N. 235 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 agosto 2019

Ordinanza del 9 agosto 2019 del Tribunale di  Roma  nel  procedimento
civile promosso da D. M. contro L. & B. S.r.l.. 
 
Lavoro e occupazione - Disciplina del contratto  di  lavoro  a  tempo
  indeterminato a tutele crescenti - Tutela per  ipotesi  specificate
  di vizi formali e procedurali del  licenziamento  -  Meccanismo  di
  determinazione dell'indennita' spettante al lavoratore. 
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
  contratto di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in
  attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 4. 
(GU n.1 del 2-1-2020 )
 
                        IL TRIBUNALE DI ROMA 
                        Sezione terza lavoro 
 
in persona del  giudice  dr.  Dario  Conte,  sciogliendo  la  riserva
assunta all'udienza del 18 luglio 2019, ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza nel procedimento indicato in epigrafe, vertente tra: 
        D. M., elett.nte domiciliato in  Roma,  via  Emilio  Faa'  di
Bruno  n.  67,  presso  l'avv.  Giuseppe  Antonio  Caruso,   che   lo
rappresenta e difende - ricorrente; 
        e L. & B. S.r.l., elett.nte domiciliata in Roma,  via  Pietro
de Cristofaro n. 40,  presso  l'avv.  Antonio  Di  Vincenzo,  che  la
rappresenta e difende - convenuta. 
    Con ricorso telematico  pervenuto  il  13  dicembre  2017  D.  M.
conveniva qui in giudizio la L. & B. S.r.l.,  alle  dipendenze  della
quale aveva lavorato dal 30 dicembre 2016, inquadrato come  banchista
di 4° livello secondo il C.C.N.L. pubblici esercizi, impugnando,  per
gli effetti di cui agli_articoli 3 e 9  del  decreto  legislativo  n.
23/2015, il licenziamento  disciplinare  in  tronco  intimatogli  con
lettera del 22 maggio 2017, in relazione a lettera di'  contestazione
disciplinare del 12 aprile 2017, con la quale, in buona sostanza, era
stato incolpato di avere, nel pomeriggio del 5 aprile 2017: 
        staccato dalla bacheca aziendale  l'ordine  di  servizio  del
giorno precedente con il quale l'amministratore  unico  B.  S.  aveva
nominato A. M.C. responsabile  del  coordinamento  e  della  gestione
della cassa del locale «...» in Roma; 
        esibito lo  stesso  alla  clientela  con  fare  denigratorio,
mettendo in ridicolo la decisione dell'amministratore; 
        denigrato e minacciato la A.; 
        invitato un cliente a non chiedere niente  alla  A.,  perche'
«non ci' capiva niente»; 
        minacciato  telefonicamente  l'amministratore  alla  presenza
della clientela. 
    A fondamento della domanda deduceva (in sintesi): 
        a) insussistenza in  fatto  degli  addebiti,  essendosi  egli
limitato a chiedere alla A. le chiavi della  cassa  e  rimostrato  in
modo civile al rifiuto a lui opposto; 
        b) sproporzione; 
        c)  violazione  dell'art.   7   della   legge   n.   300/1970
e successive   modificazioni per   omessa   affissione   del   codice
disciplinare; 
        d) intimazione del licenziamento senza previa  considerazione
delle difese svolte, date infondatamente per mancate. 
    Resisteva la  L.  &  B.  S.r.l.  eccependo  pregiudizialmente  la
decadenza  dall'impugnazione,  posto  che  il   ricorso   era   stato
presentato oltre centottanta giorni dall'impugnazione stragiudiziale.
Nel  merito,   contestava   argomentatamente   le   avverse   domande
chiedendone il rigetto. 
    Istruita  la  causa  per  documenti  e  testi,  il   giudice   ha
prospettato  alle   parti   la   rilevanza   e   la   non   manifesta
inammissibilita' questione di legittimita' che segue. 
    Udita la discussione sul punto, 
 
                               Osserva 
 
    Il giudicante, all'esito dell'istruttoria svolta,  ritiene,  allo
stato: 
        a) probabilmente infondata l'eccezione di decadenza,  perche'
il termine di presentazione del ricorso applicabile nella specie, che
e' quello previsto dall'art. 6, comma 2, della legge n. 604/1966 c.m.
dall'art.  32,  comma   1,   della   legge   n.   183/2010,   e'   di
duecentosettanta  giorni,  e  non  di  centottanta.  Il  termine   di
centottanta giorni era stato fissato dall'art.  1,  comma  11,  della
legge n. 92/2012, modificativo dell'art. 32,  comma  3,  lettera  a),
della legge n. 183/2010 per la presentazione del  ricorso  giudiziale
per il caso di licenziamenti  che  presuppongono  la  risoluzione  di
questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro  ovvero
alla nullita' del termine apposto al contratto di lavoro, ed e' stato
comunque soppresso dall'art. 55, comma  1,  lettera  f)  del  decreto
legislativo n. 81/2015. Nella specie e' incontroverso  e  documentato
che l'impugnazione stragiudiziale del licenziamento e' stata  spedita
il 6  giugno  2017,  ricevuta  il  16  giugno  2017,  ed  il  ricorso
giudiziale  e'  pervenuto  il  13  dicembre  2017,  molto  prima   di
duecentosettanta giorni; 
        b) probabilmente infondato il motivo rubricato in  espositiva
sub a), apparendo allo  stato  plausibilmente  provato  che  l'attore
commise quel giorno un illecito disciplinare,  consistente  nell'aver
insultato e minacciato la collega a lui subentrata  per  disposizione
datoriale alla gestione della cassa, contestando apertamente  la  sua
posizione, ed riferendo a lei espressioni  ingiuriose  nei  confronti
dell'amministratore, mostrando una aperta ed illegittima  opposizione
alla disposizione datoriale in questione; 
        c) probabilmente infondato il motivo sub  b),  posto  che  il
fatto  appare  munito  di  gravita'  risolutoria,  in  ragione  delle
seguenti circostanze: 
          la rilevanza penale in forma di ingiuria delle  espressioni
rivolte alla A.,  la  cui  personalita'  morale,  che  il  datore  ha
l'obbligo di proteggere ex  art.  2087  del  codice  civile,  risulta
essere stata lesa per ragioni arbitrarie, senza  che  in  alcun  modo
essa avesse dato causa al confronto; 
          il carattere reiterato  delle  ingiurie  medesime  e  della
successiva condotta; 
          l'ingiusta minaccia  a  costei  rivolta  di  rivolgersi  ai
carabinieri,  illegittimamente  volta  ad  indurla  a   contravvenire
all'ordine datoriale di detenere in via  esclusiva  le  chiavi  della
cassa; 
          il fatto che tutti i comportamenti posti in essere  fossero
animati da una aperta contestazione e ribellione alla  decisione  del
B. di privarlo della detenzione della  cassa  del  locale,  cio'  che
integra, seppure in senso lato, insubordinazione,  e  comunque  grave
violazione dell'obbligo fondamentale di obbedienza,  posto  dall'art.
2104, comma 2, del codice civile; 
          l'idoneita'   della   reiterata   condotta    a    scuotere
definitivamente il vincolo fiduciario, tradendo in  modo  plateale  e
reiterato l'infondata idea del D. che  il  suo  stato  di  socio  gli
consentisse di contestare apertamente le decisioni  aziendali  a  lui
opponibili in quanto dipendente, di  imporre  la  sua  volonta'  alla
collega che non faceva altro che obbedire a quelle decisioni, la  cui
legittimita' non e' in alcun modo posta in discussione in  causa,  di
delegittimare la collega nei confronti dei clienti, di  indulgere  in
espressioni   offensive,   ancorche'   indirette,    nei    confronti
dell'amministratore; e quindi in  un  modo  di  porsi  rispetto  agli
obblighi   fondamentali   discendenti   dal   rapporto   di    lavoro
sostanzialmente ed apertamente improntato al loro disconoscimento; 
        d) probabilmente  infondato  il  motivo  sub  c),  posto  che
nell'insegnamento di legittimita', non occorre la  previa  affissione
del  codice  disciplinare  per  sanzionare   violazioni   di   doveri
fondamentali del lavoratore (Cassazione n. 6893/2018),  di  rilevanza
penale e comunque rientranti nel cd.  «minimum  etico»,  come  invece
necessario per  sanzionare  la  violazione  di  obblighi  particolari
discendenti da direttive aziendali  o  prassi  operative  (Cassazione
n. 54/2017, 22636/2013). 
    Il motivo sub d) appare invece allo stato probabilmente fondato. 
    E' documentato in atti che la contestazione di  addebito  del  12
aprile 2017, spedita al ricorrente il 14 aprile 2017, venne da questi
ricevuta solo il 26 aprile 2017. L'attore presento' le proprie difese
con lettera del 29 aprile 2017 recapitata alla  controparte  in  pari
data via pec. La societa' intimo' quindi il licenziamento con lettera
del 12 maggio 2017 asserendo che il  termine  a  difesa  era  spirato
senza che il L. avesse presentato difese scritte. 
    L'attore si duole, in termini di  violazione  dell'art.  7  della
legge n. 300/1970, del  fatto  che  la  societa'  abbia  ignorato  le
difese, invece, da lui presentate. 
    La censura appare allo stato probabilmente fondata. 
    Si e' infatti di recente insegnato che il datore di  lavoro  che,
nella lettera di licenziamento, adduca di aver ignorato le difese del
lavoratore in quanto tardive, quando invece non lo sono, viola l'art.
7 della legge n. 300/1970, posto che (in buona sostanza), intanto  il
diritto a difesa garantito  al  lavoratore  dalla  disposizione  puo'
dirsi osservato nella sua effettivita', in quanto le  giustificazioni
da  lui'  tempestivamente  rese   siano   prese   in   considerazione
(Cassazione n. 32607/2018). 
    Nella specie e' documentato che  contrariamente  quanto  asserito
nella lettera di licenziamento, il D. aveva in realta' presentato  le
sue difese a mezzo pec il 29 aprile 2017, ricevuta  in  indirizzo  la
cui paternita' in capo alla convenuta  non  e'  stata  contestata  in
giudizio, con lettera firmata anche dal ricorrente, il che indica che
la  difese  del  D.  vennero  del  tutto  ignorate,  circostanza   da
equiparare,  secondo  il  surrichiamato  insegnamento,  alla  mancata
audizione a difesa del lavoratore che ne abbia fatto richiesta. 
    Sulla base di quanto premesso, appare allo stato probabile che il
licenziamento impugnato vada  dichiarato  illegittimo,  e  sanzionato
secondo l'art. 4  del  decreto  legislativo  4  marzo  2015,  n.  23,
trattandosi di violazione procedurale ascrivibile  all'art.  7  della
legge n. 300/1970; mentre non  appaiono,  allo  stato,  sussistere  i
presupposti per l'applicazione degli art. 2 e 3. 
    Il fatto che  il  ricorrente  non  abbia  chiesto  specificamente
l'applicazione dell'art. 4 non  appare  ostativo,  sia  perche',  pur
chiedendo  l'applicazione  degli  articoli  3   e   9,   ha   chiesto
determinarsi l'indennita' risarcitoria con «ovvero  altra  e  diversa
somma ritenuta di giustizia», sia perche' spetta al  giudice  secondo
il canone «iura novi curia» applicare la sanzione coerente col  vizio
riscontrato. 
    Il giudicante ritiene pertanto  allo  stato  di  dover  applicare
l'art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015,  circostanza  che  rende
rilevante in causa la questione di legittimita'  costituzionale  che,
di seguito, si viene a proporre su tale disposizione. 
    L'art. 4 cit. prevede che «Nell'ipotesi in cui  il  licenziamento
sia intimato con violazione ... della procedura  di  cui  all'art.  7
della legge n. 300, del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto
di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di  lavoro
al  pagamento  di  un'indennita'  non  assoggettata  a  contribuzione
previdenziale  di  importo  pari   a   una   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non  inferiore
a due e non superiore a dodici mensilita', a  meno  che  il  giudice,
sulla base della domanda del lavoratore, accerti la  sussistenza  dei
presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2  e
3 del presente decreto». 
    La  disposizione  mutua  dall'art.  3  dello  stesso  decreto  un
criterio di  commisurazione  dell'indennita'  automaticamente  legato
all'anzianita' di servizio. 
    Nel caso di specie, l'anzianita' di servizio del D.  era  di  sei
mesi secondo l'art.  8  del  decreto,  sicche'  gli  spetterebbe  una
indennita' commisurata al minimo di legge, che  nel  caso  di  specie
sarebbe, ai sensi dell'art. 9, una mensilita', trattandosi di piccola
impresa. 
    La Corte costituzionale, con la sentenza  n.  194  del  2018,  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,  del
decreto legislativo n. 23/2015, limitatamente alle parole «di importo
pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per  il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». 
    In estrema sintesi, la Corte, a fondamento di tale decisione,  ha
ritenuto che: 
        «La  qualificazione   come   "indennita'"   dell'obbligazione
prevista dall'art. 3, comma 1 non ne esclude  la  natura  di  rimedio
risarcitorio... »; posto che il  licenziamento,  anche  se  efficace,
«costituisce  pur  sempre  un  atto  illecito,  essendo  adottato  in
violazione della preesistente non modificata norma imperativa»; 
        l'ancoramento dell'indennita' ad un  parametro  forfettizzato
rigido «contrasta, anzitutto, con il principio di uguaglianza,  sotto
il profilo dell'ingiustificata omologazione di  situazioni  diverse»;
posto  che  «...  il  pregiudizio  prodotto,  nei  vari   casi,   dal
licenziamento ingiustificato dipende da una  pluralita'  di  fattori.
L'anzianita' nel lavoro, certamente rilevante, e' dunque solo uno dei
tanti»; 
        «In una vicenda che coinvolge la persona del  lavoratore  nel
momento  traumatico  della  sua  espulsione  dal  lavoro,  la  tutela
risarcitoria non  puo'  essere  ancorata  all'unico  parametro  della
anzianita' di servizio. Non possono che essere molteplici  i  criteri
da offrire alla prudente discrezionale valutazione  del  giudice...»,
cio' che «...risponde, infatti, all'esigenza di personalizzazione del
danno subito...»; 
        il  predetto  criterio  si  pone  inoltre  in  contrasto  col
principio  di  ragionevolezza  «sotto  il  profilo   dell'inidoneita'
dell'indennita'  medesima  a  costituire  un  adeguato  ristoro   del
concreto   pregiudizio   subito   dal   lavoratore...e    un'adeguata
dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente»; 
        «...la rigida dipendenza dell'aumento  dell'indennita'  dalla
sola crescita dell'anzianita' di servizio mostra la sua  incongruenza
soprattutto nei casi di anzianita' di servizio non elevata...»; 
        poiche' una tutela cosi' consegnata «...non  costituisce  ne'
un  adeguato  ristoro  del  danno  prodotto,  nei  vari   casi,   dal
licenziamento, ne' un'adeguata dissuasione del datore di  lavoro  dal
licenziare  ingiustamente,  risulta   evidente   che   una   siffatta
tutela...non puo' dirsi rispettosa (nemmeno) degli articoli 4,  primo
comma, e 35, primo comma, della  Costituzione,  che  tale  interesse,
appunto, proteggono». 
    Al giudicante sembra che  identiche  o  almeno  analoghe  ragioni
valgano a far dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 4. 
    L'unica differenza tra le due fattispecie attiene  al  fatto  che
l'art.  3  disciplina  il  licenziamento  ingiustificato  per  motivi
sostanziali, mentre l'art. 4 quello reso illegittimo dalla violazione
di regole di carattere formale e procedurale. 
    La differenza non sembra incidere in modo significativo sulla non
manifesta infondatezza della questione posto che: 
        a) anche l'art. 7 della legge n. 300/1970 e' una disposizione
imperativa, la cui violazione integra dunque, secondo  l'insegnamento
della Corte, illecito fonte di  danno  da  risarcire  in  modo  anche
formalmente   indennitario,   ma    necessariamente    «adeguato    e
personalizzato»; 
        b) in tale  ottica,  pare  valere  negli  stessi  termini  il
principio che impone che l'indennita' (risarcitoria), sia ancorata ad
una pluralita' di fattori di correlazione al danno  sofferto,  e  non
solo all'anzianita' di servizio; 
        c)  il  parametramento  «rigido  e   fisso»   dell'indennita'
all'anzianita' di servizio, specie nei casi, quale quello di  specie,
in cui questa  e'  assai  modesta,  non  pare  fornire  una  adeguata
dissuasione del datore di  lavoro  dal  licenziare  ingiustamente  (o
comunque in violazione di legge), ne' garantisce un adeguato  ristoro
al concreto pregiudizio. 
    La portata della distinzione tra ingiustificatezza sostanziale ed
illegittimita' formale/procedurale, anche se gia' invalsa nel  regime
di cui all'art. 18 della  legge  n.  300/1970  c.m.  dalla  legge  n.
92/2012, non pare peraltro poter essere valorizzata oltre  una  certa
misura in rapporto ai principi fondamentali, posto che la  previsione
di una procedura preventiva di garanzia posta dall'art. 7 della legge
n. 300/1970, non a  caso  inserita  nel  titolo  primo  della  legge,
intitolato «Della liberta' e  dignita'  del  lavoratore»,  lungi  dal
porsi come mera prescrizione di forma, assolve  ad  una  funzione  di
protezione  di  Costituzione   41,   comma   2   che,   seppure   non
costituzionalmente  imposta  (Corte  costituzionale   n.   204/1982),
anticipa a tale scopo, tenuto conto del fatto che  il  datore  irroga
una sanzione, il rispetto del principio di civilta' del cd. «audiatur
et altera pars» (arg. ex Corte costituzione n. 204/1982; 220/1995). 
    La questione peraltro non  sembra  poter  esser  risolta  in  via
interpretativa,   neppure   quella   della    cd.    «interpretazione
adeguatrice» perche': 
        a) l'art. 4  e'  assolutamente  inequivoco,  nel  suo  tenore
letterale, nel  parametrare  l'indennita'  alla  sola  anzianita'  di
servizio; 
        b) non appare possibile escludere che la  diversita'  tra  le
due fattispecie legittimi l'attuale art. 4, o richieda qualche  altra
forma di adeguamento costituzionale. 
        A tale riguardo, appare anche  rilevante  osservare  che  nel
sistema previgente di cui all'art. 18. della legge n.  300/1970  c.m.
dalla legge n. 92/2012, nell'ambito della cd. tutela indennitaria, la
commisurazione dipendeva, in caso di licenziamento ingiustificato per
ragioni sostanziali,  oltre  che  dall'anzianita'  di  servizio,  dal
numero  di  dipendenti  occupati,  dalle  dimensioni   dell'attivita'
economica, dal comportamento e della condizioni  delle  parti  (comma
5), mentre in caso di violazione formale-procedurale dipendeva  dalla
gravita' della stessa (comma 6), cosi' in sostanza gia'  prescindendo
da fattori chiaramente muniti di  un  nesso  apprezzabile  col  danno
sofferto dal lavoratore, come invece nel regime  di  cui  all'art.  8
della legge n. 604/1966, al quale il legislatore si era ispirato  nel
riscrivere l'art. 18, comma 5. 
    Ad avviso del giudicante, per le ragioni gia'  sopra  svolte,  il
carattere formale - procedurale della violazione non toglie nulla  al
fatto che il licenziamento intimato in violazione dell'art. 4 integra
un illecito che  deve  dar  luogo  ad  un  risarcimento  «adeguato  e
personalizzato», ancorche' forfettizzato, secondo  la  stessa  logica
che pare reggere Corte costituzione n. 194/2018.  D'altro  canto,  la
stessa commisurazione dell'indennita' all'anzianita' di  servizio,  e
quindi ad un fattore riconosciuto da  Corte  costituzione  n.194/2018
come parametrico del danno sofferto, operata  dall'art.  4,  accoglie
tale  impostazione,  sebbene  in  modo  del  quale  appare   evidente
l'insufficienza. 
    Peraltro, a ragionare altrimenti,  il  parametramento  «rigido  e
fisso» dell'indennita' all'anzianita' di servizio, piuttosto che,  al
limite, alla gravita' della  violazione,  appare  comunque  integrare
violazione del principio di  uguaglianza/ragionevolezza,  sanzionando
in modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma
di gravita' che possono essere, a loro volta, del tutto differenti. 
    La  rimessione   dello   scrutinio   alla   Corte   appare   resa
particolarmente ineludibile in ragione del fatto  che  questa,  nella
sentenza n. 194/2018, dopo aver verificato che la questione sollevata
sull'art. 4 non era delibabile per difetto del requisito di rilevanza
nel giudizio «a quo», non ha ritenuto di esercitare il potere ad essa
conferito  dall'art.  27  della  legge  n.  87/1953,  di   dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 «per derivazione». 
    Appare quindi anche non  manifestamente  infondata,  in  rapporto
agli  articoli  3,  4,  primo  comma,  e  35,  primo   comma,   della
Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4
del decreto legislativo 4  marzo  2015,  n.  23,  limitatamente  alle
parole «di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione  di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per  ogni
anno di' servizio». 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante, e non manifestamente infondata, con riguardo agli articoli
3, 4, comma 1, e 35, comma 1, della  Costituzione,  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4  del  decreto  legislativo  4
marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo pari  a  una
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»; 
    Ordina   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso; 
    Ordina che a cura della cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri,  e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
      Roma, 9 agosto 2019 
 
                          Il Giudice: Conte