N. 245 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 ottobre 2017

Ordinanza del 4 ottobre 2017 della  Corte  d'appello  di  Torino  nel
procedimento civile promosso da Confente Assunta,  n.q.  di  curatore
speciale di A. R.F. contro A. M. e P. F.T.. 
 
Filiazione - Impugnazione del riconoscimento del figlio naturale  per
  difetto  di  veridicita'  -  Esclusione  della   legittimazione   a
  promuovere  l'azione  nel  caso   di   consapevolezza   della   non
  veridicita' del riconoscimento - Mancata previsione. 
- Codice civile, art. 263. 
(GU n.3 del 15-1-2020 )
 
                    LA CORTE D'APPELLO DI TORINO 
                       Sezione per la famiglia 
 
    Riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei magistrati: 
        dott. Enrico Della Fina - Presidente; 
        dott.ssa Daniela Giannone - consigliere; 
        dott. Mauro Vella - consigliere relatore; 
    Visti gli atti del procedimento civile n. 1088/2016 R.G. promosso
in grado di appello dall'avv. Confente Assunta del  foro  di  Torino,
nella qualita' di curatore speciale  della  minore  A.  R.  F.,  tale
nominata  con  decreto  6  maggio  2013  del  Tribunale  di   Torino,
domiciliata presso il proprio studio professionale in  Torino  -  via
Ettore de Sonnaz n. 11 - con atto di citazione notificato in data  16
maggio 2016 - ammessa al patrocinio a spese dello  Stato;  appellante
nei confronti di A. M., elettivamente domiciliato  in  Torino  -  via
Bligny n. 15 - presso l'avv. Alessandro Bertolotto del foro di Torino
che lo rappresenta e  difende  per  delega  a  margine  dell'atto  di
citazione in primo grado; appellato  e  P.  F.  T.,  in  primo  grado
elettivamente domiciliata in Torino - via Papacino n. 2  -  presso  i
difensori avv.ti Luigia Di Giovine e Maria Federica Nicola  contumace
avverso la sentenza n. 1970/2016 - cron. n. 5757/16 in data 21  marzo
2016, depositata il 7 aprile 2016 e notificata a mezzo pec in data 18
aprile 2016; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    I. - A. M., come e' pacifico e incontestato in atti,  conobbe  la
signora P. F. T. nell'anno 2001; all'epoca, R. F.  figlia  della  P.,
era gia' nata; la bambina, infatti, riconosciuta  dalla  sola  madre,
era nata il 13 aprile 2000. 
    L'A. e la P. intraprendevano una relazione sentimentale con tanto
di convivenza la cui  «solidita'»  induceva  l'A.  al  riconoscimento
della bambina; 
        cio' avveniva nel  corso  dell'anno  2004  con  sostituzione,
disposta dal Tribunale per i minorenni di Torino, del cognome materno
della bambina (P.) con quello «A.». 
    Da quel momento la convivenza del nucleo familiare «di fatto»  si
protraeva sino al 2006; cessata la convivenza con la P., il  sig.  A.
aveva tuttavia continuato a provvedere spontaneamente  alle  esigenze
di R. F., fornendole assistenza morale, anche per  quanto  riguardava
l'educazione, nonche' materiale, mediante  la  corresponsione  di  un
assegno mensile di euro 250,00. 
    Tale situazione aveva termine nell'agosto del 2010 allorche' l'A.
interrompeva ogni rapporto con la bambina. 
    Nel dicembre 2012 il sig. A. conveniva in giudizio la  minore  R.
F., in persona della madre, P.  F.,  chiedendo  fosse  dichiarato  il
difetto di veridicita'  del  riconoscimento  da  lui  effettuato  nei
confronti della minore stessa con conseguenti annullamento  a'  sensi
dell'art. 263 del codice civile e relative annotazioni  sui  registri
dello stato civile; vinte le spese. 
    Si costituiva la sig.ra P. per conto della figlia minore  nonche'
in proprio, con atto di intervento volontario e, confermato  come  R.
F. non fosse effettivamente la figlia naturale  dell'A.,  evidenziava
come costui, al momento del riconoscimento, ne fosse perfettamente al
corrente sicche' chiedeva che,  da  tale  circostanza,  il  Tribunale
traesse le conseguenze di legge e dispiegava domanda  riconvenzionale
affinche' la minore conservasse il cognome  «A.»  ed  affinche'  l'A.
fosse condannato al risarcimento dei danni morali, patiti e  patiendi
dalla minore, per l'aver fatto venir meno una figura  di  riferimento
per la minore stessa; 
        chiedeva altresi' che l'attore fosse condannato al  pagamento
dell'assegno  di  mantenimento  che  il  medesimo  aveva  cessato  di
corrispondere spontaneamente fin dal 2010. 
    L'integrazione del contraddittorio  nei  confronti  della  minore
veniva assicurata mediante la  nomina  di  curatore  speciale  (nella
persona della attuale appellante, avv. Assunta Confente). 
    Costituitasi in giudizio, la curatela chiedeva il  rigetto  della
domanda attorea per carenza di legittimazione attiva del sig. A. alla
proposizione dell'azione di cui all'art. 263 del codice civile avendo
egli effettuato  il  riconoscimento  nella  palese  (e  incontestata)
consapevolezza della non corrispondenza alla verita'  «biologica»  di
siffatto riconoscimento; chiedeva pertanto al Tribunale di  sollevare
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  236  del  codice
civile per contrasto con gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione in
relazione all'art. 9 della legge n.  40/2004,  nella  parte  in  cui,
diversamente dall'art. 9 della legge citata, non prevede che il padre
che  ha  effettuato  il  riconoscimento  pur  conoscendone   la   non
corrispondenza al  vero,  non  sia  legittimato  ad  impugnare  detto
riconoscimento; 
        chiedeva altresi' che la questione di  costituzionalita'  per
contrasto con gli stessi articoli 2, 3 e 30, fosse sollevata anche in
relazione agli articoli 315 del codice civile e 244 del codice civile
laddove l'art. 263 del codice civile non prevede, per  l'impugnazione
del riconoscimento per difetto di veridicita', lo stesso  termine  di
decadenza previsto per il disconoscimento di paternita' ex  art.  244
del codice civile (peraltro tale eccezione veniva abbandonata perche'
in corso di causa era intervenuta  l'equiparazione  dei  termini  per
procedere alla modifica dello status dei figli legittimi e di  quelli
naturali); 
        la curatela chiedeva altresi' dichiararsi  il  diritto  della
minore a mantenere - comunque - il cognome «A.». 
    La intervenuta P., si associava alle  domande  della  curatela  e
chiedeva  dichiararsi  l'obbligo  dell'A.   di   corrisponderle   una
complessiva somma corrispondente al contributo mensile di euro 250,00
che quest'ultimo avrebbe cessato di corrisponderle dall'agosto 2010. 
    Con ordinanza 24 gennaio 2014  veniva  dichiarata  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla
curatela; 
        veniva successivamente disposta CTU genetica onde  verificare
la possibile esclusione del rapporto di filiazione fra l'A. M.  e  la
minore R. F.; la CTU non poteva essere espletata  stante  il  rifiuto
opposto dalla minore (cosi' come esplicitato dalla curatela); analoga
sorte aveva una successiva CTU. 
    Veniva  effettuata  istruttoria  orale  e,  successivamente,   il
Collegio rimetteva la causa sul ruolo onde consentire agli  esercenti
la responsabilita' genitoriale sulla minore di esprimersi  in  ordine
al consenso o  al  diniego  a  sottoporsi  a  prelievo  di  materiale
biologico  della  minore  onde   effettuare   la   CTU;   all'udienza
prefissata, i genitori della minore davano il proprio assenso a  tale
prelievo tuttavia la sig.ra P. evidenziava come, comunque, la  minore
(quattordicenne) fosse fermamente intenzionata a non sottoporsi  alla
indagine genetica; ovviamente anche la «nuova» CTU  non  poteva  aver
luogo e, precisate le  conclusioni,  la  causa  veniva  trattenuta  a
decisione. 
    II. - Tribunale adito pronunciava sentenza in data 21 marzo  2016
con la quale  confermava  il  gia'  espresso  giudizio  di  manifesta
infondatezza   della   sollevata    questione    di    illegittimita'
costituzionale dell'art. 263 del codice civile osservando che: 
        a)  quanto  alla  lamentata  violazione  del   principio   di
eguaglianza fra figli «naturali»  e  figli  «legittimi»  (uguaglianza
consacrata con la novella legge n. 219/2012)  determinata  dal  fatto
che l'azione di disconoscimento della paternita' del figlio legittimo
e' soggetta a termine annuale di decadenza (v. art.  244  del  codice
civile) mentre  l'azione  di  impugnazione  del  riconoscimento  (del
figlio naturale) per difetto di veridicita', e' imprescrittibile  (v.
art.  263  del   codice   civile):   l'unanime   giurisprudenza   (di
legittimita'  e  costituzionale)   ha   escluso   una   irragionevole
disparita' di trattamento in quanto, nel caso della impugnazione  del
riconoscimento del figlio naturale (art. 263 del codice  civile),  il
legislatore (nell'esercizio del suo legittimo  potere  discrezionale)
avrebbe inteso dare prevalenza al «favor veritatis», senza che  alcun
rilievo possa avere l'elemento soggettivo (ossia la buona o  la  mala
fede del soggetto  che  ha  operato  il  riconoscimento)  mentre  nel
diverso caso del disconoscimento, da parte  del  marito,  del  figlio
concepito nel matrimonio (art.  244  del  codice  civile)  lo  stesso
legislatore avrebbe inteso dare prevalenza al «favor  legitimitatis»,
quale espressione della presunzione di paternita' rispetto al  figlio
concepito nel matrimonio; inoltre il decreto legislativo n.  154  del
28 dicembre 2013 ha pur sempre mantenuto una differenziazione fra  il
figlio  concepito  nel  matrimonio  e  quello  concepito  fuori   del
matrimonio in quanto, nel caso del secondo, ha introdotto il  termine
annuale (ed, in alcuni casi, quello quinquennale) per  l'impugnazione
del riconoscimento, cosi' dimostrando di voler appunto mantenere  una
distinzione concettuale fra status di figlio legittimo  e  status  di
figlio  naturale,  il  che  legittima  la   prevalenza   del   «favor
legitimitatis» per il primo e del «favor veritatis» per il secondo; 
        b)  quanto  alla  lamentata  violazione  del   principio   di
ragionevolezza  sotto  il  profilo  della  illogica  possibilita'  di
impugnare il riconoscimento, per  difetto  di  veridicita',  concessa
dall'art. 263 del codice civile anche a colui che tale riconoscimento
abbia effettuato in perfetta mala fede e della antitetica preclusione
ad esercitare l'azione  di  disconoscimento  di  paternita'  prevista
dall'art. 9 della legge n. 40/2004 nei confronti del  coniuge  o  del
convivente che, consapevolmente, abbia acconsentito alla fecondazione
eterologa,  effettuata  («contra   legem»)   dall'altro   coniuge   o
convivente, situazioni perfettamente  equivalenti  sotto  il  profilo
della perfetta consapevolezza del soggetto agente di  non  essere  il
padre biologico: la legge n. 104/2004  e'  «lex  specialis»  e,  come
tale, disciplinante una situazione affatto  speciale,  rispetto  alla
quale, soltanto, il legislatore ha scelto di privilegiare  la  tutela
(speciale e rafforzata) del bambino (quello nato dalla, pur  vietata,
fecondazione eterologa), lasciando  intatta  la  previsione  generale
delle azioni di stato quale rielaborata dal  decreto  legislativo  n.
154/2013 (e che, come detto, conserva lo status  di  figlio  naturale
concettualmente distinto da quello di figlio  legittimo,  assicurando
al primo il «favor veritatis» ed al secondo il «favor legitimitatis»)
sicche' «appare riconoscibile - anche proprio alla  luce  dell'ultimo
citato intervento  legislativo,  pur  improntato  ad  una  rafforzata
tutela della filiazione  ed  al  "favor  minoris"  -  una  perdurante
volonta' discrezionale  del  legislatore  di  non  introdurre,  quale
principio generale dell'ordinamento in  tema  di  status,  l'elemento
della mala fede del soggetto agente il riconoscimento,  intesa  quale
circostanza  di  fatto  escludente  l'azionabilita'  del   successivo
disconoscimento/impugnazione    per    difetto    di     veridicita',
evidentemente ritenendo ancora prevalente  il  "favor  legitimitatis"
(in un caso) o il "favor veritatis" (nell'altro)». 
    Il Tribunale  riteneva  pertanto  sussistente  la  legittimazione
attiva dell'A. a proporre l'azione ex art. 263 del codice  civile  e,
quanto al  merito,  dato  atto  che  l'assenza  di  qualsiasi  legame
biologico fra l'attore e la  minore  non  era  contestata  ne'  dalla
curatela ne' dalla intervenuta madre della minore stessa posto che, a
detta di tutti, la relazione fra l'A. e la P. era iniziata quando  la
bambina era gia' nata, motivava nel senso che, comunque,  la  assunta
prova testimoniale aveva  confermato  che  l'A.  e  la  P.  si  erano
conosciuti ed avevano iniziato a  frequentarsi  nel  corso  del  2001
(ossia in epoca successiva alla nascita della bambina)  sicche',  pur
in assenza di una CTU, riteneva provata la domanda attorea nel  senso
del non essere, l'A., il padre biologico di R. F. sicche'  dichiarava
il difetto di veridicita' del riconoscimento  effettuato  dall'A.  M.
nei confronti della A. R. F. che, pertanto, annullava,  dando  ordine
all'ufficiale di stato civile del Comune di Torino di provvedere alle
relative annotazioni; 
        riteneva inammissibile la domanda della  curatela  in  ordine
alla conservazione del cognome «A.»  in  quanto  l'attore  non  aveva
domandato la cancellazione del cognome della minore ed, in quanto, in
ogni caso, anche in presenza del disconoscimento  di  paternita',  la
cancellazione del cognome non consegue automaticamente (la materia e'
regolata dal decreto del Presidente  della  Repubblica  n.  396/2000,
prevedente autonomi e diversi procedimenti); 
        riteneva altresi' inammissibile la  domanda  di  condanna  al
pagamento di quanto non corrisposto  dall'A.  azionata  dalla  P.  in
quanto l'intervento della  stessa,  processualmente,  era  attinente,
esclusivamente, allo «status» della minore e non alla proposizione di
autonoma  domanda  di  restituzione  sicche'  farebbe  difetto   ogni
connessione oggettiva tale da giustificare il simultaneo processo; in
ogni caso la accolta domanda ex art. 263 del  codice  civile  avrebbe
effetto «ex tunc». 
    Il Tribunale compensava le spese della curatela e  condannava  la
terza intervenuta, P., alla rifusione delle spese all'attore A. M. 
    III. - Avverso la  sentenza  ha  interposto  tempestivo  appello,
mediante atto di citazione nei confronti dell'A. M. e della P. F  T.,
la curatela della minore chiedendo: 
        a) annullarsi e/o riformarsi la sentenza appellata; 
        b) accertarsi e  dichiararsi  la  carenza  di  legittimazione
attiva    del    sig.    A.    e,    conseguentemente,    dichiararsi
l'improcedibilita' e/o l'inammissibilita' della domanda  proposta  in
primo grado; 
        c)  in  via  di  subordine:  dichiararsi  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  263
del codice civile, con riferimento all'art. 9 della legge n. 40/2004,
perche' in contrasto con gli articoli 2, 3 e  30  della  Costituzione
nella parte in cui non prevede che il  padre  che  ha  effettuato  il
riconoscimento nella  consapevolezza  della  sua  falsita',  non  sia
legittimato ad impugnare per falsita' tale riconoscimento; 
        d) in ogni caso: respingersi ogni avversa domanda; 
        e) con vittoria di spese, diritti  e  onorari  di  lite,  per
entrambi i gradi  di  giudizio,  oltre  rimborso  forfettario,  spese
generali del 15%, CPA ed IVA come per legge. 
    In estrema sintesi, l'appellante  lamenta  che  la  sentenza  sia
viziata da nullita' perche' il giudizio si e' svolto senza che mai si
sia proceduto alla audizione  della  minore  nonostante  la  medesima
abbia ormai sedici anni; il  tutto  in  aperta  violazione  dell'art.
336-bis del codice civile; 
        lamenta altresi' la carenza della motivazione della  sentenza
impugnata, sia perche', in parte, destinata ad escludere la rilevanza
della questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  263  del
codice civile in relazione all'art. 244 del codice civile, nonostante
la decadenza dell'attore dalla azione ex art. 263 del  codice  civile
non  fosse  mai  stata  eccepita,  sia  perche',  in  parte,   basata
esclusivamente su argomentazioni relative alla residua  questione  di
legittimita'  costituzionale  (inerente  la   legittimazione   attiva
dell'attore). 
    In punto di diritto, l'appellante motiva nel senso  che,  da  una
lettura costituzionalmente orientata dell'art. 263 del codice civile,
non puo' che trarsi la conseguenza logico-giuridica della  esclusione
della legittimazione attiva dell'A. quale autore di un riconoscimento
c.d. «per compiacenza» ossia nella piena consapevolezza della sua non
veridicita'. 
    L'evoluzione dottrinaria, normativa e giurisprudenziale, infatti,
secondo l'appellante, consentirebbe  di  ritenere  che  l'ordinamento
vigente  veda  nel  suo  interno  la  presenza  «di  un   canone   di
irreversibilita'  degli  effetti  determinativi  dello  status  della
persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti» (v. pag.
20 di atto di citazione) sicche' «deve  ritenersi  che  l'impugnativa
del riconoscimento ex art. 263 del codice civile non possa spettare a
chi consapevolmente ha riconosciuto il  figlio  nella  consapevolezza
dell'assenza  di  paternita'   biologica   [...]   un'interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 263 del codice civile conforme
alla evoluzione della giurisprudenza e  della  normativa  di  diritto
interno e sovranazionale [...] conduce in  primo  piano  il  rapporto
familiare  instaurato  di  fatto  rispetto  al   rapporto   puramente
biologico» (v. pag. 20 di atto di citazione). 
    Inoltre la stessa nuova formulazione  dell'art.  263  del  codice
civile conferma la preferenza accordata  dal  legislatore  al  «favor
minoris» nei confronti del «favor  veritatis»:  l'avere  lasciato  la
imprescrittibilita' dell'azione al solo figlio riconosciuto e l'avere
invece assoggettato al termine di decadenza di un anno (o,  comunque,
di  non  oltre  cinque  anni)  l'azione  esercitata  dall'autore  del
riconoscimento, dimostra la volonta'  del  legislatore  di  riservare
alla iniziativa del solo soggetto «debole» (il figlio)  il  perdurare
dell'incertezza sul suo «status», limitando  la  facolta'  dell'altro
soggetto (quello che ha effettuato il  riconoscimento)  di  mantenere
nell'incertezza tale «status», sicche', alla luce del  mutato  regime
di  decadenza  della  domanda  ex  art.  263   del   codice   civile,
«l'interesse alla tutela della verita' biologica  non  puo'  oggi  in
alcun modo ritenersi assoluto, neanche nei casi in cui  l'autore  del
riconoscimento sia in totale buona fede in quanto,  egli,  una  volta
decorso il termine massimo  di  cinque  anni  dalla  annotazione  del
riconoscimento sull'atto di nascita, non e' piu' titolato ad agire ex
art. 263 del codice civile» (v. pag.  23  di  atto  di  citazione  in
appello). 
    In  altri  termini,  lo  stato  della  evoluzione   normativa   e
giurisprudenziale consente di dire che l'interesse  del  minore  alla
tutela  della  propria  identita'  e  del  proprio  status,   prevale
sull'interesse - spesso contrastante  -  alla  tutela  della  verita'
biologica. 
    Nel caso di specie, si appalesa evidente l'interesse della minore
alla propria identita' biologica, contrapposto a  quello  dell'autore
del riconoscimento alla tutela della verita' biologica in quanto, nel
dare prevalenza al secondo, si finisce per imporre  alla  minore  «un
danno esistenziale gravissimo a cui si deve aggiungere un pregiudizio
altrettanto grave a livello economico. Il minore, infatti non  potra'
godere dell'apporto economico-patrimoniale di uno  dei  due  genitori
con tutte le conseguenze che ne derivano»; ne consegue che  «soltanto
ove l'interesse alla ricerca della verita' biologica  di  cui  si  fa
portatore colui che impugna  il  riconoscimento,  non  contrasti  con
l'interesse  del  minore  alla  propria  identita',  sara'  possibile
riconoscere    legittimazione    attiva    all'autore    del    falso
riconoscimento» (v. pag. 25 di atto di citazione); in altri  termini,
sembra sussistere il  principio  secondo  il  quale,  in  materia  di
rapporti di filiazione, l'interesse del minore deve  essere  ritenuto
sempre e comunque prevalente: interesse  che,  nel  caso  di  specie,
appare evidentissimo alla luce delle dichiarazioni della bambina  (il
«ripensamento»/«ripudio», di colui che  ella,  da  sempre,  conosceva
come il proprio padre, a tutti gli effetti, le ha provocato un  grave
pregiudizio; lei non voleva rinunciare a riconoscere il sig. A.  come
il proprio vero e unico padre anche dopo la «separazione» dalla madre
e dopo aver saputo della azione da costui intrapresa, percepita  come
un vero e proprio «ripudio»). 
    L'appellante ripropone  poi  la  questione  della  illegittimita'
costituzionale dell'art. 263 del codice civile per contrasto con  gli
articoli 2, 3 e 30 della Costituzione in riferimento all'art. 9 della
legge n. 40/2004 evidenziando come le situazioni considerate dai  due
articoli   siano   accomunate   dalla   consapevolezza   della    non
corrispondenza  tra  il  rapporto  di  filiazione  dichiarato  e   la
relazione biologica e come,  irrazionalmente,  il  legislatore  abbia
offerto due soluzioni difformi ed antitetiche. 
    Si e' costituito l'A. M. che, facendo riferimento alla richiamata
giurisprudenza di legittimita' e di merito e riservato il diritto  di
agire in separato giudizio ex  articoli  95  e  96  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 396/2000, chiede respingersi l'appello
avversario e  confermarsi  integralmente  l'impugnata  sentenza,  con
vittoria di spese per entrambi i gradi di giudizio. 
    L'appellato eccepisce la non applicabilita' della  norma  di  cui
all'art. 336-bis del codice civile e comunque la superfluita' di  una
audizione della minore; 
        eccepisce che lo stato della giurisprudenza,  costituzionale,
di legittimita' e di merito, sancisce  il  principio  che  la  tutela
della identita' del minore presuppone necessariamente la tutela della
verita' biologica (v. sentenze Corte costituzionale numeri:  216/1997
- 112/1997 - 322/2011 e 7/2012; Cass. civ. 2 febbraio 2016, n.  1957;
Cass. civ. 26 marzo 2015, n. 6136; Tribunale  di  Arezzo  15  gennaio
2014) ossia il  principio  della  preminenza  del  «favor  veritatis»
rispetto al «favor minoris», «atteso che senza il primo non  vi  puo'
essere il secondo» e posto che tutte le azioni di  stato  trovano  il
loro  cardine  nel  «favor  veritatis»;   analogo   principio   della
prevalenza del «favor veritatis» sul «favor  minoris»  lo  si  evince
dalla giurisprudenza comunitaria (v.  sentenza  n.  034/2017  del  24
gennaio 2017 C.E. D.U); 
        eccepisce  l'infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale sotto il profilo del richiamo all'art. 9  della  legge
n.  40/2004:  tale  norma,  infatti,  e'  tassativa  e   di   stretta
interpretazione e, pertanto,  non  puo'  essere  invocata  nel  senso
prospettato dall'appellante; col «nuovo» art. 236 del  codice  civile
il legislatore  ha  effettuato  scelte  politico-legislative  che  si
sottraggono al sindacato della Corte costituzionale; 
        la  questione  di   incostituzionalita'   prospettata   dalla
curatela appellante mancherebbe inoltre del requisito  della  novita'
in quanto il provvedimento n. 7/2012 della Corte  costituzionale,  la
Corte di cassazione e la giurisprudenza di merito, non ultima  quella
di Torino, ne hanno escluso la fondatezza; 
        la stessa questione di incostituzionalita', sotto il  profilo
della «ragionevolezza», sarebbe inammissibile anche per mancanza  del
requisito della omogeneita' della norma di raffronto: in questo caso,
l'art. 9 della legge n. 40/2004 non possiede appunto tale  requisito;
l'art. 236 del codice civile, infatti, nella vecchia  e  nella  nuova
formulazione, costituisce norma di carattere generale laddove  l'art.
9 della legge n. 40/2004, e'  norma  tassativa,  applicabile  ad  una
situazione   affatto   particolare,    e    pertanto    di    stretta
interpretazione,  insuscettibile  di  interpretazione   estensiva   o
analogica: la  conoscenza  della  «falsita'  della  dichiarazione  di
riconoscimento di paternita'» e' circostanza che non e' in alcun modo
presa in considerazione dall'art. 9 cit. mentre  essendo  l'art.  263
del codice civile relativo a  diritti  indisponibili,  «non  rilevano
[...] eventuali stati di buona o mala fede  del  dichiarante»  (Cass.
civ. n. 5886/1991) (v. pag. 14 di comp. conclus. A.); 
        l'appellato richiama  inoltre  l'ordinanza  n.  7/2012  della
Consulta secondo cui «il potere di stabilire la natura, la  durata  e
la modulazione del termine  per  la  proposizione  dell'impugnazione,
spetta al legislatore al quale solo e' consentito di operare [...] il
necessario bilanciamento del rapporto tra tutela  della  appartenenza
familiare e tutela della identita' individuale»; 
        eccepisce ancora  l'appellato  che  il  richiesto  intervento
della Consulta eccede i poteri della  medesima  ed  il  limite  della
discrezionalita'   legislativa,   cosi'   come,   in    materia    di
imprescrittibilita' della impugnazione e rilevanza della buona o mala
fede  dell'autore  del  riconoscimento,   ha   affermato   la   Corte
costituzionale con la sentenza n. 58/1967 e la  ordinanza  n.  7/2012
(«[...] il potere di stabilire la natura, la durata e la  modulazione
del  termine  per  la  proposizione   dell'impugnazione   spetta   al
legislatore [...]»): da qui  l'inammissibilita'  della  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 236 del codice civile (v. anche
sentenza n. 6221/2012 Tribunale di Torino - Sezione VIII). 
    IV. - Premesso che nel caso di specie non  si  fa  questione  del
rispetto del termine di decadenza, nella proposizione dell'azione, da
parte dell'A., posto che tale azione e' stata proposta nella  vigenza
della pregressa disciplina (imprescrittibilita' dell'azione)  e  che,
in ogni caso, l'art. 104, comma 10 del  decreto  legislativo  che  ha
innovato il regime  dell'art.  236  del  codice  civile  prevede  una
normativa transitoria che  consente  all'attore  di  beneficiare  del
termine annuale con decorrenza dalla entrata in vigore del decreto, e
premesso  altresi'  come  non  possa  essere  messo  in   discussione
l'esercizio, da parte del legislatore, di un potere discrezionale nel
dare, alla materia in questione,  quella  veste  giuridica  che  esso
meglio  crede,  ritiene  la  Corte  che  la  sentenza  impugnata  sia
perfettamente  conforme  al   tessuto   normativo   vigente   e   che
l'interpretazione che di tale tessuto normativo  e'  stata  data  dal
Tribunale, sia perfettamente corretta ed aderente alla lettera  della
legge e che altra interpretazione non sia accettabile. 
    Non   convincono   infatti,   i   rilievi   dell'appellante:   la
contestualizzazione normativo-giurisprudenziale della norma dell'art.
236 del codice civile proposta dall'appellante (passaggio da una fase
di assoluta preminenza del principio del  «favor  veritatis»  ad  una
fase di progressivo affievolimento, sancito dalla sentenza Cass. civ.
16 marzo 1999, n. 2315 e dall'art. 9 della legge n.  40/2004,  e  poi
ancora ad una fase di  riconosciuta  centralita'  dell'interesse  del
figlio  con  riconosciuto  rilievo  della  buona  o  mala  fede   del
dichiarante, sancita  dalle  fonti  internazionali  e  da  autorevole
dottrina, nonche'  il  progressivo  riconoscimento  del  diritto  del
minore - prevalente anche sulla pretesa  punitiva  dello  Stato  -  a
conservare il proprio «status» ed a  vivere  nella  propria  famiglia
mantenendo un rapporto equilibrato  e  continuativo  con  entrambi  i
genitori e poi, ancora, l'affermarsi di una giurisprudenza di  merito
che, sulla base del principio di  responsabilita',  ha  ritenuto  non
essere ammissibile «avvalersi, per conseguire  risultati  voluti,  di
atti illeciti in precedenza commessi, tanto piu' laddove gli  effetti
si ripercuotano su terzi (il figlio) incolpevoli» (v. pag.  19  comp.
atto di citazione) e, infine,  la  modifica  introdotta  dal  decreto
legislativo n. 154/2013) non appare, infatti, idonea  ad  autorizzare
la individuazione di un principio generale che, in  materia,  imponga
di dare rilievo allo stato soggettivo (buona o mala  fede)  di  colui
che effettua il riconoscimento, con  prevalenza  sull'interesse  alla
salvaguardia della verita' biologica; il  dato  normativo,  anche  da
ultimo ribadito dal legislatore, che - con l'innovazione del  termine
di decadenza dell'azione ex art. 263 del codice civile - ha  mostrato
di nulla voler innovare al regime della legittimazione ad  impugnare,
conferma, allo stato del diritto positivo, l'irrilevanza dello  stato
soggettivo (buona o mala fede) del genitore che era stato consapevole
della non veridicita' del  proprio  riconoscimento,  cosi'  come  del
resto esattamente ritenuto dal Tribunale (in tal senso  si  condivide
il rilievo di parte appellata secondo cui «semmai il nuovo  art.  263
del codice civile testimonia come il legislatore  abbia  inteso  dare
risposta alle problematiche  nel  tempo  sollevate  con  riguardo  al
vecchio art. 236  del  codice  civile  confermandone  l'azionabilita'
anche in caso di consapevole non veridicita'» (v. pag. 5  di  memoria
di replica A.) e secondo cui «[...] non si comprende  come  si  possa
affermare  che   la   predisposizione   di   nuove   condizioni   per
l'impugnazione costituisca - o corrisponda - ad  un  divieto,  quando
proprio i nuovi limiti - peraltro  non  opponibili  al  signor  A.  e
riguardanti esclusivamente il tempo entro cui agire e  non  lo  stato
soggettivo dell'agente - testimoniano la proponibilita'  dell'azione,
che diversamente il legislatore avrebbe  espressamente  vietato»  (v.
pag. 7 di memoria di replica A.). 
    Aggiungasi che gli arresti giurisprudenziali citati hanno  natura
troppo generica e scarsa incidenza, a  fronte  della  specificita'  e
peculiarita' della normativa vigente  in  materia,  per  imporre  una
lettura di tale normativa nel senso che l'interesse del  minore  alla
propria identita'  familiare  (comunque  realizzatasi)  debba  essere
sempre considerato prevalente. 
    Quanto, poi, alla eccezione di nullita' della  sentenza  a  causa
del mancato interpello della minore,  si  osserva  che  la  normativa
dell'art. 336-bis del codice civile e' stata introdotta dopo  l'avvio
della causa da  parte  dell'A.  sicche'  non  sembra  invocabile  nel
presente giudizio; soprattutto si osserva che - comunque - attraverso
il deposito della memoria 28 luglio 2014 della curatela,  l'«ascolto»
della minore ha avuto  piena  attuazione  (tant'e'  che,  proprio  in
considerazione  del  suo  atteggiamento,  si  e'  soprasseduto   alla
effettuazione della CTU); lo stato soggettivo della  minore,  i  suoi
desideri, le sue  esigenze  personali  e  morali  hanno  avuto  piena
esplicitazione in corso di causa sicche' una ulteriore «esplorazione»
dei medesimi, oltre che dolorosa, sarebbe stata del  tutto  superflua
(e tale rimane anche nel presente grado). 
    Dunque, l'interpretazione ed applicazione  che  il  Tribunale  ha
dato del  complesso  normativo  vigente  in  materia,  e'  del  tutto
corretto; ne conseguirebbe che solo in presenza di un  esercizio  del
proprio potere discrezionale, da parte del legislatore, in violazione
dei principi costituzionali di  eguaglianza  e  ragionevolezza  ossia
solo in presenza di una  riconosciuta  illegittimita'  costituzionale
della norma in questione, si imporrebbe la  auspicata  riforma  della
sentenza impugnata. 
    V. - Cio' premesso, ritiene la Corte che  sussistano  motivi  per
ritenere non manifestamente infondata la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 263 del codice civile in relazione  all'art.
9  della  legge  n.  40/2004  ed  agli  articoli  2,  3  e  30  della
Costituzione. 
    Come gia' detto, non e' in discussione il potere del  legislatore
di legiferare con piena discrezionalita', dando alle varie situazioni
il «trattamento» che  meglio  crede;  cio'  non  toglie  che  occorre
evitare che nell'esercizio di detta discrezionalita', il  legislatore
possa violare i principi della carta costituzionale. 
    Orbene, in relazione alla contemporanea vigenza dell'art. 263 del
codice civile (come ridisegnato dal decreto legislativo n.  154/2013)
e dell'art. 9 della legge n. 40/2004, si osserva  che  le  situazioni
fattuali cui le due disposizioni di legge fanno riferimento  -  sotto
il  profilo  soggettivo  di  colui  che   pone   in   essere   l'atto
determinativo dello «status» del nato, quale figlio proprio -  (ossia
sotto il profilo soggettivo di  colui  che  abbia  acconsentito  alla
procreazione assistita eterologa da parte del coniuge o convivente  -
v. art. 9 della legge n. 40/2004 - e di colui che abbia effettuato il
riconoscimento  in  difetto  di   veridicita'   ossia   nella   piena
consapevolezza della inesistenza di una relazione biologica - v. art.
236  del  codice  civile)  -  appaiono  assolutamente  identiche.  In
entrambi i casi, infatti, vi e' la incontestabile  consapevolezza  di
non essere il padre biologico  del  riconosciuto  e  la,  altrettanto
incontestabile, volonta' di assumere, consapevolmente, la  paternita'
e la responsabilita', quale genitore  a  tutti  gli  effetti,  di  un
figlio che si sa non essere biologicamente il proprio. 
    In entrambi i casi, a monte del riconoscimento, vi  e'  un  atto,
consapevole  e  «contra  legem»  (il   consenso   alla   pratica   di
procreazione assistita di tipo eterologo, nel caso dell'art. 9  della
legge n. 40/2004, e la violazione dell'art. 567  del  codice  penale,
nel caso del riconoscimento c.d. «di compiacenza»). Cio'  nonostante,
l'art. 9 della legge n. 40/2004 preclude l'esercizio  dell'azione  di
disconoscimento della paternita' e l'impugnazione del  riconoscimento
per difetto di veridicita' di cui  all'art.  263  del  codice  civile
mentre l'art. 623 del codice civile - per  effetto  della  norma  del
decreto legislativo n. 2013/154 che si limita ad affidarla a  diversi
e piu' severi termini di decadenza - mostra di perpetuare,  a  favore
dell'autore  del   non   veritiero   riconoscimento,   l'azione   per
l'impugnazione del riconoscimento medesimo. 
    La «ratio» sottesa al divieto dell'art. 9 della legge n. 40/2004,
e'   evidente:   occorre   tutelare   il   principio   -   deducibile
dall'ordinamento comunitario  e  dagli  obblighi  internazionali  (v.
Convenzione dei diritti del fanciullo di New  York  del  20  novembre
1989; Convenzione europea sui  diritti  dei  fanciulli  adottata  dal
C.d'E. a  Strasburgo  il  25  gennaio  1996,  la  carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000) - entrato a far
parte integrante  dell'ordinamento  interno  italiano  -  secondo  il
quale,  in  ogni  provvedimento  legislativo   o   amministrativo   o
giudiziario  che,  in  qualche  modo,  riguardi  anche   un   minore,
l'interesse  di   quest'ultimo   deve   sempre   essere   considerato
preminente; 
        occorre altresi' impedire che colui  che,  consapevole  della
difformita' dalla realta' biologica, altrettanto  consapevolmente  ha
scelto di instaurare con un minore un formale rapporto di  filiazione
(con conseguente nascita di una serie di benefici per quest'ultimo ed
un evidente interesse a conservare  lo  «status»  di  figlio),  possa
successivamente, sacrificare detti benefici ed interessi  del  minore
semplicemente perche' la riconsiderazione dei  propri  interessi  (la
natura dei quali neanche e' tenuto a rappresentare) lo ha  indotto  a
ritrattare il gia' prestato riconoscimento,  accampando  quale  causa
quello di cui fin dal principio egli era  perfettamente  consapevole,
ossia la non veridicita' del  riconoscimento  medesimo  (la  curatela
appellante cosi' opportunamente si esprime: «Qual  e'  la  differenza
fra il caso  in  cui  un  bambino  nato  in  seguito  a  fecondazione
medicalmente assistita di tipo eterologo venga  ripudiato  dal  padre
per non esserne genitore  biologico  (ipotesi  espressamente  vietata
dall'art. 9 della legge n. 40/2004) e il caso in cui il bambino, gia'
nato, venga riconosciuto da colui che e' ben  consapevole  della  non
corrispondenza tra lo "status" falsamente  dichiarato  e  la  verita'
biologica, nell'ipotesi in cui  l'autore  del  riconoscimento  decida
d'un tratto di non voler piu'  occuparsi  del  bambino  (ipotesi  non
espressamente esclusa dall'art. 263 del codice civile)?»). 
    La situazione che viene in considerazione  nell'ambito  dell'art.
236 del codice civile sembra, a questa Corte, essere  sostanzialmente
identica a quella considerata dall'art. 9 della legge n.  40/2004  ed
identica dovrebbe essere la «ratio» cui le due disposizioni di  legge
dovrebbero ispirarsi: cio' nonostante la  disciplina  prevista  dalle
due disposizioni di legge e'  diametralmente  opposta  e  la  tutela,
accordata al minore dall'art. 9 della  legge  n.  40/2004,  nel  caso
dell'art. 236 del codice civile,  appare  sostanzialmente  nulla.  Il
tutto  induce  a  ritenere  che  non  sia  manifestamente   infondata
l'ipotesi  che  tale  disparita'  di  trattamento  sia   viziata   da
incostituzionalita' (riferita all'art. 263 del codice civile), sia in
relazione  al  principio  di  uguaglianza  e  ragionevolezza  sancito
dall'art. 3 della Costituzione, sia anche in relazione  al  principio
di responsabilita' individuale e di solidarieta'  sociale  nonche'  a
quello della tutela dell'identita' personale che trovano  espressione
nell'art. 2 della Costituzione; a tale  proposito,  infatti,  non  e'
superfluo notare come l'identita' personale  trovi  il  suo  elemento
caratterizzante proprio nel «nome», quale autonomo  segno  distintivo
della identita' personale, e come proprio l'acquisizione  del  «nome»
sia l'effetto piu' rimarchevole e di piu'  immediata  percezione  nel
contesto sociale, del riconoscimento di  paternita'  tant'e'  che  la
sentenza  n.  13/1994  della  Corte  costituzionale   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 165 del  regio  decreto  n.
1238/1939, in relazione all'art. 2 della Costituzione, nella parte in
cui, in caso di rettifica degli atti dello stato civile, non consente
all'interessato di far valere il suo diritto a mantenere  il  cognome
originario allorche' il medesimo cognome sia  diventato  un  autonomo
segno distintivo della sua identita' personale. Orbene, nel  caso  di
specie, sia in considerazione dell'eta' della  minorenne,  della  sua
volonta', ampiamente manifestata, di non rinunciare allo «status»  di
figlia dell'A., del considerevole lasso di tempo  durante  il  quale,
pubblicamente, si e' «manifestata» la «paternita'» dell'A., non  v'e'
dubbio che il cognome «A.» sia  divenuto  autonomo  segno  distintivo
della identita' personale della minore. 
    Non sembra invece, a questa  Corte  che  si  possano  intravedere
profili  di  incostituzionalita'  in  relazione  all'art.  30   della
Costituzione in  quanto  tale  articolo  riserva  al  legislatore  la
disciplina per «la ricerca della paternita'» e si limita a  prevedere
il diritto e dovere dei genitori  di  educare  i  figli  (anche  solo
naturali) ed il diritto di questi ultimi di  godere  di  ogni  tutela
giuridica e sociale: il tutto sull'ovvio  presupposto  dell'esistenza
di uno  «status»  di  figlio  e  dell'esistenza  di  un  rapporto  di
«paternita'» effettivamente esistente e riconosciuto come tale. 
    Da ultimo, si ritiene di dissentire dalle contestazioni mosse  da
parte appellata  alla  richiesta  di  dichiarare  non  manifestamente
infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 263
del codice civile. 
    Tali contestazioni investono, in primo luogo, il requisito  della
«novita'» della questione proposta, in quanto, sulla  medesima,  gia'
si  sarebbe  espressa  la  Corte  costituzionale  (nel  senso   della
insussistenza di qualsiasi estremo  di  incostituzionalita')  con  le
sentenze n. 134 del 1985 e n. 158 del 1991 che affermano il principio
secondo  cui  «a  prescindere  dalla  difficolta'  di  stabilire   un
razionale "dies a quo" per il termine invocato [...] sta la  decisiva
considerazione che non la Corte, ma  solo  il  legislatore,  potrebbe
stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilita'
disposta dall'art. 263 del codice civile» (v. sentenza n. 134/1985) e
secondo cui «non il giudice  delle  leggi,  ma  solo  il  legislatore
potrebbe   stabilire   la   durata   del   termine   da    sostituire
all'imprescrittibilita' disposta dall'art. 263 del codice civile» (v.
sentenza  n.  158/1991).   In   realta'   la   questione   presa   in
considerazione dalle due suddette sentenze,  e'  affatto  diversa  da
quella attuale atteso che, la prima questione, cui ha  dato  risposta
la    prima    sentenza,    riguardava    la    sostituzione    della
imprescrittibilita' dell'impugnazione ex art. 263 del  codice  civile
con «termini brevi di decadenza», mentre la questione,  cui  ha  dato
risposta  la  seconda   sentenza,   riguardava   la   disparita'   di
trattamento, rispetto ai termini di proposizione dell'azione  di  cui
all'art. 244 del codice civile e  di  cui  all'art.  263  del  codice
civile, fra il figlio naturale riconosciuto (permanentemente  esposto
alla  perdita  del  proprio  «status»,   data   l'imprescrittibilita'
dell'azione ex art. 263 del codice civile), ed il  figlio  legittimo,
per il cui disconoscimento il padre dispone di  azione  sottoposta  a
termine di decadenza annuale ex art. 244 del codice  civile  (sicche'
nel caso dei figli nati fuori del matrimonio, il legislatore  avrebbe
dato la prevalenza al c.d. «favor  veritatis»  mentre,  per  i  figli
legittimi, avrebbe dato prevalenza al c.d. «favor legitimitatis»). 
    E difetto di novita' nemmeno e' ravvisabile con riferimento  alla
ordinanza n. 7/2012 con la quale la Corte costituzionale ha  ribadito
il principio che «il potere di stabilire la natura, la  durata  e  la
modulazione del termine  per  la  proposizione  dell'impugnazione  in
esame, spetta al legislatore, al quale solo e' consentito di operare,
anche  in  ragione  dell'evolversi  della  coscienza  collettiva,  il
necessario bilanciamento del rapporto tra tutela  della  appartenenza
familiare e tutela  della  identita'  individuale  [...]».  Anche  in
questo caso  infatti,  trattasi,  appunto,  della  natura,  durata  e
modulazione  del  termine  per  la   proposizione   dell'impugnazione
dell'art. 263 del codice civile: articolo della cui  legittimita'  il
giudice remittente dubita «nella parte in cui  non  sottopone  ad  un
termine annuale di decadenza il  diritto  del  genitore  di  esperire
l'azione di impugnazione del riconoscimento di  figlio  naturale  per
difetto di veridicita'». In tutti i casi, dunque, cio' di cui  si  fa
questione  e'  il  termine   di   decadenza   per   la   proposizione
dell'impugnazione e non  gia'  la  legittimazione  alla  impugnazione
medesima. 
    Altra contestazione investe la possibilita' di assumere l'art.  9
della legge n. 40/2004 quale norma di raffronto per non essere dotata
del requisito della omogeneita' con l'art. 263 del codice  civile  in
quanto quest'ultimo avrebbe portata ordinaria e  generale  mentre  il
primo costituirebbe norma tassativa, di  stretta  interpretazione  ed
insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Invero, come
detto  a  chiare  lettere  dalla  ordinanza  n.  7/2012  della  Corte
costituzionale, il divieto del disconoscimento della paternita' o  di
impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita', comminato
al coniuge o al  convivente  consenziente  in  caso  di  procreazione
medicalmente  assistita  eterologa,   «configura   una   ipotesi   di
intangibilita' "ex lege" dello "status", la quale (come tale)  incide
non gia' sul profilo della  imprescrittibilita'  dell'azione  di  cui
alla  norma  censurata,  quanto  piuttosto  su  quello  completamente
diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla  impugnazione
medesima» (ed e' appunto la legittimazione di colui  che  impugna  il
riconoscimento che viene in considerazione nel  presente  processo  e
non gia' la imprescrittibilita' dell'azione). 
    Quanto alla contestazione  di  parte  appellata  secondo  cui  la
questione di incostituzionalita'  sarebbe  inammissibile  perche'  si
tradurrebbe nella richiesta  di  una  inammissibile  pronuncia  della
Corte costituzionale «additiva di principio» o di  «mera  abrogazione
dell'art. 263 del codice civile» «atteso  che,  nel  primo  caso,  si
lascerebbe troppo spazio al potere  discrezionale  del  giudice,  nel
secondo, si creerebbe  un  inammissibile  -  anche  alla  luce  delle
predette interpretazioni della norma in esame - vuoto normativo», non
resta che osservare che la fattispecie dell'art.  9  della  legge  n.
40/2004 coincide con quella  del  presente  caso,  per  un  requisito
assolutamente specifico, ossia per il requisito della  consapevolezza
della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione  dichiarato  e
la  effettiva  relazione  biologica;  l'irragionevole  disparita'  di
trattamento operata dal legislatore nei due casi, dovrebbe e potrebbe
essere  costituzionalmente  «sanata»  mediante   l'esclusione   della
legittimazione ex art. 236 del codice civile del solo soggetto che ha
operato  un  riconoscimento  c.d.  «compiacente»;  tutto   il   resto
rimarrebbe intatto e non si verificherebbe alcun vuoto normativo. 
    Quanto  infine  alla  possibilita'  che  da  una   pronuncia   di
incostituzionalita', nel senso auspicato dalla  curatela  appellante,
si verifichino effetti di irragionevole disparita' con soggetti  che,
nella stessa condizione dell'A.,  abbiano  agito  dopo  l'entrata  in
vigore del decreto legislativo  12.07/13.12.2013  che  ha  sottoposto
l'esercizio dell'azione di cui all'art.  263  del  codice  civile  ai
termini di decadenza,  non  resta  che  osservare,  con  la  curatela
appellante,  che  «l'accoglimento  della  questione  di  legittimita'
costituzionale prospettata, determinerebbe l'inammissibilita', in via
generale, e senza distinzioni di sorta, non  soltanto  della  domanda
azionata dal sig. A., ma anche di tutte le impugnazioni ex  art.  263
del  codice  civile  azionate,  in  ogni  tempo,  dagli   autori   di
riconoscimenti consapevolmente falsi». 
    Infine, questa Corte non ignora la pronuncia della Suprema  Corte
di cassazione n. 5886/91 secondo cui  l'azione  di  impugnazione  del
riconoscimento per difetto di veridicita' e' ammessa in ogni caso  in
cui il  riconoscimento  sia  obiettivamente  non  veridico,  a  nulla
rilevando eventuali stati soggettivi di buona o mala fede dell'autore
del riconoscimento e quindi anche nel caso in cui  il  riconoscimento
sia stato effettuato con la consapevolezza dell'altrui paternita'. E'
appena il caso, tuttavia, di accennare al  fatto  che  i  profili  di
diritto che sono sottesi alla richiamata  sentenza  nulla  hanno  che
vedere con i profili di incostituzionalita' prospettati nel  presente
giudizio. 
    La questione di  incostituzionalita'  dell'art.  236  del  codice
civile, sollevata dalla  curatela  appellante,  appare,  dunque,  non
manifestamente  infondata  e  la  sua  soluzione  si  prospetta  come
indispensabile ai fini del  decidere  la  presente  causa  in  quanto
l'esito  della  stessa  e'  direttamente  correlato  al  giudizio  di
legittimita' costituzionale della norma in questione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Rimette sul ruolo la causa civile d'appello n. 1088/2016 R.G.; 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
        dichiara  non  manifestamente  infondata   e   rilevante   la
questione di incostituzionalita' dell'art.  263  del  codice  civile,
come sopra proposta dalla appellante curatela della minore A. R.  F.,
e, per l'effetto, solleva questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 263 del codice civile  con  riferimento  all'art.  9  della
legge n. 40/2004 perche' in contrasto con gli articoli 2  e  3  della
Costituzione, nella parte in cui non prevede  che  il  padre  che  ha
effettuato il  riconoscimento  nella  consapevolezza  della  sua  non
veridicita', non sia legittimato a promuovere la relativa azione; 
        dispone la sospensione del processo in corso; 
        ordina  la  notificazione   della   presente   ordinanza   ai
procuratori delle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e
la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei deputati
e del Senato; 
        ordina la trasmissione della presente  ordinanza  alla  Corte
costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle
avvenute notificazioni e comunicazioni prescritte. 
          Cosi' deciso in Torino il 18 luglio 2017. 
 
                      Il Presidente: Della Fina 
 
 
                                      Il consigliere estensore: Vella