N. 7 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 ottobre 2019

Ordinanza  del  15  novembre  2019  della  Corte  d'appello  di  Roma
sull'istanza proposta da T. G.. 
 
Ordinamento  penitenziario  -  Benefici  penitenziari   -   Modifiche
  all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 -  Inserimento
  del delitto di cui all'art. 318  del  codice  penale  tra  i  reati
  ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari. 
- Legge 9 gennaio 2019, n. 3  (Misure  per  il  contrasto  dei  reati
  contro  la  pubblica  amministrazione,  nonche'   in   materia   di
  prescrizione del reato e in materia di trasparenza  dei  partiti  e
  movimenti politici), art. 1,  comma  6,  lettera  b),  modificativo
  dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
  sull'ordinamento penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle  misure
  privative e limitative della liberta'), in relazione  all'art.  318
  del codice penale. 
Esecuzione penale - Sospensione dell'esecuzione delle pene  detentive
  brevi - Esclusione nei confronti delle persone  condannate  per  il
  reato di cui all'art. 319-quater, primo comma, del  codice  penale,
  aggiunto dalla legge n. 3 del 2019 all'art. 4-bis  della  legge  n.
  354 del 1975 tra i reati ostativi alla concessione  di  determinati
  benefici penitenziari - Mancata previsione di un regime transitorio
  che  dichiari  applicabile  la  novella  ai  soli  fatti   commessi
  successivamente alla sua entrata in vigore. 
- Codice penale [recte: Codice di procedura penale], art. 656,  comma
  9, lettera a), nella parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge
  26 luglio 1975, n.  354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
  sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e   limitative   della
  liberta'), come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b),  della
  legge 9 gennaio 2019, n. 3  (Misure  per  il  contrasto  dei  reati
  contro  la  pubblica  amministrazione,  nonche'   in   materia   di
  prescrizione del reato e in materia di trasparenza  dei  partiti  e
  movimenti politici), in relazione all'art. 319-quater, primo comma,
  del codice penale. 
(GU n.6 del 5-2-2020 )
 
                      CORTE DI APPELLO DI ROMA 
 
    La Corte di appello di Roma, sezione III penale composta da: 
        1) dott.ssa Annamaria Acerra, Presidente relatore; 
        2) dott.ssa Cecilia Demma, consigliere; 
        3) dott.ssa F. Romana Salvadori, consigliere; 
    riunita in camera di consiglio, sciogliendo  la  riserva  assunta
all'udienza del 30 ottobre 2019,  sentite  le  parti,  ha  emesso  la
seguente ordinanza di  rimessione  alla  Corte  costituzionale  e  di
contestuale sospensione del procedimento. 
    Con richiesta, pervenuta in data 23 ottobre 2019, il difensore di
T. G. nato a . . . .  il . . . ., in atto detenuto presso la Casa  di
reclusione di in forza di ordine di esecuzione emesso  dalla  Procura
generale presso la Corte d'appello di Roma in data 22  ottobre  2019,
chiede  dichiararsi  la   temporanea   inefficacia   dell'ordine   di
esecuzione della pena per la durata  di  trenta  giorni  al  fine  di
formulare richiesta di  misura  alternativa  alla  detenzione  e,  in
subordine, di  sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4-bis della legge n. 354/75, come modificato  dall'art.  1,
comma 6 della legge 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; 
    letti gli atti; 
    premesso che, con sentenza resa da questa Corte territoriale l'11
novembre 2018, in parziale riforma della sentenza  del  Tribunale  di
Roma in data 20 luglio 2017, irrevocabile il 22 ottobre 2019,  G.  T.
e' stato condannato alla pena di anni 2, mesi 6 di reclusione per  il
reato di cui all'art. 318 del codice penale; 
    ritenuto,   preliminarmente,   che   l'istanza   di   sospensione
dell'esecuzione cosi' come proposta risulta  ammissibile.  Invero,  a
mente dell'art. 656  del codice  procedura  penale,  come  modificato
dalla legge n. 165/98, il pubblico  ministero,  fermo  il  dovere  di
emettere l'ordine di carcerazione per le pene detentive brevi,  deve,
contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento,
assegnando al condannato un termine di trenta  giorni  per  formulare
richiesta di  misure  alternative.  Ne  consegue  che,  ove  non  sia
adottato il provvedimento di sospensione,  non  essendo  prevista  la
facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento  o
di revoca dell'ordine di  carcerazione  legittimamente  emesso,  deve
pero'  essere  consentito  al  condannato  di  rivolgere  al  Giudice
dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia  temporanea
del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione
analogica dell'art. 670 del codice di procedura penale (confronta  la
Cassazione sezione 1, sentenza n. 25538 del  10  aprile  2018  Cc.  -
depositata il 6 giugno 2018 - Rv. 273105: «Il giudice dell'esecuzione
non  puo'  annullare  l'ordine  di  esecuzione  emesso  dal  pubblico
ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per  pene
detentive brevi, ma deve esclusivamente  dichiararlo  temporaneamente
inefficace per consentire al condannato di presentare, nel termine di
trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura  alternativa
alla detenutone»); 
    rilevato  che  l'ordine  di  esecuzione  di  cui  si  invoca   la
sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per
reato ostativo all'applicazione di misure alternative alla detenzione
a seguito della modifica introdotta dall'art. 1, comma 6 della  legge
n. 3/2019, entrata in vigore il 31 gennaio 2019; che il condannato al
momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione della  pena  era  in
stato di liberta'; 
 
                               Osserva 
 
    La difesa, richiamando la giurisprudenza  di  legittimita'  e  di
merito, nonche' della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, invoca l'adozione di
un provvedimento di sospensione alla stregua di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata del precetto di cui all'art. 1, comma  6
della  legge  3/2019   sotto   il   profilo   della   sua   possibile
interpretazione   quale   norma   sostanziale    piu'    sfavorevole,
inapplicabile retroattivamente a fatti - come nel caso  di  specie  -
commessi prima della sua entrata in vigore; in subordine, in  difetto
delle  condizioni  per  simile   operazione   ermeneutica,   denuncia
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  6,  lettera  b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la' dove ha inserito i reati contro
la pubblica amministrazione tra quelli «ostativi» ai sensi  dell'art.
4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, senza prevedere  un  regime
intertemporale e, in ogni caso, laddove,  ha  inserito  alcuni  reati
contro la  pubblica  amministrazione,  tra  i  quali  quello  di  cui
all'art. 318 del codice penale, tra quelli ostativi  ai  benefici  di
cui all'art. 4-bis della legge n.  354/1975  per  contrasto  con  gli
articoli 3, 24, 25, comma 2, 27, comma 3, 117 della Costituzione e  7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali evidenziando che: 
        - avendo riguardo al combinato disposto degli  articoli  656,
comma 9, lettera a) del codice di  procedura  penale  e  4-bis  della
legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione al delitto di cui all'art.
318 del codice penale inserito nel  novero  dei  reati  di  cui  allo
stesso art. 4-bis in virtu' della novella del 9 gennaio 2019,  n.  3,
non sia piu' possibile sospendere  l'ordine  di  esecuzione  ai  fini
della richiesta di misure alternative alla  detenzione  in  stato  di
liberta'. In assenza di una disposizione transitoria  regolativa  dei
limiti temporali di applicazione della nuova disciplina,  l'emissione
dell'ordine di carcerazione e' pertanto «obbligata», con una modifica
peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa  «a
sorpresa» atteso che, al momento in cui e' stato commesso  il  reato,
il  condannato  poteva  ragionevolmente  confidare  che  la  sanzione
sarebbe rimasta nei limiti di operativita' delle misure alternative. 
    Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle  «regole
del  gioco»,  in  quanto  del  tutto  imponderabile  all'atto   della
commissione del reato, si ponga in evidente contrasto  con  l'art.  7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, come interpretato  nella  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo in  situazioni  analoghe  -
rilevante ai fini dell'art. 117 della Costituzione -, la' dove  viola
il  principio  dell'affidamento  quanto  alla  prevedibilita'   delle
conseguenze  sanzionatone  (vedi  per  tutte  Grande  Camera  del  21
dicembre 2013, Del Rio Prada e. Spagna). 
    Sotto diverso aspetto, pone in luce come  la  novella  normativa,
nel  modificare   le   modalita'   di   esecuzione   della   pena   -
tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale - abbia
nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della  pena  e
quindi sulla stessa «natura della sanzione», di  fatto  tramutata  da
«alternativa»  in   «detentiva».   Tenuta   presente   l'impostazione
«sostanzialistica»  ed  «antiformalista»  ormai   affermatasi   nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione
ad  istituti  che  presentano  marcati  tratti  di  analogia  con  il
peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato  art.
4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del  21
dicembre 2013, Del Rio Prada e.  Spagna),  i  mutamenti  con  effetti
concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono
ritenersi  avere  natura,  non  processuale,  ma   sostanziale,   con
conseguente inapplicabilita' retroattiva. 
    Infine  la  difesa  censura  la  costituzionalita'  dello  stesso
inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui
al citato art. 4-bis dei delitti dei  pubblici  ufficiali  contro  la
pubblica amministrazione (in particolare, di quello di  cui  all'art.
318 del codice penale che viene in rilievo nella specie),  in  quanto
in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena. 
    Ritiene la Corte di non potere accedere  ad  una  interpretazione
costituzionalmente orientata  del  combinato  disposto  di  cui  agli
articoli 656, comma 9, lettera a) del codice di  procedura  penale  e
4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, come  modificato  dall'art.
1, comma 6 della legge 9 gennaio 2019, n. 3. 
    Invero, avuto riguardo al «diritto  vivente»,  quale  si  connota
alla luce del diritto  positivo  e  della  lettura  giurisprudenziale
consolidata a seguito della decisione delle sezioni unite  del  2006,
le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene  detentive  e  le
misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento  del
reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita'  esecutive
della  stessa,  sono  da  considerarsi  norme   processuali   e   non
sostanziali; pertanto sono soggette, in assenza della  previsione  di
una disciplina transitoria al principio tempus regit actum e non alle
regole dettate in materia di successione di norme  penali  nel  tempo
dall'art. 25 della Costituzione e dall'art. 2 del codice penale. 
    Tale   principio,   a   tacere   delle   pronunce   della   Corte
costituzionale e della  Corte  di  legittimita',  e'  stata  ribadito
nell'ordinanza del 18 giugno 2019  con  la  quale  la  prima  sezione
penale della  Corte  di  legittimita',  nel  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale della norma de  quo  per  l'irragionevole
inclusione  del  reato  di  peculato  nell'art.   4-bis,   ha   pero'
testualmente precisato «la costante  elaborazione  interpretativa  di
questa Corte (sollecitata nel corso dei tempo proprio dalle  numerose
variazioni apportate dal legislatore al testo  dell'art.  4-bis  ord.
pen.) e' attestata, come osservato dal pubblico ministero ricorrente,
sulla natura processuale di tale tipologia di disposizioni  (vedi  le
Sezioni Unite n. 24561 del 30 maggio  2006,  nonche'  nel  corso  del
tempo, tra le molte, sezione 1 n. 3789  del  22  settembre  1994,  rv
199591; Sezione prima n. 3834  del  23  settembre  1994,  rv  199786;
sezione prima n. 46649 del 11 novembre 2009, rv 245511; Sezione prima
n. 11580 del 5  febbraio  2013,  rv  255310)  senza  che  cio'  abbia
determinato interrogativi  di  legittimita'  costituzionale,  e  tale
assetto -  con  le  precisazioni  che  seguono  -  e'  condiviso  dal
Collegio. D'altra parte, va anche osservato che dal 1991 a  tutt'oggi
la disposizione di cui all'art. 4-bis dell'ordinanza penale e'  stata
oggetto di modifica legislativa in piu' di dieci occasioni  e  -  tra
queste, escludendo la limitata disciplina transitoria iniziale di cui
al decreto-legge n. 152 del 1991 - soltanto in una  delle  successive
il legislatore (art. 4 della legge n. 279 del 23  dicembre  2002)  ha
ritenuto di regolamentare in bonam partem il  diritto  intertemporale
con una disposizione transitoria, tesa a rendere applicabili le nuove
disposizioni ai soli fatti di reato posteriori alla vigenza,  ne'  la
Corte costituzionale,  pur  sollecitata  su  numerosi  profili  della
disciplina legislativa si e' mai espressa nella  direzione  sostenuta
nella decisione  impugnata,  presupponendo  in  numerosi  arresti  la
vigenza immediata delle nuove disposizioni (vedi  l'ordinanza  n.  29
del 2013) e limitandosi ad operare  -  in  riferimento  al  contenuto
dell'art.  27,  comma  3  della  Costituzione  -  sui  terreno  della
inibizione all'applicazione immediata delle disposizioni peggiorative
nei confronti di coloro che in regime di  restrizione  avessero  gia'
raggiunto - al momento della vigenza delle disposizioni  peggiorative
- uno stadio  del  percorso  rieducativo  da  ritenersi  adeguato  al
godimento del beneficio (sentenze n. n. 504  del  1995,  n.  445  del
1997, n. 137 dei 1999, n. 257 del 2006). La  tutela  dell'affidamento
dell'imputato,  sottoposto  a  verifica  processuale  delle   proprie
condotte, nella accessibilita' (non condizionata da nova sfavorevoli)
a forme alternative di espiazione previste  dalla  legge  antecedente
risulta essere indubbiamente un valore  meritevole  di  attenzione  e
tutela, ma tale esigenza di garanzia non impone - in altre  parole  -
di  ritenere  sempre  inapplicabili  le   disposizioni   peggiorative
introdotte  in  un  momento  posteriore  rispetto  a   quello   della
condotta.» 
    Tanto puntualizzato, escluso che possa quindi la Corte  procedere
ad una lettura costituzionalmente orientata della norma alla luce del
granitico orientamento innanzi richiamato sulla  natura  processuale,
si ritiene che il nuovo regime introdotto senza la previsione di  una
norma transitoria con riguardo ai reati commessi  prima  dell'entrata
in vigore della  legge  n.  3/2019  sia  in  evidente  contrasto  con
l'interpretazione consolidata presso la  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo e con l'art. 25 della Costituzione. 
    La ratio degli articoli  25  della  Costituzione,  2  del  codice
penale e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali  e'  quella  di  tutelare  il
cittadino da abusi del potere  legislativi  ed  evitare  che  possano
subire conseguenze penali afflittive in virtu' di  leggi  entrate  in
vigore successivamente alla commissione del fatto-reato. 
    Molto significativa pare  l'espressione  utilizzata  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza n. 196/2010 laddove si sottolinea che .
. . «la  garanzia  di  irretroattivita'  sancita  dal  seconda  comma
dell'art. 25 della Costituzione, interpretata anche alla  luce  delle
indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e
in particolare della giurisprudenza della Corte Europea  dei  diritti
dell'uomo relativa  all'art.  7  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
impone di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile
al momento della commissione del fatto». 
    La Corte europea dei  diritti  dell'uomo  nella  sentenza  del  9
febbraio  2005,  resa  nella  causa  Welch  contro  Regno  Unito,  ha
sottolineato che e' necessario andare al di  la'  delle  apparenze  e
valutare se una particolare misura equivale in sostanza ad una pena. 
    Sempre la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  nella  sentenza
Kafkaris  ha  chiaramente  precisato  che  «il   termine   "inflitta"
utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere  interpretato  nel
senso di escludere dal campo di applicazione dell'art. 7 § 1 tutte le
misure introdotte successivamente alla pronuncia della condanna»;  ha
ribadito a tale  riguardo  che  e'  estremamente  importante  che  la
Convenzione sia interpretata e applicata in modo da  rendere  i  suoi
diritti pratici ed effettivi, non teorici e illusori (si vedano Hirsi
Jamaa e altri e. Italia [GC],  n.  27765/09,  §  175,  CEDO  2012,  e
Scoppola (n. 2), sopra citata, § 104) ed  ha  cosi'  statuito:  «Alla
luce di quanto sopra, la Corte non esclude  la  possibilita'  che  le
misure adottate dal legislatore, dalle autorita' amministrative o dai
tribunali successivamente all'inflizione della pena definitiva, o nel
corso dell'espiazione della pena, possano comportare la ridefinizione
o la modifica della portata della pena  inflitta  dal  tribunale  del
merito.  Quando  cio'  accade,  la  Corte  ritiene  che   le   misure
interessate  dovrebbero  rientrare   nell'ambito   dei   divieto   di
applicazione retroattiva delle pene previsto dall'art. 7 § 1 in  fine
della Convenzione. Diversamente, gli Stati  sarebbero  liberi  -  per
esempio modificando la legislazione o reinterpretando  i  regolamenti
stabiliti   -   di   adottare   delle   misure    che    ridefinivano
retroattivamente la portata della pena inflitta, a  svantaggio  della
persona condannata, quando quest'ultima non avrebbe potuto immaginare
tale sviluppo al momento in cui e' stato commesso il reato o e' stata
inflitta la pena. In tali condizioni l'art. 7 § 1  sarebbe  privo  di
qualsiasi effetto utile per le persone condannate a pene delle  quali
e' stata modificata la portata ex post facto a loro  svantaggio».  La
Corte ha sottolineato che tali modifiche devono essere distinte dalle
modifiche apportate alla modalita' di esecuzione della pena, che  non
rientrano nel campo di applicazione dell'art. 7 §  1  precisando  che
«per determinare se una misura adottata nel corso dell'esecuzione  di
una pena riguarda solo la modalita' di esecuzione della  pena  o,  al
contrario, incide sulla sua  portata,  la  Corte  deve  esaminare  in
ciascun caso che cosa comportava effettivamente la "pena" inflitta in
base al diritto interno in vigore al momento pertinente, o  in  altre
parole, quale era la sua natura intrinseca. Nel fare cio'  essa  deve
considerare il diritto interno nel suo complesso e la  modalita'  con
cui esso era applicato al momento pertinente (si veda Kafkaris, sopra
citata, § 145)». 
    A supportare  il  dato  di  «non  manifesta  infondatezza»  della
questione in esame,  soccorre  la  recente  pronuncia  della  Suprema
Corte, sesta sezione penale, n. 12541 del 14 marzo 2019, nella quale,
pur precisandosi che la  questione  non  atteneva  alla  sentenza  di
applicazione della pena oggetto del ricorso in Cassazione, tuttavia i
giudici del Supremo collegio hanno evidenziato che:  «.  .  .l'omessa
previsione di una disciplina transitoria circa l'applicabilita' della
disposizione  (come  novellata)  possa  suscitare  fondati  dubbi  di
incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine
di esecuzione, in quanto non  piu'  suscettibile  di  sospensione  in
forza della previsione dell'art. 656, comma 9 del codice di procedura
penale». 
    Ed  invero,  appare  fonte  di   ingiustificata   disparita'   di
trattamento ex art. 3 della Costituzione la novella del 2019 che pone
sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi
ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli
avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente
residua, inferiore a 4 anni, e chi ha commesso o  commette  il  reato
dopo l'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2019, n. 13. Ancora, la norma
presenta, nella parte in cui non  ha  previsto  una  disposizione  di
diritto intertemporale, profili  di  non  manifesta  infondatezza  di
illegittimita' costituzionale per contrasto con il disposto del comma
2 dell'art. 25  della  Costituzione,  per  i  suoi  indubbi  riflessi
sostanziali in punto di esecuzione della pena in concreto, cosi' come
intesa nella piu' recente giurisprudenza della Corte  europea  per  i
diritti dell'uomo, in quanto frutto di un  cambiamento  delle  regole
successivo alla data del commesso reato. 
    Infine, appare contrastante con l'art.  117  perche'  l'avere  il
legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della  pena
per taluni reati senza prevedere alcuna  norma  transitoria  presenta
tratti di non conformita' con l'art. 7 della Convenzione europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
e. quindi, con l'art. 117 della Costituzione, laddove si traduce  per
il condannato nel passaggio a sorpresa e non prevedibile, al  momento
della  commissione  del   reato,   alla   sanzione   con   necessaria
incarcerazione. 
    La prospettata questione  e'  rilevante  nel  presente  giudizio,
potendo  l'istante,  in  caso  di   dichiarata   incostituzionalita',
ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi
per lui il termine  di  trenta  giorni  per  proporre  richiesta,  da
libero, di misure alternative alta detenzione per l'esecuzione  della
pena. 
    La  Corte  ritiene  fondata  anche  la  questione  della  dedotta
illegittimita' costituzionale  dell'inclusione  del  delitto  di  cui
all'art. 318 del codice penale  tra  quelli  ostativi  ai  sensi  del
combinato  disposto  degli  articoli  656,  comma  9  del  codice  di
procedura penale, 4-bis della legge n. 345/75  e  art.  1,  comma  6,
lettera b) della legge n. 3/2019. 
    Va precisato che in  tale  sede  lo  scrutinio  attiene  al  solo
profilo della costituzionalita' della norma nella parte  in  cui  non
consente l'emissione dell'ordine di esecuzione  con  sospensione  per
trenta giorni onde consentire al condannato di  proporre  istanza  di
misura alternativa innanzi al Tribunale di sorveglianza. 
    La Corte ritiene sul punto condivisibile la puntuale  e  completa
motivazione dell'ordinanza resa dalla Corte di Cassazione in data  18
giugno 2019  alla  quale  si  fa  espresso  rinvio  apparendo  quelle
considerazioni riferito al reato di  peculato  estensibili  anche  al
reato di cui all'art. 318 del codice penale in scrutinio. 
    «L'inserimento, per quanto qui rileva, del  delitto  di  peculato
nella disposizione  di  cui  all'art.  4-bis,  comma  1,  impone,  in
particolare, di interrogarsi sulla idoneita' di tale  fattispecie  di
reato - presa in esame in  rapporto  esclusivamente  al  titolo  -  a
sostenere la ragionevole formulazione (art. 3 della Costituzione)  di
quella sottostante presunzione  legale  di  accentuata  pericolosita'
sociale del suo autore che  legittima  l'iscrizione  nel  particolare
catalogo, con tutto cio' che ne deriva in punto di limitazione  della
discrezionalita'   del   momento   giurisdizionale   in    sede    di
individualizzazione del percorso di espiazione della  pena  (art.  27
della Costituzione). La giurisprudenza della Corte costituzionale  ha
raggiunto,  sul  tema  della   verifica   di   ragionevolezza   delle
presunzioni legali  di  pericolosita',  un  consolidato  assetto  cui
occorre - inevitabilmente - compiere riferimento. 
    La logica sottostante l'inserimento di una fattispecie  di  reato
nella previsione di legge di cui all'art. 4-bis, comma  1,  ordinanza
penale  risiede  -  in  tesi  -  nella  particolare  connotazione  di
disvalore del fatto commesso dal condannato, tale da implicare, nella
prospettiva seguita dal legislatore, la  totale  inaffidabilita'  del
medesimo verso forme alternative di esecuzione della pena che pongano
il destinatario  in  una  condizione  di  possibile  interazione  con
l'esterno - con sottrazione di tale  giudizio  alla  discrezionalita'
del giudice in forza della scelta legislativa  -  salve  le  ipotesi,
anch'esse formalizzate dalla legge, di avvenuta collaborazione con la
giustizia (ai sensi dell'art. 58-ter, ord. pen.) o di  collaborazione
impossibile o inesigibile (art. 4-bis, comma 1-bis)  previa  verifica
dell'assenza  di  collegamenti  con  la   criminalita'   organizzata,
terroristica  o  eversiva.  Dunque,  la  sottrazione  alla  ordinaria
discrezionalita' del giudice in tema di accesso a misure  alternative
tese alla risocializzazione (ai sensi dell'art.  47,  ord.  pen.,  la
misura dell'affidamento in prova  al  servizio  sociale  puo'  essere
disposta solo li' dove il provvedimento favorevole contribuisca  alla
rieducazione del reo e assicuri la prevenzione dal pericolo che  egli
commetta  altri   reati)   si   muove   tutta   in   un   ambito   di
predeterminazione legislativa dei principali  snodi  del  trattamento
penitenziario, basata sul titolo del reato giudicato,  in  chiave  di
esclusione dell'accesso agli strumenti risocializzanti, salve ipotesi
tipizzate e correlate alla visibile attenuazione della  pericolosita'
(tramite  condotta  collaborativa).  Tale  particolare   assetto   e'
comprensibile  essenzialmente  in  chiave  storica,  posto   che   la
inversione di tendenza rispetto ai contenuti della legge n.  663  del
1986, con parziale ripristino - decreto-legge n. 152  del  13  maggio
1991, seguito dal decreto-legge dell'8 giugno  1992,  n.  306  -  del
sistema di preclusioni parziali all'accesso alle  misure  alternative
alla   detenzione   con   sottostante   presunzione   di   accentuata
pericolosita' (il che equivale ad affermare ex  lege  un  consistente
pericolo di reiterazione di condotte analoghe a  quelle  giudicate  o
comunque altamente lesive di beni giuridici di particolare rango)  e'
correlata alla pervasivita' di fenomeni criminali di stampo mafioso o
terroristico o comunque a reati espressivi di visibile contiguita'  a
tali realta'  criminali  (la  versione  iniziale  della  disposizione
individua  esclusivamente  le  fattispecie  associative   di   stampo
mafioso, i reati aggravati dalla  finalita'  o  dal  metodo  mafioso,
quelli   commessi   per   finalita'   di   terrorismo   o   eversione
dell'ordinamento costituzionale, il sequestro di persona a  scopo  di
estorsione, l'associazione finalizzata al traffico  di  stupefacenti,
e,  su  un  livello  di  minore  intensita'  della  presunzione,   le
fattispecie di omicidio, rapina ed estorsione aggravata, la  cessione
di ingente quantita' di sostanza stupefacente). Cio' ha contribuito a
determinare una considerazione di non irragionevolezza di una  simile
tipologia di presunzione  legale,  espressa  in  piu'  occasioni  dal
giudice delle leggi con valutazioni di compatibilita' con i  principi
espressi dal testo dell'art. 27 della  Costituzione,  pur  con  delle
rilevanti precisazioni tese  ad  evidenziare  punti  di  perplessita'
circa  la  tecnica  legislativa  utilizzata,   tesa   a   determinare
automatismi limitativi di diritti in ragione del mero riferimento  al
titolo di reato, possono ritenersi fondate. . . . . In questo  quadro
appare  certamente  rispondente  alla  esigenza  di  contrastare  una
criminalita'  organizzata  aggressiva  e  diffusa,  la   scelta   del
legislatore di privilegiare finalita' di prevenzione  generale  e  di
sicurezza della collettivita', attribuendo  determinati  vantaggi  ai
detenuti che collaborano con la giustizia. Non si puo'  tuttavia  non
rilevare come la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle misure
alternative alla  detenzione  ai  condannati  per  determinati  gravi
reati, abbia comportato una rilevante  compressione  della  finalita'
rieducativa della pena. Ed infatti  la  tipizzazione  per  titoli  di
reato  non  appare  consona  ai  principi   di   proporzione   e   di
individualizzazione della  pena  che  caratterizzano  il  trattamento
penitenziario,  mentre   appare   preoccupante   la   tendenza   alla
configurazione  normativa  di  «tipi  di  autore»,  per  i  quali  la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere  perseguita.
. .  L'esame  della  ragionevolezza  complessiva  della  disposizione
introduttiva  del  sistema  delle  presunzioni  legali  (che  e'  qui
l'aspetto di interesse, non essendo  in  alcun  modo  esaminabile  il
parametro della intervenuta collaborazione o meno in sede di  divieto
di sospensione della esecuzione ex art. 656 del codice  di  procedura
penale) ha sinora valorizzato - in un quadro ritenuto compatibile con
i principi di cui agli articoli  3  e  27  della  Costituzione  -  il
concreto legame funzionale tra le particolari  caratteristiche  della
condotta tipica della fattispecie  considerata  ostativa  -  ritenuta
espressiva  di  un  humus  relazionale  teso  a  permanere  in  epoca
posteriore alla commissione del  singolo  fatto  -  e  la  scelta  di
limitare (fino  al  punto  di  escluderla)  la  discrezionalita'  del
giudice sulla meritevolezza del singolo ad accedere agli strumenti di
rieducazione alternativi. Sta di fatto che la disposizione  in  esame
ha subito - nel corso degli anni - numerose novellazioni con costante
accrescimento del catalogo di reati ritenuti fondanti - peraltro  con
diversificati modelli operativi, dal cui esame puo' prescindersi - la
presunzione  legale  di  pericolosita'  sociale.  Senza  pretesa   di
esaustivita'   va   detto   che   si   e'   proceduto   ad   inserire
progressivamente nella complessa architettura  della  disposizione  i
reati associativi finalizzati alla commissione di delitti  contro  la
liberta' individuale e alla commissione di reati di violenza sessuale
(decreto-legge n.  341  del  2000)  le  associazioni  finalizzate  al
contrabbando (legge n. 92 del 2001); le associazioni finalizzate alla
immigrazione clandestina (legge n.  189  del  2002);  le  ipotesi  di
tratta, riduzione in schiavitu' acquisto  o  alienazione  di  schiavi
(legge n. 279  del  2002);  le  ulteriori  ipotesi  di  prostituzione
minorile, pornografia minorile ed altri reati sessuali (legge  n.  38
del 2006); lo scambio elettorale politico mafioso; il favoreggiamento
della immigrazione clandestina in quanto tale (legge n. 43 del  2015)
sino all'attuale novellazione realizzata con legge n. 3 del 2019 tesa
a ricomprendere, le ipotesi di cui agli articoli 314, 317, 318,  319,
319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis del
codice penale. Cio' ha  determinato  -  secondo  autorevoli  opinioni
espresse in dottrina - la difficolta' di rintracciare nella  sequenza
accrescitiva un chiaro criterio  selettivo  capace  di  esprimere  la
ragionevolezza intrinseca della disposizione, aspetto di  cui  vi  e'
traccia   nella   stessa   espressione   utifizzata    dalla    Corte
costituzionale nella decisione n. 32 del 2016 (intervenuta in tema di
liberazione anticipata speciale) ove l'elenco dei reati da cui deriva
la presunzione legale di  pericolosita'  di  cui  all'art.  4-bis  si
definisce «complesso, eterogeneo e stratificato». La disposizione  in
esame si e' di certo allontanata dall'originario  modello  di  tutela
della  collettivita'  dalla  drammatica  aggressivita'  del  fenomeno
mafioso,  tendendo  ad  assumere  funzioni  di  norma-contenitore  di
fattispecie che di volta in  volta  si  ritengono  espressive  di  un
consistente livello di pericolosita' dell'autore, con  prevalenza  di
finalita'  di  prevenzione  generale  rispetto   alle   esigenze   di
individualizzazione del trattamento. Cio', ad  avviso  del  Collegio,
non puo' comportare - di per se' solo - un dubbio di  ragionevolezza,
trattandosi piuttosto di interrogarsi sui criteri di volta  in  volta
adottati dal legislatore per selezionare le singole fattispecie e sul
rispetto di canoni di logicita' e  di  base  empirica  della  singola
scelta, fermo restando che va segnalato come nella scorsa legislatura
siano stati approvati dal Parlamento piu' punti di legge delega -  la
legge n. 103 del 23 giugno  2017  -  tendenti  alla  riconsiderazione
complessiva delle preclusioni legali  di  pericolosita'  in  sede  di
accesso alle misure alternative,  con  forte  riduzione  del  margine
operativo delle presunzioni e ri-affidamento al giudice  del  compito
di valutare la sussistenza delle condizioni di utile  ammissione  (al
comma 85, lettera b) revisione delle modalita' e dei  presupposti  di
accesso alle misure alternative, sia con riferimento  ai  presupposti
soggettivi sia  con  riferimento  ai  limiti  di  pena,  al  fine  di
facilitare  il  ricorso  alle  stesse,  salvo  che  per  i  casi   di
eccezionale gravita' e pericolosita' e in particolare per le condanne
per  i  delitti  di  mafia  e  terrorismo  anche  internazionale;  e)
eliminazione di automatismi e di preclusioni che  impediscono  ovvero
ritardano, sia per i recidivi  sia  per  gli  autori  di  determinate
categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo
e la differenziazione dei percorsi  penitenziari  in  relazione  alla
tipologia dei reati commessi e  alle  caratteristiche  personali  del
condannato, nonche' revisione della  disciplina  di  preclusione  dei
benefici penitenziari per  i  condannati  alla  pena  dell'ergastolo,
salvo  che  per  i  casi  di  eccezionale  gravita'  e  pericolosita'
specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti
di mafia e terrorismo anche internazionale). Il mancato esercizio, su
tali aspetti, della delega, non ridimensiona - ai fini qui in rilievo
- la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa  la
necessaria riconsiderazione organica del  sistema  delle  presunzioni
tradottasi in legge nel 2017. Cio'  che  rileva,  per  quanto  sinora
detto,  al  fine  della  proposizione  del  dubbio  di   legittimita'
costituzionale e' la considerazione della esistenza  o  meno  di  una
congrua  base  logico-empirica  capace  di  sostenere   la   avvenuta
qualificazione del delitto di peculato (oggetto del  caso  in  esame)
come  fondante  la  descritta  presunzione   legale   di   accentuata
pericolosita'.  Infatti,  per  costante  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale - ripresa e ribadita di recente nella sentenza n.  141
del 2019  (in  specie,  si  veda  il  paragrafo  7.1  Cons.  dir.)  -
l'individuazione dei fatti punibili,  cosi'  come  la  determinazione
della pena per ciascuno di essi, costituisce  materia  affidata  alla
discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti  in  ordine  alla
«meritevolezza» e al «bisogno di pena»  -  dunque,  sull'opportunita'
del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa  -
sono per loro natura, tipicamente politici (vedi la  sentenza  n.  95
del 2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative  in  materia  sono
pertanto  censurabili,  in  sede   di   sindacato   di   legittimita'
costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta  irragionevolezza
o nell'arbitrio». 
    Tanto premesso, la Corte ritiene che la scelta  di  ricomprendere
tra i reati ostativi quelli contro la pubblica amministrazione, e  in
particolare l'art. 318 del codice penale, non sia sorretta da  alcuno
dei connotati idonei  a  sostenere  una  accentuata  e  generalizzata
considerazione di elevata pericolosita' del suo  autore,  trattandosi
di condotta difficilmente inquadrabile in  contesti  di  criminalita'
organizzata o evocativi di condizionamenti omertosi. 
    La presunzione legale di elevata pericolosita' di  «ogni»  autore
di simile condotta,  che  puo'  anche  essere  isolata  e  episodica,
espressa dalla legge n. 3 del 2019 pare  dunque  contrastare  con  la
mera osservazione delle caratteristiche obiettive del tipo legale, in
chiave di dubbio circa il rispetto del principio di ragionevolezza di
cui alll'art. 3 della Costituzione.  L'apprezzamento  concreto  delle
caratteristiche obiettive del fatto e della personalita'  dell'autore
viene peraltro  sottratto  alla  discrezionalita'  del  Tribunale  di
sorveglianza (con anticipazione degli effetti pregiudizievoli in tema
di liberta' personale derivante dalla  previsione  di  legge  di  cui
all'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale) finendo con  il
determinare    il    concreto    pregiudizio    al    principio    di
individualizzazione della pena e del  finalismo  rieducativo  di  cui
all'art.  27,  comma  3  della  Costitutzione.  La  selezione   delle
fattispecie di reato «ostative» comporta l'attrazione dei  condannati
per tali fatti - al di la' delle condizioni soggettive e dei  profili
di quantificazione concreta del trattamento  sanzionatorio  -  in  un
sottosistema  che  nel  rendere  marginale  la  discrezionalita'  del
giudice incide concretamente sulla dimensione rieducativa della pena,
esaltandone - per converso - l'aspetto di prevenzione generale a fini
di deterrenza. Simile assetto - ove non  assistito  da  fondata  base
empirica  della  selezione  -  si  ricollega  esclusivamente  ad   un
automatismo. Sul tema va  dunque  evidenziato  che  nel  percorso  di
ragionata diffidenza del giudice  delle  leggi  verso  l'utilizzo  di
presunzioni legali di pericolosita', correlate  alla  commissione  di
uno specifico fatto di reato, si inserisce, di recente, il  contenuto
della  decisione  della  Corte  costituzionale  n.   149   del   2018
(intervenuta sulla particolare previsione di cui all'art.  58-quater,
comma 4, ordinanza penale) nel cui  ambito  si  e'  ribadito  che  la
finalita'  rieducativa  della  pena  e'  «ineliminabile»   ed   esige
«valutazioni   individualizzate»,   rese   impossibili   da    rigidi
automatismi legali  da  ritenersi  contrastanti  con  i  principi  di
proporzionalita' ed individualizzazione della pena. 
    Per tutte le ragioni sinora  espresse  va  sollevata  l'ulteriore
questione  di  legittimita'  costituzionale,  con  riferimento   agli
articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1, comma 6,  lettera  b
della legge n. 3 del 9 gennaio 2019, nella  parte  in  cui  inserisce
all'art. 4-bis, comma 1,  della  legge  26  luglio  1975  n.  354  il
riferimento al delitto di cui all'art. 318 del codice penale. 
    Va sospeso il procedimento, ai sensi dell'art. 23 legge n. 87 del
1953, e non puo' disporsi, contrariamente alle  richieste  difensive,
la sospensione dell'ordine di esecuzione in quanto  non  e'  prevista
dalla norma e si  risolverebbe  in  concreto  con  una  inammissibile
anticipazione del vaglio di costituzionalita' di norme vigenti. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87 del 1953, 
    la Corte, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, ritenuta la
rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva,  con  riferimento
agli articoli 3 e 27 della Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b della legge n. 3 del 9
gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis,  comma  1,
delle legge 26 luglio 1975, n. 354 il riferimento al delitto  di  cui
all'art. 318 del codice penale; 
    solleva, ritenuta la  rilevanza  e  non  manifesta  infondatezza,
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  656,  comma  9,
lettera a) del codice penale, come integrato  dall'art.  4-bis  della
legge 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6,  lettera
b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha  inserito
i reati contro la pubblica amministrazione ed, in particolare, l'art.
319-quater, comma 1 del  codice  penale,  tra  quelli  ostativi  alla
concessione del beneficio penitenziario di cui all'art.  4-bis  della
legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli  3,  25,
comma 2, e 117 della Costituzione, come integrato dall'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, senza  prevedere  un  regime  transitorio  che
dichiari applicabile la norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera  b)
della  legge  9  gennaio  2019,  n.  3   ai   soli   fatti   commessi
successivamente alla sua entrata in vigore. 
    Sospende  il  presente   procedimento   e   dispone   l'immediata
trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale,  nonche'   la
notifica della presente  ordinanza  alle  parti,  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e la comunicazione  ai  Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
    Cosi' deciso in Roma il 30 ottobre 2019 
 
                   Il Presidente estensore: Acerra