N. 221 SENTENZA 18 giugno - 23 ottobre 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Procreazione medicalmente assistita (PMA) - Accesso alle  tecniche  -
  Divieto per  le  coppie  composte  da  persone  entrambe  di  sesso
  femminile e sanzioni per l'inosservanza - Denunciata violazione del
  diritto  fondamentale  alla  genitorialita'  dell'individuo   nelle
  coppie   omosessuali,   disparita'   di   trattamento    in    base
  all'orientamento sessuale e  alle  condizioni  economiche,  lesione
  della protezione della  maternita',  della  dignita'  umana  e  del
  diritto alla salute, nonche' del diritto  al  rispetto  della  vita
  privata e familiare e del divieto di discriminazione previsti dalla
  CEDU e  da  altre  fonti  internazionali  -  Non  fondatezza  delle
  questioni. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 1, commi 1 e 2,  4,  5  e  12,
  commi 2, 9 e 10. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32,  primo  comma,
  117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo
  e liberta' fondamentali (CEDU), artt. 8 e 14; Patto  internazionale
  relativo ai diritti civili e politici (ratificato e reso  esecutivo
  con legge 25 ottobre 1977, n. 881), artt. 2, paragrafo 1, 17, 23  e
  26; Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle  persone  con
  disabilita' (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n.
  18), artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25. 
(GU n.44 del 30-10-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 1, commi 1
e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10 della legge 19 febbraio 2004,  n.  40
(Norme in materia di procreazione medicalmente  assistita),  promossi
dal Tribunale ordinario di Pordenone e  dal  Tribunale  ordinario  di
Bolzano, con ordinanze del 2  luglio  2018  e  del  3  gennaio  2019,
rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018  e  al
n. 60  del  registro  ordinanze  2019  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 38,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2018 e n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visti gli atti di costituzione di S. B. e altra, e  di  F.  F.  e
altra, gli atti di intervento ad  adiuvandum  dell'Avvocatura  per  i
diritti LGBTI, e dell'Associazione radicale  Certi  Diritti  e  altra
nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  18  giugno  2019  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    uditi gli avvocati Susanna Lollini per l'Avvocatura per i diritti
LGBTI, Filomena Gallo e Massimo  Clara  per  l'Associazione  radicale
Certi Diritti e  altra,  Maria  Antonia  Pili  per  S.  B.  e  altra,
Alexander Schuster per  F.  F.  e  altra  e  l'avvocato  dello  Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del  2018),  il
Tribunale  ordinario  di  Pordenone   ha   sollevato   questioni   di
legittimita' costituzionale, in riferimento  agli  artt.  2,  3,  31,
secondo  comma,  32,  primo  comma,  e  117,   primo   comma,   della
Costituzione - quest'ultimo in relazione agli  artt.  8  e  14  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848  -  degli
artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio  2004,  n.  40
(Norme in materia  di  procreazione  medicalmente  assistita),  nella
parte in cui, rispettivamente, limitano l'accesso  alle  tecniche  di
procreazione medicalmente assistita (d'ora in avanti: PMA) alle  sole
«coppie [...] di sesso diverso» e sanzionano, di  riflesso,  chiunque
applichi tali tecniche «a coppie [...]  composte  da  soggetti  dello
stesso sesso». 
    1.1.-  Il  giudice  a  quo  premette  di  essere  investito   del
procedimento cautelare promosso, ai sensi dell'art. 700 del codice di
procedura civile, da due  donne,  parti  di  una  unione  civile,  in
seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria  alla  loro
richiesta di accesso alla PMA. 
    Le ricorrenti hanno esposto di convivere more uxorio dal  2012  e
di aver contratto unione civile nel 2017; di aver maturato nel  corso
del tempo il desiderio della genitorialita', tanto che  una  di  loro
aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna,  all'esito  del  quale
aveva dato alla  luce  in  Italia  due  gemelli;  che  anche  l'altra
ricorrente intendeva realizzare il suo desiderio di maternita', senza
tuttavia recarsi all'estero, con costi piuttosto elevati, poiche',  a
suo parere, la legge n. 40 del 2004 - dopo le  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 e alla luce di alcune
importanti pronunce della giurisprudenza di  legittimita'  -  avrebbe
consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche  di  PMA
anche  in  Italia;  che  le  ricorrenti  si  erano   quindi   rivolte
all'Azienda per l'assistenza sanitaria  n.  5  "Friuli  occidentale",
presso la quale era stato istituito un servizio  di  PMA  di  elevato
livello  qualitativo;  che  il  responsabile  del   servizio   aveva,
tuttavia, respinto la loro richiesta, sul rilievo che l'art. 5  della
legge n. 40 del 2004 riserva  la  fecondazione  assistita  alle  sole
coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il
diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice  adito  di  ordinare,
con provvedimento d'urgenza, all'Azienda sanitaria di consentire loro
l'accesso alla PMA, previa proposizione - ove il problema  non  fosse
ritenuto  superabile  in  via  interpretativa  -  di   questioni   di
legittimita' costituzionale del  citato  art.  5  ed,  eventualmente,
dell'art. 4, comma 1, della medesima legge  n.  40  del  2004,  nella
parte in cui limita la PMA «ai casi di sterilita' o di infertilita'»,
anche quando si tratti di coppie  formate  da  persone  dello  stesso
sesso. 
    Nel costituirsi in  giudizio,  l'Azienda  sanitaria  ha  eccepito
preliminarmente  l'incompetenza  per  materia  del   giudice   adito,
assumendo che  la  competenza  a  decidere  sulla  domanda  cautelare
spetterebbe al «Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone»:  cio'
in quanto le cause concernenti le prestazioni erogate nell'ambito del
servizio sanitario nazionale rientrerebbero tra  le  controversie  in
materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 cod.  proc.
civ.), devolute dall'art. 444 del medesimo codice alla competenza del
giudice del lavoro. 
    L'eccezione - secondo il giudice rimettente - sarebbe «mal posta»
e, comunque sia,  infondata.  Per  consolidata  giurisprudenza  della
Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni  tra  le
sezioni  specializzate  (quale  la  sezione  lavoro)  e  le   sezioni
ordinarie del medesimo Tribunale non determina  l'insorgenza  di  una
questione di competenza, ma attiene alla distribuzione  degli  affari
all'interno dello stesso ufficio.  In  ogni  caso,  poi,  l'eccezione
risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a quo  non  e'
l'erogazione di una prestazione sanitaria a tutela  del  diritto  del
cittadino a una specifica cura, ma l'esatta individuazione dei limiti
al diritto alla genitorialita': «diritto che,  solo  incidentalmente,
verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un  determinato  percorso
terapeutico». 
    Quanto,  poi,  ai   presupposti   del   provvedimento   cautelare
richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum in  mora,  tenuto
conto  dell'eta'  della  ricorrente  che  dovrebbe  sottoporsi   alla
fecondazione assistita. E', infatti, notorio che le  probabilita'  di
successo  delle  relative  tecniche  diminuiscono  sensibilmente  con
l'avanzare dell'eta' della donna, specie dopo  i  trentacinque  anni,
con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante  e  del
nascituro. Nella specie, l'attesa dei tempi di un giudizio  ordinario
di cognizione rischierebbe, quindi, di  pregiudicare  definitivamente
il diritto azionato. 
    Per quanto attiene, invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo
rileva che, in base all'art. 5 della legge n. 40 del  2004,  «[f]ermo
restando quanto stabilito dall'articolo 4, comma 1, possono  accedere
alle  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita  coppie  di
maggiorenni  di  sesso  diverso,  coniugate  o  conviventi,  in  eta'
potenzialmente  fertile,  entrambi   viventi».   Nella   specie,   le
ricorrenti  sono  maggiorenni,   coniugate   o   conviventi   (avendo
costituito un'unione  civile),  in  eta'  potenzialmente  fertile  ed
entrambe viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia,  escluse  dall'accesso
alla procedura, trattandosi di una coppia di  persone  non  di  sesso
diverso, ma dello stesso sesso. 
    Tale  preclusione  risulterebbe,  d'altra  parte,  presidiata  da
incisive previsioni sanzionatorie. L'art. 12 della legge  n.  40  del
2004 punisce, infatti, al comma 2,  con  la  sanzione  amministrativa
pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro «[c]hiunque a qualsiasi  titolo,
in violazione  dell'articolo  5,  applica  tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita a coppie [...] che siano composte da  soggetti
dello stesso sesso». Prevede, inoltre, al comma 9, «la sospensione da
uno  a  tre   anni   dall'esercizio   professionale   nei   confronti
dell'esercente una professione sanitaria  condannato  per  uno  degli
illeciti» di cui al medesimo articolo. Stabilisce, infine,  al  comma
10, la sospensione per un  anno  dell'autorizzazione  concessa  «alla
struttura al cui interno e' eseguita una delle pratiche vietate», con
possibilita'  di  revoca  della  stessa   «[n]ell'ipotesi   di   piu'
violazioni dei divieti [...] o di recidiva». 
    Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
delle disposizioni dianzi indicate. 
    Il divieto di accesso alla PMA,  stabilito  nei  confronti  delle
coppie  omosessuali,  e  la  correlata  previsione  di  sanzioni  nei
confronti  del  personale  medico  e  delle  strutture  che  non   lo
rispettino si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l'art. 2 Cost.,
in  quanto  non   garantirebbero   il   diritto   fondamentale   alla
genitorialita' dell'individuo, sia come soggetto singolo,  sia  nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'. 
    Secondo  quanto  affermato  dalla  Corte   costituzionale   nella
sentenza n. 138 del 2010, la nozione di formazione sociale, di cui al
citato art. 2 Cost., abbraccia «ogni forma di comunita',  semplice  o
complessa, idonea a consentire e favorire il  libero  sviluppo  della
persona nella vita di relazione, nel contesto di  una  valorizzazione
del modello pluralistico». Essa comprende, pertanto,  anche  l'unione
civile tra persone dello stesso sesso: conclusione che trova conferma
nell'art.  1,  comma  1,  della  legge  20   maggio   2016,   n.   76
(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso  sesso
e disciplina delle convivenze), ove l'unione civile e'  espressamente
qualificata  come  «specifica  formazione  sociale  ai  sensi   degli
articoli 2 e 3 della  Costituzione».  In  tal  modo,  il  legislatore
italiano avrebbe superato l'impostazione tradizionale, in  base  alla
quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti di
sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie,  sia  omosessuali,  sia
eterosessuali. 
    Le norme censurate violerebbero, altresi', l'art. 3 Cost.,  dando
origine a disparita' di trattamento basate sull'orientamento sessuale
e sulle condizioni economiche dei cittadini. 
    Risulterebbe,    infatti,    irragionevole     e     «logicamente
contraddittoria»  la  mancata  inclusione  delle  coppie  formate  da
persone dello stesso sesso tra i  soggetti  legittimati  ad  accedere
alle tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a  favorire
la  soluzione  dei  problemi  derivanti  dalla  sterilita'  o   dalla
infertilita' umana: requisito, questo, che la Corte di cassazione  ha
ritenuto senz'altro sussistente nel caso della coppia omosessuale, la
quale verrebbe a trovarsi «in una situazione assimilabile a quella di
una coppia di persone di sesso  diverso  cui  sia  diagnosticata  una
sterilita' o infertilita' assoluta e irreversibile» (e' citata  Corte
di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre  2016,  n.
19599). Tale rilievo - ad avviso  del  giudice  a  quo  -  renderebbe
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, comma  1,  della  legge  n.  40  del  2004,  prospettata
peraltro dalle ricorrenti solo in via subordinata. 
    Vietando alle coppie di cittadini dello stesso sesso di  accedere
in Italia alla PMA, le disposizioni denunciate  finirebbero,  d'altra
parte, per riconoscere il diritto alla filiazione  alle  sole  coppie
omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi  a
tali tecniche in uno dei numerosi Stati  esteri  che,  viceversa,  lo
consentono. Come gia' rilevato  dalla  Corte  costituzionale  con  la
sentenza n. 162 del 2014 - sia pure in riferimento  al  ricorso  alla
PMA di tipo eterologo da parte  di  una  coppia  eterosessuale  -  si
realizzerebbe,  in   questo   modo,   «un   ingiustificato,   diverso
trattamento delle coppie [...],  in  base  alla  capacita'  economica
delle   stesse,   che   assurge   intollerabilmente    a    requisito
dell'esercizio   di   un    diritto    fondamentale»:    esito    che
rappresenterebbe «non un  mero  inconveniente  di  fatto,  bensi'  il
diretto effetto  delle  disposizioni  in  esame,  conseguente  ad  un
bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole». 
    Risulterebbero violati, ancora, l'art. 31, secondo comma,  Cost.,
in forza  del  quale  la  Repubblica  e'  chiamata  a  proteggere  la
maternita', favorendo gli istituti necessari a tale scopo,  e  l'art.
32, primo comma, Cost.,  in  quanto  -  come  rilevato  dalla  citata
sentenza n. 162 del 2014 -  il  diritto  alla  salute,  tutelato  dal
precetto costituzionale,  deve  ritenersi  comprensivo  della  salute
psichica, oltre che fisica:  e,  nella  specie,  sarebbe  «certo  che
l'impossibilita' di formare una famiglia con figli insieme al proprio
partner,  mediante  il  ricorso  alla  PMA  [...],   possa   incidere
negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia». 
    Le norme censurate violerebbero, infine, l'art. 117, primo comma,
Cost., ponendosi in  contrasto  con  gli  artt.  8  e  14  CEDU,  che
prevedono,  rispettivamente,  il  diritto  al  rispetto  della   vita
familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in  discussione
si tradurrebbe, infatti, in una  inammissibile  interferenza  in  una
scelta di vita che compete alla coppia familiare, attuando, al  tempo
stesso,  una   irragionevole   discriminazione   fondata   sul   mero
orientamento sessuale dei suoi componenti. 
    Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo,  posto  che,
allo stato, la richiesta delle ricorrenti di accedere alla PMA  trova
ostacolo nelle disposizioni denunciate. L'univoco tenore letterale di
queste   ultime   escluderebbe,   d'altronde,    la    praticabilita'
dell'interpretazione costituzionalmente orientata prospettata in  via
principale dalle ricorrenti. 
    1.2.- Si sono costituite S. B. e  C.  D.,  parti  ricorrenti  nel
giudizio a quo,  le  quali  hanno  chiesto  che  le  questioni  siano
accolte. 
    Le parti costituite osservano come la  Corte  costituzionale  sia
intervenuta piu' volte sulla  legge  n.  40  del  2004,  al  fine  di
estendere l'accesso alla PMA  a  soggetti  inizialmente  esclusi.  In
particolare, con la sentenza n. 162 del 2014 e' caduto il divieto  di
ricorso a tecniche di tipo  eterologo  per  le  coppie  eterosessuali
affette da sterilita' o infertilita' assolute e irreversibili, mentre
la successiva sentenza n. 96 del 2015 ha garantito l'accesso alla PMA
anche alle coppie  eterosessuali  fertili,  ma  portatrici  di  gravi
patologie genetiche trasmissibili. 
    Nel  solco  di  tale  processo   di   adeguamento   ai   principi
costituzionali non potrebbe  ora  non  inserirsi  anche  l'"apertura"
delle tecniche di PMA alle coppie formate  da  persone  dello  stesso
sesso. 
    Come rilevato dalla Corte di cassazione (in particolare,  con  la
sentenza n. 19599 del 2016), se l'unione  fra  persone  dello  stesso
sesso e' una  formazione  sociale  ove  l'individuo  «svolge  la  sua
personalita'», e se  la  volonta'  dei  componenti  della  coppia  di
divenire genitori  e  formare  una  famiglia  con  prole  costituisce
espressione  della  generale  liberta'  di  autodeterminazione  della
persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agli artt. 2, 3  e  31
Cost. (e non pure all'art. 29 Cost.), deve escludersi che  esista,  a
livello costituzionale, un divieto per le coppie dello  stesso  sesso
di accogliere e anche di generare figli. Cio' tenuto conto del  fatto
che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza in  ordine
a specifiche ripercussioni  negative  sul  piano  educativo  e  della
crescita del minore, derivanti dal suo inserimento  in  una  famiglia
formata da una coppia omosessuale. 
    Su tale rilievo, la Cassazione  ha  ritenuto,  quindi,  possibile
l'adozione del figlio del partner omosessuale ai sensi dell'art.  44,
comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184  (Diritto  del
minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione  prima  civile,
sentenza 22 giugno 2016, n. 12962). 
    Una volta assodato che l'unione omosessuale puo' bene  costituire
un contesto familiare nel quale esercitare le  funzioni  genitoriali,
la  tendenziale  unitarieta'  dello  status   di   figlio   -   senza
discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi - renderebbe
irragionevole ogni disparita' nel  riconoscimento  del  diritto  alla
genitorialita' che risulti collegata unicamente  alle  «modalita'  di
ingresso»  dei  figli  all'interno  dell'unione  civile:  ossia  alla
circostanza che l'ingresso avvenga a seguito di  adozione  ovvero  di
tecniche di PMA. 
    La  giurisprudenza  piu'  recente  riconosce,  d'altronde,  piena
efficacia nel nostro  ordinamento  agli  atti  di  nascita  stranieri
relativi a minori concepiti all'estero con tecniche di PMA da partner
dello stesso sesso, con conseguente attribuzione  della  qualita'  di
genitori a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di  PMA
a coppie dello stesso sesso in Italia  e  nel  contempo  riconoscerne
pienamente gli effetti se  operate  all'estero  (anche  da  cittadini
italiani)    rappresenterebbe    una    «intollerabile    "ipocrisia"
interpretativa», anch'essa contrastante con l'art. 3 Cost. 
    Pienamente condivisibili sarebbero,  per  il  resto,  le  censure
formulate dal rimettente in riferimento agli artt. 31, secondo comma,
32, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A  quest'ultimo  riguardo,
le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca,
con  una  pronuncia  del   19   dicembre   2013,   abbia   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale della legge austriaca che  vietava  a
coppie di donne (nella  specie,  unite  civilmente  in  Germania)  di
accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione
del principio di eguaglianza di cui  all'art.  7  della  Costituzione
austriaca e una inammissibile  interferenza  con  la  vita  familiare
protetta dall'art. 8 CEDU. 
    1.3.- E' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita'  delle  questioni
per difetto di  motivazione  sulla  non  manifesta  infondatezza.  Il
giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il  contrasto  delle  norme
censurate  con  i  parametri   costituzionali   in   modo   puramente
assiomatico, senza un adeguato supporto argomentativo. 
    Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate. 
    Come sottolineato nella sentenza n.  162  del  2014  della  Corte
costituzionale, la  legge  n.  40  del  2004  costituisce  la  «prima
legislazione organica relativa  ad  un  delicato  settore  [...]  che
indubbiamente  coinvolge  una  pluralita'  di   rilevanti   interessi
costituzionali». Le relative questioni di  costituzionalita'  toccano
temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l'individuazione  di
un ragionevole punto  di  equilibrio  fra  le  contrapposte  esigenze
appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. 
    La  progressiva  eliminazione,  da  parte  della  Corte,  con  le
sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, di taluni
divieti posti dalla  citata  legge  sarebbe  frutto  di  una  analisi
specifica non riassumibile in un  giudizio  di  valore  unitario,  in
quanto  la  Costituzione   non   pone   una   nozione   di   famiglia
inscindibilmente correlata alla presenza di figli e  la  liberta'  di
divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti.
Con la sentenza n. 162 del 2014, la  Corte  ha,  infatti,  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale della  preclusione  all'accesso  alla
PMA di tipo eterologo nei confronti delle  coppie  affette  da  grave
patologia che sia causa  di  sterilita'  o  infertilita'  assolute  e
irreversibili, senza porre, tuttavia, in discussione la  legittimita'
in se' del divieto di tale pratica e  precisando,  altresi',  che  la
declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  non  incide   sulla
disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversita'
di sesso) stabilita dall'art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004,
che resta, quindi, applicabile anche alla PMA di tipo eterologo. 
    Quanto al divieto di discriminazione delle coppie omosessuali, la
stessa  Corte  costituzionale  ha  tenuto   ferma   l'interpretazione
dell'art. 29 Cost. e il modello di matrimonio e di  famiglia  che  ne
deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza  n.
138 del 2010). Ne' la disciplina delle unioni  civili,  di  cui  alla
legge n. 76 del 2016, potrebbe  rappresentare  un  utile  termine  di
comparazione, posto che tale legge definisce  l'unione  civile  quale
«specifica formazione sociale ai sensi degli articoli  2  e  3  della
Costituzione»,  attribuendo  quindi   alla   stessa   caratteristiche
autonome e distinte rispetto al matrimonio. 
    L'art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 esclude,  inoltre,
l'applicabilita' alle unioni  civili  tanto  delle  disposizioni  del
codice civile sulla filiazione, quanto - come chiarito dalla Corte di
cassazione - della disposizione relativa  all'adozione  speciale  del
figlio del coniuge, di cui all'art. 44, comma 1,  lettera  b),  della
legge n. 184 del 1983,  consentendo  la  sola  adozione  in  caso  di
impossibilita' di affidamento preadottivo, prevista dalla  successiva
lettera d). 
    La ratio della  disciplina  della  PMA  sarebbe,  d'altro  canto,
quella di tutelare il superiore interesse del nascituro.  Il  diritto
alla  genitorialita'   sussisterebbe,   pertanto,   solo   ove   esso
corrisponda al migliore interesse per il minore  («best  interest  of
the child», secondo la  formula  rinvenibile  nella  Convenzione  sui
diritti del  fanciullo,  fatta  a  New  York  il  20  novembre  1989,
ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio  1991,  n.  176).  E,
proprio  nella  prospettiva  della  valutazione  di  tale  interesse,
particolarmente sul piano della conservazione di  rapporti  affettivi
gia'  instaurati,  il  diritto  alla  genitorialita'   delle   coppie
omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato  dalla  giurisprudenza
comune che si e' occupata dall'argomento. 
    Il caso oggi in esame non  riguarda,  tuttavia,  una  ipotesi  di
«genitorialita' sociale», tramite la quale possa essere  tutelato  un
minore, anche nell'ambito  di  coppie  omosessuali,  ma  soltanto  il
diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe  garantito
in modo assoluto dall'ordinamento. 
    Quanto, infine, alla denunciata violazione degli  artt.  8  e  14
CEDU, la difesa dello Stato ricorda come la Grande Camera della Corte
europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza 1° aprile 2010 [recte:
3 novembre 2011], S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il
divieto  di  fecondazione  eterologa  previsto   dalla   legislazione
austriaca non configurasse  una  ingerenza  indebita  della  pubblica
autorita' nella vita privata e familiare, vietata dall'art.  8  CEDU,
non eccedendo  il  margine  di  discrezionalita'  di  cui  gli  Stati
fruiscono nella disciplina della materia. 
    Si sarebbe, in conclusione,  al  cospetto  di  una  tematica  che
implica l'armonizzazione di  un  complesso  di  valori  e  scelte  di
opportunita' rimesse in via esclusiva al legislatore. 
    1.4.- E'  intervenuta,  altresi',  l'associazione  di  promozione
sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la quale  ha  chiesto,  sulla
scorta di ampie argomentazioni, l'accoglimento  delle  questioni  (da
intendere, a suo avviso, come limitate alle sole  coppie  omosessuali
femminili). 
    1.5.- S. B. e C. D. hanno depositato memoria, con la quale  hanno
contestato le difese dell'Avvocatura generale dello Stato. 
    Non conferente sarebbe, in specie, il richiamo dell'Avvocatura ai
tratti differenziali degli  istituti  del  matrimonio  e  dell'unione
civile. L'art. 5 della  legge  n.  40  del  2004  consente,  infatti,
l'accesso alla PMA non soltanto alle  coppie  «coniugate»,  ma  anche
alle  coppie  «conviventi».  La  disparita'  di  trattamento  che  le
questioni mirano a rimuovere non  e',  dunque,  quella  tra  soggetti
coniugati e soggetti  uniti  civilmente,  ma  quella  fra  conviventi
eterosessuali   e   conviventi   omosessuali   (uniti    civilmente):
distinzione   che   esprimerebbe    una    discriminazione    fondata
esclusivamente sull'orientamento sessuale della coppia. 
    Parimente privo  di  significato  sarebbe  il  fatto  che,  nelle
precedenti pronunce sulla PMA, la Corte costituzionale  abbia  tenuto
fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversita' di sesso
dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della  legittimita'
di tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte. 
    La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e
altri contro  Austria  risulterebbe,  a  sua  volta,  superata  dalla
successiva decisione della Corte  costituzionale  austriaca,  che  ha
dichiarato illegittima la normativa che vietava l'accesso alla PMA  a
coppie di donne. 
    1.6.- Ha depositato memoria  anche  l'Avvocatura  generale  dello
Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione di inammissibilita'
o  infondatezza  delle  questioni,  riprendendo  e  sviluppando   gli
argomenti gia' svolti nell'atto di intervento. 
    2.- Con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del  2019),  il
Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questioni di legittimita'
costituzionale degli artt. 5, limitatamente  alle  parole  «di  sesso
diverso», e 12, comma 2,  limitatamente  alle  parole  «dello  stesso
sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e  10»,  nonche'
degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40  del  2004,  «nella
parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di  procreazione
medicalmente assistita alle coppie formate da due  persone  di  sesso
femminile», deducendone il contrasto con gli artt. 2, 3, 31,  secondo
comma, e 32, primo comma, Cost., nonche' con gli artt. 11  (parametro
evocato  solo  in  dispositivo)  e  117,  primo  comma,   Cost.,   in
riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23
e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e  politici,
adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso  esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6,  22,  paragrafo
1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle  Nazioni  Unite  sui
diritti delle persone  con  disabilita',  fatta  a  New  York  il  13
dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n.
18. 
    2.1.-  Il  giudice  a  quo  riferisce  di   essere   chiamato   a
pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne,  ai  sensi  dell'art.
700 cod. proc.  civ.,  nei  confronti  dell'Azienda  sanitaria  della
Provincia autonoma di Bolzano. 
    Nel ricorso si deduce che la coppia ricorrente si era sposata  in
Danimarca nel 2014, con atto successivamente trascritto in Italia nel
registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni seguite
a trattamenti di inseminazione artificiale operati  in  Danimarca,  a
una delle ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e
riscontrata l'avvenuta chiusura di quella sinistra,  con  conseguente
incapacita' di produrre ovuli; che l'altra ricorrente soffriva, a sua
volta, di un'aritmia cardiaca, in ragione della quale  le  era  stato
sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi,  di  ricorrere  a
una  terapia  anticoncezionale;  che  le  tecniche  di   fecondazione
assistita  avrebbero  consentito  di  superare  gli   ostacoli   alla
procreazione  indotti  da  tali  patologie,  tramite  l'utilizzazione
complementare  delle   potenzialita'   riproduttive   residue   delle
ricorrenti (gestazionale dell'una, di produzione ovarica dell'altra);
che, a tal fine, esse  si  erano  rivolte  all'Azienda  sanitaria  di
Bolzano, la  quale  aveva,  tuttavia,  respinto  la  loro  richiesta,
rilevando che l'art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 vieta  le
tecniche di  fecondazione  eterologa  e  che  il  successivo  art.  5
consente di accedere alle tecniche di PMA solo alle  coppie  composte
da persone di sesso diverso. 
    Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto  al
Tribunale rimettente di garantire con provvedimento d'urgenza il loro
diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive. 
    Costituitasi in giudizio, l'Azienda sanitaria -  sul  presupposto
ci si trovi a fronte di una controversia in materia di  previdenza  e
assistenza obbligatorie - ha eccepito l'incompetenza  per  territorio
del Tribunale ordinario di Bolzano,  indicando  come  competente,  ai
sensi dell'art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso  il
Tribunale ordinario di Monza. 
    Ad avviso  del  rimettente,  l'eccezione  sarebbe  infondata.  Il
giudizio  a  quo  non  potrebbe  essere,  infatti,  incluso  tra   le
controversie di cui all'art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto
all'esatta individuazione dei limiti e  delle  facolta'  connessi  al
diritto alla  genitorialita':  diritto  che,  «solo  incidentalmente,
verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un  determinato  percorso
terapeutico». La maggior parte delle pronunce di merito in materia di
PMA risulta del resto emessa,  anche  quando  risultasse  evocata  in
giudizio una azienda  sanitaria,  da  giudici  addetti  alle  sezioni
ordinarie, e non gia' alla sezione lavoro dei tribunali e delle corti
d'appello. La competenza per territorio  dovrebbe  essere,  pertanto,
stabilita  in  base  non  all'art.  444  cod.  proc.  civ.  (che   fa
riferimento al foro  di  residenza  dell'attore),  ma  agli  ordinari
criteri  indicati  dagli  artt.  19  e  20  cod.  proc.   civ.,   che
renderebbero competente il Tribunale adito. 
    Sarebbe, per altro verso, ravvisabile il periculum in mora, posto
che, in ragione dell'eta' delle ricorrenti, l'attesa dei tempi di  un
ordinario  giudizio  di  cognizione  rischierebbe   di   pregiudicare
definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con  esso,  il
diritto azionato. 
    Quanto al fumus boni iuris, assumerebbero, per converso,  rilievo
dirimente le questioni di legittimita' costituzionale sollevate. Alla
luce delle motivazioni addotte dall'Azienda sanitaria a sostegno  del
diniego    delle    prestazioni    richieste,    l'unico     ostacolo
all'accoglimento dell'istanza  cautelare  delle  ricorrenti  sarebbe,
infatti,  rappresentato  dalle  norme  sospettate  di  illegittimita'
costituzionale. 
    L'art. 1 della legge n. 40 del 2004 prevede, in  specie,  che  il
ricorso alla PMA e' consentito «[a]l fine di  favorire  la  soluzione
dei  problemi  riproduttivi  derivanti  dalla  sterilita'   o   dalla
infertilita' umana», «alle condizioni e secondo le modalita' previste
dalla legge stessa» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi
terapeutici  efficaci  per  rimuovere  le  cause  di   sterilita'   o
infertilita'» (comma 2). 
    L'art. 4, dopo aver ribadito che il ricorso alle tecniche di  PMA
e' limitato ai casi  di  sterilita'  o  infertilita'  non  altrimenti
rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a  tecniche  di
PMA di tipo eterologo (comma 3). 
    Il successivo art. 5 consente, a  sua  volta,  di  accedere  alle
tecniche in questione soltanto alle «coppie di maggiorenni  di  sesso
diverso, coniugate o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,
entrambi viventi». 
    Da ultimo, l'art.  12  punisce  con  la  sanzione  amministrativa
pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro  chiunque  applica  tecniche  di
PMA, tra l'altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso  sesso»
(comma 1), prevedendo altresi'  sanzioni  di  tipo  interdittivo  nei
confronti del personale medico e delle  strutture  che  vi  procedano
(commi 9 e 10). 
    Secondo il giudice a quo, le norme denunciate  si  porrebbero  in
contrasto anzitutto con gli artt. 2 e 3 Cost. 
    E' ormai pacifico, infatti, che la formazione sociale  scaturente
dall'unione civile, o anche solo  da  una  convivenza  di  fatto  tra
persone dello stesso sesso, abbia natura familiare.  Di  conseguenza,
alla luce  di  quanto  affermato  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza  n.  162  del   2014,   l'unico   interesse   che   potrebbe
astrattamente contrapporsi all'utilizzazione delle  tecniche  di  PMA
nel suo ambito e' quello del nascituro. 
    La giurisprudenza piu' recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo
unanime la piena  idoneita'  genitoriale  della  coppia  omosessuale,
sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche  dotate  di  un
adeguato margine di  certezza  in  ordine  alla  configurabilita'  di
eventuali pregiudizi per il minore derivanti dal suo  inserimento  in
una famiglia formata da persone dello stesso sesso. 
    Non sarebbero ravvisabili, di conseguenza, spazi  di  valutazione
politico-legislativa  per  negare  il  diritto  alla  genitorialita',
mediante accesso alla PMA, a una coppia di  donne  unite  civilmente,
non risultando pregiudicate in alcun modo le  aspettative  del  nuovo
nato, ne' venendo in rilievo le questioni di ordine  etico  sollevate
dalla cosiddetta maternita' surrogata. Nella  specie,  non  verrebbe,
infatti, coinvolto  nella  gestazione  alcun  soggetto  esterno  alla
coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito,
alle pratiche di fecondazione eterologa. 
    Il divieto di accesso alla PMA da parte di persone  dello  stesso
sesso   costituirebbe,   pertanto,   una   discriminazione    fondata
sull'orientamento  sessuale,  lesiva  della  dignita'  della  persona
umana.  Esso   implicherebbe   una   negazione   del   diritto   alla
genitorialita' sproporzionata e irragionevole, come tale lesiva anche
dell'art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la  Repubblica
«protegge la maternita'». 
    Nella  fattispecie  oggetto  del  giudizio  a  quo   risulterebbe
violato, peraltro, anche il diritto alla salute, garantito  dall'art.
32 Cost. Le  ricorrenti  si  vedrebbero,  infatti,  preclusa  -  solo
perche' componenti di una coppia  formata  da  persone  dello  stesso
sesso - la possibilita' di superare gli  ostacoli  alla  riproduzione
indotti dalle patologie  da  cui  sono  affette  mediante  l'indicata
strategia  di   utilizzazione   complementare   delle   potenzialita'
riproduttive residue: cio'  quantunque  l'art.  1  assegni  alla  PMA
proprio la finalita' di risolvere i «problemi riproduttivi  derivanti
dalla sterilita' o dalla infertilita' umana». 
    La  natura  espressa  del  divieto  e  della  relativa   sanzione
impedirebbero,  d'altronde,  un'interpretazione  della  normativa  in
senso  conforme  alla  Costituzione.  Ne'  potrebbe  procedersi  alla
disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e
14 della CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto
della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione.  Alla
luce delle  indicazioni  della  giurisprudenza  costituzionale,  tale
contrasto deve essere fatto valere tramite  la  proposizione  di  una
questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., rispetto al quale le  disposizioni  convenzionali
fungono da norme interposte. 
    Per le medesime ragioni si renderebbe  necessario  denunciare  di
fronte alla Corte costituzionale il sospetto di illegittimita'  delle
norme  censurate  per  incompatibilita'  «con   ulteriore   normativa
pattizia», indicata, «per mere ragioni di completezza»,  negli  artt.
2, paragrafo 1, 17, 23 e 26  del  Patto  internazionale  relativo  ai
diritti civili e politici (i quali  prevedono  ancora  una  volta  il
divieto di discriminazione  e  il  diritto  al  rispetto  della  vita
privata e familiare), nonche' negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1,  23,
paragrafo 1, e 25 della Convenzione sui  diritti  delle  persone  con
disabilita' (i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e  la
promozione del  diritto  alla  salute  con  specifico  riguardo  alle
persone  con  disabilita',  da  intendere  anche  quale  «disabilita'
riproduttiva»). 
    2.2.- Si sono costituite F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a
quo, chiedendo l'accoglimento delle questioni. 
    Preliminarmente, le parti costituite pongono in evidenza come  la
vicenda oggetto del giudizio principale sia diversa da quella che  ha
dato origine alle pur  analoghe  questioni  sollevate  dal  Tribunale
ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia e'  composta
da persone dello stesso sesso, ma  non  consta  che  esse  presentino
individualmente alcuna patologia riproduttiva. Nella  fattispecie  in
esame, di contro, a entrambe le ricorrenti sono  state  diagnosticate
patologie riproduttive, sicche' l'infecondita' non e' solo di coppia,
ma anche individuale. 
    Cio' premesso, le parti costituite rilevano come  costituisca  un
dato ormai acquisito - anche alla  luce  della  giurisprudenza  delle
Corti europee - che la coppia  omosessuale,  tanto  unita  civilmente
(come le ricorrenti), quanto  «in  libera  unione»,  costituisca  una
famiglia e goda, quindi, del diritto al rispetto della  propria  vita
familiare. 
    La Corte  costituzionale  ha  collocato,  d'altro  canto,  tra  i
diritti inviolabili dell'uomo, tutelati dall'art. 2 Cost., non solo i
diritti della persona  nell'ambito  familiare,  ma  anche  i  diritti
relativi alla possibilita' di avere  una  famiglia.  In  particolare,
nella sentenza n. 162 del 2014 la Corte ha affermato che la scelta di
diventare genitori e di formare una  famiglia  che  abbia  dei  figli
«costituisce espressione della fondamentale e  generale  liberta'  di
autodeterminarsi, [...] riconducibile agli artt. 2,  3  e  31  Cost.,
poiche' concerne la sfera  privata  e  familiare».  In  quest'ottica,
«[l]a determinazione di avere o meno un figlio, anche per  la  coppia
assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera  piu'  intima
ed intangibile della persona umana, non puo' che essere incoercibile,
qualora non vulneri altri valori costituzionali, e cio' anche  quando
sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a  questo  scopo  alla
tecnica di PMA di tipo eterologo». 
    Se, dunque, la  coppia  omosessuale  costituisce  una  formazione
sociale tutelata dall'art. 2 Cost. e se la determinazione di avere un
figlio rappresenta un diritto  inviolabile  della  coppia,  anche  in
assenza di legame genetico, il divieto di accesso  alla  procreazione
assistita posto dalla legge n. 40 del 2004 nei confronti delle coppie
formate da due donne - in difetto di interessi contrari di pari rango
-   colliderebbe   inevitabilmente   con    il    citato    parametro
costituzionale. 
    Le disposizioni censurate violerebbero, altresi', l'art. 3 Cost.,
sia  sotto  il  profilo  dell'eguaglianza,  sia  sotto  quello  della
ragionevolezza. 
    Quanto al  principio  di  eguaglianza,  il  divieto  in  discorso
risulterebbe  discriminatorio  sotto  molteplici  aspetti,  trattando
diversamente situazioni omogenee. 
    Sotto un  primo  aspetto,  mentre  per  la  coppia  eterosessuale
sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell'accesso alla PMA, di aver
avuto regolari rapporti sessuali  per  un  dato  periodo,  senza  che
abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che  dichiari
lo stesso insuccesso in riferimento a - pur consentiti - tentativi di
inseminazione domestica, non puo' invece accedere  alle  tecniche  in
questione. 
    In secondo luogo, dall'art. 12, comma 2, della legge n. 40  della
2004 emergerebbe che chi applica tecniche di PMA - ora anche di  tipo
eterologo - a una coppia di sesso diverso in assenza delle condizioni
patologiche di sterilita' o infertilita', di  cui  all'art.  4  della
medesima legge, non e' soggetto ad alcuna sanzione, mentre la  stessa
condotta, posta in essere a vantaggio  di  una  coppia  dello  stesso
sesso, anche in presenza di patologie documentate, e' punita. 
    Sotto un terzo profilo, la discriminazione si  apprezzerebbe  nel
raffronto tra una coppia di donne con patologie  riproduttive  e  una
coppia eterosessuale con la donna affetta dalla  medesima  patologia.
La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire  della  PMA,
mentre la donna in coppia con un'altra donna non vi ha accesso. 
    Anche  la  violazione  del   principio   di   ragionevolezza   si
riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella sentenza  n.  162  del
2014,  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  che,  alla  luce  del
dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione
dei  problemi  riproduttivi  derivanti  dalla  sterilita'   o   dalla
infertilita' umana» (art. 1, comma 1),  la  preclusione  assoluta  di
accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse «un evidente elemento
di irrazionalita'», poiche'  la  negazione  assoluta  del  diritto  a
realizzare la genitorialita' veniva ad essere stabilita  proprio  «in
danno delle coppie affette dalle patologie piu' gravi,  in  contrasto
con la ratio legis». 
    A conclusioni analoghe dovrebbe pervenirsi nell'ipotesi in esame.
Le componenti di una  coppia  omosessuale  femminile  si  vedrebbero,
infatti,  non  semplicemente  limitata,  ma  preclusa  in  radice  la
possibilita' di fondare  una  famiglia  con  figli  in  Italia  e  di
divenire  madri,  nonostante  la  Costituzione  associ   in   maniera
esplicita la genitorialita' alla donna (art. 31, secondo comma). 
    Il divieto risulterebbe particolarmente irragionevole nel caso di
specie, dato che le patologie di cui le  ricorrenti  sono  portatrici
rendono necessario l'intervento della  scienza  medica  e  richiedono
un'utilizzazione complementare delle loro potenzialita'  riproduttive
residue. Imporre a ciascuna  di  esse,  per  accedere  alla  PMA,  di
sposare un uomo o di convivere  con  lui,  di  la'  dalla  intrinseca
inaccettabilita'  della  condizione,  non  risolverebbe  il  problema
produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire mai madre
(genetica). 
    Si riscontrerebbe,  inoltre,  una  ingiustificata  disparita'  di
trattamento delle coppie  in  base  alla  loro  capacita'  economica,
analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del 2014 in  rapporto
al divieto di fecondazione  eterologa.  L'esercizio  del  diritto  di
formare una famiglia con figli resterebbe,  infatti,  riservato  solo
alle coppie omosessuali piu' abbienti, che dispongano  delle  risorse
economiche necessarie per recarsi in un altro Stato che  consente  ad
esse il ricorso alle tecniche di PMA. 
    Si dovrebbe considerare, ancora, che con la sentenza  n.  96  del
2015  la  Corte   costituzionale   ha   dichiarato   illegittime   le
disposizioni della legge n. 40  del  2004  che  non  consentivano  il
ricorso alle tecniche di  PMA  «alle  coppie  fertili  portatrici  di
malattie genetiche trasmissibili». L'ordinamento tutelerebbe, dunque,
attualmente - perche' cosi' impone la Costituzione - ogni coppia  che
incontri ostacoli  alla  gravidanza,  anche  se  non  correlati  alla
infertilita'  o  sterilita'   individuale,   ma   a   una   specifica
conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di  malattie  al
nascituro puo' dipendere, infatti, dalla circostanza che  entrambi  i
componenti della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque,
se la donna avesse scelto un uomo non portatore del medesimo gene  il
problema non  vi  sarebbe.  La  scelta  della  donna  di  vivere  una
relazione con un'altra donna e' espressione legittima  della  propria
vita affettiva e familiare, in nulla diversa  e  meno  meritevole  di
tutela rispetto alla scelta di vivere con "quell"'uomo, e non con  un
altro.  Anche  in  tal  caso,  dunque,  la  donna   dovrebbe   godere
dell'assistenza  medica  necessaria   per   superare   gli   ostacoli
riproduttivi che discendono dalla scelta operata. 
    Da ultimo, la legge n. 40 del 2004 moverebbe dal presupposto  che
la situazione di infertilita' o sterilita', alla quale e' subordinata
l'erogazione delle prestazioni di PMA,  sia  di  tipo  esclusivamente
medico-patologico, quando invece essa puo'  dipendere  anche  da  una
«condizione sociale», insita nella non complementarita' biologica  di
due  donne.  Alla  luce  del  principio   personalista   che   ispira
l'ordinamento costituzionale  repubblicano,  tuttavia,  le  finalita'
terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effetti dell'art. 32 Cost.
e degli obblighi di  sanita'  pubblica  dello  Stato,  ma  non  quale
giustificazione    per    negare    tout     court     il     diritto
all'«autoderminazione riproduttiva», in assenza di liberta' altrui  o
collettive lese. 
    Sarebbe violato anche l'art. 30, terzo comma, Cost., in forza del
quale «[l]a legge assicura ai figli nati fuori  del  matrimonio  ogni
tutela giuridica e sociale». Il divieto di accedere alle tecniche  di
PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso
dal  legislatore,  sanzionando  i   soggetti   che   le   realizzino,
determinerebbero, infatti, una discriminazione legale e  sociale  nei
confronti dei minori che da tali tecniche «illecite» nascano. 
    Risulterebbe leso pure l'art. 31, primo comma, Cost.,  il  quale,
con l'espresso riferimento alle «famiglie numerose», esprimerebbe  un
favor evidente per la formazione di famiglie con figli, imponendo  al
legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla. 
    Il divieto censurato violerebbe anche l'imperativo di  proteggere
la maternita', favorendo gli istituti necessari a tale  scopo,  posto
dal secondo  comma  dello  stesso  art.  31  Cost.,  non  potendo  la
maternita' di una donna  omosessuale  essere  oggetto  di  protezione
diversa da quella di una donna eterosessuale. 
    Sarebbe violato, ancora, il diritto alla salute (art.  32,  primo
comma, Cost.), tanto della persona singolarmente considerata,  quanto
nella sua dimensione di coppia. 
    Con riguardo alla ricorrente affetta da patologia cardiaca che le
impedisce di divenire  madre  gestazionale,  se  non  con  gravissimo
rischio per la propria salute, l'unica possibilita' di  mantenere  un
legame genetico con il figlio e' la fecondazione dei propri ovuli  in
vitro, con successivo trasferimento  degli  embrioni  cosi'  ottenuti
nell'utero di altra donna. Dunque, solo la  relazione  affettiva  con
un'altra  donna,  in  grado  di   realizzare   una   gravidanza,   le
consentirebbe di avere dei figli. 
    Quanto all'altra ricorrente - non in grado di  produrre  ovociti,
ma capace di divenire madre partoriente ricevendo embrioni creati  in
ambiente extrauterino - ella, quando pure  convivesse  con  un  uomo,
avrebbe notevoli  difficolta'  nel  procurarsi  gameti  femminili  in
numero sufficiente per la produzione  di  embrioni  sani,  stante  la
notoria  carenza  di  ovociti  in  Italia.  Si  troverebbe,   quindi,
costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con i rischi per
la salute connessi al prelievo da donne straniere: cio'  quando,  nel
caso concreto, vi sarebbe la compagna che e' disposta a conferirli. 
    Il divieto rivolto al personale sanitario favorirebbe, per  altro
verso, il ricorso a modalita'  fecondative  -  quali  l'inseminazione
domestica con sperma di conoscenti o  acquisito  tramite  internet  -
che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono  a  rischio  la
salute tanto della madre, quanto del nascituro. 
    Per le medesime ragioni gia' indicate nella sentenza n.  162  del
2014, le norme censurate  sarebbero  produttive  di  un  vulnus  alla
salute anche nella sua  dimensione  psichica  e  sociale,  posto  che
l'impossibilita' di formare una famiglia con figli insieme al proprio
partner e' suscettibile di incidere negativamente,  anche  in  misura
rilevante,  sulla  salute  della  coppia,   intesa   nella   predetta
accezione. 
    Alla previsione dell'art. 32 Cost.  dovrebbe  essere  ricondotto,
infine, anche  il  dovere  dello  Stato  di  tutelare  chi,  come  le
ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive  che  determinano
una condizione di disabilita':  nozione,  quest'ultima,  che  -  come
rilevato dalla stessa sentenza  n.  162  del  2014  -  «per  evidenti
ragioni solidaristiche, va accolta in un'ampia accezione». 
    Le disposizioni censurate si porrebbero  in  contrasto  pure  con
obblighi derivanti da fonti sovranazionali, atte a  costituire  norme
interposte rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. 
    In  aggiunta  alle   disposizioni   evocate   dall'ordinanza   di
rimessione,  verrebbero  a  questo  proposito  in  rilievo  anche  la
direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004,  che  attua
il principio della parita' di trattamento  tra  uomini  e  donne  per
quanto riguarda l'accesso a beni  e  servizi  e  la  loro  fornitura,
nonche' gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1,  12,  paragrafo
1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto  internazionale  relativo
ai  diritti  economici,  sociali  e  culturali,  ratificato  e   reso
esecutivo  con   legge   n.   881   del   1977   (che   stabiliscono,
rispettivamente, i principi di non discriminazione, parita' tra  uomo
e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di  ogni
individuo a godere delle  migliori  condizioni  di  salute  fisica  e
mentale e dei benefici del progresso scientifico). 
    2.3.- E' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha  chiesto  che  le  questioni  siano  dichiarate  inammissibili   o
infondate, sulla scorta  -  quanto  ai  profili  di  merito  -  delle
medesime considerazioni svolte in rapporto all'ordinanza r. o. n. 129
del 2018 e sviluppate con successiva memoria. 
    2.4.- Sono intervenute, altresi', l'Associazione  radicale  Certi
Diritti e l'Associazione Luca Coscioni per  la  liberta'  di  ricerca
scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni  stesse  vengano
accolte,  per  le  ragioni  indicate  nella  memoria  successivamente
depositata. 
    2.5.- Anche F. F. e M. R. hanno  depositato  memoria,  insistendo
nelle conclusioni gia' rassegnate. 
    Le  parti   costituite   pongono,   in   particolare,   l'accento
sull'esigenza di fugare un possibile equivoco:  la  fecondazione  con
donazione di gameti - consentita a seguito della sentenza n. 162  del
2014 - non e' un rimedio terapeutico all'infertilita'  di  uno  o  di
entrambi i componenti  della  coppia.  Essa  non  cura,  infatti,  la
patologia riproduttiva, ma si limita ad «aggirare» una patologia  non
curabile. 
    L'ordinamento esprimerebbe, quindi, un «giudizio di simpatia» per
la  situazione  della  coppia,  consentendo  ad  essa  di  realizzare
altrimenti il desiderio di costituire una famiglia  con  figli.  Tale
favor discenderebbe dall'implicito presupposto per cui  non  si  puo'
esigere  che  il  componente  della   coppia   privo   di   patologie
riproduttive cerchi un altro partner per divenire genitore biologico.
Da cio' emergerebbe che l'«unita' di coppia» e' un valore oggetto  di
specifica tutela costituzionale e che e' rispetto alla coppia che  e'
favorita la costituzione della famiglia. 
    In tale  ottica,  non  si  comprenderebbe  perche'  la  relazione
affettiva di una coppia di donne non debba essere  parimente  oggetto
di protezione da parte dell'ordinamento. Se -  come  affermato  dalla
sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale  -  alla  «unione
omosessuale, intesa come stabile convivenza  tra  due  persone  dello
stesso  sesso  [...]  spetta  il  diritto  fondamentale   di   vivere
liberamente una condizione di coppia»,  tale  liberta'  non  dovrebbe
essere lesa, ponendo la donna di fronte alla «terribile  scelta»  tra
coltivare la propria relazione affettiva  con  la  persona  che  ama,
rinunciando  al  desiderio  naturale  di   divenire   madre,   ovvero
«rinnegare  il  proprio  orientamento  affettivo  e  divenire   madre
unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile». 
    2.6.- Con  ordinanza  pronunciata  all'udienza  pubblica  del  18
giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili  gli  interventi
dell'Avvocatura per i diritti LGBTI, dell'Associazione radicale Certi
Diritti e dell'Associazione Luca Coscioni per la liberta' di  ricerca
scientifica. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Pordenone (ordinanza r. o.  n.  129
del 2018) dubita della legittimita' costituzionale degli  artt.  5  e
12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n.  40  (Norme  in
materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in  cui,
rispettivamente, limitano l'accesso  alle  tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita (d'ora in avanti: PMA) alle sole «coppie [...]
di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque  applichi  tali
tecniche «a coppie [...] composte da soggetti dello stesso sesso». 
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,   le   disposizioni   censurate
violerebbero l'art. 2 della Costituzione, non garantendo  il  diritto
fondamentale alla genitorialita' dell'individuo,  sia  come  soggetto
singolo,  sia  nelle  formazioni  sociali  ove  si  svolge   la   sua
personalita', tra  le  quali  rientra  anche  l'unione  civile  o  la
convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso. 
    Le medesime disposizioni si porrebbero  in  contrasto  anche  con
l'art.  3  Cost.,  in  quanto  determinerebbero  una  disparita'   di
trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale
e delle loro disponibilita' economiche, riconoscendo il diritto  alla
filiazione alle  sole  coppie  omosessuali  che  siano  in  grado  di
sostenere i costi per accedere alla PMA presso uno degli Stati esteri
che lo consentono. 
    Sarebbero violati, ancora, l'art. 31, secondo comma,  Cost.,  che
impone alla Repubblica di proteggere  la  maternita',  favorendo  gli
istituti necessari a tale scopo, e l'art.  32,  primo  comma,  Cost.,
giacche' l'impossibilita' di formare una famiglia con  figli  assieme
al  proprio  partner  sarebbe  in  grado  di  nuocere   alla   salute
psicofisica della coppia. 
    Le norme  denunciate  violerebbero,  infine,  l'art.  117,  primo
comma, Cost., ponendosi in contrasto con  gli  artt.  8  e  14  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto  1955,  n.  848.  Esse
attuerebbero, infatti, una interferenza nella  vita  familiare  della
coppia basata solo sull'orientamento sessuale dei suoi componenti  e,
dunque, discriminatoria. 
    2.- Il Tribunale ordinario di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60  del
2019) solleva questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 5,
limitatamente  alle  parole  «di  sesso  diverso»,  e  12,  comma  2,
limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato
disposto con i commi 9 e 10», nonche' degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4
della legge n. 40 del 2004, «nella parte in  cui  non  consentono  il
ricorso alle tecniche di  procreazione  medicalmente  assistita  alle
coppie formate da due persone di sesso femminile». 
    Secondo il rimettente, le  disposizioni  denunciate  violerebbero
l'art.  2  Cost.,  implicando  una   negazione   del   diritto   alla
genitorialita' non  giustificata  da  esigenze  di  tutela  di  altri
interessi di rango  costituzionale,  tenuto  conto  della  natura  di
«famiglia» della formazione sociale fondata su un'unione civile o  su
una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso e della  piena
idoneita' di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere il nuovo
nato. 
    Il divieto di accesso alla PMA da  parte  di  coppie  di  persone
dello  stesso  sesso  costituirebbe,  inoltre,  una   discriminazione
fondata  sull'orientamento  sessuale,  lesiva  della  dignita'  della
persona umana, ponendosi percio' in  contrasto  anche  con  l'art.  3
Cost. 
    Risulterebbero altresi' violati l'art. 31, secondo comma,  Cost.,
in forza  del  quale  la  Repubblica  e'  chiamata  a  proteggere  la
maternita', e l'art.  32,  primo  comma,  Cost.,  che  garantisce  il
diritto  alla  salute.  Le  disposizioni   censurate   impedirebbero,
infatti, alle componenti della coppia omosessuale  femminile  affette
da patologie che impediscano loro di procreare  in  modo  naturale  -
come nel caso oggetto del giudizio a quo - di  superare  il  problema
tramite    l'utilizzazione    complementare    delle    potenzialita'
riproduttive residue di ciascuna di esse (gestazionale  dell'una,  di
produzione ovarica dell'altra): cio' sebbene l'art. 1 della legge  n.
40 del 2004 assegni alla PMA proprio  la  finalita'  di  risolvere  i
«problemi   riproduttivi   derivanti   dalla   sterilita'   o   dalla
infertilita' umana». 
    Le disposizioni censurate violerebbero, infine, gli  artt.  11  e
117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto: 
    a) con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente,  il
diritto al rispetto della vita privata e familiare e  il  divieto  di
discriminazione; 
    b) con  gli  artt.  2,  paragrafo  1,  17,  23  e  26  del  Patto
internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York  il
19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con  legge  25  ottobre
1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e
il diritto al rispetto della vita privata e familiare; 
    c) con gli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23,  paragrafo  1,  e  25
della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle  persone  con
disabilita', fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e  resa
esecutiva con legge 3 marzo 2009, n.  18,  i  quali  stabiliscono  il
divieto di discriminazione e la promozione del  diritto  alla  salute
con specifico riguardo alle persone  con  disabilita',  da  intendere
anche quale «disabilita' riproduttiva». 
    3.- Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni  analoghe,
relative in parte alle medesime norme,  sicche'  i  relativi  giudizi
vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 
    4.- In via preliminare, va rilevato che non  puo'  tenersi  conto
delle deduzioni svolte dalle parti costituite nel  giudizio  relativo
all'ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a  dimostrare  che  le
norme censurate contrastano anche con parametri diversi  e  ulteriori
rispetto a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con  gli
artt. 30, terzo comma, e 31, primo comma, Cost.,  nonche'  con  altre
fonti sovranazionali atte a integrare  gli  artt.  11  e  117,  primo
comma, Cost.). 
    Per  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  l'oggetto  del
giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale  e',
infatti, limitato alle disposizioni e  ai  parametri  indicati  nelle
ordinanze di rimessione: con la conseguenza che  non  possono  essere
presi  in   considerazione   ulteriori   questioni   o   profili   di
costituzionalita' dedotti dalle parti, sia  eccepiti,  ma  non  fatti
propri dal  giudice  a  quo,  sia  volti  ad  ampliare  o  modificare
successivamente il contenuto delle  stesse  ordinanze  (ex  plurimis,
sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018). 
    5.- Secondo quanto si riferisce nelle  ordinanze  di  rimessione,
entrambi i  giudici  rimettenti  si  trovano  investiti  del  ricorso
proposto, ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura  civile,  da
una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso  a  superare,
con  provvedimento  d'urgenza,  il  diniego  opposto  da   un'Azienda
sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA. 
    Nessun dubbio di ammissibilita' si pone in  rapporto  alla  sedes
processuale  nell'ambito  della  quale  le   questioni   sono   state
sollevate. Gia' in  precedenti  pronunce  attinenti  alla  disciplina
della PMA, questa Corte ha, infatti,  ribadito  la  propria  costante
giurisprudenza,  secondo  la  quale  la  questione  di   legittimita'
costituzionale puo' essere sollevata anche  in  sede  cautelare,  sia
quando il  giudice  non  abbia  ancora  provveduto  sull'istanza  dei
ricorrenti (come e' avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia
concesso la misura richiesta, purche' tale concessione non si risolva
nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in
quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n.
150 del 2012; con  specifico  riferimento  alle  questioni  sollevate
nell'ambito di procedimenti d'urgenza ante causam, sentenze n. 84 del
2016 e n. 96 del 2015). 
    6.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita'  delle  questioni  sollevate  dal   Tribunale   di
Pordenone  per   difetto   di   motivazione   sulla   non   manifesta
infondatezza. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il giudice a quo ha  esposto  in  modo,  primo  visu,  del  tutto
adeguato le ragioni del denunciato contrasto  delle  norme  censurate
con gli artt. 2, 3 e 32,  primo  comma,  Cost.  Quanto  ai  parametri
residui (artt. 31, secondo comma, e  117,  primo  comma,  Cost.),  le
deduzioni del rimettente,  se  pure  alquanto  stringate,  permettono
comunque sia di cogliere  il  nucleo  delle  censure,  anche  perche'
collegate a quelle relative agli altri parametri. 
    7.- Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilita'  di
una  interpretazione  conforme  a  Costituzione  delle   disposizioni
censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica  trovi  un
insormontabile ostacolo nell'univoco tenore letterale  dell'enunciato
normativo. 
    L'affermazione appare corretta. 
    Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo  coppie
formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo  sanzioni
amministrative a carico di chi  le  applica  a  coppie  «composte  da
soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n.  40  del
2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle  coppie  omosessuali
la fruizione delle tecniche considerate.  Cio',  peraltro,  in  piena
sintonia con l'ispirazione di fondo della legge stessa,  sulla  quale
si portera' presto l'attenzione. 
    Opera, dunque, il principio - ripetutamente affermato  da  questa
Corte - secondo il quale l'onere di  interpretazione  conforme  viene
meno,  lasciando  il  passo   all'incidente   di   costituzionalita',
allorche' il tenore letterale della disposizione  non  consenta  tale
interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268  e  n.
83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018). 
    8.- Con i  quesiti  di  costituzionalita'  proposti,  entrambi  i
Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il  requisito  soggettivo  di
accesso  alla  PMA  rappresentato  dalla  diversita'  di  sesso   dei
componenti la coppia richiedente (unitamente  al  correlato  presidio
sanzionatorio). L'effetto della pronuncia  auspicata  dai  giudici  a
quibus sarebbe, dunque, quello di rendere fruibile la PMA alle coppie
omosessuali in quanto tali: indipendentemente, cioe', dal fatto che i
loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie  che  li
pongano in condizioni obiettive di infertilita' o di sterilita' (come
pure avviene nel caso sottoposto all'esame del Tribunale di Bolzano). 
    Lo stesso Tribunale di Bolzano limita, peraltro, espressamente il
petitum alle coppie omosessuali femminili. Di contro, il Tribunale di
Pordenone, nel dispositivo dell'ordinanza di  rimessione,  chiede  in
modo indifferenziato l'ablazione del requisito  della  diversita'  di
sesso, coinvolgendo cosi', apparentemente, nello scrutinio  anche  le
coppie omosessuali maschili (che pure  non  vengono  in  rilievo  nel
giudizio a quo). 
    Dal tenore  complessivo  dell'ordinanza  emerge,  tuttavia,  come
anche le  censure  del  Tribunale  friulano  debbano  intendersi,  in
realta', limitate alle coppie formate da sole donne. 
    Per le coppie omosessuali femminili la  PMA  si  attua,  infatti,
mediante fecondazione eterologa, in  vivo  o  in  vitro,  con  gameti
maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata  in
modo assoluto dalla legge n. 40 del 2004 (art. 4,  comma  3),  ma  e'
divenuta fruibile dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza
n. 162 del 2014  di  questa  Corte,  in  presenza  di  patologie  che
determinino  una   sterilita'   o   una   infertilita'   assolute   e
irreversibili. Con l'eventuale accoglimento delle odierne  questioni,
la fecondazione eterologa  verrebbe  estesa  anche  all'"infertilita'
sociale", o  "relazionale",  fisiologicamente  propria  della  coppia
omosessuale  femminile,   conseguente   alla   non   complementarita'
biologica delle loro componenti. 
    Per le coppie omosessuali  maschili,  invece,  la  genitorialita'
artificiale passa necessariamente attraverso  una  pratica  distinta:
vale a dire la maternita' surrogata  (o  gestazione  per  altri).  Il
sintagma designa, come e' noto, l'accordo con il quale una  donna  si
impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto  di
terzi, rinunciando preventivamente a "reclamare diritti" sul  bambino
che nascera'. Tale pratica e' vietata in assoluto, sotto minaccia  di
sanzione penale, dall'art. 12, comma 6, della legge n. 40  del  2004,
anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La  disposizione  ora
citata - considerata dalla giurisprudenza espressiva di un  principio
di ordine  pubblico  (Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  civili,
sentenza 8 maggio 2019,  n.  12193)  -  non  e'  inclusa  tra  quelle
sottoposte a scrutinio dal  Tribunale  di  Pordenone,  ne'  e'  presa
affatto in considerazione dal giudice a quo nello  svolgimento  delle
proprie censure. 
    Cio'  porta  a  concludere  che,  anche  nella  prospettiva   del
Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili siano destinate  a
restare estranee al panorama decisorio dell'odierno giudizio. 
    9.- Tanto puntualizzato, nel merito le questioni non  sono  pero'
fondate. 
    Questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge  n.
40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica  relativa  ad
un delicato settore, che negli anni piu' recenti  ha  conosciuto  uno
sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e
che indubbiamente coinvolge una  pluralita'  di  rilevanti  interessi
costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005). 
    La materia tocca, al tempo stesso,  «temi  eticamente  sensibili»
(sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l'individuazione di
un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze,  nel
rispetto   della   dignita'   della   persona    umana,    appartiene
«primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del
1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in  gioco  si
colloca,  in  specie,  nell'«area  degli  interventi,  con   cui   il
legislatore, quale interprete della volonta' della collettivita',  e'
chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori
fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti  e  delle
istanze che apprezzi come maggiormente radicati,  nel  momento  dato,
nella coscienza sociale»  (sentenza  n.  84  del  2016).  Cio'  ferma
restando  la  sindacabilita'  delle  scelte  operate,  al   fine   di
verificare se con esse sia  stato  realizzato  un  bilanciamento  non
irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). 
    Anche la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  ha  affermato,
d'altra parte, in piu' occasioni, che nella  materia  della  PMA,  la
quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli  Stati
conservano - segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un
generale consenso - un ampio margine di apprezzamento (tra le  altre,
sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande  Camera,
3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria). 
    10.- La possibilita' -  dischiusa  dai  progressi  scientifici  e
tecnologici - di una scissione  tra  atto  sessuale  e  procreazione,
mediata  dall'intervento   del   medico,   pone,   in   effetti,   un
interrogativo di fondo: se sia configurabile - e in quali limiti - un
"diritto a procreare" (o "alla genitorialita'", che dir  si  voglia),
comprensivo non solo dell'an e del quando, ma anche  del  quomodo,  e
dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi  diversi
da quello naturale. Piu' in particolare, si tratta di stabilire se il
desiderio di avere un figlio tramite l'uso delle tecnologie meriti di
essere  soddisfatto  sempre  e  comunque  sia,  o   se   sia   invece
giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle
pratiche considerate: e cio' particolarmente in  una  prospettiva  di
salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato. 
    Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40  del  2004
sono, come e' noto, di segno restrittivo. Esse riflettono - quanto ai
profili che qui vengono in rilievo - due idee di base. 
    La prima attiene alla funzione  delle  tecniche  considerate.  La
legge configura, infatti, in apicibus,  queste  ultime  come  rimedio
alla sterilita' o infertilita' umana avente una  causa  patologica  e
non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con cio',  che  la
PMA possa rappresentare una modalita' di realizzazione del "desiderio
di  genitorialita'"  alternativa  ed  equivalente   al   concepimento
naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. 
    L'art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce,  in  particolare,
che il ricorso alla PMA «e' consentito» - alle condizioni  e  secondo
le modalita' previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti  di
tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» -  «[a]l  fine  di
favorire la  soluzione  dei  problemi  riproduttivi  derivanti  dalla
sterilita' o dalla infertilita' umana» (comma 1) e sempre che «non vi
siano altri metodi terapeutici efficaci per  rimuovere  le  cause  di
sterilita' o infertilita'» (comma 2). 
    Il concetto e' ribadito ed esplicitato  nel  successivo  art.  4,
comma 1, in forza del  quale  l'accesso  alle  tecniche  di  PMA  «e'
consentito solo quando sia accertata  l'impossibilita'  di  rimuovere
altrimenti le cause impeditive  della  procreazione  ed  e'  comunque
circoscritto ai casi  di  sterilita'  o  di  infertilita'  inspiegate
documentate da atto  medico  nonche'  ai  casi  di  sterilita'  o  di
infertilita' da causa accertata e certificata da atto medico». 
    La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare
scaturente dalle tecniche in questione. La  legge  prevede,  infatti,
una serie di limitazioni di ordine soggettivo all'accesso  alla  PMA,
alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il
suddetto nucleo riproduca il modello  della  famiglia  caratterizzata
dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni  che  vanno  a
sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell'art.
4, comma 3, che - nell'ottica di assicurare  il  mantenimento  di  un
legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori - pone  il
divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA  di  tipo
eterologo (ossia con impiego di  almeno  un  gamete  di  un  donatore
"esterno"). 
    L'art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce,  in  specie,  che
possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di
sesso  diverso,  coniugate  o  conviventi,  in  eta'   potenzialmente
fertile, entrambi viventi». 
    La disciplina dell'art. 5 trova eco, sul versante  sanzionatorio,
nelle previsioni dell'art. 12. Per quanto al presente piu' rileva, il
comma  2  di  tale  articolo  punisce   con   una   severa   sanzione
amministrativa pecuniaria (da 200.000 a  400.000  euro)  chi  applica
tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello  stesso  sesso»,
oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in eta' minore,  o  non
coniugati o non conviventi. 
    La previsione sanzionatoria e' rafforzata da quella del comma  9,
in forza della quale nei  confronti  dell'esercente  una  professione
sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo  stesso  art.
12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2)  e'  «disposta  la
sospensione da uno a tre anni dall'esercizio professionale». Il comma
10  prevede,  inoltre,  la   sospensione   dell'autorizzazione   alla
realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura  nel  cui
interno e' eseguita la pratica vietata, con  possibilita'  di  revoca
dell'autorizzazione stessa nell'ipotesi di violazione di piu' divieti
o di recidiva. 
    11.- Questa Corte e' intervenuta in  due  occasioni  sulla  trama
normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di
illegittimita' costituzionale, il novero dei  soggetti  abilitati  ad
accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con  le  sentenze  n.
162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti  e
le  parti  private  evocano  a  sostegno  dell'ulteriore   intervento
ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un  ideale
e coerente sviluppo delle decisioni gia' assunte. 
    Con le pronunce considerate questa Corte  ha,  peraltro,  rimosso
quelle  che  apparivano  sostanzialmente  come  distonie,  interne  o
esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere -
o incidendo solo in modo marginale - sulle  coordinate  di  fondo  di
quest'ultima. 
    La  sentenza  n.  162  del  2014  ha  ammesso,  in  specie,  alla
riproduzione  artificiale   le   coppie   alle   quali   «sia   stata
diagnosticata  una  patologia  che  sia   causa   di   sterilita'   o
infertilita' assolute  ed  irreversibili»,  dichiarando  illegittimo,
limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA
di tipo eterologo stabilito dall'art. 4, comma 3, della legge  n.  40
del 2004. In tal modo, si e' posto rimedio all'«evidente elemento  di
irrazionalita'» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo
scopo «di favorire la soluzione dei problemi  riproduttivi  derivanti
dalla sterilita' o dalla infertilita' umana»,  il  legislatore  aveva
negato in  assoluto  -  con  il  censurato  divieto  di  fecondazione
eterologa  -  la  possibilita'  di  realizzare  il  desiderio   della
genitorialita' proprio alle  «coppie  affette  dalle  patologie  piu'
gravi, in contrasto con la ratio  legis».  Circostanza,  questa,  che
rivelava  come  il   bilanciamento   di   interessi   operato   fosse
irragionevole, posto che, sull'altro versante, le esigenze di  tutela
del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla  disciplina
vigente, in rapporto tanto  al  «rischio  psicologico»  correlato  al
difetto  di  legame  biologico  con  i  genitori  (conseguente   alla
fecondazione  eterologa),  quanto  alla  possibile  «violazione   del
diritto a conoscere la propria identita' genetica». 
    La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua  volta,
l'accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di  gravi  malattie
genetiche  trasmissibili  al  nascituro   («accertate   da   apposite
strutture pubbliche»). Si e' eliminata,  con  cio',  l'altra  «palese
antinomia» gia' censurata dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo
con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge
n. 40 del 2004 vietava,  infatti,  alle  coppie  dianzi  indicate  di
ricorrere alla PMA,  con  diagnosi  preimpianto,  quando  invece  «il
nostro ordinamento consente, comunque, a tali  coppie  di  perseguire
l'obiettivo di  procreare  un  figlio  non  affetto  dalla  specifica
patologia  ereditaria  di  cui   sono   portatrici   attraverso   la,
innegabilmente  piu'   traumatica,   modalita'   della   interruzione
volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali [...]  consentita
dall'art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n.  194
(Norme per la tutela sociale  della  maternita'  e  sull'interruzione
volontaria della gravidanza)». 
    Entrambe le pronunce si sono  mosse,  dunque,  nella  logica  del
rispetto - e, anzi, della  valorizzazione  -  della  finalita'  (lato
sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola,
nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul  nascituro),  senza
contestare nella sua globalita' - in punto di compatibilita'  con  la
Costituzione - l'altra scelta legislativa di fondo: quella, cioe', di
riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di
una figura materna e di una  figura  paterna.  E'  ben  vero  che  la
sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir  meno  -  nella  circoscritta
ipotesi da essa considerata (quando, cioe', la fecondazione eterologa
rappresenti l'unico modo per superare  una  infertilita'  assoluta  e
irreversibile di matrice  patologica)  -  la  necessita'  del  legame
biologico tra genitori e figli. Ma la  pronuncia  ha  avuto  cura  di
puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano,
comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che  posseggano  i
requisiti indicati dall'art. 5, comma 1, della legge n. 40 del  2004,
e  dunque  rispondenti  al  paradigma  familiare  riflesso  in   tale
disposizione. 
    12.- Le questioni oggi in esame si  collocano  su  un  piano  ben
diverso. 
    L'ammissione alla PMA delle coppie  omosessuali,  conseguente  al
loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione,  sul
piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida  sottese
al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti
di ricaduta sull'intera platea delle ulteriori  posizioni  soggettive
attualmente  escluse  dalle  pratiche  riproduttive  (oltre  che  con
interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie
omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili -  in  punto
di diritto alla genitorialita' - richiederebbe, come gia'  accennato,
che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto  di  maternita'
surrogata). 
    Nella specie, non vi e', d'altronde, alcuna incongruenza  interna
alla disciplina legislativa della materia,  alla  quale  occorra  por
rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di  ritenere  i  giudici  a
quibus,  l'infertilita'  "fisiologica"   della   coppia   omosessuale
(femminile) non e'  affatto  omologabile  all'infertilita'  (di  tipo
assoluto e  irreversibile)  della  coppia  eterosessuale  affetta  da
patologie  riproduttive:  cosi'  come  non   lo   e'   l'infertilita'
"fisiologica" della donna sola e della coppia eterosessuale  in  eta'
avanzata.  Si  tratta  di  fenomeni  chiaramente  e   ontologicamente
distinti. L'esclusione dalla PMA delle coppie formate  da  due  donne
non  e',  dunque,  fonte  di  alcuna  distonia  e  neppure   di   una
discriminazione basata sull'orientamento sessuale. 
    In questo senso si e', del resto, specificamente  espressa  anche
la Corte europea dei diritti dell'uomo. Essa ha  affermato,  infatti,
che una legge nazionale che  riservi  l'inseminazione  artificiale  a
coppie   eterosessuali   sterili,   attribuendole    una    finalita'
terapeutica, non puo' essere considerata fonte di una  ingiustificata
disparita' di trattamento nei  confronti  delle  coppie  omosessuali,
rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: cio', proprio perche'
la situazione delle seconde non e' paragonabile a quella delle  prime
(Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 15 marzo 2012,  Gas  e
Dubois contro Francia). 
    In tali rilievi e' evidentemente gia' insita l'infondatezza delle
questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato,  in
riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo  in
correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate. 
    13.- Cio' posto, e riprendendo l'ordine delle censure prospettato
dai  giudici  a  quibus,  neppure  e'  riscontrabile  la   denunciata
violazione dell'art. 2 Cost. 
    13.1.- Questa Corte ha rilevato che la nozione  di  «formazion[e]
sociale» - nel cui ambito l'art. 2 Cost.  riconosce  e  garantisce  i
diritti inviolabili dell'uomo, e che deve intendersi come riferita  a
«ogni forma di comunita', semplice o complessa, idonea a consentire e
favorire il libero sviluppo della persona nella  vita  di  relazione,
nel contesto  di  una  valorizzazione  del  modello  pluralistico»  -
abbraccia anche l'unione omosessuale, intesa come stabile  convivenza
tra due persone  del  medesimo  sesso  (sentenza  n.  138  del  2010;
similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa,  peraltro,
puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76  (Regolamentazione  delle
unioni civili tra persone  dello  stesso  sesso  e  disciplina  delle
convivenze), la quale qualifica espressamente, all'art. 1,  comma  1,
l'unione civile tra  persone  dello  stesso  sesso  «quale  specifica
formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». 
    Questa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la
Costituzione, pur considerandone favorevolmente la  formazione,  «non
pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza
di figli» e  che,  d'altra  parte,  «[l]a  liberta'  e  volontarieta'
dell'atto che consente di diventare  genitori  [...]  di  sicuro  non
implica che la liberta'  in  esame  possa  esplicarsi  senza  limiti»
(sentenza n. 162 del 2014). Essa dev'essere, infatti, bilanciata  con
altri interessi costituzionalmente protetti: e  cio'  particolarmente
quando si discuta della scelta di ricorrere a  tecniche  di  PMA,  le
quali,  alterando  le  dinamiche  naturalistiche  del   processo   di
generazione  degli  individui,  aprono  scenari  affatto   innovativi
rispetto  ai  paradigmi  della  genitorialita'   e   della   famiglia
storicamente radicati nella cultura  sociale,  attorno  ai  quali  e'
evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31  Cost.,
suscitando  inevitabilmente,  con  cio',  delicati  interrogativi  di
ordine etico. 
    In accordo con quanto si e' posto in evidenza  in  principio,  il
compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto  di
equilibrio fra le diverse istanze - tenendo conto degli  orientamenti
maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico
- deve ritenersi affidato  in  via  primaria  al  legislatore,  quale
interprete  della  collettivita'  nazionale,  salvo   il   successivo
sindacato sulle soluzioni adottate da parte  di  questa  Corte,  onde
verificare che esse non decampino dall'alveo della ragionevolezza. 
    Nella specie, peraltro, la  scelta  espressa  dalle  disposizioni
censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalita'  del
quale il legislatore  fruisce  in  subiecta  materia,  pur  rimanendo
quest'ultima aperta  a  soluzioni  di  segno  diverso,  in  parallelo
all'evolversi   dell'apprezzamento   sociale   della    fenomenologia
considerata. 
    Di certo, non puo' considerarsi irrazionale e ingiustificata,  in
termini generali,  la  preoccupazione  legislativa  di  garantire,  a
fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni
ritenute migliori per lo sviluppo della personalita' del nuovo nato. 
    In questa prospettiva, l'idea, sottesa alla disciplina in  esame,
che una famiglia ad instar naturae - due genitori, di sesso  diverso,
entrambi viventi e in eta' potenzialmente fertile -  rappresenti,  in
linea di principio, il "luogo" piu' idoneo per accogliere e  crescere
il nuovo nato non puo' essere considerata, a sua volta,  di  per  se'
arbitraria o irrazionale. E cio' a prescindere dalla capacita'  della
donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale  in
eta' avanzata di svolgere validamente anch'esse,  all'occorrenza,  le
funzioni genitoriali. 
    Nell'esigere,  in  particolare,  per  l'accesso  alla   PMA,   la
diversita' di sesso dei componenti della coppia - condizione peraltro
chiaramente  presupposta  dalla   disciplina   costituzionale   della
famiglia - il legislatore ha  tenuto  conto,  d'altronde,  anche  del
grado    di    accettazione    del    fenomeno    della    cosiddetta
"omogenitorialita'" nell'ambito della  comunita'  sociale,  ritenendo
che, all'epoca del varo  della  legge,  non  potesse  registrarsi  un
sufficiente consenso sul punto. 
    13.2.-  La  validita'  delle  conclusioni  ora  esposte  non   e'
inficiata dai piu' recenti orientamenti della  giurisprudenza  comune
sui temi dell'adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del
riconoscimento in Italia di atti formati all'estero, dichiarativi del
rapporto di filiazione in confronto a genitori  dello  stesso  sesso:
orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici  a  quibus  e  le
parti costituite. 
    La giurisprudenza predominante ritiene, in  effetti,  ammissibile
l'adozione cosiddetta non legittimante in favore  del  partner  dello
stesso sesso del genitore biologico del minore,  ai  sensi  dell'art.
44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n.  184  (Diritto
del minore ad una famiglia). 
    In questa chiave, si esclude che una valutazione  negativa  circa
la sussistenza del requisito dell'interesse del minore possa fondarsi
esclusivamente sull'orientamento sessuale del richiedente  l'adozione
e del suo partner, non incidendo l'orientamento sessuale della coppia
sull'idoneita' dell'individuo  all'assunzione  della  responsabilita'
genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile,  sentenza  22
giugno 2016, n. 12962). 
    La stessa Corte di  cassazione  ha  ritenuto,  per  altro  verso,
possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia,
di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due
donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione  assistita  -
comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) -  che
intenderebbero praticare le  due  ricorrenti  nel  giudizio  pendente
davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell'ovulo da parte  della
prima e conduzione  della  gravidanza  da  parte  della  seconda  con
utilizzo di un gamete maschile di un terzo).  Nell'escludere  che  la
trascrizione si ponga in contrasto con l'ordine pubblico interno,  il
giudice  di  legittimita'  ha  rilevato,  da  un  lato,  che  non  e'
configurabile un divieto costituzionale, per le  coppie  omosessuali,
di accogliere e anche generare figli; dall'altro,  che  non  esistono
neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto
che l'inserimento del figlio in una famiglia formata  da  una  coppia
omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e  dello
sviluppo della personalita' del minore, dovendo la dannosita' di tale
inserimento essere  dimostrata  in  concreto  (Corte  di  cassazione,
sezione prima civile, sentenza  30  settembre  2016,  n.  19599).  In
termini analoghi la  Corte  di  cassazione  si  era,  peraltro,  gia'
espressa  con  riguardo  all'affidamento  del  minore  nato  da   una
precedente   relazione   eterosessuale,   dopo   la    manifestazione
dell'omosessualita' della madre  e  l'instaurazione,  da  parte  sua,
della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione  prima
civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601). 
    Tutto  cio',  come  detto,  non  esclude   la   validita'   delle
conclusioni dianzi raggiunte. 
    Vi e', infatti, una differenza essenziale  tra  l'adozione  e  la
PMA. L'adozione presuppone l'esistenza in vita  dell'adottando:  essa
non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per  dare
una famiglia al minore che  ne  e'  privo.  Nel  caso  dell'adozione,
dunque, il minore e' gia' nato ed emerge come specialmente meritevole
di  tutela  -  cosi'  nella  circoscritta  ipotesi  di  adozione  non
legittimante  ritenuta  applicabile   alla   coppia   omosessuale   -
l'interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive gia' di
fatto instaurate e consolidate: interesse che - in base al  ricordato
indirizzo giurisprudenziale - va verificato in concreto (cosi'  come,
del resto, per  l'affidamento  del  minore  nato  da  una  precedente
relazione eterosessuale). 
    La PMA, di contro, serve a dare un figlio non  ancora  venuto  ad
esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni
genitoriali.  Il  bambino,  quindi,  deve  ancora  nascere:  non  e',
percio', irragionevole - come si e' detto -  che  il  legislatore  si
preoccupi di garantirgli quelle che, secondo  la  sua  valutazione  e
alla luce  degli  apprezzamenti  correnti  nella  comunita'  sociale,
appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza". 
    14.- Per  quel  che  attiene,  poi,  alla  denunciata  violazione
dell'art. 3 Cost., si  e'  gia'  posta  precedentemente  in  evidenza
l'insussistenza  di  quella  legata  a  una  pretesa  discriminazione
fondata sull'orientamento sessuale (supra, punto 12  del  Considerato
in diritto). 
    Ma altrettanto deve dirsi  anche  quanto  all'ulteriore  censura,
formulata dal solo  Tribunale  di  Pordenone,  secondo  la  quale  la
normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata  disparita'  di
trattamento in  base  alle  capacita'  economiche,  facendo  si'  che
l'aspirazione alla genitorialita' possa essere realizzata  da  quelle
sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado  di  sostenere  i
costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che
lo consentono. 
    In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che  un
divieto possa essere eluso recandosi all'estero non  puo'  costituire
una valida ragione per dubitare della sua conformita' a Costituzione.
La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana  e
le molteplici normative mondiali e' un fatto  che  l'ordinamento  non
puo' tenere in considerazione. Diversamente opinando,  la  disciplina
interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del
principio di eguaglianza, alla piu' permissiva  tra  le  legislazioni
estere che regolano la stessa materia. 
    15.- Inoltre, non e' violato l'art. 31, secondo comma, Cost.,  il
quale  riguarda  la  maternita'  e  non  l'aspirazione  a   diventare
genitore. 
    16.- Neppure e' ravvisabile la  violazione  dell'art.  32,  primo
comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull'assunto che
l'impossibilita' di formare una famiglia con figli assieme al proprio
partner  dello  stesso  sesso  sarebbe   suscettibile   di   incidere
negativamente, anche in  modo  rilevante,  sulla  salute  psicofisica
della coppia. 
    La tutela costituzionale della «salute» non  puo'  essere  estesa
fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o
bisogno che una coppia (o  anche  un  individuo)  reputi  essenziale,
cosi' da rendere incompatibile con l'evocato parametro ogni  ostacolo
normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione
che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 - richiamata  dal
rimettente - deve intendersi calibrata  sulla  specifica  fattispecie
alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia
stata  diagnosticata  una  patologia  produttiva  di  infertilita'  o
sterilita' assolute e irreversibili). Se cosi' non  fosse,  sarebbero
destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio
di genitorialita', non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le
altre limitazioni all'accesso alla PMA poste dall'art.  5,  comma  1,
della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162
del  2014  ha,  per  converso,  specificamente  richiamato  anche  in
rapporto alla fecondazione eterologa. 
    17.-  Il  Tribunale  di  Bolzano  ha  denunciato  la   violazione
dell'art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso  e  piu'  specifico
profilo,  che  riflette  le  peculiarita'  della   vicenda   concreta
sottoposta al suo esame, nella quale - come gia' piu' volte ricordato
- entrambe le ricorrenti,  parti  di  una  unione  civile,  risultano
affette  da  patologie  che  le   rendono   incapaci   di   procreare
naturalmente: una perche' non produce ovociti; l'altra perche' non in
grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio. 
    Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe
in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in
quanto impedirebbe alle componenti di una  coppia  di  persone  dello
stesso sesso di superare  le  loro  patologie  riproduttive,  tramite
l'utilizzazione  complementare   delle   potenzialita'   riproduttive
rispettive (gestazionale dell'una, di produzione ovarica dell'altra):
cio' in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico  che  la
legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA. 
    Al riguardo, occorre rilevare che la censura - ove fondata -  non
giustificherebbe la pronuncia richiesta  dal  giudice  a  quo:  ossia
l'eliminazione tout court del requisito della diversita' di sesso dal
novero delle  condizioni  di  accesso  alle  tecniche  di  PMA.  Tale
requisito dovrebbe essere rimosso, per converso,  esclusivamente  nel
caso in cui fosse riscontrabile l'esigenza "terapeutica"  alla  quale
fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia
omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilita'
per ragioni patologiche. 
    L'assetto  che  scaturirebbe  da  un  simile  intervento  -  pure
teoricamente praticabile in questa sede, tramite una "resezione"  del
petitum - sarebbe, peraltro, palesemente  insostenibile.  Nell'ambito
delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA -  e
dunque realizzare il desiderio della genitorialita' - solo quelle  le
cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale. 
    Tale  rilievo  disvela  il  vizio  di  prospettiva  che   inficia
l'argomento posto in campo dal rimettente. La presenza  di  patologie
riproduttive  e'  un  dato  significativo  nell'ambito  della  coppia
eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilita' di  tale
coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante -  ai  fini  che
qui interessano - nell'ambito  della  coppia  omosessuale,  la  quale
sarebbe infertile in ogni caso. 
    18.- L'art. 11 Cost. -  richiamato  dal  Tribunale  ordinario  di
Bolzano (peraltro solo in dispositivo)  con  riferimento  tanto  agli
artt.  8  e  14  CEDU,  quanto  a  varie   disposizioni   del   Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19  dicembre
1966, e della Convenzione  delle  Nazioni  Unite  sui  diritti  delle
persone  con  disabilita'  del  13  dicembre  2006  -  e'   parametro
inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non
derivano limitazioni di sovranita' nei confronti dello Stato italiano
(ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22  del
2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007). 
    19.- Va esclusa, infine, la  dedotta  violazione  dell'art.  117,
primo  comma,  Cost.   in   relazione   a   tutte   le   disposizioni
sovranazionali evocate dai giudici a quibus. 
    19.1.- Quanto al contrasto - denunciato da entrambi i  rimettenti
- con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di  diritto  al  rispetto  della
vita privata e familiare e di divieto  di  discriminazione),  e'  ben
vero che, a partire dalla sentenza 24  giugno  2010,  Schalk  e  Kopf
contro Austria, la giurisprudenza della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo e' costante  nell'affermare  che  alla  coppia  omosessuale
compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche
familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si  trovi  nella
stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia»,  anche
agli effetti del divieto di discriminazione (pur  rimanendo  affidate
all'apprezzamento dei singoli Stati le modalita'  della  sua  tutela,
che  non  deve  necessariamente  aver  luogo   tramite   l'estensione
dell'istituto del matrimonio)  (ex  plurimis,  sentenze  14  dicembre
2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari  e  altri
contro Italia). Principio, questo, del quale e' stata fatta specifica
applicazione anche in tema di adozione  dei  minori  (Grande  Camera,
sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). 
    La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il
concetto di «vita privata», di cui  all'art.  8  CEDU,  comprende  il
diritto  all'autodeterminazione  e,  dunque,  anche  il  diritto   al
rispetto della decisione di diventare genitore e su  come  diventarlo
(in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura
di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto,
nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in
essa da  parte  della  pubblica  autorita'  debbono  rispondere  alle
finalita' indicate dal paragrafo 2 dello stesso art.  8  e  risultare
proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio  2018,  Nedescu  contro
Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015,  Parrillo  contro  Italia;  2
ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012,  Costa  e  Pavan
contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H.  e  altri  contro
Austria). 
    E, pero', si e' gia' ricordato come la stessa Corte di Strasburgo
abbia escluso che una legge nazionale che riservi  la  PMA  a  coppie
eterosessuali sterili, assegnandole una finalita' terapeutica,  possa
dar luogo a una disparita' di  trattamento,  rilevante  agli  effetti
degli artt. 8 e 14 CEDU,  nei  confronti  delle  coppie  omosessuali,
stante la non equiparabilita' delle rispettive  situazioni  (sentenza
15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). 
    Si e' del pari ricordato come, secondo la  Corte  europea,  nella
disciplina della  fecondazione  medicalmente  assistita  -  la  quale
suscita delicati problemi di  ordine  etico  e  morale  -  gli  Stati
fruiscano di  un  ampio  margine  di  apprezzamento,  particolarmente
quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale  consenso  a
livello  europeo  (supra,  punto  9  del  Considerato  in   diritto):
prospettiva nella quale essa ha ritenuto  non  incompatibile  con  la
CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione
austriaca (Grande camera, sentenza 3  novembre  2011,  S.  H.  contro
Austria, che ha ribaltato la conclusione  cui  era  giunta  la  prima
sezione della Corte con la sentenza 1°  aprile  2010,  S.  H.  contro
Austria). 
    In tale ottica,  possono  dunque  valere  anche  in  rapporto  ai
parametri convenzionali  evocati  le  considerazioni  precedentemente
svolte  onde  escludere  l'ipotizzata  violazione  del  diritto  alla
procreazione  costituzionalmente  garantito  (supra,  punto  13   del
Considerato in diritto). 
    19.2.- Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU  puo'
essere  evidentemente  esteso  alle  corrispondenti  disposizioni   -
richiamate dal solo Tribunale di Bolzano - del  Patto  internazionale
relativo ai  diritti  civili  e  politici,  in  tema  di  divieto  di
discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e  familiare
(artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26). 
    19.3.- Per  quel  che  attiene,  da  ultimo,  alle  previsioni  -
invocate anch'esse dal solo Tribunale di Bolzano - della  Convenzione
di New York sui diritti delle persone con disabilita'  (artt.  5,  6,
22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente,  di
eguaglianza e non discriminazione, donne  con  disabilita',  rispetto
della vita privata, rispetto della famiglia e tutela  della  salute),
puo' ripetersi quanto gia' osservato con riferimento alla censura  di
violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso  Tribunale
(supra, punto 17 del Considerato in diritto). 
    E' evidente, infatti, che le  coppie  omosessuali  femminili  non
possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili». 
    20.- Alla luce delle considerazioni svolte,  le  questioni  vanno
dichiarate non fondate. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10,  della  legge  19
febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di  procreazione  medicalmente
assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2,  3,  31,  secondo
comma, 32, primo comma,  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di
Pordenone con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt. 5, limitatamente  alle  parole  «di  sesso
diverso», e 12, comma 2,  limitatamente  alle  parole  «dello  stesso
sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e  10»,  nonche'
degli artt. 1, commi 1  e  2,  e  4  della  legge  n.  40  del  2004,
sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma,  e  32,
primo comma, Cost., nonche' agli artt. 11 e 117, primo comma,  Cost.,
in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo  1,  17,
23 e 26  del  Patto  internazionale  relativo  ai  diritti  civili  e
politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e  reso
esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5,  6,  22,
paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della  Convenzione  delle  Nazioni
Unite sui diritti delle persone con disabilita', fatta a New York  il
13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009,
n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l'ordinanza indicata in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA 
 
 
                                                            Allegato: 
                       ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019 
 
                              ORDINANZA 
 
    Rilevato che nel giudizio di legittimita' costituzionale promosso
dal Tribunale ordinario di Pordenone, con ordinanza del 2 luglio 2018
(r.o.  n.  129  del  2018),  ha   depositato   atto   di   intervento
l'Associazione nazionale  di  promozione  sociale  Avvocatura  per  i
diritti LGBTI; 
    che nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  promosso  dal
Tribunale ordinario di Bolzano, con  ordinanza  del  3  gennaio  2019
(r.o.  n.  60  del  2019),  hanno  depositato  un  unitario  atto  di
intervento l'Associazione radicale  Certi  Diritti  e  l'Associazione
Luca Coscioni per la liberta' di ricerca scientifica. 
    Considerato che le associazioni intervenienti  non  rivestono  la
qualita' di parti del giudizio principale; 
    che, secondo la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  la
partecipazione  al  giudizio  di   legittimita'   costituzionale   e'
circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre  che  al
Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale,
al Presidente della  Giunta  regionale  (artt.  3  e  4  delle  Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale); 
    che a tale disciplina e' possibile derogare  -  senza  venire  in
contrasto   con   il   carattere   incidentale   del   giudizio    di
costituzionalita' - soltanto a favore di  soggetti  terzi  che  siano
titolari di un  interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e  n.  180  del
2018, ordinanze allegate alle sentenze n. 248, n. 194 e  n.  153  del
2018, n. 29 del 2017, n. 286 e n. 243 del 2016); 
    che i presenti giudizi - che hanno ad oggetto gli artt. 1,  commi
1 e 2; 4; 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004 n. 40
- non sono destinati a produrre,  nei  confronti  delle  associazioni
intervenienti, effetti immediati, neppure indiretti; 
    che,  pertanto,  esse  non  sono  legittimate  a  partecipare  al
giudizio dinanzi a questa Corte. 
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara inammissibili gli interventi spiegati: 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale r.o. n. 129 del  2018
dall'Associazione nazionale di promozione sociale  Avvocatura  per  i
diritti LGBTI; 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale r.o. n. 60  del  2019
dall'Associazione radicale Certi  Diritti  e  dall'Associazione  Luca
Coscioni per la liberta' di ricerca scientifica. 
 
                 F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente