N. 8 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 ottobre 2019
Ordinanza del 15 novembre 2019 della Corte d'appello di Roma sull'istanza proposta da M. G.. Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 - Inserimento del delitto di cui all'art. 319 del codice penale tra i reati ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari. - Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), art. 1, comma 6, lettera b), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), in relazione all'art. 319 del codice penale. Esecuzione penale - Sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi - Esclusione nei confronti delle persone condannate per il reato di cui all'art. 319-quater, primo comma, del codice penale, aggiunto dalla legge n. 3 del 2019 all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 tra i reati ostativi alla concessione di determinati benefici penitenziari - Mancata previsione di un regime transitorio che dichiari applicabile la novella ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. - Codice penale [recte: Codice di procedura penale], art. 656, comma 9, lettera a), nella parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in relazione all'art. 319-quater, primo comma, del codice penale.(GU n.6 del 5-2-2020 )
CORTE DI APPELLO DI ROMA La Corte di appello di Roma sezione III penale composta da: 1) dott.ssa Annamaria Acerra, Presidente relatore; 2) dott.ssa Cecilia Demma, consigliere; 3) dott.ssa F. Romana Salvadori, consigliere; riunita in camera di consiglio, sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 30 ottobre 2019, sentite le parti, ha emesso la seguente Ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale e di contestuale sospensione del procedimento. Con richiesta, pervenuta in data 23 ottobre 2019, il difensore di M. G. , nato a . . . . il . . . ., in atto detenuto presso la Casa di Reclusione di . . . . in forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la Corte d'appello di Roma in data 22 ottobre 2019, chiede dichiararsi la temporanea inefficacia dell'ordine di esecuzione della pena per la durata di giorni trenta al fine di formulare richiesta di misura alternativa alla detenzione e, in subordine, di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis della legge n. 354/75, come modificato dall'art. 1, comma 6 della legge 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; letti gli atti; premesso che, con sentenza resa da questa Corte territoriale l'11 settembre 2018, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma in data 20 luglio 2017, irrevocabile il 22 ottobre 2019, G. M. e' stato condannato alla pena di anni tre di reclusione per il reato di cui all'art. 319 del codice penale; ritenuto, preliminarmente, che l'istanza di sospensione dell'esecuzione cosi' come proposta risulta ammissibile. Invero, a mente dell'art. 656 del codice di procedura penale, come modificato dalla legge n. 165/98, il pubblico ministero, fermo il dovere di emettere l'ordine di carcerazione per le pene detentive brevi, deve, contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento, assegnando al condannato un termine di trenta giorni per formulare richiesta di misure alternative. Ne consegue che, ove non sia adottato il provvedimento di sospensione, non essendo prevista la facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento o di revoca dell'ordine di carcerazione legittimamente emesso, deve pero' essere consentito al condannato di rivolgere al Giudice dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia temporanea del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione analogica dell'art. 670 del codice di procedura penale (confronta la Cassazione sezione 1, sentenza n. 25538 del 10 aprile 2018 Cc. - dep. 06 giugno 2018 - Rv. 273105: «il giudice dell'esecuzione non puo' annullare l'ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, ma deve esclusivamente dichiararlo temporaneamente inefficace per consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenutone»); rilevato che l'ordine di esecuzione di cui si invoca la sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per reato ostativo all'applicazione di misure alternative alla detenzione a seguito della modifica introdotta dall'art. 1, comma 6, della legge n. 3/2019, entrata in vigore il 31 gennaio 2019; che il condannato al momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione della pena era in stato di liberta'; Osserva La difesa, richiamando la giurisprudenza di legittimita' e di merito, nonche' della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, invoca l'adozione di un provvedimento di sospensione alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata del precetto di cui all'art. 1, comma 6, della legge n. 3/2019 sotto il profilo della sua possibile interpretazione quale norma sostanziale piu' sfavorevole, inapplicabile retroattivamente a fatti - come nel caso di specie - commessi prima della sua entrata in vigore; in subordine, in difetto delle condizioni per simile operazione ermeneutica, denuncia l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la' dove ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli «ostativi» ai sensi dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, senza prevedere un regime intertemporale e, in ogni caso, laddove, ha inserito alcuni reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali quello di cui all'art. 318 del codice penale, tra quelli ostativi ai benefici di cui all'art. 4-bis della legge n. 354/1975 per contrasto con gli articoli 3, 24, 25, comma secondo, 27, comma 3, 117 della Costituzione e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali evidenziando che: - avendo riguardo al combinato disposto degli articoli 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale e 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione al delitto di cui all'art. 319 del codice penale inserito nel novero dei reati di cui allo stesso art. 4-bis in virtu' della novella del 9 gennaio 2019, n. 3, non sia piu' possibile sospendere l'ordine di esecuzione ai fini della richiesta di misure alternative alla detenzione in stato di liberta'. In assenza di una disposizione transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, l'emissione dell'ordine di carcerazione e' pertanto «obbligata», con una modifica peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa «a sorpresa» atteso che, al momento in cui e' stato commesso il reato, il condannato poteva ragionevolmente confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei limiti di operativita' delle misure alternative. Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle «regole del gioco», in quanto del tutto imponderabile all'atto della commissione del reato, si ponga in evidente contrasto con l'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in situazioni analoghe - rilevante ai fini dell'art. 117 della Costituzione -, la' dove viola il principio dell'affidamento quanto alla prevedibilita' delle conseguenze sanzionatone (vedi per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013, Del Rio Prada e. Spagna). Sotto diverso aspetto, pone in luce come la novella normativa, nel modificare le modalita' di esecuzione della pena - tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale - abbia nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della pena e quindi sulla stessa «natura della sanzione», di fatto tramutata da «alternativa» in «detentiva». Tenuta presente l'impostazione «sostanzialistica» ed «antiformalista» ormai affermatasi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione ad istituti che presentano marcati tratti di analogia con il peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato art. 4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del 21 dicembre 2013, Del Rio Prada e. Spagna), i mutamenti con effetti concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono ritenersi avere natura, non processuale, ma sostanziale, con conseguente inapplicabilita' retroattiva. Infine la difesa censura la costituzionalita' dello stesso inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui al citato art. 4-bis dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (in particolare, di quello di cui all'art. 319 qp che viene in rilievo nella specie), in quanto in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena. Ritiene la Corte di non potere accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto di cui agli articoli 656, comma. 9, lettera a) del codice di procedura penale e 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall'art. 1, comma 6, della legge 9 gennaio 2019, n. 3. Invero, avuto riguardo al «diritto vivente», quale si connota alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite del 2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, e sono da considerarsi norme processuali e non sostanziali; pertanto sono soggette, in assenza della previsione di una disciplina transitoria al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 25 della Costituzione e dall'art. 2 del codice penale. Tale principio, a tacere delle plurime pronunce della Corte costituzionale e della Corte di legittimita', e' stata ribadito nell'ordinanza del 18 giugno 2019 con la quale la prima sezione penale della Corte di legittimita', nel sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma de quo per l'irragionevole inclusione del reato di peculato nell'art. 4-bis, ha pero' testualmente precisato «la costante elaborazione interpretativa di questa Corte (sollecitata nel corso del tempo proprio dalle numerose variazioni apportate dal legislatore al testo dell'art. 4-bis ordinanza pen. ) e' attestata, come osservato dal pubblico ministero ricorrente, sulla natura processuale di tale tpologia di disposizioni (vedi Sezioni Unite n. 24561 del 30 maggio 2006, nonche' nel corso del tempo, tra le molte, sezione I n. 3789 del 22 settembre 1994, rv 199591; sezione I n. 3834 del 23 settembre 1994, rv 199786; sezione I n. 46649 dell'11 novembre 2009, rv 245511; sezione I n. 11580 del 5 febbraio 2013, rv 255310) senza che cio' abbia determinato interrogativi di legittimita' costituzionale, e tale assetto - con le precisazioni che seguono - e' condiviso dal Collegio. D'altra parte, va anche osservato che dal 1991 a tutt'oggi la disposizione di cui all'art. 4-bis ordinanza pen. e' stata oggetto di modifica legislativa in piu' di dieci occasioni e - tra queste, escludendo la limitata disciplina transitoria iniziale di cui al decreto-legge n. 152 del 1991 - soltanto in una delle successive il legislatore (art. 4 della legge n. 279 del 23 dicembre 2002) ha ritenuto di regolamentare in bonam partem il diritto intertemporale con una disposizione transitoria, tesa a rendere applicabili le nuove disposizioni ai soli fatti di reato posteriori alla vigenza, ne' la Corte costituzionale, pur sollecitata su numerosi profili della disciplina legislativa si e' mai espressa nella direzione sostenuta nella decisione impugnata, presupponendo in numerosi arresti la vigenza immediata delle nuove disposizioni (vedi ordinanza n. 29 del 2013) e limitandosi ad operare - in riferimento al contenuto dell'art. 27, comma 3 della Costituzione - sul terreno della inibizione all'applicazione immediata delle disposizioni peggiorative nei confronti di coloro che in regime di restrizione avessero gia' raggiunto - al momento della vigenza delle disposizioni peggiorative - uno stadio del percorso rieducativo da ritenersi adeguato al godimento del beneficio (sentenze n. n. 504 del 1995, n. 445 del 1997, n. 137 del 1999, n. 257 del 2006). La tutela dell'affidamento dell'imputato, sottoposto a verifica processuale delle proprie condotte, nella accessibilita' (non condizionata da nova sfavorevoli) a forme alternative di espiazione previste dalla legge antecedente risulta essere indubbiamente un valore meritevole di attenzione e tutela, ma tale esigenza di garanzia non inpone - in altre parole - di ritenere sempre inapplicabili le disposizioni peggiorative introdotte in un momento posteriore rispetto a quello della condotta.» Tanto puntualizzato, escluso che possa quindi la Corte procedere ad una lettura costituzionalmente orientata della norma alla luce del granitico orientamento innanzi richiamato sulla natura processuale della norma, che rappresenta il diritto vivente, si ritiene che il nuovo regime introdotto senza la previsione di una norma transitoria con riguardo ai reati commessi prima dell'entrata vigore della legge n. 3/2019 sia in evidente contrasto con l'interpretazione consolidata presso la Corte europea dei diritti dell'uomo e con l'art. 25 della Costituzione. La ratio degli articoli 25 della Costituzione, 2 del codice penale e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e' quella di tutelare il cittadino da abusi del potere legislativi ed evitare che possano subire conseguenze penali afflittive in virtu' di leggi entrate in vigore successivamente alla commissione del fatto-reato. Molto significativa pare l'espressione utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 196/2010 laddove si sottolinea che . . . «la garanzia di irretroattivita' sancita dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo relativa all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali impone di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto». La Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza del 9 febbraio 2005, resa nella causa Welch contro Regno Unito, ha sottolineato che e' necessario andare al di la' delle apparenze e valutare se una particolare misura equivale in sostanza ad una pena. Sempre la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Kafkaris ha chiaramente precisato che «il termine "inflitta" utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere interpretato nel senso di escludere dal campo di applicazione dell'art. 7 § 1 tutte le misure introdotte successivamente alla pronuncia della condanna»; ha ribadito a tale riguardo che e' estremamente importante che la Convenzione sia interpretata e applicata in modo da rendere i suoi diritti pratici ed effettivi, non teorici e illusori (si vedano Hirsi Jamaa e altri e. Italia [GC], n. 27765/09, § 175, CEDO 2012, e Scoppola (n. 2), sopra citata, § 104) ed ha cosi' statuito: «Alla luce di quanto sopra, la Corte non esclude la possibilita' che le misure adottate dal legislatore, dalle autorita' amministrative o dai tribunali successivamente all'inflizione della pena definitiva, o nel corso dell'espiazione della pena, possano comportare la ridefinizione o la modifica della portata della pena inflitta dal tribunale del merito. Quando cio' accade, la Corte ritiene che le misure interessate dovrebbero rientrare nell'ambito dei divieto di applicazione retroattiva delle pene previsto dall'art. 7 § 1 in fine della Convenzione. Diversamente, gli Stati sarebbero liberi - per esempio modificando la legislazione o reinterpretando i regolamenti stabiliti - di adottare delle misure che ridefinivano retroattivamente la portata della pena inflitta, a svantaggio della persona condannata, quando quest'ultima non avrebbe potuto immaginare tale sviluppo al momento in cui e' stato commesso il reato o e' stata inflitta la pena. In tali condizioni l'art. 7 § 1 sarebbe privo di qualsiasi effetto utile per le persone condannate a pene delle quali e' stata modificata la portata ex post facto a loro svantaggio». La Corte ha sottolineato che tali modifiche devono essere distinte dalle modifiche apportate alla modalita' di esecuzione della pena, che non rientrano nel campo di applicazione dell'art. 7 § 1 precisando che «per determinare se una misura adottata nel corso dell'esecuzione di una pena riguarda solo la modalita' di esecuzione della pena o, al contrario, incide sulla sua portata, la Corte deve esaminare in ciascun caso che cosa comportava effettivamente la "pena" inflitta in base al diritto interno in vigore al momento pertinente, o in altre parole, quale era la sua natura intrinseca. Nel fare cio' essa deve considerare il diritto interno nel suo complesso e la modalita' con cui esso era applicato al momento pertinente (si veda Kafkaris, sopra citata, § 145)». A supportare il dato di «non manifesta infondatezza» della questione in esame, soccorre la recente pronuncia della Suprema Corte sezione VI penale n. 12541 del 14 marzo 2019, nella quale, pur precisandosi che la questione non atteneva alla questione in decisione, tuttavia i giudici del Supremo Collegio hanno evidenziato che: «. . . l'omessa previsione di una disciplina transitoria circa l'applicabilita' della disposizione (come novellata) possa suscitare fondati dubbi di incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine di esecuzione, in quanto non piu' suscettibile di sospensione in forza della previsione dell'art. 656, comma 9, del codice di procedura penale. Ed invero, appare fonte di ingiustificata disparita' di trattamento ex art. 3 della Costituzione la novella del 2019 che pone sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente residua, inferiore a quattro anni, e chi ha commesso o commette il reato dopo l'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2019, n. 13. Ancora, la norma presenta, nella parte in cui non ha previsto una disposizione di diritto intertemporale, profili di non manifesta infondatezza di illegittimita' costituzionale per contrasto con il disposto del comma 2 dell'art. 25 della Costituzione, per i suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena in concreto, cosi' come intesa nella piu' recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in quanto frutto di un cambiamento delle regole successivo alla data del commesso reato. Infine, appare contrastante con l'art. 117 perche' l'avere il legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della pena per taluni reati senza prevedere alcuna norma transitoria presenta tratti di non conformita' con l'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e. quindi, con l'art. 117 della Costituzione, laddove si traduce per il condannato nel passaggio a sorpresa e non prevedibile, al momento della commissione del reato, alla sanzione con necessaria incarcerazione. La prospettata questione e' rilevante nel presente giudizio, potendo l'istante, in caso di dichiarata incostituzionalita', ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi per lui il termine di trenta giorni per proporre richiesta, da libero, di misure alternative alta detenzione per l'esecuzione della pena. La Corte ritiene fondata anche la questione della dedotta illegittimita' costituzionale dell'inclusione del delitto di cui all'art. 318 del codice penale tra quelli ostativi ai sensi del combinato disposto degli articoli 656, comma 9 del codice di procedura penale, 4-bis della legge n. 345/75 e art. 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019, questione parimenti rilevante nel presente procedimento. Va precisato che in tale sede lo scrutinio attiene al solo profilo della costituzionalita' della norma nella parte in cui non consente l'emissione dell'ordine di esecuzione con sospensione per 30 giorni onde consentire al condannato di proporre istanza di misura alternativa innanzi al Tribunale di sorveglianza. La Corte ritiene sul punto condivisibile la puntuale e completa motivazione dell'ordinanza resa dalla Corte di cassazione in data 18 giugno 2019 alla quale si fa espresso rinvio apparendo quelle considerazioni riferito al reato di peculato estensibili anche al reato di cui all'art. 319 del codice penale in scrutinio. «L'inserimento, per quanto qui rileva, del delitto di peculato nella disposizione di cui all'art. 4-bis, comma 4 impone, in particolare, di interrogarsi sulla idoneita' di tale fattispecie di reato - presa in esame in rapporto esclusivamente al titolo - a sostenere la ragionevole formulazione (art. 3 della Costituzione) di quella sottostante presunzione legale di accentuata pericolosita' sociale del suo autore che legittima l'iscrizione nel particolare catalogo, con tutto cio' che ne deriva in punto di limitazione della discrezionalita' del momento giurisdizionale in sede di individualizzazione del percorso di espiazione della pena (art. 27 della Costituzione). La giurisprudenza della Corte costituzionale ha raggiunto, sul tema della verifica di ragionevolezza delle presunzioni legali di pericolosita', un consolidato assetto cui occorre - inevitabilmente - compiere riferimento. La logica sottostante l'inserimento di una fattispecie di reato nella previsione di legge di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordinanza pen. risiede - in tesi - nella particolare connotazione di disvalore del fatto commesso dal condannato, tale da implicare, nella prospettiva seguita dal legislatore, la totale inaffidabilita' del medesimo verso forme alternative di esecuzione della pena che pongano il destinatario in una condizione di possibile interazione con l'esterno - con sottrazione di tale giudizio alla discrezionalita' del giudice in forza della scelta legislativa - salve le ipotesi, anch'esse formalizzate dalla legge, di avvenuta collaborazione con la giustizia (ai sensi dell'art. 58-ter ordinanza pen. ) o di collaborazione impossibile o inesigibile (art. 4-bis, comma 1-bis) previa verifica dell'assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva. Dunque, la sottrazione alla ordinaria discrezionalita' del giudice in tema di accesso a misure alternative tese alla risocializzazione (ai sensi dell'art. 47 ordinanza pen., la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale puo' essere disposta solo li' dove il provvedimento favorevole contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione dal pericolo che egli commetta altri reati) si muove tutta in un ambito di predeterminazione legislativa dei principali snodi del trattamento penitenziario, basata sul titolo del reato giudicato, in chiave di esclusione dell'accesso agli strumenti risocializzanti, salve ipotesi tipizzate e correlate alla visibile attenuazione della pericolosita' (tramite condotta collaborativa). Tale particolare assetto e' comprensibile essenzialmente in chiave storica, posto che la inversione di tendenza rispetto ai contenuti della legge n. 663 del 1986, con parziale ripristino - decreto-legge n. 152 del 13 maggio 1991, seguito dal decreto-legislativo dell'8 giugno 1992, n. 306 - del sistema di preclusioni parziali all'accesso alle misure alternative alla detenzione con sottostante presunzione di accentuata pericolosita' (il che equivale ad affermare ex lege un consistente pericolo di reiterazione di condotte analoghe a quelle giudicate o comunque altamente lesive di beni giuridici di particolare rango) e' correlata alla pervasivita' di fenomeni criminali di stampo mafioso o terroristico o comunque a reati espressivi di visibile contiguita' a tali realta' criminali (la versione iniziale della disposizione individua esclusivamente le fattispecie associative di stampo mafioso, i reati aggravati dalla finalita' o dal metodo mafioso, quelli commessi per finalita' di terrorismo o eversione dell'ordinamento costituzionale, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, e, su un livello di minore intensita' della presunzione, le fattispecie di omicidio, rapina ed estorsione aggravata, la cessione di ingente quantita' di sostanza stupefacente). Cio' ha contribuito a determinare una considerazione di non irragionevolezza di una simile tipologia di presunzione legale, espressa in piu' occasioni dal giudice delle leggi con valutazioni di compatibilita' con i principi espressi dal testo dell'art. 27 della Costituzione, pur con delle rilevanti precisazioni tese ad evidenziare punti di perplessita' circa la tecnica legislativa utilizzata, tesa a determinare automatismi limitativi di diritti in ragione del mero riferimento al titolo di reato, possono ritenersi fondate . . . . . In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza di contrastare una criminalita' organizzata aggressiva e diffusa, la scelta del legislatore di privilegiare finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della collettivita', attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia. Non si puo' tuttavia non rilevare come la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della finalita' rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita... L'esame della ragionevolezza complessiva della disposizione introduttiva del sistema delle presunzioni legali (che e' qui l'aspetto di interesse, non essendo in alcun modo esaminabile il parametro della intervenuta collaborazione o meno in sede di divieto di sospensione della esecuzione ex art. 656 del codice di procedura penale) ha sinora valorizzato - in un quadro ritenuto compatibile con i principi di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione - il concreto legame funzionale tra le particolari carattetistiche della condotta tipica della fattispecie considerata ostativa - ritenuta espressiva di un humus relazionale teso a permanere in epoca posteriore alla commissione del singolo fatto - e la scelta di limitare (fino al punto di escluderla) la discrezionalita' del giudice sulla meritevolezza del singolo ad accedere agli strumenti di rieducazione alternativi. Sta di fatto che la disposizione in esame ha subito - nel corso degli anni - numerose novellazioni con costante accrescimento del catalogo di reati ritenuti fondanti - peraltro con diversificati modelli operativi, dal cui esame puo' prescindersi - la presunzione legale di pericolosita' sociale. Senza pretesa di esaustivita' va detto che si e' proceduto ad inserire progressivamente nella complessa architettura della disposizione i reati associativi finalizzati alla commissione di delitti contro la liberta' individuale e alla commissione di reati di violenza sessuale (decreto-legge n. 341 del 2000) le associazioni finalizzate al contrabbando (legge n. 92 del 2001); le associazioni finalizzate alla immigrazione clandestina (legge n. 189 del 2002); le ipotesi di tratta, riduzione in schiavitu' acquisto o alienazione di schiavi (legge n. 279 del 2002); le ulteriori ipotesi di prostituzione minorile, pornografia minorile ed altri reati sessuali (legge n. 38 del 2006); lo scambio elettorale politico mafioso; il favoreggiamento della immigrazione clandestina in quanto tale (legge n. 43 del 2015) sino all'attuale novellazione realizzata con legge n. 3 del 2019 tesa a ricomprendere, le ipotesi di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis del codice penale. Cio' ha determinato - secondo autorevoli opinioni espresse in dottrina - la difficolta' di rintracciare nella sequenza accrescitiva un chiaro criterio selettivo capace di esprimere la ragionevolezza intrinseca della disposizione, aspetto di cui vi e' traccia nella stessa espressione utilizzata dalla Corte costituzionale nella decisione n. 32 del 2016 (intervenuta in tema di liberazione anticipata speciale) ove l'elenco dei reati da cui deriva la presunzione legale di pericolosita' di cui all'art. 4-bis si definisce "complesso, eterogeneo e stratificato". La disposizione in esame si e' di certo allontanata dall'originario modello di tutela della collettivita' dalla drammatica aggressivita' del fenomeno mafioso, tendendo ad assumere funzioni di norma-contenitore di fattispecie che di volta in volta si ritengono espressive di un consistente livello di pericolosita' dell'autore, con prevalenza di finalita' di prevenzione generale rispetto alle esigenze di individuafizzazione del trattamento. Cio', ad avviso del Collegio, non puo' comportare - di per se' solo - un dubbio di ragionevolezza, trattandosi piuttosto di interrogarsi sui criteri di volta in volta adottati dal legislatore per selezionare le singole fattispecie e sul rispetto di canoni di logicita' e di base empirica della singola scelta, fermo restando che va segnalato come nella scorsa legislatura siano stati approvati dal Parlamento piu' punti di legge delega - la legge n. 103 del 23 giugno 2017 - tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosita' in sede di accesso alle misure alternative, con forte riduzione del margine operativo delle presunzioni e ri-affidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di utile ammissione (al comma 85, lettera b) revisione delle modalita' e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravita' e pericolosita' e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; e) eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonche' revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravita' e pericolosita' specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale). Il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona - ai fini qui in rilievo - la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione organica del sistema delle presunzioni tradottasi in legge nel 2017. Cio' che rileva, per quanto sinora detto, al fine della proposizione del dubbio di legittimita' costituzionale e' la considerazione della esistenza o meno di una congrua base logico-empirica capace di sostenere la avvenuta qualificazione del delitto di peculato (oggetto del caso in esame) come fondante la descritta presunzione legale di accentuata pericolosita'. Infatti, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale - ripresa e ribadita di recente nella sentenza n. 141 del 2019 (in specie, si veda il paragrafo 7.1 Cons. dir.) - l'individuazione dei fatti punibili, cosi' come la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla "meritevolezza" e al "bisogno di pena" - dunque, sull'opportunita' del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa - sono per loro natura, tipicamente politici (vedi la sentenza n. 95 del 2019 e n. 394 del 2006). Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimita' costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio». Tanto premesso, la Corte ritiene che la scelta di ricomprendere tra i reati ostativi quelli contro la pubblica amministrazione, e in particolare l'art. 319 del codice penale, non sia sorretta da alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosita' del suo autore, trattandosi di condotta difficilmente inquadrabile in contesti di criminalita' organizzata o evocativi di condizionamenti omertosi. La presunzione legale di elevata pericolosita' di «ogni» autore di simile condotta, che puo' anche essere isolata e episodica, espressa dalla legge n. 3 del 2019 pare dunque contrastare con la mera osservazione delle caratteristiche obiettive del tipo legale, in chiave di dubbio circa il rispetto del principio di ragionevolezza di cui alll'art. 3 della Costituzione. L'apprezzamento concreto delle caratteristiche obiettive del fatto e della personalita' dell'autore viene peraltro sottratto alla discrezionalita' del Tribunale di sorveglianza (con anticipazione degli effetti pregiudizievoli in tema di liberta' personale derivante dalla previsione di legge di cui all'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale) finendo con il determinare il concreto pregiudizio al principio di individualizzazione della pena e del finalismo rieducativo di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione. La selezione delle fattispecie di reato «ostative» comporta l'attrazione dei condannati per tali fatti - al di la' delle condizioni soggettive e dei profili di quantificazione concreta del trattamento sanzionatorio - in un sottosistema che nel rendere marginale la discrezionalita' del giudice incide concretamente sulla dimensione rieducativa della pena, esaltandone - per converso - l'aspetto di prevenzione generale a fini di deterrenza. Simile assetto - ove non assistito da fondata base empirica della selezione - si ricollega esclusivamente ad un automatismo. Sul tema va dunque evidenziato che nel percorso di ragionata diffidenza del giudice delle leggi verso l'utilizzo di presunzioni legali di pericolosita', correlate alla commissione di uno specifico fatto di reato, si inserisce, di recente, il contenuto della decisione della Corte costituzionale n. 149 del 2018 (intervenuta sulla particolare previsione di cui all'art. 58-quater, comma 4, ordinanza pen.) nel cui ambito si e' ribadito che la finalita' rieducativa della pena e' «ineliminabile» ed esige «valutazioni individualizzate», rese impossibili da rigidi automatismi legali da ritenersi contrastanti con i principi di proporzionalita' ed individualizzazione della pena. Per tutte le ragioni sinora espresse va sollevata l'ulteriore questione di legittimita' costituzionale, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1, comma 6, lettera b della legge n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 il riferimento al delitto di cui all'art. 319 del codice penale. Va sospeso di conseguenza il procedimento, ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 del 1953, e non puo' disporsi, contrariamente alle richieste difensive, la sospensione dell'ordine di esecuzione in quanto non e' prevista dalla norma e si risolverebbe in concreto con una inammissibile anticipazione del vaglio di costituzionalita' di norme vigenti.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge n. 87 del 1953, la Corte, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b della legge n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis, comma 1, delle legge 26 luglio 1975 n. 354 il riferimento al delitto di cui all'art. 319 del codice penale; ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza, solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) del codice penale, come integrato dall'art. 4-bis della legge n. 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione ed, in particolare, l'art. 319-quater, comma 1, del codice penale, tra quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 25, comma 2, e 117 della Costituzione come integrato dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. Sospende il presente procedimento e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, nonche' la notifica della presente ordinanza alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma il 30 ottobre 2019 Il Presidente estensore: Acerra