N. 253 SENTENZA 23 ottobre - 4 dicembre 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ordinamento penitenziario - Detenuti per i  delitti  di  associazione
  mafiosa e di "contesto mafioso" - Concessione  di  permessi  premio
  anche in assenza di collaborazione con la giustizia -  Possibilita'
  allorche' siano stati acquisiti  elementi  tali  da  escludere  sia
  l'attualita' di collegamenti con la criminalita'  organizzata,  sia
  il pericolo del ripristino di tali collegamenti - Omessa previsione
  - Violazione dei  principi  di  ragionevolezza  e  della  finalita'
  rieducativa della pena -  Illegittimita'  costituzionale  in  parte
  qua. 
Ordinamento penitenziario - Detenuti per i delitti  di  cui  all'art.
  4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, diversi da  quelli  di
  associazione mafiosa e  di  "contesto  mafioso"  -  Concessione  di
  permessi  premio  anche  in  mancanza  di  collaborazione  con   la
  giustizia - Possibilita' allorche' siano stati  acquisiti  elementi
  tali  da  escludere  sia  l'attualita'  di  collegamenti   con   la
  criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il  pericolo
  del  ripristino  di  tali  collegamenti  -  Omessa   previsione   -
  Illegittimita' costituzionale consequenziale in parte qua. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma. 
(GU n.50 del 11-12-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma
1, della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), promossi dalla Corte di cassazione e  dal  Tribunale
di sorveglianza di Perugia con ordinanze del 20 dicembre 2018  e  del
28 maggio 2019, rispettivamente iscritte ai nn. 59 e 135 del registro
ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 17 e 34, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visti gli atti di costituzione di S. C. e  P.  P.,  gli  atti  di
intervento ad adiuvandum di M. D., dell'Associazione  Nessuno  Tocchi
Caino, del Garante nazionale dei diritti  delle  persone  detenute  o
private  della  liberta'  personale  e  dell'Unione   camere   penali
italiane, nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  22  ottobre  2019  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Ladislao Massari per M.  D.,  Andrea  Saccucci
per l'Associazione Nessuno Tocchi Caino, Emilia Rossi per il  Garante
nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta'
personale,  Vittorio  Manes  per  l'Unione  camere  penali  italiane,
Valerio Vianello  Accorretti  per  S.  C.,  Mirna  Raschi  e  Michele
Passione per P. P.  e  gli  avvocati  dello  Stato  Marco  Corsini  e
Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019),  la
Corte  di  cassazione  ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio  1975,
n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della liberta'),  in  riferimento  agli
artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui esclude  che  il
condannato all'ergastolo,  per  delitti  commessi  avvalendosi  delle
condizioni di cui all'art. 416-bis  cod.  pen.,  ovvero  al  fine  di
agevolare l'attivita' delle associazioni in esso  previste,  che  non
abbia  collaborato  con  la  giustizia,  possa  essere  ammesso  alla
fruizione di un permesso premio». 
    1.1.- Il collegio rimettente premette  di  essere  investito  del
ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui  il  Tribunale  di
sorveglianza dell'Aquila ha rigettato il reclamo proposto  da  S.  C.
avverso il  decreto  con  il  quale  il  magistrato  di  sorveglianza
dell'Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta  di  permesso
premio avanzata dal medesimo condannato. 
    Espone il rimettente che il condannato  si  trova  in  espiazione
della pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata  di  un
anno, irrogatagli «per i delitti di associazione  mafiosa,  omicidio,
soppressione di cadavere,  porto  e  detenzione  illegale  di  armi»,
eseguiti tra il  1996  e  il  1998  «per  agevolare  l'attivita'»  di
un'associazione mafiosa, come desumibile dalla sentenza  di  condanna
per i reati di omicidio, per i quali e' stata applicata  l'aggravante
dei motivi abietti, «individuati nel fine di affermare  l'egemonia  e
il prestigio della consorteria alla quale l'imputato era affiliato». 
    Precisa il  giudice  a  quo  che  il  Tribunale  di  sorveglianza
dell'Aquila ha ritenuto non concedibile  il  beneficio  richiesto  in
quanto precluso dai titoli di reato,  trattandosi  di  delitti  tutti
ricompresi nell'elenco dei reati ostativi ai sensi  dell'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. - pur in assenza di una contestazione  formale
dell'aggravante speciale di  cui  all'art.  7  del  decreto-legge  13
maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti  in  tema  di  lotta  alla
criminalita'  organizzata  e  di   trasparenza   e   buon   andamento
dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni,  nella
legge 12 luglio  1991,  n.  203  -  e  non  sussistendo  condotte  di
collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi  dell'art.  58-ter
ordin. penit., richiamato dal medesimo art. 4-bis. 
    Ricorda la  Corte  rimettente  che  l'art.  4-bis  ordin.  penit.
stabilisce il divieto di  concessione  di  benefici  penitenziari  in
assenza di collaborazione con la giustizia, sia  per  le  ipotesi  di
reato previste dagli artt.  416-bis  (Associazioni  di  tipo  mafioso
anche straniere) e 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso)  del
codice penale, sia per i reati commessi avvalendosi delle  condizioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen.  ovvero  al  fine  di  agevolare
l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo. 
    Espone, quindi, che il condannato S. C. ha sostenuto, per  quanto
qui interessa, che «la preclusione  assoluta  stabilita  dalla  norma
censurata» si porrebbe «in  contrasto  con  la  funzione  rieducativa
della pena costituzionalmente garantita», sia perche' impedirebbe «il
raggiungimento delle finalita' riabilitative proprie del  trattamento
penitenziario», sia perche' sarebbe «disarmonica rispetto ai principi
affermati dall'art. 3 CEDU», invitando quindi la Corte di  cassazione
a sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale,  «dell'art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen., con riferimento agli articoli 17, 18 e  22
cod. pen., per violazione degli artt. 27, comma terzo, 117 Cost.,  in
relazione all'art. 3 CEDU». 
    1.2.- Cio' premesso, il collegio rimettente ritiene  rilevante  e
non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale prospettata in relazione all'art. 4-bis ordin. penit. 
    1.2.1.- In punto di rilevanza, ricorda come l'art. 30-ter  ordin.
penit.,  nel  disciplinare  la  concessione  dei   permessi   premio,
considera decisivo l'apprezzamento di pericolosita' sociale, ai  fini
dell'accoglimento o del rigetto della domanda di permesso premio,  ed
evidenzia che  tale  profilo  «non  e'  stato  oggetto  di  specifica
valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza  che  ha  ritenuto
impeditivo di un  concreto  esame  il  disposto  normativo  dell'art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen.». 
    A giudizio del collegio  a  quo,  tuttavia,  cio'  non  priva  di
rilevanza  la  questione,   «perche'   la   rimozione   dell'ostacolo
costituito  dalla  presunzione  assoluta  di  pericolosita'   sarebbe
l'unico modo per consentire la rimessione al giudice del merito, come
giudice  del  rinvio,  del  compito  di  verificare  in  concreto  la
ricorrenza dei presupposti richiesti dall'art. 30-ter Ord.  Pen.  per
la  concessione  del   beneficio,   in   particolare   l'assenza   di
pericolosita' sociale». 
    1.2.2.- In ordine alla non manifesta infondatezza della questione
di legittimita' costituzionale, la Corte rimettente osserva, in primo
luogo, che il tema della pericolosita' sociale di indagati o imputati
per reati di criminalita' organizzata e' gia'  stato  vagliato  dalla
giurisprudenza costituzionale in  relazione  ai  criteri  che  devono
orientare  il  giudice  nell'applicazione  delle   misure   cautelari
personali previste dall'art. 275, comma 3, del  codice  di  procedura
penale. 
    A tale proposito, viene richiamata la sentenza n.  57  del  2013,
che ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  275,
comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato  dall'art.
2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia  di  sicurezza  pubblica  e  di  contrasto  alla  violenza
sessuale, nonche'  in  tema  di  atti  persecutori)  convertito,  con
modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in  cui
prevedeva,  per  coloro  per  i  quali  sussistono  gravi  indizi  di
colpevolezza  in  ordine  a  delitti   commessi   avvalendosi   delle
condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen.  ovvero  al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  mafiose,  l'applicazione
della custodia cautelare in carcere  come  unica  misura  adeguata  a
soddisfare le esigenze cautelari, senza  fare  salva  -  rispetto  al
concorrente esterno  -  l'ipotesi  in  cui  fossero  stati  acquisiti
elementi  specifici,  in  relazione  al  caso  concreto,  dai   quali
risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte  con
altre misure. Il collegio rimettente ricorda che,  secondo  la  Corte
costituzionale, le presunzioni assolute, ove  limitative  di  diritti
fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono  arbitrarie
e  irrazionali  ovvero  «se  non  rispondono  a  dati  di  esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit» e che, al contempo, la possibile estraneita' dell'autore  di
tali delitti a un'associazione mafiosa fa escludere che si sia sempre
in presenza di un reato che presupponga la necessita' di  un  vincolo
di appartenenza alla consorteria considerata. 
    Il collegio rimettente  richiama,  altresi',  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 48 del 2015, che ha analogamente eliminato la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare  in
carcere  per  gli  imputati  o  indagati  di  concorso   esterno   in
associazione  mafiosa.  Anche  in  tal  caso,   rammenta   la   Corte
rimettente, secondo  la  giurisprudenza  costituzionale  non  sarebbe
ravvisabile, nei confronti del concorrente esterno, quel  vincolo  di
adesione permanente al sodalizio mafioso  necessario  a  legittimare,
sul  piano  giurisdizionale,  il  ricorso  esclusivo  alla   custodia
cautelare in carcere, quale  unico  strumento  idoneo  a  recidere  i
rapporti dell'indiziato con l'ambiente associativo,  neutralizzandone
la pericolosita'. 
    In questo contesto, secondo il giudice a quo, l'art. 4-bis ordin.
penit.  si  inserirebbe  «problematicamente»,  dal  momento  che,  in
relazione  alla  concessione  del  permesso  premio,   «ne   preclude
l'accesso, in senso assoluto,  a  tutte  le  persone  condannate  per
delitti ostativi che non hanno  fornito  una  collaborazione  con  la
giustizia rilevante  ai  sensi  dell'art.  58-ter  Ord.  Pen.».  Tale
preclusione  assoluta,  «non  distinguendo  tra  gli   affiliati   di
un'organizzazione  mafiosa»  e  gli  autori   di   delitti   commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni  previste  dalla
stessa    norma,    appare    al    rimettente    confliggente    con
«l'incompatibilita' costituzionale»  delle  presunzioni  assolute  di
pericolosita' sociale, quando applicate alle  condotte  illecite  che
non presuppongono l'affiliazione a un'associazione mafiosa, secondo i
principi che sarebbero stati  affermati  dalla  Corte  costituzionale
nelle sentenze in precedenza richiamate. 
    Il giudice a quo, ancora, richiama ulteriori pronunce della Corte
costituzionale  in  materia  di  compatibilita'  tra  il  divieto  di
concessione dei benefici penitenziari previsto dall'art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., e i principi che governano l'esecuzione della pena.
In particolare, evidenzia che, con la sentenza n. 239  del  2014,  la
Corte costituzionale ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,  nella  parte  «in  cui  non
esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso
stabilito, la misura della detenzione domiciliare  speciale  prevista
dall'art. 47-quinquies della medesima legge» nonche' nella  parte  in
cui  «non  esclude  dal   divieto   di   concessione   dei   benefici
penitenziari,  da  esso  stabilito,  la   misura   della   detenzione
domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma  1,  lettere  a)  e  b),
della medesima legge, ferma restando la condizione dell'insussistenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». Per  la
Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel  regime
detentivo  prefigurato  dall'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.   penit.
fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee  sarebbe  lesiva
dei parametri costituzionali evocati (si trattava degli artt. 3,  29,
30  e  31  Cost.),  in  quanto  illogica  rispetto  all'obiettivo  di
incentivare  la  collaborazione  processuale   quale   strategia   di
contrasto   alla   criminalita'   organizzata:   la    subordinazione
dell'accesso ai benefici penitenziari a un effettivo ravvedimento del
condannato sarebbe giustificata solo  quando  si  discuta  di  misure
alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non  quando
«al centro  della  tutela  si  collochi  un  interesse  "esterno"  ed
eterogeneo». 
    La Corte rimettente attribuisce «[a]nalogo  rilievo  ermeneutico»
alla sentenza n. 76 del 2017, con  cui  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  47-quinquies,
comma 1-bis, ordin. penit., limitatamente all'inciso «salvo  che  nei
confronti delle madri condannate  per  taluno  dei  delitti  indicati
nell'art.  4-bis»,  evidenziando,  con  riferimento  alla  detenzione
domiciliare speciale  di  cui  alla  disposizione  allora  censurata,
l'inammissibilita' di  presunzioni  assolute  che  neghino  l'accesso
della madre  alle  modalita'  agevolate  di  espiazione  della  pena,
impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosita' sociale
e facendo ricorso a  indici  presuntivi  che  comportano  «il  totale
sacrificio dell'interesse del minore». 
    Infine, il giudice a quo richiama la sentenza n.  149  del  2018,
con la quale la Corte costituzionale ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 58-quater, comma  4,  ordin.  penit.,  nella
parte in cui si applica ai condannati all'ergastolo per i delitti  di
cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte
del  sequestrato,   ribadendo   i   principi   della   progressivita'
trattamentale e della flessibilita' della  pena  «radicati  nell'art.
27, comma terzo, Cost., che garantisce il  graduale  inserimento  del
condannato all'ergastolo nel contesto sociale». 
    Tutto cio' premesso, la Corte rimettente espone che, che nel caso
sottoposto al suo scrutinio, il condannato risulta  ininterrottamente
detenuto dal 27 giugno 1998 e ha sempre  mantenuto  un  comportamento
carcerario rispettoso del programma  rieducativo  attivato  nei  suoi
confronti. 
    Per  il  giudice  a  quo,  subordinare  l'accesso   ai   benefici
penitenziari alla collaborazione con  la  giustizia,  indistintamente
per tutte le categorie di condannati per uno  dei  reati  contemplati
nell'elenco dell'art. 4-bis, ordin.  penit.,  avrebbe  «l'effetto  di
valorizzare la scelta collaborativa, come momento  di  rottura  e  di
definitivo  distacco  dalle  organizzazioni  criminali,   anche   nei
confronti di detenuti  non  inseriti  in  contesti  associativi».  Al
contempo,  se  l'obiettivo  prioritario  della  norma  censurata   e'
individuato nell'incentivazione alla collaborazione, quale  strategia
di contrasto della criminalita' organizzata attraverso la rescissione
definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, a giudizio
del rimettente appare priva di ragionevolezza  una  disposizione  che
assimili condotte delittuose tanto diverse tra loro,  precludendo  ad
una categoria cosi' ampia e diversificata di condannati il diritto di
ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione,
senza che sia data  al  giudice  la  possibilita'  di  verificare  in
concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosita'  sociale
tali da giustificare percorsi penitenziari non  aperti  alla  realta'
esterna. 
    Il giudice a quo considera  «dato  consolidato»  -  conformemente
alla costante giurisprudenza di  legittimita'  -  che  la  scelta  di
fornire un contributo collaborativo,  rilevante  ai  sensi  dell'art.
58-ter ordin. penit., rappresenta, per un detenuto appartenente a una
consorteria  mafiosa,  una  manifestazione  inequivocabile  «del  suo
definitivo distacco dal sodalizio in cui  gravitava».  Ritiene  pero'
che non possa assumere «valore incontrovertibile e assurgere a canone
valutabile in termini di presunzione assoluta,  a  prescindere  dalle
emergenze concrete», l'affermazione che la cessazione dei  legami  di
un detenuto con il  gruppo  criminale  di  riferimento  possa  essere
dimostrata, durante  la  fase  di  esecuzione  della  pena,  soltanto
attraverso le condotte collaborative di cui  all'art.  58-ter  ordin.
penit., dato  che  tale  assunto  non  troverebbe  «copertura»  nella
giurisprudenza costituzionale in precedenza illustrata che, «come  ha
bandito dal sistema le presunzioni assolute di  pericolosita',  cosi'
non  puo'  avallare  la  conclusione  che  la  scelta   collaborativa
costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento». 
    A  parere  del  collegio  rimettente,  peraltro,  la  scelta  del
condannato all'ergastolo di non  collaborare  con  la  giustizia  non
risulterebbe   univocamente   dimostrativa   dell'attualita'    della
pericolosita' sociale e non necessariamente implicherebbe la volonta'
di restare legato  al  sodalizio  mafioso  di  appartenenza,  potendo
essere determinata anche  da  altri  fattori,  estranei  al  percorso
rieducativo, quali: il  «rischio  per  l'incolumita'  propria  e  dei
propri familiari»; il «rifiuto morale  di  rendere  dichiarazioni  di
accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate  da  vincoli
affettivi»; il «ripudio di una  collaborazione  di  natura  meramente
utilitaristica». 
    I dubbi di costituzionalita' aumentano, a parere del  rimettente,
se si  considerano  le  peculiarita'  del  permesso  premio  previsto
dall'art. 30-ter ordin. penit,  che  possiede  «una  connotazione  di
contingenza che non ne consente l'assimilazione integrale alle misure
alternative alla detenzione»,  perche'  non  modifica  le  condizioni
restrittive del condannato: soltanto  rispetto  a  queste  ultime  le
ragioni di politica criminale sottese alla «preclusione  assoluta  di
cui  all'art.  4-bis,  comma  1,  Ord.  Pen.»,  potrebbero   apparire
rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalita' organizzata. 
    A parere del giudice a quo, in  particolare,  i  permessi  premio
costituirebbero  parte  essenziale   del   trattamento   rieducativo,
sicche',  ove  non  concessi  a  causa   di   una   «presunzione   di
pericolosita' non altrimenti  vincibile»,  sarebbero  compromesse  le
stesse finalita' costituzionali della pena detentiva. 
    Tale tipologia di beneficio  penitenziario,  infatti,  troverebbe
fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalita'  immediata,
costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di  lavoro,
caratterizzandosi «come strumento di soddisfazione di esigenze  anche
molto limitate seppure non rientranti nella portata  meno  ampia  del
permesso di necessita'». 
    In ragione di questa peculiare funzione, il  collegio  rimettente
ritiene  che  sussista  la  possibilita',   anche   in   assenza   di
collaborazione con  la  giustizia,  di  verificare  in  concreto  «la
mancanza  di  elementi   significativi   di   collegamenti   con   la
criminalita'  organizzata»  o  di  accertare  «addirittura»  elementi
denotanti  «un  significativo  distacco  dal   sistema   subculturale
criminale». 
    Per la Corte di cassazione, del  resto,  «anche  una  concessione
premiale per una finalita' limitata e  contingente  potrebbe  sortire
l'effetto di incentivare il detenuto a collaborare con  l'istituzione
carceraria». 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    Ad avviso della difesa statale, la  questione  sollevata  sarebbe
manifestamente infondata sotto piu' punti di vista. 
    Premette l'Avvocatura  che,  al  fine  di  contrastare  «l'odioso
fenomeno della  criminalita'  organizzata»,  il  legislatore  avrebbe
stabilito di subordinare la concessione dei benefici per  gli  autori
di tali delitti «ad una e una sola  condizione»:  che  il  condannato
decida, quando sia materialmente possibile,  di  collaborare  con  la
giustizia.  Con  tale  disciplina  speciale  si  sarebbe  scelto   di
«divaricare nettamente la posizione  dei  "collaboratori"  da  quella
degli  "irriducibili"»,  privilegiando,  per  una  serie   di   reati
«tassativamente elencati», le finalita' di prevenzione generale e  di
sicurezza della collettivita'. 
    La soluzione prefigurata dall'art. 4-bis, ordin. penit., in  ogni
caso,   non    rappresenterebbe    «un    automatismo    che    opera
incondizionatamente,  in  quanto  la  collaborazione  del  condannato
restituisce al giudice i  poteri  di  valutare  discrezionalmente  la
sussistenza dei  presupposti  "normali"  per  accordare  il  permesso
premio». In sostanza, il detenuto che ha collaborato  verrebbe  posto
sullo stesso piano del  condannato  nei  cui  riguardi  opera  l'art.
30-ter, ordin. penit. 
    Si  tratterebbe  di  una  scelta  discrezionale  del  legislatore
connessa a  valutazioni  di  politica  criminale,  secondo  le  quali
l'unico mezzo con il quale il detenuto puo' dimostrare  l'assenza  di
pericolosita' -  che  nel  caso  di  detenuti  per  delitti  previsti
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., consiste  nella  persistenza
di legami con la criminalita' organizzata - e' quello di scegliere la
via della collaborazione. 
    In tal modo, a parere dell'Avvocatura, sarebbe stata  incentivata
la stessa  collaborazione,  che  «nell'esperienza  giudiziaria  della
storia nazionale» si sarebbe  rivelata  come  «mezzo  insostituibile»
della ricerca della prova e del perseguimento dei responsabili. 
    A parere dell'interveniente, il rigore  che  connota  il  sistema
delineato  dall'art.  4-bis,  ordin.  penit.,  si  applica  anche  ai
permessi premio, «apparendo  del  tutto  irrilevante  la  sua  natura
contingente piuttosto che di alternativa vera  e  propria  alla  pena
detentiva», poiche' la  ratio  della  norma  e'  quella  «di  evitare
l'uscita dal carcere - anche solo  per  poche  ore  -  di  condannati
verosimilmente ancora pericolosi, in particolare in ragione dei  loro
persistenti legami con  la  criminalita'  organizzata»  (si  cita  la
sentenza n. 149 del 2018). Lo stesso legislatore, «nel  circoscrivere
l'ambito  oggettivo  della  preclusione»,   pur   consapevole   delle
diversita' strutturali, affianca espressamente i permessi premio alle
misure alternative alla detenzione, per l'esigenza di evitare  che  i
condannati per tali reati siano rimessi, anche solo  temporaneamente,
in liberta'. 
    Secondo l'Avvocatura,  la  stessa  giurisprudenza  costituzionale
avrebbe ritenuto che «la collaborazione con la giustizia assuma  "non
irragionevolmente, la diversa valenza  di  criterio  di  accertamento
della rottura dei collegamenti con la criminalita' organizzata, che a
sua volta e' condizione necessaria, sia  pure  non  sufficiente,  per
valutare il venir meno della pericolosita' sociale ed i risultati del
percorso di rieducazione e di recupero del condannato"» (sentenza  n.
273 del 2001). La scelta  collaborativa  sarebbe  stata  assunta  dal
legislatore a criterio legale di valutazione  del  comportamento  del
detenuto,   rappresentando   una   condotta   necessaria   ai    fini
dell'accertamento del «sicuro ravvedimento» del condannato. 
    Dunque,  l'opzione  legislativa  sarebbe  frutto  di  un   potere
discrezionale  in  materia  di  politica  penitenziaria,  come   tale
sindacabile nei  soli  limiti  in  cui  risulti  esercitato  in  modo
arbitrario. A  tale  proposito,  l'Avvocatura  generale  richiama  la
sentenza della Corte costituzionale n.  306  del  1993,  secondo  cui
«certamente risponde all'esigenza  di  contrastare  una  criminalita'
organizzata  aggressiva  e  diffusa  la  scelta  del  legislatore  di
privilegiare finalita' di prevenzione generale e di  sicurezza  della
collettivita',  attribuendo  determinati  vantaggi  ai  detenuti  che
collaborano con la giustizia». 
    3. - In data 13 maggio 2019 si e' costituito in giudizio  S.  C.,
parte ricorrente nel giudizio  a  quo,  per  chiedere  l'accoglimento
delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  sviluppando  gli
argomenti gia' esibiti nell'ordinanza della Corte di cassazione. 
    Secondo S. C., inoltre, la disposizione censurata violerebbe  non
soltanto gli artt. 3 e 27  Cost.,  ma  anche  l'art.  117  Cost.,  in
relazione all'art.  3  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, in base alla giurisprudenza della Corte  europea
dei diritti dell'uomo (viene citata la sentenza della Grande Camera 9
luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito). 
    3.1.- In data 1° ottobre 2019 S. C. ha depositato una memoria  in
cui  ribadisce  quanto  sostenuto  nell'atto  di   costituzione,   in
particolare in merito alle  caratteristiche  peculiari  del  permesso
premio in relazione agli altri benefici penitenziari, ai quali ultimi
non potrebbe  essere  omologato,  pena  la  violazione  dei  principi
costituzionali evocati. 
    La parte richiama, inoltre, la sentenza pronunciata  dalla  Corte
EDU il 13 giugno 2019, nel caso Viola contro Italia, di  cui  vengono
riprodotti ampi stralci di motivazione. 
    Aggiunge la parte che appare «inammissibile» che il  «diritto  di
non collaborare»,  garantito  processualmente  come  espressione  del
principio nemo  tenetur  se  detegere,  possa  trasformarsi  in  fase
esecutiva in un vero e proprio dovere, necessario per poter usufruire
di «strumenti che dovrebbero essere  invece  gli  ordinari  risultati
della partecipazione proficua al trattamento penitenziario». 
    Infine, la parte reputa «certamente discutibile» che una condotta
di  tipo  meramente  utilitaristico   sia   proposta   dallo   stesso
legislatore come requisito per evitare il  «danno  aggiuntivo»  della
preclusione ai benefici, trasformandosi cosi' in «una vera e  propria
costrizione», ricordando che la Corte costituzionale  ha  di  recente
affermato (e' richiamata l'ordinanza n. 117 del 2019) che il  diritto
a  mantenere  il  silenzio  da  parte  degli  imputati  o  condannati
costituisce un «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto
di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.». 
    4.- In data 30 aprile 2019 il detenuto M. D. ha  depositato  atto
di intervento  ad  adiuvandum,  sostenendo  di  avere  uno  specifico
interesse ad intervenire nel giudizio attesa la posizione processuale
di  «perfetta  sovrapponibilita'»  rispetto  a  quella  di   S.   C.,
trovandosi in esecuzione - da oltre  ventisette  anni  -  della  pena
dell'ergastolo cosiddetto  ostativo,  con  diniego  di  accesso  alle
misure alternative alla detenzione, in assenza di collaborazione  con
la giustizia. M. D., in data 19 settembre  2019,  ha  depositato  una
memoria per riaffermare il suo interesse  qualificato  connesso  alla
circostanza che la Corte di cassazione, nel giudizio che lo  riguarda
(celebrato  innanzi  alla  medesima  sezione  che  ha  sollevato   la
questione di legittimita' costituzionale da cui origina  il  giudizio
r.o. n. 59 del 2019), ha disposto  il  rinvio  della  trattazione  in
attesa della «decisione della Corte Costituzionale sulla legittimita'
dell'art. 4 bis ord. pen. - per quanto riguarda la concedibilita' dei
permessi premio per il detenuto non collaborante». 
    Ha  concluso,  dunque,  per  l'accoglimento  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale  sollevate  dalla  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale. 
    5.- In data 13 maggio 2019 ha depositato atto  di  intervento  ad
adiuvandum  l'associazione  Nessuno  Tocchi  Caino,  argomentando  di
essere «portatrice di  un  interesse  "qualificato"  nella  questione
relativa alla legittimita'  costituzionale»  prospettata,  in  quanto
associazione senza fini di lucro fondata con lo scopo di condurre una
campagna volta a  far  abrogare  in  tutto  il  mondo  le  norme  che
prevedono la pena di morte ovvero che  costituiscono  «una  sorta  di
pena di morte "mascherata"»,  come  l'ergastolo  cosiddetto  ostativo
previsto  dall'art.  4-bis,  ordin.  penit.  In  vista   dell'udienza
pubblica del 22 ottobre 2019, l'associazione ha depositato,  in  data
1° ottobre 2019, una memoria in cui richiama e sviluppa gli argomenti
gia' esibiti nell'atto  di  costituzione,  con  la  quale  si  chiede
l'accoglimento  delle  questioni   di   legittimita'   costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale. 
    6.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del  2019),  il
Tribunale di  sorveglianza  di  Perugia  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.,
in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., «nella parte in  cui  esclude
che il condannato all'ergastolo  per  delitti  commessi  al  fine  di
agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416  bis
cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso  alla
fruizione di un permesso premio». 
    6.1.- Il collegio rimettente premette  di  essere  investito  del
ricorso  avverso  il  provvedimento  con   cui   il   Magistrato   di
sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile l'istanza diretta
ad ottenere un permesso premio  ai  sensi  dell'art.  30-ter,  ordin.
penit. avanzata da P. P., in espiazione della pena dell'ergastolo con
isolamento  diurno  in  relazione  ad  un  provvedimento  di   cumulo
comprendente condanne  tutte  per  delitti  rientranti  nel  disposto
dell'art. 4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.,  percio'  ostative  alla
concessione del permesso richiesto. 
    Aggiunge che  la  difesa  del  condannato  ha,  quindi,  proposto
reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza rimettente, chiedendo la
sospensione della decisione in attesa della pronuncia sulla questione
di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, con l'ordinanza 20 dicembre 2018. 
    6.2.- Cio' posto, il Tribunale  di  sorveglianza  di  Perugia  ha
ritenuto di sospendere il procedimento per sollevare, a sua volta, le
questioni di legittimita' costituzionale innanzi descritte. 
    6.2.1.- Il giudice a quo ripercorre, richiamandoli integralmente,
anche   con   riferimento   alla   citazione   della   giurisprudenza
costituzionale   ritenuta   pertinente,   i    passaggi    essenziali
dell'ordinanza con  cui  la  prima  sezione  penale  della  Corte  di
cassazione (r.o. n. 59 del 2019) ha sollevato le  innanzi  illustrate
questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  4-bis,  comma  1,
ordin.  penit.,  sia  perche'  dichiara  di  condividerli,  sia  «per
evidenziarne  tratti  di  non  completa  sovrapponibilita'»  con   la
fattispecie sottoposta al suo  scrutinio,  ma  che  pure  ritiene  di
sottoporre all'esame della Corte costituzionale. 
    Ancora con riferimento al profilo della rilevanza delle questioni
sollevate, il rimettente evidenzia che, in entrambi i procedimenti da
cui  sono  scaturite  le  questioni  oggi   all'esame   della   Corte
costituzionale, viene in rilievo la richiesta di un  condannato  alla
pena dell'ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata  dal
magistrato di sorveglianza competente - e, nel  caso  vagliato  dalla
Corte di cassazione, con decisione confermata in sede di reclamo  dal
Tribunale di sorveglianza - poiche' soltanto la scelta di collaborare
con la  giustizia,  «invece  non  avvenuta,  potrebbe  comportare  la
fuoriuscita dal regime di assoluta ostativita'». 
    Ne consegue che  nessuna  valutazione  puo'  essere  condotta  in
concreto sulla pericolosita'  sociale  del  condannato,  perche'  «la
magistratura  di  sorveglianza  deve,  di  fronte  a  tale   assoluta
ostativita', dichiarare soltanto l'inammissibilita' dell'istanza, con
la conseguenza della rilevanza per  il  giudizio  sottopostole  della
questione di legittimita' costituzionale prospettata che, in caso  di
accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come
giudice  di  rinvio,  con  il  compito  di   verificare   l'eventuale
meritevolezza del beneficio premiale». 
    Per il rimettente, in sostanza, soltanto l'eventuale declaratoria
di illegittimita' costituzionale della  «preclusione  assoluta»  alla
concessione  del  permesso  premio  consentirebbe  al  tribunale   di
sorveglianza  «di  non  provvedere  con  rigetto  del   reclamo   per
inammissibilita' dell'istanza  di  permesso  premio  e  di  vagliarne
invece la meritevolezza nel caso concreto», e cioe' di verificare  se
sussistano i requisiti di merito  indicati  nell'art.  30-ter  ordin.
penit. in ordine al mantenimento di una regolare  condotta  da  parte
del condannato nel corso della sua detenzione nonche', trattandosi di
condannato per delitti compresi  nell'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.
penit., di accertare «il requisito dell'acquisizione di elementi tali
da  escludere  l'attualita'  di  collegamenti  con  la   criminalita'
organizzata». 
    Il giudice a quo, in ogni caso, riferisce che  il  reclamante  e'
ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, sicche' ha «vissuto  oltre
ventiquattro anni di pena  effettiva»,  fruendo  di  2160  giorni  di
liberazione anticipata per  aver  partecipato  all'opera  rieducativa
condotta nei suoi confronti, e soddisfa dunque l'altro  requisito  di
ammissibilita' (raggiunto nell'anno 2005) per la  concessione  di  un
permesso premio al condannato alla pena  dell'ergastolo,  consistente
nell'aver espiato la quota di pena  di  almeno  dieci  anni  indicata
dall'art. 30-ter, comma 4, lettera d), ordin. penit. 
    6.2.2.- In punto di non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
evidenzia che, sebbene si tratti in entrambi  i  casi  di  condannati
all'ergastolo  per  reati  ricompresi  nell'elenco  dell'art.  4-bis,
ordin. penit., che hanno chiesto di ottenere un permesso  premio,  la
posizione  all'esame  del  Tribunale  di  sorveglianza   di   Perugia
differisce da quella esaminata dalla Corte di cassazione, poiche'  il
ricorrente e' stato  condannato  per  delitti  commessi  al  fine  di
agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis  cod.  pen.
del quale e' stato riconosciuto partecipe, con ruolo sviluppatosi nel
corso del tempo nelle diverse vicende criminose che  lo  hanno  visto
protagonista. 
    Tuttavia, ritiene il  rimettente  che  anche  la  situazione  del
condannato ricorrente nel giudizio a quo «meriti un vaglio  circa  la
pericolosita'  sociale  realizzato   in   concreto   dal   competente
magistrato di sorveglianza e non precluso assolutamente», come invece
accade in ragione della  disposizione  di  ordinamento  penitenziario
della cui legittimita' costituzionale si dubita. 
    Grande rilievo viene attribuito alla giurisprudenza  della  Corte
costituzionale relativa al  superamento  degli  automatismi  e  delle
preclusioni assolute per la  concessione  dei  benefici  penitenziari
alle detenute madri di prole in tenera  eta'  (sentenza  n.  239  del
2014) e ai condannati  alla  pena  dell'ergastolo  per  sequestro  di
persona a scopo di estorsione che  abbiano  cagionato  la  morte  del
sequestrato (sentenza n. 149  del  2018).  Pronunce  di  cui  vengono
riprodotti ampi  passaggi,  seguendo  la  traccia  della  motivazione
disegnata  dalla  Corte  di  cassazione  nel  sollevare  le  analoghe
questioni in precedenza illustrate. 
    Il rimettente sottolinea in modo particolare che, in  materia  di
permessi  premio,  «i  dubbi  si   accrescono»,   alla   luce   della
peculiarita' del beneficio, per ottenere il  quale  sono  sufficienti
requisiti diversi e meno pregnanti del  ravvedimento,  richiesto  per
ottenere  la  liberazione  condizionale  (fattispecie  scrutinata  in
passato  dalla  Corte  costituzionale  «rispetto   alle   ostativita'
dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.»: e' richiamata la sentenza  n.
135 del 2003),  e  della  sua  «necessita'»  per  favorire  ulteriori
progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di cura di interessi
affettivi, culturali o lavorativi. 
    Il Tribunale di  sorveglianza  di  Perugia  ritiene,  dunque,  di
condividere  i  dubbi  sulla  legittimita'  costituzionale  dell'art.
4-bis, comma 1, ordin. penit. gia' espressi dalla Corte di cassazione
con l'ordinanza in precedenza ampiamente illustrata e di cui  riporta
ampi  stralci,  estendendo  pero'  la   questione   di   legittimita'
costituzionale «alla preclusione alla possibilita' di essere  ammesso
alla fruizione di un permesso premio  per  il  condannato  alla  pena
dell'ergastolo  che  abbia  commesso  delitti  con  la  finalita'  di
agevolazione di un gruppo criminale ex art.  416-bis  cod.  pen.  del
quale sia stato riconosciuto partecipe». 
    Anche in relazione a tale posizione, infatti, il  giudice  a  quo
dubita che sia compatibile con gli artt. 3 e 27  Cost.  «l'elevazione
della collaborazione con la giustizia a prova legale del  venir  meno
della  pericolosita'  sociale  del  condannato»,  impedendo  che   la
magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto  la  sussistenza
di tale «comportamento (di sicura centrale importanza), ma al  fianco
di altri  che  possono  avere  particolare  importanza».  Ricorda  il
rimettente, del resto,  che  anche  oggi,  pur  in  presenza  di  una
condotta di collaborazione rilevante ai sensi dell'art. 58-ter ordin.
penit., il tribunale di sorveglianza  e'  chiamato  a  verificare  in
concreto l'evoluzione personologica del condannato e anche le ragioni
che  lo  hanno  condotto  alla  collaborazione,   sicche',   con   la
proposizione delle questioni di legittimita' costituzionale in esame,
si chiede «che cio' possa farsi anche per l'opzione opposta», al fine
di  valutare  nel  caso  concreto  le  ragioni  che   hanno   indotto
l'interessato a mantenere il silenzio. 
    A  quest'ultimo  proposito,  ricorda  ancora  il   Tribunale   di
sorveglianza di Perugia che il diritto a  mantenere  il  silenzio  e'
stato di recente  scrutinato,  pur  su  altra  materia,  dalla  Corte
costituzionale (e' citata  l'ordinanza  n.  117  del  2019),  che  lo
avrebbe   considerato   principio    fondamentale    dell'ordinamento
costituzionale    e    descritto    come    «corollario    essenziale
dell'inviolabilita' del diritto di difesa, riconosciuto dall'art.  24
Cost.»,  in  quanto  tale  «appartenente  al   novero   dei   diritti
inalienabili della persona umana», quando  le  proprie  dichiarazioni
possano  rivelarsi  autoaccusatorie,  sicche'  esso  entrerebbe   «in
significativa frizione con un meccanismo che  impedisce  l'accesso  a
ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia». Per  questo  motivo,
sarebbe necessario poter valutare le ragioni che, «anche  al  di  la'
delle propalazioni autoaccusatorie», incidono  sulla  scelta  di  non
collaborare attivamente, quali: i timori per la  propria  e  l'altrui
incolumita', in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio,
non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i
reati; il rifiuto di causare la carcerazione di altri, con  i  quali,
ancora in via esemplificativa, si abbia o  si  sia  avuto  un  legame
familiare o affettivo; il rifiuto  di  accedere  alla  collaborazione
perche' non si vuole essere tacciati di  averlo  fatto  soltanto  per
calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per  ottenere  un
beneficio penitenziario. 
    Inoltre, il giudice a quo ritiene che il comma 1 dell'art. 4-bis,
ordin.  penit.,  non   distinguendo   tra   i   differenti   benefici
penitenziari, non consenta di valutare  le  peculiarita'  di  ciascun
istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come  prova
necessaria per dimostrare il ravvedimento del  condannato  (requisito
proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un  permesso
premio che presuppone, invece, «la piu' modesta regolare condotta». 
    Nella prospettiva del rimettente, il permesso premio  costituisce
uno  «strumento  fondamentale»  per  consentire  al   condannato   di
progredire  «nel  senso  di  responsabilita'  e  nella  capacita'  di
gestirsi nella legalita'», e allo stesso magistrato  di  sorveglianza
di vagliare i progressi trattamentali  compiuti  e  la  capacita'  di
reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale. 
    Anzi,  proprio  la  possibilita'  di  fruirne  nel  tempo  e  con
regolarita', «in assenza di eventuali  involuzioni  comportamentali»,
potrebbe far emergere «un sempre  piu'  convinto  allontanamento  dal
sistema di vita criminale in precedenza abbracciato», producendo  uno
«sradicamento  da   eventuali   contesti   sociali   controindicati»,
stimolando condotte collaborative e  fungendo  da  «sprone  verso  il
reinserimento», necessariamente prodromico alla concessione di misure
alternative. 
    Sotto una diversa angolazione, il  rimettente  evidenzia  che  il
permesso premio persegue anche l'obbiettivo peculiare  di  «garantire
all'interessato   l'esercizio   pieno    di    diritti,    altrimenti
legittimamente  compressi   dalla   condizione   detentiva»,   e   in
particolare il mantenimento o il  ristabilimento,  dopo  anche  lungo
tempo, delle  relazioni,  anche  intime,  con  la  famiglia.  Per  il
rimettente,  considerazioni   legate   alla   pericolosita'   sociale
individuale del condannato  «ben  possono,  e  debbono,  condurre  al
rigetto  di  un  beneficio  premiale»,  che  le  esigenze  da  ultimo
illustrate potrebbe soddisfare, ma la sussistenza di una  preclusione
assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto «e nel tempo
comunque rivedibile», appare «maggiormente  stridente  a  fronte  dei
diritti fondamentali compressi», anche tenuto conto  degli  interessi
«esterni ed eterogenei», costituiti dalle aspirazioni al mantenimento
dell'unita' familiare da parte del coniuge o convivente e dei  figli,
ma anche dei genitori di eta' avanzata. 
    Ancora, l'ordinanza  di  rimessione  concede  ampio  spazio  alle
affermazioni di principio - in tema di progressivita' trattamentale e
flessibilita' della pena - contenute nella sentenza n. 149  del  2018
della  Corte  costituzionale,  di  cui  vengono  riportati   numerosi
passaggi motivazionali, per evidenziare come l'art. 4-bis,  comma  1,
ordin. penit. svuoterebbe di significato anche  la  disciplina  della
liberazione anticipata, che nel caso di condannato  all'ergastolo  ha
come effetto  principale  quello  di  anticipare  i  termini  per  la
concessone dei singoli benefici, rappresentando uno  stimolo  per  il
detenuto  a  partecipare  al  programma  rieducativo:  nel  caso   di
ergastolo ostativo si  avrebbe,  infatti,  un  reale  disincentivo  a
partecipare al trattamento, non potendo il condannato in  alcun  modo
avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di  fruizione  di
benefici extramurari. 
    Il rimettente e' ben consapevole che la posizione soggettiva  del
reclamante nel giudizio principale e' quella di un  «intraneo  ad  un
gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod.  pen.»,  autore  di
omicidi volti a consentirne la sopravvivenza e agevolarne  gli  scopi
illeciti, e che, dunque, si tratta di un soggetto per  il  quale  «e'
particolarmente rilevante l'eventuale collaborazione con la giustizia
che,  secondo  regole  di  esperienza  trasfuse   in   una   costante
giurisprudenza», di legittimita' e  costituzionale,  costituisce  «la
piu' forte prova della rescissione del vincolo associativo  e  dunque
del  venir  meno  della  pericolosita'   sociale   dell'interessato».
Ritiene, tuttavia, che, anche  in  tal  caso,  nella  peculiare  fase
dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla  concessione  di
un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa,
si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.,  poiche'  impedisce
«il vaglio  di  altri  elementi  che  nel  caso  concreto  potrebbero
condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosita' sociale e
di  meritevolezza  dell'invocato  beneficio»,  secondo  un   giudizio
individualizzato  e  costantemente  attualizzato,  nel  rispetto  dei
principi di umanizzazione e funzione rieducativa delle pene. 
    Secondo  il  collegio  rimettente,  dalla  stessa  giurisprudenza
costituzionale     immediatamente     successiva     all'introduzione
dell'assoluta ostativita' di cui  all'art.  4-bis,  comma  1,  ordin.
penit. (sono richiamate le sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del  1997
e n. 504 del 1995), emergerebbe  la  «consapevolezza»  che  l'opzione
utilizzata dal legislatore, «espressione di una  scelta  di  politica
criminale»,  abbia  comportato  una  «rilevante  compressione   della
finalita'  rieducativa   della   pena»,   con   una   tendenza   alla
configurazione di «tipi d'autore per  i  quali  la  rieducazione  non
sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (e' richiamata la
sentenza n. 306 del 1993). Da allora, pero', la Corte  costituzionale
avrebbe   continuato   nell'opera   di   disvelamento   del    «volto
costituzionale della pena», passando, con riferimento alla  finalita'
rieducativa della stessa, da una lettura che collocava tale finalita'
paritariamente  tra  le  altre,  di  prevenzione  generale  e  difesa
sociale, alla considerazione che la particolare  gravita'  del  reato
commesso, con la connessa esigenza di lanciare un robusto segnale  di
deterrenza  nei  confronti  della  generalita'  dei  consociati,  non
possano, nella fase di esecuzione  della  pena,  «operare  in  chiave
distonica  rispetto  all'imperativo  costituzionale  della   funzione
rieducativa della pena medesima» (e' richiamata, ancora, la  sentenza
n. 149 del 2018,  di  cui  viene  sottolineato,  in  particolare,  il
passaggio   argomentativo   relativo   al   «principio   della    non
sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa  sull'altare  di  ogni
altra, pur legittima, funzione della pena»). 
    Per il giudice a quo, risulterebbero «[c]ompatibili con il quadro
costituzionale» soltanto valutazioni individualizzate, «che accolgano
l'elemento  della  collaborazione  con  la  giustizia  quale  segnale
eminente della rescissione del  vincolo  con  il  contesto  criminale
organizzato di appartenenza, ma non esclusivo», in modo da  garantire
alla  magistratura  di  sorveglianza  lo   spazio   per   un   vaglio
«approfondito  e  globale»  del  percorso  rieducativo  eventualmente
condotto dal richiedente i benefici  penitenziari,  alla  luce  della
peculiarita' della fase dell'esecuzione penale, che si sviluppa in un
tempo che progressivamente si allontana dal  reato  e,  mediante  gli
effetti  del  trattamento  penitenziario,  consente  di   «verificare
l'evoluzione  personologica  del  condannato  a   partire   dai   pur
gravissimi fatti commessi», peraltro a notevole distanza temporale da
questi ultimi, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore
per un simile riesame. 
    7.- Anche nel giudizio r.o. n. 135 del  2019  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata. 
    L'Avvocatura, oltre a richiamare  quanto  sostenuto  nel  proprio
atto di intervento nel giudizio r.o. n. 59  del  2019,  osserva,  per
sostenere il difetto di rilevanza della questione, che il  condannato
non ha mai addotto a sostegno della sua mancata collaborazione con la
giustizia  nessuna  delle  ragioni  astrattamente  ipotizzate   nella
ordinanza di rimessione come possibili motivazioni del suo  silenzio.
Anzi, emergerebbe dagli atti richiamati anche dal giudice  rimettente
che il condannato avrebbe chiesto  che  la  possibile  collaborazione
venisse dichiarata impossibile o inesigibile, ma che  tale  richiesta
sarebbe stata rigettata  con  motivata  ordinanza  del  tribunale  di
sorveglianza nell'anno 2012. 
    Secondo l'Avvocatura generale, dunque, se pure  e'  vero  che  la
rimozione della preclusione, attualmente  disposta  dall'art.  4-bis,
ordin. penit., potrebbe consentire al  condannato  di  fruire  di  un
permesso  premio,  previa  valutazione  da  parte  del  tribunale  di
sorveglianza dell'evoluzione della sua personalita',  e'  vero  anche
che  l'ordinanza  non  spiega  quali  siano  i  motivi   «in   ordine
all'effettiva concreta sussistenza, nella vicenda de qua,  di  quelle
ragioni alternative, rispetto alla collaborazione richiesta dall'art.
4 bis primo comma Ord. Pen., che, ad avviso del  Giudice  rimettente,
non consentirebbero di ritenere la mancata  collaborazione  idonea  a
rivelare - di per se' solo - la perdurante pericolosita' sociale  del
soggetto». 
    Ritiene ancora l'Avvocatura generale che la disciplina  censurata
riguarderebbe  «scelte  di  opportunita'  in  materia   di   politica
penitenziaria», su cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere,
rientrando esse nella discrezionalita' riservata al legislatore,  ove
non  esercitata  in  modo  arbitrario.  A  questo   proposito   viene
richiamata la sentenza n. 306 del 1993, che  avrebbe  esplicitato  le
ragioni di politica criminale  che  stanno  alla  base  della  scelta
legislativa, allora ritenuta dalla Corte non in conflitto con  l'art.
27 Cost. (vengono citate altresi' le sentenze n. 135 del 2001, n.  68
del 1995 e n. 357 del 1994). 
    L'Avvocatura conclude affermando che la scelta del legislatore di
subordinare  per  i  condannati  per  delitti  particolarmente  gravi
l'accesso  ai  benefici  penitenziari  alla  collaborazione  con   la
giustizia, quale unica forma  di  superamento  della  presunzione  di
pericolosita' sociale,  non  appare  viziata  da  irragionevolezza  o
contrastante con il principio rieducativo  della  pena,  per  cui  un
eventuale intervento della Corte, incidendo su  valutazioni  affidate
alla  discrezionalita'  del  legislatore,   «risulterebbe   eccedente
rispetto ai poteri alla stessa attribuiti». 
    8.- In data 9 settembre 2019 si  e'  costituito  in  giudizio  il
detenuto  P.  P.,  ricorrente   nel   giudizio   a   quo,   chiedendo
l'accoglimento delle questioni prospettate. 
    La parte ripercorre, condividendolo,  il  percorso  motivazionale
dell'ordinanza di rimessione ed  evidenzia  che,  successivamente  al
deposito della stessa,  e'  stata  pronunciata  dalla  Corte  EDU  la
sentenza 13 giugno 2019, Viola  contro  Italia,  di  cui  richiama  i
contenuti e che viene definita «quasi-pilota, considerati i numeri  e
il dato strutturale dell'ergastolo ostativo». 
    P. P. chiede, inoltre, alla Corte «di valutare l'opportunita'  di
estendere la sua pronuncia, ex art. 27, L. n. 87 del 1953, all'art. 4
bis, comma 1, o. p., nella parte in cui subordina alla collaborazione
utile ed esigibile con la giustizia l'accesso alle misure alternative
alla detenzione previste dal  capo  VI  dell'o.p.  (e  tra  esse,  la
liberazione condizionale, secondo il consolidato diritto vivente)». 
    8.1.- In data 1° ottobre 2019, la parte ha depositato una memoria
in cui evidenzia, in risposta  al  rilievo  dell'Avvocatura  generale
dello Stato per cui il detenuto non avrebbe  esplicitato  le  ragioni
della mancata collaborazione, che il  Tribunale  di  sorveglianza  di
Perugia, nel sollevare le questioni di  legittimita'  costituzionale,
ha richiamato l'ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del  2019
sulla inviolabilita' del diritto di difesa e del diritto al silenzio,
sottolineando che non poteva pretendersi dal condannato la violazione
del principio nemo tenetur se detegere. 
    Richiama poi il percorso del  programma  trattamentale  tracciato
per il detenuto, insieme ai risultati conseguiti, dai quali ultimi il
giudice potrebbe valutare,  una  volta  superata  la  preclusione  di
legge,  l'effettiva  persistenza,  o  non,  della  pericolosita'  del
condannato. 
    Contesta, poi, la deduzione dell'Avvocatura generale, secondo cui
l'accoglimento  della  questione   di   legittimita'   costituzionale
sollevata determinerebbe una irragionevole disparita' di  trattamento
tra detenuti condannati all'ergastolo e detenuti  condannati,  per  i
medesimi  titoli  di  reato,  a  pene  temporanee,   sostenendo   che
spetterebbe al legislatore individuare  gli  opportuni  rimedi  (come
gia' riconosciuto dalla sentenza n. 149 del 2018). 
    La parte conclude ritenendo che alcun sostegno potrebbe apportare
alla  tesi  dell'Avvocatura  generale  dello   Stato   la   (pur   da
quest'ultima   richiamata)   sentenza   n.   188   del   2019,   che,
nell'evidenziare la disomogeneita' delle scelte di politica criminale
che,  nel  corso  del  tempo,  hanno  ampliato  il   catalogo   delle
fattispecie  ostative  per  finalita'  di  prevenzione  generale,  si
sarebbe limitata a scattare «una fotografia  dell'attuale  situazione
normativa». In ogni caso, evidenzia la parte, vi  sarebbe  differenza
tra «il rimuovere una fattispecie dai delitti di prima fascia (l'art.
630 c.p., ove sia stata ritenuta l'ipotesi gradata [...]) e,  invece,
rimuovere una preclusione assoluta per l'accesso ai benefici». 
    9.- Nel giudizio e' intervenuto, con atto del 4  settembre  2019,
il Garante nazionale dei diritti delle  persone  detenute  o  private
della liberta'  personale,  assumendo,  in  primo  luogo,  di  essere
titolare di un interesse qualificato, tale da integrare il  requisito
richiesto   dalla   giurisprudenza   costituzionale   per   ammettere
l'intervento in giudizio. 
    In ordine  alla  titolarita'  di  un  interesse  qualificato,  il
Garante nazionale rappresenta  di  essere  stato  istituito  per  «la
necessita'  di  rafforzare  la  tutela  dei  diritti  delle   persone
detenute» ed e' caratterizzato da «specifici requisiti di autonomia e
indipendenza  nonche'  di  competenza  riservata   nelle   discipline
concernenti i diritti umani e la loro  tutela».  Sempre  allo  stesso
scopo, vengono richiamati i compiti  espressamente  attribuiti  dalla
legge istitutiva. 
    L'interveniente conclude per l'accoglimento  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale  di  sorveglianza
di Perugia, associandosi alla richiesta, avanzata dalla parte P.  P.,
di estendere la pronuncia  di  accoglimento  all'art.  4-bis,  ordin.
penit., nella parte in cui subordina  alla  collaborazione  utile  ed
esigibile con la giustizia l'accesso  alle  misure  alternative  alla
detenzione. 
    10.- Nel giudizio e' intervenuta, infine, l'Unione camere  penali
italiane (UCPI), con atto  depositato  in  data  10  settembre  2019,
assumendo di essere titolare di un interesse specifico e  qualificato
ad  intervenire  quale  soggetto  terzo  nel  giudizio,   in   quanto
associazione rappresentativa dell'avvocatura penale che ha come scopo
statutario quello di «promuovere la  conoscenza,  la  diffusione,  la
concreta realizzazione  e  la  tutela  dei  valori  fondamentali  del
diritto penale e del giusto processo»,  nonche'  di  «vigilare  sulla
corretta applicazione della legge». 
    L'UCPI ha concluso chiedendo l'accoglimento  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale  di  sorveglianza
di Perugia. 
    In data 1° ottobre 2019, l'UCPI ha depositato una memoria in  cui
ha sviluppato gli argomenti  in  base  ai  quali  ha  rivendicato  la
sussistenza di un interesse specifico e  qualificato  ad  intervenire
quale soggetto terzo nel giudizio a quo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019),  la
Corte  di  cassazione  ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della  Costituzione,
dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), «nella parte in  cui  esclude
che il condannato all'ergastolo,  per  delitti  commessi  avvalendosi
delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di
agevolare l'attivita' delle associazioni in esso  previste,  che  non
abbia  collaborato  con  la  giustizia,  possa  essere  ammesso  alla
fruizione di un permesso premio». 
    Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. violi l'art. 3 Cost. sotto  il  profilo  della
ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione assoluta»
di accesso ai benefici penitenziari, e  in  particolare  al  permesso
premio, per il condannato - non collaborante con la giustizia  -  per
reati  cosiddetti  di  "contesto  mafioso",  che  non   presuppongono
l'affiliazione  ad  una  associazione   mafiosa.   Tale   preclusione
impedirebbe al magistrato di sorveglianza  qualunque  valutazione  in
concreto sulla pericolosita' del condannato, determinando  in  limine
l'inammissibilita' di ogni richiesta di quest'ultimo di  accedere  ai
benefici penitenziari. 
    La Corte di cassazione opera un richiamo alla  giurisprudenza  di
questa  Corte  sugli  "automatismi"  nell'applicazione  delle  misure
cautelari   personali,   secondo   la   quale   la   presunzione   di
pericolosita', che impone l'applicazione della misura  custodiale  in
carcere, trova giustificazione -  sulla  base  di  dati  d'esperienza
generalizzati, riassumibili  nella  formula  dell'id  quod  plerumque
accidit - solo per l'affiliato all'associazione mafiosa, ma la stessa
giustificazione non trova in relazione ai condannati  per  reati  che
tale affiliazione non presuppongono. 
    Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell'esecuzione della
pena,  ritiene,  appunto,  irragionevole  la  «preclusione  assoluta»
contenuta   nella   disposizione   censurata,   poiche'   essa    non
consentirebbe di distinguere tra gli  affiliati  a  un'organizzazione
mafiosa, da una parte, e, dall'altra, gli autori di delitti  commessi
avvalendosi delle condizioni  di  cui  all'art.  416-bis  del  codice
penale, ovvero al fine di agevolare  l'attivita'  delle  associazioni
previste dalla stessa norma. 
    L'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non si baserebbe, per questo
aspetto,  su  dati  d'esperienza  generalizzati,  riassumibili  nella
formula  dell'id  quod  plerumque  accidit,  e  percio'   impedirebbe
incongruamente  al  magistrato  di  sorveglianza  di   svolgere   una
valutazione  in  concreto  sulla  pericolosita'  del  condannato  che
richiede il permesso premio. 
    In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l'art. 27,  terzo
comma, Cost.,  in  quanto  la  disposizione  censurata  frustrerebbe,
impedendo in radice al condannato l'accesso ai benefici penitenziari,
gli   obiettivi   di   risocializzazione   evocati   dal    parametro
costituzionale in questione,  anche  in  virtu'  dei  principi  della
progressivita' trattamentale e della flessibilita' della  pena  (sono
evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del 2018, n. 76 del  2017
e n. 239 del 2014 di questa Corte). 
    Infine - premesse considerazioni critiche sul rilievo  attribuito
dalla disposizione  censurata  alla  scelta  di  collaborare  con  la
giustizia  quale  «prova  legale  esclusiva   di   ravvedimento»,   e
soprattutto dell'assenza di pericolosita' sociale del condannato - il
giudice a quo ritiene che  i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale
sollevati aumentino «sol  che  si  considerino  le  peculiarita'  del
permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen.», finalizzato alla  cura  di
interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del  quale
e' legata a valutazioni del tutto specifiche. 
    2.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del  2019),  il
Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a  sua  volta  sollevato,  in
riferimento agli artt.  3  e  27  Cost.,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.  «nella  parte
in cui esclude che il condannato all'ergastolo per  delitti  commessi
al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione  a  delinquere  ex
art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa  essere
ammesso alla fruizione di un permesso premio». 
    Chiamato a decidere il reclamo di  un  detenuto  condannato  alla
pena dell'ergastolo per il delitto di cui all'art. 416-bis cod.  pen.
e per vari delitti di "contesto mafioso", al quale il  magistrato  di
sorveglianza aveva negato la concessione di  un  permesso  premio  in
assenza di collaborazione con la giustizia, il rimettente dubita  che
l'obbligo di collaborare con  la  giustizia  per  poter  accedere  ai
benefici previsti dall'ordinamento penitenziario (e, in  particolare,
ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3  e  27  Cost.,  a
prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto. 
    Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per  reati  di
"contesto mafioso", anche per il delitto di associazione mafiosa,  il
giudice a quo segue  un  percorso  argomentativo  diverso  da  quello
dell'ordinanza illustrata in precedenza. 
    Ritiene infatti il Tribunale  di  sorveglianza  di  Perugia  che,
anche nel caso  dell'associato  ex  art.  416-bis  cod.  pen.,  nella
peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione  assoluta  alla
concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta
collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli
artt. 3 e 27 Cost., poiche' impedirebbe il vaglio di elementi che, in
concreto,   potrebbero   condurre   ugualmente   a    un    giudizio,
individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosita' sociale. 
    Osserva che non si comprende per quale  motivo  sia  precluso  al
giudice di  sorveglianza,  chiamato  a  verificare  l'evoluzione  del
detenuto, di verificare, in concreto, «le ragioni che  hanno  indotto
l'interessato a non collaborare,  cioe'  a  mantenere  il  silenzio»,
evocato non quale mero  atteggiamento,  ma  nel  suo  significato  di
diritto  inviolabile  a  non  accusare  se'  stessi  (e'   richiamata
l'ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte). 
    Analogamente  all'ordinanza  della  Corte   di   cassazione,   il
rimettente evidenzia inoltre come la finalita' rieducativa della pena
sarebbe vanificata dall'impossibilita' di ottenere permessi premio, i
quali costituiscono «uno strumento  fondamentale  per  consentire  al
condannato di progredire nel senso di responsabilita' e di  capacita'
di gestirsi nella legalita',  e  al  magistrato  di  sorveglianza  di
vagliare  i  progressi  trattamentali  compiuti  e  la  capacita'  di
reinserirsi,  per  quanto  brevemente,  nel  tessuto  sociale»  (sono
richiamate le sentenze n. 149 del 2018 e n. 403 del  1997  di  questa
Corte). I permessi premio, ricorda il  rimettente,  consentono  anche
«l'esercizio pieno di diritti», tra i quali  «il  mantenimento  o  il
ristabilimento, dopo  anche  lungo  tempo,  delle  relazioni  con  la
famiglia». 
    Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea,  quindi,  con
ulteriore richiamo alla sentenza n. 149 del 2018, che la disposizione
colliderebbe con l'art. 27 Cost. anche  perche'  l'impossibilita'  di
ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione
costituirebbe  un  disincentivo  alla   stessa   partecipazione   del
condannato  al   percorso   rieducativo   connesso   al   trattamento
penitenziario, con evidente mortificazione  degli  obiettivi  che  la
norma costituzionale si pone. 
    Infine - anche su questo  aspetto  distinguendosi  dall'ordinanza
della Corte di cassazione - il rimettente sottolinea la  peculiarita'
dell'esecuzione  penale  rispetto   alla   fase   cautelare:   mentre
quest'ultima  potrebbe  infatti  tollerare  qualche  presunzione,  la
prima,  sviluppandosi  lungo   un   arco   temporale   piu'   esteso,
richiederebbe una valutazione costante dell'evoluzione  personologica
del condannato, che tenga conto del trascorrere  del  tempo  e  della
distanza dal reato commesso. 
    3.- Sebbene presentino profili di parziale  differenziazione  nei
percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione  censurano  la
stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I
relativi  giudizi  vanno  percio'  riuniti,  per  essere  decisi  con
un'unica pronuncia. 
    4.- In via preliminare, va confermata l'ordinanza  dibattimentale
allegata alla presente  sentenza,  che  ha  dichiarato  inammissibili
tutti gli interventi spiegati da soggetti  diversi  dalle  parti  dei
giudizi principali. 
    5.-  Sempre  in  via  preliminare,  devono  essere  correttamente
definiti  il  thema  decidendum  e  i  termini  delle  questioni   di
legittimita' costituzionale portate all'attenzione  di  questa  Corte
dalle ordinanze di rimessione illustrate. 
    5.1.- In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la  parte
S. C. ha prospettato, nell'atto di costituzione, anche la  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost.,  in  relazione  all'art.  3  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Trattasi, pero', di censura che il  collegio  rimettente  non  ha
inteso  proporre  nell'atto  di  promovimento.  Secondo  la  costante
giurisprudenza  di  questa  Corte,  non  possono  essere   presi   in
considerazione ulteriori  profili  di  illegittimita'  costituzionale
dedotti dalle parti oltre i limiti dell'ordinanza  di  rimessione;  e
cio', sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a
quo, sia che siano diretti ad ampliare o  modificare  successivamente
il thema decidendum, una volta che le parti si siano  costituite  nel
giudizio incidentale di  costituzionalita'  (ex  multis,  da  ultimo,
sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019). 
    Di tale censura questa Corte non deve percio' occuparsi. 
    5.2.-  In   secondo   luogo,   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale   sollevate    non    riguardano    la    legittimita'
costituzionale della  disciplina  relativa  al  cosiddetto  ergastolo
ostativo, sulla cui compatibilita' con la CEDU  si  e',  di  recente,
soffermata la Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 13 giugno
2019, Viola contro Italia. 
    Questo sarebbe stato l'oggetto delle  presenti  questioni  se  le
ordinanze di rimessione avessero censurato - oltre che l'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. - anche la previsione contenuta  nell'art.  2,
comma 2, del decreto-legge 13  maggio  1991,  n.  152  (Provvedimenti
urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'  organizzata  e   di
trasparenza  e   buon   andamento   dell'attivita'   amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio  1991,  n.  203,
che, richiamando l'art. 176 cod. pen., non consente di  concedere  la
liberazione  condizionale  al  condannato   all'ergastolo   che   non
collabora con la giustizia e che abbia gia'  scontato  ventisei  anni
effettivi di carcere, cosi' trasformando la pena perpetua de iure  in
una pena perpetua anche de facto. 
    Le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  ora   in   esame
attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una  condanna
a una determinata pena, bensi'  a  quella  di  colui  che  ha  subito
condanna (all'ergastolo, in entrambi i giudizi a  quibus)  per  reati
cosiddetti ostativi, in specie i  delitti  di  associazione  di  tipo
mafioso ai sensi dell'art.  416-bis  cod.  pen.,  e  quelli  commessi
avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso  articolo,  ovvero
al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste. 
    Infatti, e' portato all'attenzione di questa Corte l'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i  delitti
che esso elenca - si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena
temporanea - impedisce  l'accesso  ai  benefici  penitenziari,  e  in
special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con  la
giustizia ai  sensi  dell'art.  58-ter  ordin.  penit.  (secondo  cui
l'utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell'essersi
adoperati per  evitare  che  l'attivita'  delittuosa  sia  portata  a
conseguenze ulteriori ovvero nell'aiutare  concretamente  l'autorita'
di polizia o  l'autorita'  giudiziaria  nella  raccolta  di  elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione  o  la
cattura degli autori dei reati). 
    I  giudici  a  quibus,  per  parte  loro,  hanno  "costruito"  le
questioni   di   legittimita'   costituzionale   modellandole   sulle
fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di
accesso al  permesso  premio  riguardava  due  condannati  alla  pena
dell'ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma questa Corte  non
deve risolvere tali  specifici  giudizi,  bensi'  pronunciarsi  sulla
disposizione di legge censurata, decidendo questioni di  legittimita'
costituzionale rilevanti in quei giudizi. 
    Tali questioni riguardano percio' l'art. 4-bis, comma  1,  ordin.
penit., in quanto recante una disciplina  da  applicarsi  a  tutti  i
condannati,  a  pena  perpetua  o  temporanea,   per   i   reati   di
partecipazione ad associazione mafiosa e di "contesto  mafioso".  Per
tutti costoro, infatti,  la  disposizione  censurata  dai  rimettenti
richiede la collaborazione con  la  giustizia  quale  condizione  per
l'accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilita'  dei
benefici penitenziari. 
    5.3.- Infine, nei processi a quibus si fa  questione  della  sola
possibilita' di concessione, ai detenuti, di un permesso premio,  non
di altri benefici. 
    Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe  le
ordinanze di rimessione precisano che l'art. 4-bis, comma  1,  ordin.
penit. e' censurato nella sola parte in cui esclude che i  condannati
per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia,  possano
essere ammessi  alla  fruizione  dello  specifico  beneficio  di  cui
all'art. 30-ter ordin. penit. 
    Del resto, non solo i rimettenti, come  si  diceva,  limitano  le
proprie censure alla impossibilita' -  determinata  dall'art.  4-bis,
comma  1,  ordin.  penit.  -  di  accedere  al  permesso  premio,  ad
esclusione, percio', di qualunque  riferimento  agli  altri  benefici
penitenziari; ma e' lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.  ad
elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi  ai
detenuti per  determinati  reati  (nonche'  agli  internati,  la  cui
posizione non e'  in  discussione  nel  presente  giudizio)  che  non
collaborano con la giustizia: sicche' unicamente del permesso  premio
si fa qui questione. 
    5.4.- Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27  Cost.,
censurano l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in  quanto  introduce
una presunzione assoluta di mancata rescissione  dei  legami  con  la
criminalita' organizzata a  carico  del  condannato  -  per  i  reati
precisati - che non collabori con la  giustizia  ai  sensi  dell'art.
58-ter del medesimo ordin. penit. 
    Proprio in virtu' di tale presunzione,  assoluta  in  quanto  non
superabile  se  non  dalla  collaborazione  stessa,  la  disposizione
attualmente vigente fa si' che le richieste di un  tale  detenuto  di
accedere  allo  specifico  beneficio  del  permesso  premio   debbano
dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un
vaglio in concreto  da  parte  del  magistrato  di  sorveglianza  (in
disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante). 
    Se tutto cio' sia conforme ai  parametri  costituzionali  evocati
e', in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni
di legittimita' costituzionale. 
    6.- Ancora in via preliminare, deve essere  vagliata  l'eccezione
di   inammissibilita'   per   difetto   di   rilevanza    prospettata
dall'Avvocatura generale dello Stato  con  specifico  riferimento  al
giudizio  instaurato  dall'ordinanza  (r.o.  n.  135  del  2019)  del
Tribunale di sorveglianza di Perugia. 
    Lamenta,  in  particolare,  l'Avvocatura  dello  Stato   che   il
rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la
scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia. 
    Il giudice a quo, in effetti, pur  dando  atto  che  la  condotta
collaborativa costituisce manifestazione del  distacco  del  detenuto
dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa  per  cio'
solo dirsi che tale  condotta  «sia  davvero  l'unica  "prova  legale
esclusiva di ravvedimento",  perche'  sono  plurime  le  ragioni  che
possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste  ragioni
enumera, trattandone in astratto  e  in  via  di  mera  ipotesi:  «il
rischio per la propria incolumita' e per quella dei propri congiunti,
il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei  confronti
di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il  ripudio
di  una  collaborazione  che  rischi  di  apparire  strumentale  alla
concessione di un beneficio». 
    L'Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di
tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non
abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni  per  giustificare  la
propria mancata collaborazione.  Dal  che  deriverebbe,  appunto,  il
difetto di rilevanza delle questioni sollevate,  poiche',  anche  nel
caso di  una  pronuncia  di  accoglimento,  una  tale  decisione  non
spiegherebbe effetti nel processo a quo. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Sostiene,  invero,  il  rimettente  che  solo  se  questa   Corte
accogliesse le questioni - "smontando" il  carattere  assoluto  della
presunzione di  pericolosita'  del  detenuto  che  non  collabora,  e
permettendo cosi' che la prova dell'avvenuto distacco  dal  sodalizio
criminale sia fornita altrimenti -  il  magistrato  di  sorveglianza,
investito della richiesta di accesso al beneficio,  potrebbe  allora,
in concreto,  verificare  le  vere  ragioni  che  hanno  condotto  il
detenuto alla scelta di non collaborare. 
    Questa  affermazione  si  pone,  in  effetti,  nel  solco   della
giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis,
sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del  2011)  e'
ricorrente l'affermazione secondo  cui,  per  l'ammissibilita'  delle
questioni   di   legittimita'   costituzionale   sollevate   in   via
incidentale,  e'  sufficiente  che  la  disposizione  censurata   sia
applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una
eventuale pronuncia di illegittimita' costituzionale per le parti  in
causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019). 
    Del resto, anche nella prospettiva di un piu' diffuso accesso  al
sindacato di costituzionalita' (messa in  risalto,  tra  le  pronunce
piu' recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una  piu'  efficace
garanzia della conformita' a Costituzione della legislazione (profilo
valorizzato,  da  ultimo,  nella  sentenza  n.  174  del  2019),   il
presupposto della rilevanza non si identifica con l'utilita' concreta
di cui le parti in  causa  potrebbero  beneficiare  a  seguito  della
decisione (sentenza n. 20 del 2018). 
    Soprattutto, con specifico riferimento alle  presenti  questioni,
va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice  e'
chiamato a fare  applicazione  di  una  disciplina  che  predetermina
l'esito del processo, nel senso dell'inammissibilita' della richiesta
di accesso al beneficio del permesso premio da parte  del  condannato
non  collaborante.  Invece,  nell'ipotesi   di   accoglimento   delle
sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere  secondo  una
diversa  regola  di  giudizio,  attingendola  dalla   disciplina   di
riferimento,   privata   della   norma    in    ipotesi    dichiarata
incostituzionale. E quand'anche l'esito del giudizio  a  quo  sia  il
medesimo - la non concessione del permesso premio - la  pronuncia  di
questa Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo  che  il
rimettente  dovrebbe  a  questo  punto  seguire  per  decidere  sulla
richiesta del detenuto (tra  le  molte,  sentenza  n.  28  del  2010,
nonche', con riferimento  alle  questioni  relative  alle  cosiddette
norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del  2004  e
n. 148 del 1983). 
    7.- Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno  scrutinare
in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale  di  sorveglianza
di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato  sia
per partecipazione all'associazione  di  cui  all'art.  416-bis  cod.
pen., sia per reati di "contesto mafioso", la decisione  su  di  esse
potrebbe  assorbire  quelle  sollevate  dalla  Corte  di   cassazione
esclusivamente  in  riferimento  al  condannato  per  questi   ultimi
delitti. 
    Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati. 
    7.1.- «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale  che
indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi  a  modificare,
secondo una linea di progressivo  inasprimento,  l'art.  4-bis  della
legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del  1995),  riversando
cosi'  tali  ragioni  all'interno  dell'ordinamento  penitenziario  e
dell'esecuzione della pena. 
    Nella prima versione - introdotta dall'art. 1 del d.l. n. 152 del
1991, come convertito - l'art.  4-bis  ordin.  penit.  prevedeva  due
distinte "fasce" di condannati,  a  seconda  della  riconducibilita',
piu' o meno diretta, dei titoli di  reato  a  fatti  di  criminalita'
organizzata o eversiva. 
    Per i reati "di prima fascia" -  comprendenti  l'associazione  di
tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro di persona
a scopo di estorsione e l'associazione finalizzata al narcotraffico -
l'accesso a taluni benefici previsti  dall'ordinamento  penitenziario
era   possibile,   alla   stregua   di   un   parametro    probatorio
particolarmente elevato, solo se fossero  stati  acquisiti  «elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata o eversiva». 
    Per i reati "di seconda fascia" (omicidio, rapina  ed  estorsione
aggravate, nonche' produzione e  traffico  di  ingenti  quantita'  di
stupefacenti: «delitti, questi, per i quali  le  connessioni  con  la
criminalita' organizzata erano, nella  valutazione  del  legislatore,
meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del  2018)
si richiedeva - in termini inversi, dal punto di vista  probatorio  -
l'insussistenza di  elementi  tali  da  far  ritenere  attuali  detti
collegamenti. 
    Accanto  a  questa  distinzione  di  fondo,  singole   previsioni
stabilivano, quale ulteriore requisito per l'ammissione  a  specifici
benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati  avessero
espiato un periodo minimo di pena piu' elevato dell'ordinario, a meno
che non si trattasse  di  persone  che  avevano  collaborato  con  la
giustizia,  secondo  la  nuova  previsione  dell'art.  58-ter  ordin.
penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991,  come  convertito,  aveva
introdotto nella legge penitenziaria del 1975. 
    In questa prima fase, dunque, il trattamento  di  maggior  rigore
per  i  condannati  per  reati  di  criminalita'  organizzata  veniva
realizzato su due piani,  fra  loro  complementari.  Come  spiega  la
sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale  presupposto
generale per  l'applicabilita'  di  alcuni  istituti  di  favore,  la
necessita' di accertare (alla stregua di una  graduazione  probatoria
differenziata a seconda delle "fasce"  di  condannati)  l'assenza  di
collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva;  dall'altro,
si postulava, attraverso l'introduzione o l'innalzamento dei  livelli
minimi di pena gia' espiata, un requisito specifico per  l'ammissione
ai singoli benefici, fondato sulla necessita' di  verificare  per  un
tempo piu' adeguato  l'effettivo  percorso  di  risocializzazione  di
quanti si fossero macchiati di delitti  iscrivibili  nell'area  della
criminalita' organizzata o eversiva.  Requisito,  a  sua  volta,  dal
quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in
cui fosse lo stesso  condannato  ad  offrire  prova  dell'intervenuto
distacco  dal  circuito  criminale  attraverso  la  propria  condotta
collaborativa». 
    Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un
evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato  «a  finalita'
di prevenzione generale  e  di  tutela  della  sicurezza  collettiva»
(sentenza n. 306 del 1993). 
    L'art. 15 del decreto-legge 8  giugno  1992,  n.  306  (Modifiche
urgenti al nuovo  codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di
contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con  modificazioni,
nella legge  7  agosto  1992,  n.  356,  apporta  decisive  modifiche
all'art. 4-bis della legge  n.  354  del  1975.  Per  quel  che  piu'
direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i  reati
appartenenti alla prima "fascia", si stabilisce che l'assegnazione al
lavoro all'esterno, i permessi premio e le  misure  alternative  alla
detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere
concessi solo nei casi di  collaborazione  con  la  giustizia  (fatte
salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono  applicabili  anche
se la collaborazione offerta  risulti  oggettivamente  impossibile  o
irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da
escludere in maniera  certa  l'attualita'  dei  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata). 
    Restano sullo sfondo i  diversi  parametri  probatori,  alla  cui
stregua condurre l'accertamento circa la permanenza,  nel  condannato
che aspira ai benefici penitenziari, di legami  con  la  criminalita'
organizzata; e acquisisce  invece  risalto  esclusivo  una  condotta,
quella della collaborazione con la giustizia, assunta  come  la  sola
idonea  a   dimostrare,   per   facta   concludentia,   l'intervenuta
rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del  1995:
si passa «da un sistema fondato su di un regime di  prova  rafforzata
per accertare l'inesistenza di una condizione negativa  (assenza  dei
collegamenti con la criminalita'  organizzata),  ad  un  modello  che
introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile  soltanto
attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)». 
    Come mette in  luce  la  sentenza  n.  239  del  2014,  la  nuova
disciplina  poggia  insomma  sulla  presunzione  legislativa  che  la
commissione   di   determinati   delitti   dimostri    l'appartenenza
dell'autore alla criminalita' organizzata, o il suo collegamento  con
la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosita'  sociale
incompatibile   con   l'ammissione   del   condannato   ai   benefici
penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con  la  giustizia
viene correlativamente  assunta  come  la  sola  idonea  a  rimuovere
l'ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in  ragione  della
sua valenza "rescissoria" del legame con il sodalizio  criminale.  Si
coniuga a cio'  -  assumendo,  in  fatto,  un  rilievo  preminente  -
l'obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e  di  politica
criminale generale, la collaborazione con la giustizia  dei  soggetti
appartenenti o "contigui" ad associazioni criminose, che appare  come
strumento essenziale per la lotta alla criminalita' organizzata. 
    Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la
presunzione  assoluta  che  i   collegamenti   con   l'organizzazione
criminale siano mantenuti ed  attuali,  ricavandosene  la  permanente
pericolosita' del condannato,  con  conseguente  inaccessibilita'  ai
benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti. 
    Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n.  68
del 1995, n. 357 del  1994  e  n.  306  del  1993),  il  comma  1-bis
dell'art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilita' di  accesso  ai
benefici ai casi in cui  un'utile  collaborazione  con  la  giustizia
risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al
fatto  criminoso  accertata  nella  sentenza  di   condanna,   ovvero
impossibile,  per  l'integrale  accertamento  dei   fatti   e   delle
responsabilita', operato con la  sentenza  irrevocabile;  nonche'  ai
casi in cui  la  collaborazione  offerta  dal  condannato  si  riveli
«oggettivamente irrilevante», sempre che, in  questa  evenienza,  sia
stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti  di
cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi
dianzi  indicate  occorre,  peraltro,  che  «siano  stati   acquisiti
elementi tali  da  escludere  l'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva». 
    7.2.- La  presunzione  dell'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata, cosi' introdotta nell'art. 4-bis, comma  1,
ordin. penit. e' assoluta, nel senso che non puo' essere superata  da
altro  se  non  dalla  collaborazione  stessa.  Quest'ultima,  per  i
condannati per i delitti ricordati,  e'  l'unico  elemento  che  puo'
consentire   l'accesso   ai   benefici   previsti    dall'ordinamento
penitenziario. E' cosi' introdotto un trattamento distinto rispetto a
quello che vale per tutti gli altri detenuti. 
    In questi specifici termini deve essere precisata  la  precedente
giurisprudenza  di  questa  Corte,  che  ha  sostenuto  non   potersi
qualificare questa disciplina come  «"costrizione"  alla  delazione»,
poiche'  spetta  al  detenuto  adottare  o  meno  quel  comportamento
(sentenza n. 39 del 1994). 
    A ben guardare, l'inaccessibilita' ai benefici penitenziari,  per
il detenuto che non collabora, non e' un vero automatismo, poiche' e'
lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a  poter  spezzare  la
consequenzialita' della disposizione censurata. L'inaccessibilita' ai
benefici penitenziari e' insomma una  preclusione  che  non  discende
automaticamente dall'art. 4-bis, comma 1, ordin.  penit.  «ma  deriva
dalla scelta del condannato di non  collaborare,  pur  essendo  nelle
condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003). 
    Purtuttavia,  la  presunzione  della  mancata   rescissione   dei
collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata,  che  incombe   sul
detenuto non collaborante,  e'  assoluta,  perche'  non  puo'  essere
superata da altro, se non dalla collaborazione  stessa.  E,  come  si
chiarira', e'  proprio  questo  carattere  assoluto  a  risultare  in
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 
    7.3.- Nella sentenza n. 306 del 1993, che questa Corte pronuncio'
a breve distanza dall'entrata in vigore della  disciplina  introdotta
dal d.l. n. 306 del  1992,  come  convertito,  si  riconosce  che  il
requisito della collaborazione, quale  condizione  per  l'accesso  ai
benefici penitenziari, «e' essenzialmente espressione di  una  scelta
di  politica  criminale»,  adottata  per  finalita'  di   prevenzione
generale e di sicurezza collettiva. 
    Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta  alla
necessita' di contrastare una criminalita' organizzata «aggressiva  e
diffusa»,  la  sentenza  non  condivide  la  tesi,  sostenuta   nella
relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo
cui la decisione di collaborare e' la sola ad esprimere con  certezza
la «volonta' di emenda» del condannato, sicche' essa assumerebbe  una
valenza  anche  "penitenziaria",  non  estranea  al  principio  della
funzione rieducativa della pena («e' solo la scelta collaborativa  ad
esprimere  con  certezza  quella  volonta'  di  emenda  che  l'intero
ordinamento penale deve tendere a  realizzare»:  cosi'  la  relazione
presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del  1992
- atto n. 328). 
    Su questo profilo, la  sentenza  sottolineo'  che  l'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. non puo' essere presentato sotto le  vesti  di
una   disposizione   di   natura   "penitenziaria",    giacche'    la
collaborazione con la giustizia non  necessariamente  e'  sintomo  di
credibile ravvedimento, cosi'  come  il  suo  contrario  (la  mancata
collaborazione) non puo' assurgere a insuperabile  indice  legale  di
mancato   ravvedimento    o    "emenda",    secondo    una    lettura
"correzionalistica" della rieducazione: «non puo' non convenirsi  con
i  giudici  a  quibus  quando   sostengono   che   la   condotta   di
collaborazione  ben  puo'   essere   frutto   di   mere   valutazioni
utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non
anche segno di effettiva risocializzazione». 
    Sono  argomenti,  questi  ultimi,  considerati,   sia   pur   con
riferimento a un  diverso  beneficio,  dalla  Corte  EDU  nella  gia'
ricordata sentenza Viola, nelle  parti  espressamente  dedicate  alla
collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a  critica  una
disposizione  che  assume  iuris  et  de  iure   la   permanenza   di
collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva
aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente  di
abbandono della scelta di vita originaria,  quando  in  realta'  essa
potrebbe  essere  dovuta  a   molte   altre   ragioni,   non   sempre
commendevoli. 
    Quel  che  piu'  conta,  la  sentenza  n.  306  del  1993  -  pur
dichiarando, tra l'altro, non fondate le questioni  allora  sollevate
sull'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit,  in  relazione  all'art.  27,
terzo comma, Cost. -  osservo'  che  inibire  l'accesso  ai  benefici
penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i  quali  non
collaborino con la giustizia, comporta una  «rilevante  compressione»
della finalita' rieducativa della pena: «la tipizzazione  per  titoli
di  reato  non  appare  consona  ai  principi  di  proporzione  e  di
individualizzazione della  pena  che  caratterizzano  il  trattamento
penitenziario,  mentre   appare   preoccupante   la   tendenza   alla
configurazione  normativa  di  "tipi  d'autore",  per  i   quali   la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere  perseguita»
in caso di mancata collaborazione. 
    8.- Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono  oggi
all'accoglimento delle questioni sollevate, nei termini  che  ora  si
chiariranno. 
    Non   e'   la   presunzione   in   se'   stessa    a    risultare
costituzionalmente  illegittima.   Non   e'   infatti   irragionevole
presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i  legami
con l'organizzazione criminale di originaria appartenenza, purche' si
preveda che tale presunzione sia  relativa  e  non  gia'  assoluta  e
quindi possa essere vinta da prova contraria. 
    Mentre una disciplina  improntata  al  carattere  relativo  della
presunzione si mantiene entro i  limiti  di  una  scelta  legislativa
costituzionalmente compatibile  con  gli  obbiettivi  di  prevenzione
speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena,
non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e  27,  terzo  comma,
Cost. - agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione
- una disciplina che assegni carattere assoluto alla  presunzione  di
attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata. 
    Cio' sotto tre profili, distinti ma complementari. 
    In un primo senso, perche' all'assolutezza della presunzione sono
sottese esigenze investigative, di politica criminale e di  sicurezza
collettiva  che  incidono  sull'ordinario  svolgersi  dell'esecuzione
della  pena,  con  conseguenze  afflittive  ulteriori  a  carico  del
detenuto non collaborante. 
    In un  secondo  senso,  perche'  tale  assolutezza  impedisce  di
valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto  con  la
funzione rieducativa della pena, intesa come recupero  del  reo  alla
vita sociale, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost. 
    In un terzo senso, perche'  l'assolutezza  della  presunzione  si
basa su una generalizzazione, che puo' essere invece contraddetta,  a
determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di  allegazioni
contrarie che ne smentiscono  il  presupposto,  e  che  devono  poter
essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da  parte
della magistratura di sorveglianza. 
    8.1.- Dal primo punto di vista, il  congegno  normativo  inserito
nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l.  n.  306  del  1992,
come  convertito,  e'  espressione  di  una  trasparente  opzione  di
politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette  nel
percorso carcerario del condannato - attraverso il  decisivo  rilievo
attribuito  alla  collaborazione  con  la  giustizia  anche  dopo  la
condanna - elementi  estranei  ai  caratteri  tipici  dell'esecuzione
della pena. 
    La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio
tra  informazioni  utili   a   fini   investigativi   e   conseguente
possibilita' per il detenuto  di  accedere  al  normale  percorso  di
trattamento penitenziario. 
    Per  i  condannati  per  i  reati  elencati  nella   disposizione
censurata, infatti, e' costruita una disciplina speciale (sentenza n.
239 del 2014), ben diversa da  quella  prevista  per  la  generalita'
degli altri detenuti. 
    Essi  possono  accedere  ai  benefici  previsti  dall'ordinamento
penitenziario solo qualora collaborino con  la  giustizia,  ai  sensi
dell'art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino,
ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver
scontato le frazioni di pena richieste  quale  ordinario  presupposto
per  l'ammissione  a  ciascun  singolo  beneficio  (previste  per  il
permesso premio dall'art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece
collaborino secondo le modalita' contemplate dal citato art.  58-ter,
a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la
frazione di pena ordinariamente prevista, in  forza  della  soluzione
interpretativa gia' individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174
del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimita'
(Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016,
n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434). 
    La disciplina in esame, quindi, a seconda della  scelta  compiuta
dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario  del  condannato  non
collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati  non
ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacche', in presenza  di
collaborazione, introduce a favore  del  detenuto  elementi  premiali
rispetto alla disciplina ordinaria. 
    Ma,   alla   stregua   dei   principi   di   ragionevolezza,   di
proporzionalita'  della  pena  e  della  sua   tendenziale   funzione
rieducativa, un  conto  e'  l'attribuzione  di  valenza  premiale  al
comportamento di colui  che,  anche  dopo  la  condanna,  presti  una
collaborazione utile ed efficace, ben altro  e'  l'inflizione  di  un
trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris
et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato  e  percio'
socialmente pericolosa. 
    Il  valore  "premiale"   della   collaborazione   -   che   rende
immediatamente accessibili tutti  i  benefici,  senza  necessita'  di
raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente - si giustifica
sia considerando che  essa  e'  ragionevole  indice  del  presumibile
abbandono dell'originario sodalizio criminale, sia  in  virtu'  della
determinante utilita' che ha mostrato sul piano  del  contrasto  alle
organizzazioni mafiose. 
    Del resto, nel piu' ampio contesto del comportamento intramurale,
la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione  della
rottura con il circuito criminale, anche ai  fini  della  complessiva
valutazione dell'iter rieducativo. 
    Invece, alla  luce  degli  artt.  3  e  27  Cost.,  l'assenza  di
collaborazione con la giustizia dopo la condanna non puo' tradursi in
un  aggravamento  delle  modalita'  di  esecuzione  della  pena,   in
conseguenza del fatto che il detenuto esercita  la  facolta'  di  non
prestare partecipazione attiva a una finalita' di politica  criminale
e investigativa dello Stato. 
    Come configurata dall'art. 4-bis,  comma  1,  ordin.  penit.,  la
mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze  negative,  che
non hanno diretta connessione con  il  reato  commesso,  ma  derivano
unicamente,  appunto,  dal  rifiuto  del  detenuto  di  prestare   la
collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni  di
esecuzione della pena gia' inflittagli al termine del processo. 
    In disparte ogni considerazione - su cui insiste il rimettente  -
circa il rilievo del diritto al silenzio  nella  fase  di  esecuzione
della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso e'
corollario  essenziale  dell'inviolabilita'  del  diritto  di  difesa
riconosciuto dall'art. 24 Cost. e «si esplica  in  ogni  procedimento
secondo le regole proprie di  questo»:  sentenza  n.  165  del  2008;
ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), questa  Corte  non  puo'
esimersi dal rilevare che  l'attuale  formulazione  dell'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit., anche  in  nome  di  prevalenti  esigenze  di
carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante
trasfigurazione della liberta' di non collaborare ai sensi  dell'art.
58-ter ordin. penit., che certo l'ordinamento penitenziario non  puo'
disconoscere ad alcun detenuto. 
    Garantita nel processo nella forma di  vero  e  proprio  diritto,
espressione del principio nemo tenetur se detegere,  la  liberta'  di
non collaborare, in fase d'esecuzione, si trasforma infatti  -  quale
condizione  per  consentire  al   detenuto   il   possibile   accesso
all'ordinario regime dei benefici penitenziari - in un gravoso  onere
di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi
(carceratus  tenetur  alios  detegere),  ma   rischia   altresi'   di
determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati. 
    Cio' non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 
    8.2.- In secondo luogo, contrasta con  l'art.  27,  terzo  comma,
Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso  premio
debba  essere  in  limine  dichiarata  inammissibile,  senza  che  al
magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto
della condizione del detenuto. 
    Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe,  rappresenta
un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento.  Esso
consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di liberta'»
(sentenza  n.  188  del  1990),  mostrando  percio'   una   «funzione
"pedagogico-propulsiva"» (sentenza n. 504 del 1995, poi  sentenze  n.
445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l'osservazione  da  parte
degli  operatori  penitenziari  degli  effetti  sul  condannato   del
temporaneo ritorno in liberta' (sentenza n. 227 del 1995). 
    La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149
del 2018) ha del  resto  indicato  come  criterio  costituzionalmente
vincolante quello che richiede  una  valutazione  individualizzata  e
caso per caso nella materia dei benefici penitenziari  (in  proposito
anche  sentenza  n.  436  del  1999),  sottolineando  che   essa   e'
particolarmente importante al cospetto  di  presunzioni  di  maggiore
pericolosita' legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del
2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti,
l'opzione repressiva  finisce  per  relegare  nell'ombra  il  profilo
rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con  i  principi
di proporzionalita' e individualizzazione della pena (sentenza n. 255
del 2006). 
    La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale  verifica
secondo criteri individualizzanti, non  consentendo  nemmeno  -  come
sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia - di  valutare  le
ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio. 
    In definitiva, l'inammissibilita' in limine della  richiesta  del
permesso   premio   puo'   arrestare   sul   nascere   il    percorso
risocializzante,  frustrando  la  stessa  volonta'  del  detenuto  di
progredire su quella strada. 
    Cio' non e' consentito dall'art. 27, terzo comma, Cost. 
    8.3.-  In  terzo  luogo,  la  giurisprudenza  di   questa   Corte
sottolinea che «le presunzioni assolute, specie  quando  limitano  un
diritto  fondamentale  della  persona,  violano   il   principio   di
uguaglianza,  se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'   se   non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in
precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n.  213  e  n.  57  del
2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e  n.  139  del
1982). 
    In particolare, l'irragionevolezza di una presunzione assoluta si
coglie tutte le volte in  cui  sia  possibile  formulare  ipotesi  di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a  base  della
presunzione stessa. 
    Nel presente caso, la generalizzazione che fonda  la  presunzione
assoluta consiste in  cio':  se  il  condannato  per  il  delitto  di
associazione mafiosa  e/o  per  delitti  di  "contesto  mafioso"  non
collabora con la giustizia, la mancata collaborazione e' indice  (non
superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza  per
cui  egli  non  ha  spezzato  i  legami  che   lo   tengono   avvinto
all'organizzazione criminale di riferimento. 
    Sono  ben  note  le  ragioni  di   una   tale   generalizzazione.
L'appartenenza  ad  una  associazione  di  stampo   mafioso   implica
un'adesione stabile ad un sodalizio criminoso,  di  norma  fortemente
radicato  nel  territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di
collegamenti personali, dotato di particolare forza  intimidatrice  e
capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze  n.  48
del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del  2011;
ordinanza n. 136 del 2017). 
    Tali ragioni sono di  notevolissima  importanza  e  non  si  sono
affatto affievolite in progresso di tempo. 
    Nonostante cio', nella  fase  cautelare,  in  presenza  di  gravi
indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui  all'art.  416-bis
cod. pen., la presunzione di sussistenza  di  esigenze  cautelari  e'
relativa, perche' puo' essere vinta dall'acquisizione di elementi dai
quali risulti che tali esigenze non sussistono (art.  275,  comma  3,
cod. proc. pen.). 
    Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse  si  presumono  -  con
presunzione questa volta iuris et de iure -  non  fronteggiabili  con
misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265  del  2010,
ordinanza n. 136 del 2017), non solo per  le  peculiari  connotazioni
del sodalizio criminale, ma anche perche' la  valutazione  e'  svolta
quasi nell'immediatezza del fatto o,  comunque,  in  un  momento  non
lontano dalla sua supposta commissione. 
    Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale
il  trascorrere  del  tempo,  che  puo'   comportare   trasformazioni
rilevanti, sia della personalita'  del  detenuto,  sia  del  contesto
esterno al carcere, ed e' questa situazione che induce a  riconoscere
carattere relativo alla presunzione di pericolosita' posta a base del
divieto di concessione del permesso premio. 
    E' certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato
anche a distanza di  tempo,  per  le  ricordate  caratteristiche  del
sodalizio criminale in questione, finche' il soggetto non compia  una
scelta di radicale distacco, quale quella che -  in  particolare,  ma
non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia -  e'
espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i  casi
di dimostrati  persistenti  legami  del  detenuto  con  il  sodalizio
criminale originario, l'ordinamento penitenziario appresta l'apposito
regime  di  cui  all'art.  41-bis,  che  non  e'  ovviamente  qui  in
discussione e la cui  applicazione  ai  singoli  detenuti  presuppone
proprio  l'attualita'  dei  loro  collegamenti   con   organizzazioni
criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). 
    Ma, in disparte  simili  vicende,  il  decorso  del  tempo  della
esecuzione  della  pena  esige  una  valutazione  in  concreto,   che
consideri l'evoluzione della personalita' del detenuto. Cio' in forza
dell'art.  27  Cost.,  che  in  sede  di  esecuzione   e'   parametro
costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in  sede
cautelare: ordinanza n. 532 del 2002). 
    Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non puo'
che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti
la possibilita' di un, sia  pur  breve  e  momentaneo,  reinserimento
dello  stesso  detenuto,  potendosi  ipotizzare  che   l'associazione
criminale di originario riferimento, ad  esempio,  non  esista  piu',
perche' interamente sgominata o per naturale estinzione. 
    Con assorbimento delle questioni di  legittimita'  costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione (miranti  a  distinguere  tra  la
posizione  dell'affiliato  e  quella  del  condannato  per  reati  di
"contesto mafioso"), ne deriva percio', in lesione dell'art. 3 Cost.,
l'irragionevolezza  -  nonche',  anche  sotto  questo   profilo,   il
contrasto con la funzione rieducativa della pena - di una presunzione
assoluta di pericolosita' sociale che,  a  prescindere  da  qualsiasi
valutazione  in  concreto,  presupponga  l'immutabilita',  sia  della
personalita' del condannato, sia del contesto esterno di riferimento. 
    9.-  Nel  caso  di  specie,  pero',  trattandosi  del  reato   di
affiliazione a  una  associazione  mafiosa  (e  dei  reati  a  questa
collegati),    caratterizzato    dalle    specifiche     connotazioni
criminologiche  prima  descritte,  la  valutazione  in  concreto   di
accadimenti idonei  a  superare  la  presunzione  dell'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata - da parte di  tutte  le
autorita' coinvolte, e in primo luogo  ad  opera  del  magistrato  di
sorveglianza - deve  rispondere  a  criteri  di  particolare  rigore,
proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio  criminale
del quale si esige l'abbandono definitivo. 
    Cio' giustifica che la presunzione di pericolosita'  sociale  del
detenuto che non collabora, pur non piu' assoluta, sia superabile non
certo in virtu' della sola regolare condotta carceraria o della  mera
partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione  di  una
soltanto  dichiarata   dissociazione,   ma   soprattutto   in   forza
dell'acquisizione di altri, congrui e specifici elementi. 
    Quali siano questi elementi, e' la stessa evoluzione del medesimo
art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza. 
    Come si e' gia'  detto  (supra,  punto  7.1  del  Considerato  in
diritto),  prima  dell'introduzione  del  decisivo  requisito   della
collaborazione con la giustizia, l'art. 1 del d.l. n. 152  del  1991,
come convertito, gia' stabiliva, per i  reati  della  "prima  fascia"
(comprendenti   l'associazione   di   tipo   mafioso,   i    relativi
"delitti-satellite", il sequestro di persona a scopo di estorsione  e
l'associazione finalizzata al narcotraffico), che l'accesso a  taluni
benefici previsti dall'ordinamento penitenziario fosse possibile alla
stregua di un parametro  probatorio  particolarmente  elevato,  cioe'
solo  se  fossero  stati  acquisiti  «elementi  tali   da   escludere
l'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  o
eversiva». 
    Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su  di
«un regime di prova rafforzata per  accertare  l'inesistenza  di  una
condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995). 
    Di  un  tale  regime,  anche  la  versione  attualmente   vigente
dell'art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia  testuale,  al  comma
1-bis.  Infatti,  come  pure  si  e'  detto  (supra,  punto  7.1  del
Considerato in  diritto),  tale  comma  estende  la  possibilita'  di
accesso  ai  benefici  penitenziari   ai   casi   in   cui   un'utile
collaborazione con la giustizia risulti inesigibile,  impossibile  od
«oggettivamente irrilevante», sempre che, in  questa  evenienza,  sia
stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti  di
cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod.  pen.  Ma,  ancora,  per
tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano  stati  acquisiti
elementi tali  da  escludere  l'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva». 
    L'acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede,  alla
stessa logica cui e' improntato l'art. 4-bis ordin. penit. e consente
alla   magistratura   di   sorveglianza,   attraverso   un   efficace
collegamento  con  tutte  le  autorita'  competenti  in  materia,  di
svolgere  d'ufficio  una  seria  verifica  non  solo  sulla  condotta
carceraria del condannato nel corso dell'espiazione  della  pena,  ma
altresi' sul contesto sociale esterno  in  cui  il  detenuto  sarebbe
autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente  ed  episodicamente
(ordinanza n. 271 del 1992). 
    In particolare, l'art. 4-bis, comma  2,  ordin.  penit.,  prevede
che, ai fini della  concessione  dei  benefici  di  cui  al  comma  1
(percio', anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza
decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorita'
penitenziaria ma, altresi', delle dettagliate informazioni  acquisite
per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e  la  sicurezza
pubblica competente. 
    E' fondamentale aggiungere che, ai  sensi  del  comma  3-bis  del
medesimo art. 4-bis, tutti  i  benefici  in  questione,  compreso  il
permesso  premio,  «non  possono  essere  concessi»  (ferma  restando
l'autonomia valutativa del magistrato  di  sorveglianza:  ex  multis,
Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre  2016,
n. 51878) quando  il  Procuratore  nazionale  antimafia  (oggi  anche
antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica,  d'iniziativa
o su segnalazione del competente comitato provinciale per l'ordine  e
la  sicurezza  pubblica,  l'attualita'   di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata. 
    In tale contesto, l'acquisizione di  stringenti  informazioni  in
merito all'eventuale attualita' di collegamenti con  la  criminalita'
organizzata (a partire da quelli  di  natura  economico-patrimoniale)
non solo e' criterio gia' rinvenibile nell'ordinamento  (sentenze  n.
40 del 2019 e n. 222 del 2018) - nel caso  di  specie,  nella  stessa
disposizione di  cui  e'  questione  di  legittimita'  costituzionale
(sentenza  n.  236  del  2016)   -   ma   e'   soprattutto   criterio
costituzionalmente  necessario  (sentenza  n.  242  del   2019)   per
sostituire in  parte  qua  la  presunzione  assoluta  caducata,  alla
stregua dell'esigenza di  prevenzione  della  «commissione  di  nuovi
reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa  ad  ogni
previsione  di  limiti  all'ottenimento  di   benefici   penitenziari
(sentenza n. 174 del 2018). 
    L'acquisizione   in   parola   e',   d'altra    parte,    fattore
imprescindibile, ma non sufficiente. 
    Il regime probatorio rafforzato,  qui  richiesto,  deve  altresi'
estendersi all'acquisizione di elementi che  escludono  non  solo  la
permanenza  di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata,  ma
altresi' il pericolo  di  un  loro  ripristino,  tenuto  conto  delle
concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di
aspetto logicamente collegato al precedente, del quale  condivide  il
carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare
che il gia' richiamato interesse alla prevenzione  della  commissione
di nuovi reati, tutelato  dallo  stesso  art.  4-bis  ordin.  penit.,
finisca per essere vanificato. 
    Di entrambi tali elementi -  esclusione  sia  dell'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata che del pericolo  di  un
loro rispristino - grava sullo  stesso  condannato  che  richiede  il
beneficio l'onere di fare specifica allegazione (come  stabilisce  la
costante giurisprudenza di  legittimita'  maturata  sul  comma  1-bis
dell'art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile
o inesigibile:  ex  plurimis,  Corte  di  cassazione,  sezione  prima
penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869  e
12 ottobre 2017, n. 47044). 
    La magistratura di sorveglianza decidera', sia sulla base di tali
elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente  ricevute
in materia  dalle  autorita'  competenti,  prima  ricordate;  con  la
precisazione  che  -  fermo  restando  l'essenziale   rilievo   della
dettagliata  e  motivata  segnalazione  del   Procuratore   nazionale
antimafia o del Procuratore distrettuale (art.  4-bis,  comma  3-bis,
ordin penit.) - se le informazioni pervenute dal comitato provinciale
per l'ordine e la sicurezza pubblica  depongono  in  senso  negativo,
incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione  degli
elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri  elementi
di prova a sostegno (in tal senso, gia' Corte di cassazione,  sezione
prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639). 
    10.- Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3  e  27,
terzo comma, Cost., l'illegittimita' costituzionale dell'art.  4-bis,
comma 1, ordin. penit. nella parte  in  cui  non  prevede  che  -  ai
detenuti per i delitti di cui  all'art.  416-bis  cod.  pen.,  e  per
quelli commessi avvalendosi delle condizioni  previste  dallo  stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita'  delle  associazioni
in esso previste - possano essere concessi permessi premio  anche  in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma  dell'art.  58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti  elementi
tali  da  escludere,  sia  l'attualita'  di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata, sia il  pericolo  del  ripristino  di  tali
collegamenti. 
    11.- Con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, e'
percio' sottratta all'applicazione del meccanismo "ostativo" previsto
dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina  relativa  alla
concessione del beneficio del permesso premio, di cui all'art. 30-ter
del medesimo ordin. penit. 
    Cio' e' conforme al perimetro  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale  sollevate  dai  giudici  a   quibus,   nonche'   alla
connotazione peculiare del permesso premio, che  lo  distingue  dagli
altri benefici pure elencati nella disposizione censurata. 
    12.- Come si e' chiarito, le due ordinanze  di  rimessione  hanno
portato all'attenzione  di  questa  Corte  i  reati  di  criminalita'
organizzata di stampo mafioso,  cioe'  quelli  che  hanno  costituito
parte del nucleo originario della previsione censurata. 
    Ma, come pure si e' accennato (supra, punto 7.1  del  Considerato
in diritto), l'assetto delineato dai  provvedimenti  dei  primi  anni
Novanta del secolo scorso e' stato progressivamente  modificato,  nel
tempo, da una serie  di  riforme,  che,  da  un  lato,  hanno  mutato
l'architettura  complessiva  dell'art.   4-bis   ordin.   penit.   e,
dall'altro,  ne   hanno   ampliato   progressivamente   l'ambito   di
operativita', con l'innesto di numerose altre  fattispecie  criminose
nella lista dei reati "ostativi". 
    In virtu' di varie scelte di politica criminale, non  sempre  tra
loro coordinate, accomunate da finalita' di prevenzione generale e da
una  volonta'  di  inasprimento  del  trattamento  penitenziario,  in
risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in  volta  emergenti,
l'art. 4-bis ordin. penit.  ha  cosi'  progressivamente  allargato  i
propri confini, finendo per contenere,  attualmente,  una  disciplina
speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e  stratificato
elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del  2016,  n.  239
del 2014). E il comma 1 della disposizione, in  particolare,  presume
l'attualita' di collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  dei
condannati per questo ampio elenco di  reati,  disegnando  per  tutti
costoro un particolare regime carcerario, che non consente in  radice
l'accesso ai benefici penitenziari in assenza di  collaborazione  con
la giustizia. 
    Peraltro,  nella  disposizione  in  esame,   accanto   ai   reati
tipicamente  espressivi  di  forme   di   criminalita'   organizzata,
compaiono  ora,  tra  gli  altri,   anche   reati   che   non   hanno
necessariamente a che fare con tale criminalita',  ovvero  che  hanno
natura  mono-soggettiva:  infatti,  nel  comma  1  dell'art.   4-bis,
figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di
violenza sessuale di gruppo (art. 3  del  decreto-legge  23  febbraio
2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori», convertito, con modificazioni, nella  legge  23  aprile
2009,  n.  38),  di  favoreggiamento  dell'immigrazione   clandestina
(decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il
contrasto del terrorismo, anche di  matrice  internazionale,  nonche'
proroga  delle  missioni  internazionali  delle  Forze  armate  e  di
polizia, iniziative di  cooperazione  allo  sviluppo  e  sostegno  ai
processi di ricostruzione  e  partecipazione  alle  iniziative  delle
Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei  processi  di
pace e di  stabilizzazione»,  convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i  reati
contro la pubblica amministrazione  (legge  9  gennaio  2019,  n.  3,
recante «Misure  per  il  contrasto  dei  reati  contro  la  pubblica
amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del  reato  e  in
materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»). 
    In   questo   contesto,   l'intervento   parzialmente   ablatorio
realizzato sui reati di criminalita' organizzata di  matrice  mafiosa
deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo  comma  della
norma  censurata,  in  vista  dell'accesso  al  permesso  premio  dei
condannati per tutti gli altri reati di cui all'elenco. 
    Se cosi'  non  fosse,  deriverebbe  dalla  presente  sentenza  la
creazione di una paradossale disparita', a tutto danno  dei  detenuti
per reati rispetto ai quali possono essere privi  di  giustificazione
sia il requisito (ai fini dell'accesso ai benefici  penitenziari)  di
una  collaborazione  con   la   giustizia,   sia   la   dimostrazione
dell'assenza di legami con un, inesistente,  sodalizio  criminale  di
originaria appartenenza. 
    Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo
comma dell'art. 4-bis, ordin. penit. dell'intervento  compiuto  dalla
presente sentenza sui reati di associazione mafiosa  e  di  "contesto
mafioso" finirebbe per compromettere la  stessa  coerenza  intrinseca
dell'intera disciplina di risulta. 
    In  definitiva,  i  profili  di   illegittimita'   costituzionale
relativi al carattere assoluto della presunzione attingono  tanto  la
disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti  per  i
delitti di cui all'art. 416-bis cod.  pen.,  e  per  quelli  commessi
avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al
fine di agevolare l'attivita' delle associazioni  in  esso  previste,
quanto l'identica disciplina dettata dallo stesso art.  4-bis,  comma
1, ordin. penit. per  i  detenuti  per  gli  altri  delitti  in  esso
contemplati. 
    Visto l'art. 27 della legge 11 marzo 1953,  n.  87  (Norme  sulla
costituzione e sul  funzionamento  della  Corte  costituzionale),  va
percio'   dichiarata   in   via    consequenziale    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui non prevede che ai  detenuti  per  i  delitti  ivi
contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da
quelli commessi avvalendosi delle condizioni  previste  dallo  stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita'  delle  associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi  premio  anche  in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma  dell'art.  58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti  elementi
tali  da  escludere,  sia  l'attualita'  di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva,  sia  il  pericolo
del ripristino di tali collegamenti. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,
comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti  per
i delitti di cui all'art. 416-bis del  codice  penale  e  per  quelli
commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso  articolo
ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni  in  esso
previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di
collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo
ordin. penit., allorche'  siano  stati  acquisiti  elementi  tali  da
escludere, sia  l'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; 
    2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art.  27  della
legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e   sul
funzionamento   della   Corte    costituzionale),    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui non prevede che ai  detenuti  per  i  delitti  ivi
contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da
quelli commessi avvalendosi delle condizioni  previste  dallo  stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita'  delle  associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi  premio  anche  in
assenza di collaborazione con la giustizia a norma  dell'art.  58-ter
del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti  elementi
tali  da  escludere,  sia  l'attualita'  di   collegamenti   con   la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva,  sia  il  pericolo
del ripristino di tali collegamenti. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA 
 
 
                                                            Allegato: 
                      Ordinanza letta all'udienza del 22 ottobre 2019 
 
                              ORDINANZA 
 
    Rilevato che nel giudizio promosso  dalla  Corte  di  cassazione,
iscritto al reg. ord. n. 59 del  2019,  con  atto  depositato  il  30
aprile 2019, ha chiesto di intervenire M. D., in qualita' di parte di
vicenda giudiziaria che asserisce essere «totalmente sovrapponibile e
identica» a quella della parte del giudizio a quo; 
    che, nello stesso giudizio promosso dalla  Corte  di  cassazione,
con atto depositato il 13 maggio  2019,  ha  chiesto  di  intervenire
anche l'associazione Nessuno Tocchi Caino, nella asserita qualita' di
associazione titolare di  un  interesse  qualificato,  immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio; 
    che, nel giudizio  promosso  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
Perugia, iscritto al n. 135 del reg. ord. 2019, con  atto  depositato
il 4 settembre 2019, ha chiesto di intervenire il  Garante  nazionale
dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale
(di seguito: Garante), nella asserita qualita' di  soggetto  titolare
di un interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al  rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e, in subordine, quale amicus curiae; 
    che, nello stesso giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia, con atto depositato il 10 settembre 2019, ha  chiesto  di
intervenire anche l'Unione Camere Penali Italiane (di seguito  UCPI),
nella  qualita'  di  ente  rappresentativo  di  interessi  collettivi
asseritamente titolare di un  interesse  qualificato,  immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. 
    Considerato che, per costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,
sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale  di  legittimita'
costituzionale (art. 3 delle Norme integrative per i giudizi  davanti
alla Corte costituzionale) i soli soggetti parti del giudizio a  quo,
oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso  di  legge
regionale,  al  Presidente  della  Giunta  regionale  (ex   plurimis,
sentenze n. 206 del 2019, con allegata  ordinanza  letta  all'udienza
del 4 giugno 2019 e n. 173 del 2019,  con  allegata  ordinanza  letta
all'udienza del 18 giugno 2019; ordinanza n. 204 del 2019); 
    che l'intervento di  soggetti  estranei  al  giudizio  principale
(art. 4 delle Norme integrative) e' ammissibile soltanto per i  terzi
titolari di un interesse qualificato,  inerente  in  modo  diretto  e
immediato  al  rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio   e   non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di
censura (ex plurimis,  le  citate  sentenze  n.  206  del  2019,  con
allegata ordinanza letta all'udienza del 4 giugno 2019 e n.  173  del
2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del  18  giugno  2019;
ordinanza n. 204 del 2019); 
    che,   pertanto,   l'incidenza   sulla    posizione    soggettiva
dell'interveniente deve derivare non gia', come per  tutte  le  altre
situazioni sostanziali disciplinate  dalla  disposizione  denunciata,
dalla pronuncia della Corte sulla legittimita'  costituzionale  della
legge stessa, ma dall'immediato effetto che la pronuncia della  Corte
produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo; 
    che, in disparte ogni considerazione sul rinvio del  giudizio  in
cui M.D.  e'  parte  in  attesa  della  pronuncia  di  questa  Corte,
l'ammissibilita' del suo intervento contrasterebbe con  il  carattere
incidentale del giudizio di legittimita' costituzionale, in quanto il
suo accesso al contraddittorio avverrebbe senza  la  previa  verifica
della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da
parte del giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 173 del  2016,  con
allegata ordinanza letta all'udienza del 13 luglio 2016;  n.  71  del
2015, con allegata ordinanza letta all'udienza  del  10  marzo  2015;
sentenza n. 33 del 2015); 
    che, quanto  agli  interventi  dell'associazione  Nessuno  Tocchi
Caino, del Garante e dell'UCPI,  nessuno  dei  tre  intervenienti  e'
titolare di un interesse qualificato inerente al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio; 
    che, in relazione alla richiesta avanzata  dal  Garante,  in  via
subordinata, di essere ammesso  al  contraddittorio  in  qualita'  di
amicus curiae, una tale figura non e' allo stato prevista dalle fonti
che regolano i giudizi di legittimita' costituzionale. 
 
                          PER QUESTI MOTIVI 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara inammissibili tutti gli interventi spiegati nei presenti
giudizi di legittimita' costituzionale; 
    dichiara inammissibile la richiesta  del  Garante  nazionale  dei
diritti delle persone detenute o private della liberta' personale  di
essere ammesso al giudizio in qualita' di amicus curiae. 
 
                 F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente