la
natura di un giudizio che verte sul fondamento di un'«accusa penale»,
natura «penale» non potrebbe  conseguentemente  che  assegnarsi  alla
disposizione di cui all'art. 656, comma 9,  lettera  a),  cosi'  come
integrato dall'art. 1, comma 6°, lettera b) legge n.  3/2019  che  ha
modificato  l'art.  4-bis  della  legge  n.  354/1975   nei   termini
suindicati. 
    Non e' revocabile in dubbio, invero, che anche in relazione  agli
effetti derivanti  dalla  disposizione  in  scrutinio  la  «posta  in
gioco» - per usare l'efficace espressione  contenuta  nelle  sentenze
della Corte costituzionale 134/2015 e 97/2015 -  sia  particolarmente
elevata; come premesso, infatti, le conseguenze dell'applicazione  di
tale norma si traducono in una anticipazione della pena detentiva che
comporta  la  privazione  della  liberta'  personale  attraverso   la
carcerazione, anche se il condannato  risultera'  meritevole  di  una
misura alternativa. 
    8 -  Da  ultimo,  e'  stato  condivisibilmente  evidenziato   che
l'applicazione retroattiva della disposizione  peggiorativa  potrebbe
comportare  una  violazione  del   diritto   di   difesa   (art.   24
Costituzione) in ordine alla effettuazione di  strategie  processuali
che non siano vanificate o alterate  da  successive  modifiche  delle
«regole del gioco»; si pensi al caso di chi, imputato per il  delitto
di cui all'art. 314, comma l°, del codice penale, abbia optato per un
rito alternativo confidando su di  una  condanna  a  pena  rientrante
nella soglia della sospensione dell'ordine di carcerazione e che  per
effetto della novella potrebbe  inoltrare  una  richiesta  di  misura
alternativa solo in corso di esecuzione della detenzione carceraria. 
    9 - E' noto che le  sentenze  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo non sono equiparabili a quelle della Corte di giustizia del
Lussemburgo,  adita  in  via  pregiudiziale  o  nell'ambito  di   una
procedura di infrazione. 
    Il giudice ordinario, quindi, non puo' risolvere il contrasto tra
legge interna  e  norma  convenzionale  evidenziato  dalla  Corte  di
Strasburgo,  provvedendo  egli  stesso  a  disapplicare   la   prima,
presupponendo cio'  il  riconoscimento  di  un  primato  delle  norme
contenute nella Convenzione  e/o  delle  sentenze  della  Corte  EDU,
analogo a quello conferito al diritto  dell'Unione  europea  ed  alle
sentenze  della  Corte  di  giustizia,  che   incidono   direttamente
nell'ordinamento  nazionale  e  possono  determinare  addirittura  la
disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. 
    La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze 348  e
349  del  2007,  e'  costante  nell'affermare  che  «le  norme  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - nel significato loro attribuito  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per  dare  ad
esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) -
integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro   costituzionale
espresso dall' art. 117, comma 1º Costituzione, nella  parte  in  cui
impone  la  conformazione  della  legislazione  interna  ai   vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n.  1  e  113  del
2011; nn. 138, 187 e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39  del
2008). 
    La Consulta ha anche chiarito che «l'art. 117 Costituzione, comma
1°, ed in particolare l'espressione "obblighi internazionali" in esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli articoli 10  ed  11
Costituzione. Cosi' interpretato, l'art. 117, comma l°  Costituzione,
ha colmato la lacuna  prima  esistente  rispetto  alle  norme  che  a
livello  costituzionale  garantiscono  l'osservanza  degli   obblighi
internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto  di  una
norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare  della
CEDU,  si  traduce  in  una  violazione  dell'art.  117,   comma   1º
Costituzione» (sentenza n. 311/2009,  richiamata  nella  sentenza  n.
236/2011). 
    In presenza di un contrasto tra una norma  interna  e  una  norma
della CEDU, pero', «il giudice nazionale comune deve  preventivamente
verificare la  praticabilita'  di  una  interpretazione  della  prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti  di  ermeneutica  giuridica»  (sentenze  n.  113/2011,   n.
93/2010, nn. 239 e 311 del 2009). 
    L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non  componibile
in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che  non  puo'
disapplicare la norma interna ne' fame applicazione, per il  ritenuto
contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo  e  delle   liberta'   fondamentali   e   quindi   con   la
Costituzione -  di  sottoporre  alla   Consulta   la   questione   di
legittimita' costituzionale in riferimento all'art.  117,  comma  1°,
Costituzione (sentenza n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n.  311  del
2009), attraverso un rinvio pregiudiziale,  con  la  conseguenza  che
l'eventuale  operativita'  della  norma  convenzionale,  cosi'   come
interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare  attraverso  una
declaratoria  d'incostituzionalita'  della   normativa   interna   di
riferimento o, se del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa
o additiva. 
    Competera', inoltre, al  giudice  delle  leggi,  ove  accerti  il
denunciato contrasto tra  norma  interna  e  norma  della  CEDU,  non
risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda,  che  si
colloca  pur  sempre  ad  un  livello  sub-costituzionale,  si  ponga
eventualmente in conflitto con altre norme della Carta  fondamentale,
ipotesi questa che portera'  ad  escludere  l'idoneita'  della  norma
convenzionale ad integrare il  parametro  costituzionale  considerato
(sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n.  311  del  2009;
nn. 348 e 349 del 2007). 
    10 -  Delineati  i  rapporti  tra  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
diritto interno, tornando al tema oggetto di  scrutinio,  ritiene  il
Tribunale che non sia superabile in via interpretativa il riscontrato
contrasto tra l'art. 7 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e l'art. 1, comma 6°,
lettera b) della legge 9 gennaio 219,  n.  3,  nella  parte  in  cui,
modificando l'art. 4-bis comma 1° della  legge  26  luglio  1975,  n.
354 - norma richiamata dall'art. 656, comma 9°, lettera a) del codice
di procedura penale - si applica anche al  delitto  di  cui  all'art.
314, comma 1°, del codice penale commesso  anteriormente  all'entrata
in vigore della medesima legge. 
    A questa conclusione si perviene sulla base della  considerazione
che,  come  evidenziato  in  premessa,  per  il   «diritto   vivente»
consolidato in numerose e costanti pronunce della Suprema  Corte,  le
disposizioni concernenti  l'esecuzione  delle  pene  detentive  e  le
misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento  del
reato e l'irrogazione  della  pena,  sicche'  sfuggono  «alle  regole
dettate   in   materia   di   successione   di   norme   penali   nel
tempo......dall'art. 25 della Costituzione». 
    Tale principio  e'  stato  affermato  dalla  S.C.  nel  suo  piu'
autorevole consesso, la cui funzione  nomofilattica  -  e'  opportuno
evidenziare -  e'  stata  notevolmente  accentuata  a  seguito  della
recente  riforma  operata  con  la  legge  23  giugno  2017,  n. 103,
attraverso le  modifiche  introdotte  con  i  commi  1-bis  ed  1-ter
dell'art. 618 del codice di procedura penale. 
    Pertanto, la rigorosa applicazione del principio del tempus regit
actum, che secondo il «diritto interno» dovrebbe regolare la  materia
in  un  contesto  di   affermata   compatibilita'   con   l'art.   25
Costituzione, risulta superabile solo attraverso una pronuncia  della
Corte costituzionale che, intervenendo sulla norma censurata,  limiti
l'applicazione della novella ai soli fatti  commessi  successivamente
alla sua entrata in vigore. 
    Da ultimo, non puo' accedersi alla richiesta -  proposta  in  via
subordinata - di dichiarare la temporanea inefficacia dell'ordine  di
carcerazione, poiche' l'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87
dispone unicamente  la  «sospensione  del  giudizio»,  non  anche  la
sospensione dell'efficacia del provvedimento adottato in forza di una
disposizione  di  legge  della  cui  legittimita'  costituzionale  si
dubita. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 24, 25, comma
2°,  117,  1°  comma,  Costituzione,  7  della  Convenzione  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in
avanti «CEDU»), come interpretato dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, con riferimento all'art. 1, comma  6°,  lettera  b)  della
legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in  cui,  modificando  l'art.
4-bis comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354 - norma  richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lettera a) del codice di procedura  penale -
si applica anche al delitto di cui all'art.  314  del  codice  penale
commesso anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale  e  la  sospensione  del  presente   procedimento   di
esecuzione. 
    Dispone  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  al   sig.
Presidente del Consiglio dei ministri,  nonche'  comunicata  al  sig.
Presidente  del  Senato  ed  al  sig.  Presidente  della  Camera  dei
deputati;  dispone,  altresi',  la   comunicazione   della   presente
ordinanza a tutte le parti processuali. 
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti. 
 
        Brindisi, 17 aprile 2019 
 
                  Il Presidente estensore: Cacucci