N. 10 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 novembre 2019
Ordinanza del 15 novembre 2019 della Corte d'appello di Roma sulle istanze proposte da C. M. e altri. Esecuzione penale - Sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi - Esclusione nei confronti delle persone condannate per il reato di cui all'art. 319 del codice penale, aggiunto dalla legge n. 3 del 2019 all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 tra i reati ostativi alla concessione di determinati benefici penitenziari. - Codice di procedura penale, art. 656, comma 9, lettera a), nella parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in relazione all'art. 319 del codice penale. In via subordinata: Esecuzione penale - Sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi - Esclusione nei confronti delle persone condannate per il reato di cui all'art. 319, primo comma, del codice penale, aggiunto dalla legge n. 3 del 2019 all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 tra i reati ostativi alla concessione di determinati benefici penitenziari - Mancata previsione di un regime transitorio che dichiari applicabile la novella ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. - Codice di procedura penale, art. 656, comma 9, lettera a), nella parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in relazione all'art. 319, primo comma, del codice penale.(GU n.6 del 5-2-2020 )
CORTE DI APPELLO DI ROMA La Corte di appello di Roma sez. III penale composta dai signori: 1) dott. Gianfranco Garofalo, Presidente rel. est.; 2) dott. Raffaele Montaldi, consigliere; 3) dott. Massimo Gustavo Mariani, consigliere; Disposta la riunione per evidenti ragioni di connessione oggettiva dei procedimenti a margine segnati; Riunita in Camera di consiglio, sciogliendo la riserva assunta all'udienza dell'11 novembre 2019, sentite le parti, ha emesso la seguente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale e di contestuale sospensione del procedimento. Proc. n. 1307/19 I.E. Con richiesta, depositata in data 25 ottobre 2019, gli avvocati Filippo Dinacci e Fabio Viglione, difensori di C. M., nato a ... il ..., in atto detenuto presso la Casa circondariale di ..., in forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma in data 22 ottobre 2019, chiedono dichiararsi nullo e/o inefficace l'ordine di esecuzione della pena o, comunque sospenderne gli effetti al fine di formulare richiesta di misura alternativa alla detenzione, o, ancora, in subordine, che la Corte di appello sollevi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, lettera b), della legge n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019, per contrasto con gli articoli 117, 7 CEDU e 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se ne preveda l'applicazione ai fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge, e sospenda, per l'effetto, l'esecuzione della pena detentiva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. Proc. n. 1309/19 I.E. Con richiesta, depositata in data 28 ottobre 2019, gli avvocati Filippo Dinacci e Antonio Ugo Palma, difensori di T. A., nato a ... il ..., in atto detenuto presso la Casa circondariale di ..., in forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma in data 22 ottobre 2019, chiedono dichiararsi nullo e/o inefficace l'ordine di esecuzione della pena o, comunque sospenderne gli effetti al fine di formulare richiesta di' misura alternativa alla detenzione, o, ancora, in subordine, che la Corte di appello sollevi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019, per contrasto con gli articoli 117, 7 CEDU e 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se ne preveda l'applicazione ai fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge, e sospenda, per l'effetto, l'esecuzione della pena detentiva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. Proc. n. 1310/19 I.E. Con richiesta, depositata in data 25 ottobre 2019, l'avv. Lorenzo La Marca, difensore di S. M., nato a ... il ..., in atto detenuto presso la Casa circondariale di ..., in forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura Generale presso la Corte di appello di Roma in data 22 ottobre 2019, chiede, in via preliminare, ordinarsi la revoca o, in subordine dichiararsi inefficace l'ordine di esecuzione della pena o, comunque sospenderne gli effetti al fine di formulare richiesta di misura alternativa alla detenzione, o, ancora, in subordine, che la Corte di appello sollevi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, lettera b), della legge n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019, per contrasto con gli articoli 117, 7 CEDU e 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se ne preveda l'applicazione ai fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge, e sospenda, per l'effetto, l'esecuzione della pena detentiva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. Proc. n. 1313/19 I.E. Con richiesta, depositata in data 23 ottobre 2019, gli avvocati Francesca Arico' ed Enrico Bonizzoni, difensori di P. M., nato a ... il ..., chiedono di sospendere gli effetti dell'ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma in data 22 ottobre 2019, al fine di formulare richiesta di misura alternativa alla detenzione, evidenziando come una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 6, lettera b), della legge n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019, non possa non rilevarne il contrasto con l'art. 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se ne preveda l'applicazione ai fatti commessi in data anteriore all'entrata in vigore della legge; Tanto premesso, letti gli atti, Osserva Con sentenza resa il 22 ottobre 2019 la Corte di cassazione confermava la sentenza n. 10010/18 emessa da questa Corte di appello in data 11 settembre 2018 nella parte in cui, in parziale riforma della sentenza di primo grado: C. M. veniva condannato alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione per il reato di cui all'art. 319 codice penale, oltre le spese e le pene accessorie, dovendo ancora espiare, in ragione del presofferto, la pena residua pari ad anni tre, mesi sette e giorni sei di reclusione; T. A. veniva condannato alla pena di anni cinque di reclusione per il reato di cui all'art. 319 codice penale, oltre le spese e le pene accessorie, dovendo ancora espiare, in ragione del presofferto, la pena residua pari ad anni tre, mesi undici e giorni sedici di reclusione; S. M. veniva condannato alla pena di anni quattro per il reato di cui all'art. 319 codice penale, oltre le spese e le pene accessorie, dovendo ancora espiare, in ragione del presofferto, la pena residua di cui al richiamato ordine di esecuzione; Ritenuto, preliminarmente, che le istanze di sospensione dell'esecuzione cosi' come proposte risultano ammissibili. Invero, a mente dell'art. 656 codice procedura penale, come modificato dalla legge n. 165/98, il pubblico ministero, fermo il dovere di emettere l'ordine di carcerazione per le pene detentive brevi, deve, contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento, assegnando al condannato un termine di trenta giorni per formulare richiesta di misure alternative. Ne consegue che, ove non sia adottato il provvedimento di sospensione, non essendo prevista la facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento o di revoca dell'ordine di carcerazione legittimamente emesso, deve pero' essere consentito al condannato di rivolgere al giudice dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia temporanea del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione analogica dell'art. 670 codice procedura penale (cfr. Cassazione Sez. 1, sentenza n. 25538 del 10 aprile 2018 Cc. - dep. 6 giugno 2018 - Rv. 273105: «Il giudice dell'esecuzione non puo' annullare l'ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, ma deve esclusivamente dichiararlo temporaneamente inefficace per consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione»; Cassazione sez. I, sentenza n. 2430 del 17 giugno 1999 - ud. del 23 marzo 1999, Kola; rv 213875); Tanto precisato, l'ordine di esecuzione di cui si invoca la sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per reato previsto attualmente dall'art. 4-bis legge n. 354/75 come ostativo alla applicazione di misure alternative alla detenzione a seguito della modifica introdotta dall'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; Al momento dell'emissione del suddetto ordine di carcerazione gli istanti si trovavano tutti in stato di liberta'; Tutti i difensori, richiamando copiosa giurisprudenza di merito e anche di legittimita' nonche' della CEDU, invocano l'adozione di un provvedimento di sospensione alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata del precetto di cui all'art. 1, comma 6, della legge n. 3/2019 sotto il profilo della sua possibile interpretazione quale norma sostanziale piu' sfavorevole, inapplicabile retroattivamente a fatti - come nel caso di specie - commessi prima della sua entrata in vigore; In subordine, in difetto delle condizioni per simile operazione ermeneutica, denunciano l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la' dove ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli «ostativi» ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, senza prevedere un regime intertemporale e, in ogni caso, laddove, ha inserito alcuni reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali quello di cui all'art. 319 codice penale, tra quelli ostativi ai benefici di' cui all'art. 4-bis legge n. 354/1975 per contrasto con gli articoli 25, comma secondo, e 7 e 117 CEDU evidenziando che: avendo riguardo al combinato disposto degli articoli 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale e 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione al delitto di cui all'art. 319 codice penale (ormai irrevocabilmente ascritto agli imputati), inserito nel novero dei reati di cui allo stesso art. 4-bis in virtu' della novella del 9 gennaio 2019, n. 3, non sia piu' possibile sospendere l'ordine di esecuzione ai fini della richiesta di misure alternative alla detenzione in stato di liberta'. In assenza di una disposizione transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, l'emissione dell'ordine di carcerazione e' pertanto «obbligata», con una modifica peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa «a sorpresa» atteso che, al momento in cui e' stato commesso il reato, ... poteva ragionevolmente confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei limiti di operativita' delle misure alternative. Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle «regole del gioco», in quanto del tutto imponderabile all'atto della commissione del reato, si ponga in evidente contrasto con l'art. 7 CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo in situazioni analoghe - rilevante ai fini dell'art. 117 Cost. -, la' dove viola il principio dell'affidamento quanto alla prevedibilita' delle conseguenze sanzionatorie (v. per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013, Del Rio Prada e. Spagna). Evidenzia la Corte come, nella motivazione che segue, saranno riportate intere parti dell'ordinanza emessa dalla I Sezione della Corte di appello di Palermo in data 23 maggio 2019, il cui contenuto si condivide integralmente. Ritiene la Corte di non potere accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto di cui agli articoli 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale e 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall'art. 1, comma 6, legge 9 gennaio 2019, n. 3. Invero, avuto riguardo al «diritto vivente», quale si connota alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite del 2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, sono da considerarsi norme penali processuali e non sostanziali. Pertanto sono soggette - in assenza di una specifica disciplina transitoria - al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 codice penale e dall'art. 25 Cost. (Sez. U n. 24S61 del 30 maggio 2006, pubblico ministero in proc. A., Rv. 233976.; Sez. 1, n. 46649 dell'11 novembre 2009, Nazar, Rv. 245511; Sez. 1, n. 11580 del 5 febbraio 2013, Schifato, Rv. 2SS310. Da ultimo; VI Sez. Pen. n. 535 de! 143.2019). Tale principio trova conferma in una decisione della Corte costituzionale, intervenuta con riferimento alle misure alternative in corso al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 152 del 1991, la quale, pur osservando che la tesi che afferma che il principio di irretroattivita' e' dettato, oltre che per la pena, anche per le disposizioni che ne regolano l'esecuzione «potrebbe meritare una seria riflessione», tuttavia ha chiarito che «anche in materie non soggette al principio di irretroattivita' della legge, (...) ta vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente riconosciuto da una legge precedente non puo' sottrarsi al necessario scrutinio di ragionevolezza», con cio' assumendo che la norma valutata - proprio l'inserimento della ostativita' - non sia soggetta al principio di irretroattivita' (cfr. Corte costituzionale 306/93; anche Corte costituzionale 376/97 ha affermato il medesimo principio rispetto all'applicazione del regime di cui all'art. 41-bis OP ai reati commessi prima della sua entrata in vigore espressamente precisando che: «... Il principio di irretroattivita' non si puo' estendere a provvedimenti che non incidono sulla qualita' e quantita' della pena, ma solo sulle modalita' di esecuzione della pena o della misura detentiva, nell'ambito delle regole e degli istituti che appartengono alla competenza dell'amministrazione penitenziaria»). Il principio va ribadito in questa sede, pur non revocandosi in dubbio che, nella piu' recente giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell'uomo, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di «pena» abbiano assunto una connotazione «antiformalista» e «sostanzialista», privilegiandosi alla qualificazione formale data dall'ordinamento, la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle modalita' di esecuzione della sanzione o della misura imposta (caso Del Rio Prada contro Spagna del 21 ottobre 2013). Ed invero, sotto diverso aspetto, si pone in luce come la novella normativa, nel modificare le modalita' di esecuzione della pena - tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale - abbia nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della pena e quindi sulla stessa «natura della sanzione», di fatto tramutata da «alternativa» in «detentiva». Tenuta presente l'impostazione «sostanzialistica» ed «antiformalista» ormai affermatasi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione ad istituti che presentano marcati tratti di analogia con il peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato art. 4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del 21 dicembre 2013, Del Rio Prada e. Spagna), i mutamenti con effetti concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono ritenersi avere natura, non processuale, ma sostanziale, con conseguente inapplicabilita' retroattiva; infine, profili di incostituzionalita' si possono ravvisare nello stesso inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui al citato art. 4-bis dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in quanto in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena. Cio' posto, ritiene la Corte che vada, in linea principale, esaminata la questione, rivestente carattere assorbente, della dedotta illegittimita' costituzionale dell'inclusione del delitto di cui all'art. 319, codice penale tra quelli ostativi ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 656, comma 9 c.p.p, 4-bis legge n. 354/1975 e 1, comma 6, lettera b), legge n. 3/2019. Va precisato che occorre distinguere i due piani (quello delle modifiche delle condizioni per l'accesso alle misure alternative e quello della sospensione dell'ordine di esecuzione per consentire la richiesta delle misure alternative stando fuori dal carcere), piani distinti che non devono essere confusi, in quanto, in questa sede, non possono essere fatte valere richieste o questioni di incostituzionalita' dell'art. 4-bis ord. pen. poiche' il giudice dell'esecuzione non e' competente in materia di applicazione dei benefici penitenziari [vedi per tutte Cassazione Sez. 1, sentenza n. 24106 del 26 maggio 2009: «.... la competenza all'applicazione delle misure alternative alla detenzione, in ipotesi di soggetto che fruisca della sospensione della pena, appartiene al Tribunale di sorveglianza del luogo ove ha sede l'ufficio del pubblico ministero preposto all'esecuzione, in forza della regola posta dall'art. 656, comma sesto, codice di procedura penale, la quale deve ritenersi speciale rispetto al principio generale di cui all'art. 677 stesso codice ...»), ma possono, di contro, essere proposte richieste o essere sollevate questioni di incostituzionalita' dell'art. 656, comma 9, codice di procedura penale, essendo pacificamente competenza del giudice di esecuzione decidere se l'ordine di esecuzione possa essere dichiarato temporaneamente inefficace per consentire il deposito dell'istanza di misura alternativa (vedi per tutte Cassazione Sez I del 13 ottobre 2008 n. 41592 ma anche Cassazione Sez I 852/1998: «... ove, pur essendovi tenuto il P.M. non provveda a sospendere o a far cessare l'esecuzione dell'ordine di carcerazione a seguito dell'istanza di affidamento in prova terapeutico, il richiedente puo' far valere eventuali doglianze mediante incidente di esecuzione, trattandosi di questione che investe il titolo esecutivo ... e il G.E. resta investito di un controllo limitato alla verifica del corretto esercizio del potere attribuito al P.M.»). Tanto puntualizzato, escluso che possa procedersi ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, non sostenibile alla luce del granitico orientamento innanzi richiamato - e che pure questa Corte fa proprio - sulla natura processuale della norma in questione (vedi, per ultima, anche la recente ordinanza n. 1992/2019 con la quale la Corte di cassazione, nel sollevare il problema della costituzionalita' della norma di cui alla legge n. 3/2019, ha ribadito l'orientamento consolidato che ritiene la norma in questione di natura processuale), risulta rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale come integrato dall'art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione, tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari e, nella specie, dalla possibilita' di richiedere - per una pena contenuta nei quattro anni - le misure alternative alla detenzione ai sensi dell'art. 4-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3 e 27, comma 3 Cost. Va premesso che si ritiene sussistere in capo a questa Corte territoriale la legittimazione a proporre l'incidente di costituzionalita', essendo chiamata ad esercitare una effettiva ed attuale potestas decidendi proprio in relazione alla norma sospettata di incostituzionalita', emettendo all'esito un giudizio potenzialmente definitivo del procedimento. Invero, tenuto conto della natura processuale della norma, con riferimento al reato ascritto agli odierni istanti, la cui condanna e' divenuta irrevocabile il 22 ottobre 2019, ossia dopo l'entrata in vigore della novella 3/2019, e' stato emesso ordine di esecuzione della pena detentiva e non e' possibile disporre la sospensione dell'esecuzione ai sensi del combinato disposto dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen. in base all'art. 4-bis ord. penit. (come novellato nel gennaio 2019). Ne consegue che, se la denunciata norma venisse dichiarata incostituzionale, tutti i condannati istanti potrebbe ottenere l'invocato provvedimento di sospensione dell'ordine di carcerazione. Diversamente, non sarebbero ammessi a fruire di tale beneficio. Esiste, dunque, un chiaro collegamento giuridico fra norma della cui costituzionalita' si dubita e regiudicanda all'esame di questo giudice, tale che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale, che avrebbe ricadute immediate e dirette sulla decisione. Parimenti, deve ritenersi sussistere la non manifesta infondatezza della questione proposta. Si evidenziano, invero, profili di contrasto con il principio di ragionevolezza/eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto la scelta legislativa di inserire il menzionato reato contro la pubblica amministrazione nel regime di cui all'art. 4-bis ord. pen. implica l'estensione al delitto di cui all'art. 319 codice penale, di una peculiare «presunzione di pericolosita' che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo», che, tuttavia, pare prevalere «irragionevolmente» sull'istanza rieducativa (art. 27/3 Cost.) che l'accesso a misura extramuraria senza osservazione in carcere si impegna appunto a preservare. In particolare, la novella, inserendo, tra gli altri, il delitto di cui all'art. 319, codice penale, come ostativo alla possibilita' di accesso da liberi alle misure alternative alla detenzione, da luogo ad un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalita' intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalita' di incisione della liberta' personale del condannato, senza che sussistano adeguati indicatori che possano giustificare l'eccezione. Inoltre, tale ostativita' sembra contrastare con il principio costituzionale di cui all'art. 27, comma III Cost., ossia con la finalita' rieducativa della pena nella precipua prospettiva di una indebita compressione di tale principio e del principio dei «minimo sacrificio necessario» che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale, in quanto priva di alcuna indicazione specifica che avvalori la necessita' di un forzoso «assaggio di pena» e di una previa osservazione in carcere. Cosi' esposta la questione, giova, ricordare che, di recente, con ordinanza del 20 novembre 2018 n. 57913, la Suprema Corte di cassazione, accanto ad una serie di profili inerenti la stessa natura dell'art. 4-bis OP e le peculiarita' del permesso premio (beneficio richiesto nel caso specifico), richiamando una parte della giurisprudenza costituzionale che ha falcidiato le presunzioni assolute di cui all'art. 275, comma 3, codice di procedura penale, con particolare riferimento ai reati di concorso esterno e finalisticamente mafiosi, ha sostanzialmente evidenziato come tale decisione, insieme a quelle di segno analogo per altre tipologie di reato, ha portato alla riformulazione della norma ad opera della legge n. 47 del 2015. Gli interventi citati hanno un filo conduttore comune: l'affermazione secondo cui le presunzioni assolute devono essere giustificate - per essere conformi al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. - da peculiari profili di pericolosita' («le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit»: cfr. Corte costituzionale n. 139/2010). La Corte costituzionale ha esplicitamente rimarcato che cio' che «vulnera i parametri costituzionali richiamati non e' la presunzione in se', ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del "minore sacrificio necessario". La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede i limiti di compatibilita' costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu' intenso» (vds. sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010). Dunque, i giudici delle leggi sono pervenuti a dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, «nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis codice penale o al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Nell'apprezzamento di queste ultime risultanze, il giudice dovra' valutare gli elementi specifici del caso concreto, tra i quali l'appartenenza dell'agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneita' ad esse». Indubbiamente, sussiste un ampio margine rimesso alla discrezionalita' legislativa nell'identificare peculiari situazioni che suggeriscano di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l'organo competente decida sulla misura alternativa, in ragione - appunto - della particolare pericolosita' sottesa a taluni reati e posta a fondamento della ragione ostativa alla sospensione dell'ordine di esecuzione. La questione, dunque, e' se tale presunzione di pericolosita' sia, per l'ipotesi oggetto del presente incidente di esecuzione, irragionevole (cfr. Corte costituzionale 265/2010). In tal senso e' stato reiteratamente affermato che la mera gravita' astratta del reato o il particolare rango del bene giuridico - cosi' come ragioni di particolare allarme sociale ovvero intenti general-preventivi - non possono essere di per se' indici di pericolosita' valevoli a fondare la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare, come a piu' riprese evidenziato dalla Corte costituzionale ne' - per quanto sopra detto circa la comunanza del presupposto - possono fondare la medesima presunzione in sede esecutiva. Invero, la medesima ratio aveva ispirato il legislatore delegato della riforma dell'ordinamento penitenziario, proprio nella riformulazione (in senso riduttivo e dunque diametralmente opposto all'attuale tendenza) dell'art. 4-bis O.P. In proposito, nella relazione illustrativa dell'elaborato della Commissione Orlando, si evidenziava come solo eliminando gli «automatismi» e le «preclusioni impeditive o ritardanti l'avvio di un percorso trattamentale individualizzante in ragione del titolo di reato e delle caratteristiche personali del condannato, possono evitarsi profili di illegittimita' costituzionale», giustificandosi eventuali deroghe solo per «I casi di eccezionale gravita' e pericolosita' specificatamente individuati e comunque (per) le condanne per i delitti di mafia e terrorismo, ai quali possono essere assimilati - quali espressioni degli altri "casi di eccezionale gravita' e pericolosita' specificatamente individuati" - anche le altre fattispecie gia' inserite nel primo comma, limitando gli spazi applicativi delle preclusioni, pero', alle sole ipotesi associative e ai soggetti che rivestano un ruolo apicale in seno al sodalizio, fatta eccezione per alcuni delitti gia' annoverati nell'elencazione del comma 1, che, per loro struttura, implicano l'esistenza di profili organizzativi. Il riferimento ultimo e' ai delitti di cui all'art. 600 (Riduzione o mantenimento in schiavitu' o servitu'), 600-bis, comma 1, (Prostituzione minorile), 601 (Tratta di persone), 609-octies (Violenza sessuale di gruppo) del codice penale, tutti connotati, al di la' dell'aspetto formale di tipo monosoggettivo, di una sostanziale conformazione plurisoggettiva, ora per il riferimento a modalita' organizzative che evocano la compartecipazione di piu' soggetti, ora per l'apprezzamento casistico della corrispondente fenomenologia criminale». La soluzione legislativa non e' irragionevole solo se amplia l'orbita applicativa dell'art. 4-bis, comma 1, O.P. secondo parametri di selezione oggettivi, tratti dalla disciplina esistente - ossia da scelte di politica criminale gia' compiute dal legislatore - e da ragioni di ordine logico-sistematico, che puntano a riportare il meccanismo ostativo alla sua ispirazione originaria. Invero, il rigido divieto di accesso ai benefici extramurari e' stato introdotto, da un lato, per impedire che il potenziale fruitore venga riassorbito nelle organizzazioni criminali di appartenenza in caso di concessione di spazi di liberta'; dall'altro, per incentivare la collaborazione con la giustizia, elemento considerato indispensabile per debellare consorterie altrimenti impenetrabili. Presupposto giustificante la netta preclusione disciplinata al comma I risiede in una presunzione di stabilita' del legame criminoso, accompagnata dal forte rischio di riallacciamento dei contatti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, richiamato a piu' riprese dall'art. 4-bis O.P. come cardine del regime derogatorio. Nelle ipotesi «di prima fascia» questo rischio deve essere di intensita' tale da giustificare una presunzione superabile solo mediante una proficua collaborazione, unico indice in grado, per legge, di sancire il distacco definitivo dal sodalizio di appartenenza. Dunque, la ratio del meccanismo preclusivo di cui all'art. 4-bis ha assolto, fin dalla sua introduzione, alla funzione di individuare puntualmente una serie di fattispecie delittuose considerate di particolare allarme sociale, per riconnettervi una disciplina del trattamento penitenziario derogatoria rispetto a quella ordinaria, sulla base dell'assunto che la lotta ad alcune gravi forme di criminalita' sia efficacemente conducibile (anche) sul piano esecutivo della pena. Se cosi' e', solo laddove la scelta legislativa sia conforme a tale spirito la disposizione novellata puo' essere immune da censure di irragionevolezza. A tal proposito va ricordato che, nel tempo, la giurisprudenza costituzionale, elaborata in sede cautelare, ha imposto al legislatore di non creare doppi binari fondati sul mero allarme sociale, bensi' su «ragioni giustificanti chiaramente riconoscibili». Per contro, con l'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - evocativamente definita «legge spazzacorrotti» - il legislatore ha sancito l'ingresso del delitto di cui all'art. 319, codice penale, e di altri delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione nel novero dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis, comma 1, legge n. 354/1975, integrante l'art. 656 codice di procedura penale per effetto del quale gli autori dei delitti ivi contemplati sono esclusi dall'accesso alla quasi totalita' dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che non abbiano collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit. o, in virtu' delle innovazioni apportate dalla legge in commento, «a norma dell'art. 323-bis, secondo comma, del codice penale». Si tratta di una scelta che evidenzia una tendenza legislativa all'ampliamento degli automatismi preclusivi fondati su presunzioni assolute di pericolosita' sociale, tendenza che, per quanto concerne la materia penitenziaria, trova il suo terreno di elezione e punto di emersione principale proprio nel regime di cui all'art. 4-bis O.P. Nella Relazione introduttiva al d.d.l. n. 1189, presentato alla Camera dei deputati il 24 settembre 2018, in Atti parl. - Camera dei deputati, pp. 1-2, la scelta legislativa trova questa testuale spiegazione: «Il livello di corruzione percepita nel settore pubblico e' molto alto [...]. Recenti studi e pubblicazioni, indagini e procedimenti penali per fatti di corruzione gravissimi e sistematici (alcuni dei quali hanno avuto anche vasta eco mediatica) mostrano come la corruzione e gli altri reati contro la pubblica amministrazione siano delitti seriali e pervasivi, che si traducono in un fenomeno endemico, il quale alimenta mercati illegali, distorce la concorrenza, costa alla collettivita' un prezzo elevatissimo, in termini sia economici, sia sociali. Non va sottovalutato, infatti, che la distorsione delle funzioni amministrative altera i meccanismi della competizione fra imprese e fra individui, favorendone alcune o alcuni a danno di altri, a prescindere dalle effettive qualita' imprenditoriali o professionali dei soggetti coinvolti. Ne risultano danneggiate complessivamente l'economia, la crescita culturale e sociale del Paese, l'immagine della pubblica amministrazione e la fiducia stessa dei cittadini nell'azione amministrativa». Ebbene, tale scelta legislativa con i suoi accennati caratteri estensivi del regime preclusivo previsto nell'art. 4-bis O.P. richiamato, per quel che rileva in questa sede, dall'art. 656 c.p.p. sembra muoversi in direzione contraria rispetto ai recenti orientamenti manifestati sul punto dalla Corte costituzionale, la quale ha gradatamente eroso la severita' delle preclusioni direttamente imposte dall'art. 4-bis o a questo indirettamente connesse. Le censure di illegittimita' costituzionale della norma hanno avuto quale principio base di riferimento la violazione del principio rieducativo della pena ex art. 27, comma 3 Cost. In proposito, con la sentenza n. 306 del 1993, la Corte, pur salvando la disciplina dettata dall'art. 4-bis in base alla c.d. teoria della polifunzionalita' della pena, ha tuttavia sottolineato - limitatamente alla possibilita' di revoca delle misure alternative concesse prima dell'entrata in vigore della regolamentazione restrittiva - l'irragionevolezza del requisito della collaborazione, definito pacificamente quale «uno strumento di politica criminale e non [...] un indice di colpevolezza o criterio di individualizzazione del trattamento». Anche nelle pronunce 504/1995 e 137/1999 in tema di permessi premio, nonche' 445/1997 in materia di semiliberta', i giudici costituzionali hanno valorizzato il principio rieducativo, sul versante della progressivita' del trattamento, affermando che il diniego di un beneficio non puo' essere motivato sulla base dell'assenza di collaborazione, a fronte di un percorso rieducativo gia' in essere al momento di entrata in vigore della disciplina di cui all'art. 4-bis. Il meccanismo preclusivo previsto dall'art. 4-bis, comma 1, e' stato avallato, invece, dalla sentenza 9-24 aprile 2003, n. 135 dalla Corte costituzionale sulla base dell'asserita assenza di qualsiasi automatismo: ad avviso della Corte, infatti, «la preclusione prevista dall'art. 4-bis, comma 1 [...] dell'ordinamento penitenziario non [sarebbe] conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriverebbe] dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non precluderebbe] pertanto in maniera assoluta l'ammissione al beneficio, in quanto al condannato e' comunque data la possibilita' di cambiare la propria scelta» (cfr. Corte costituzionale, sentenza 9-24 aprile 2003, n. 135). Ed ancora, con la sentenza 239/2014, la Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari ivi previsto la detenzione domiciliare speciale di cui all'art. 47-quinquies, nonche', per identita' di ratio, la detenzione domiciliare contemplata all'art. 47-ter, comma 1, lettera a e b; in maniera speculare, la sentenza 76/2017 ha censurato l'art. 47-quinquies, comma I-bis, laddove preclude alle «madri condannate per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis» la possibilita' di espiare la frazione di pena prevista dal comma 1 presso un istituto a custodia attenuata o altro luogo di privata dimora, al fine di provvedere alla cura e assistenza dei figli minori degli anni dieci. In entrambe le occasioni i giudici costituzionali hanno ritenuto prevalente l'interesse del minore, protetto dagli articoli 29, 30 e 31 Cost., sulla necessita' di difesa sociale cui e' invece preposta la disciplina preclusiva. Cio' - si badi bene - non in virtu' di un'apodittica asserzione di superiorita' dell'uno sull'altra, bensi' proprio a causa dell'irragionevolezza della presunzione assoluta e del conseguente automatismo preclusivo, che escluderebbero a priori qualsiasi bilanciamento tra valori contrapposti. L'orientamento cosi' delineato e' stato, poi, riconfermato nelle ultime pronunce numeri 149 e 174 del 2018, aventi a oggetto rispettivamente i meccanismi preclusivi di cui agli articoli 58-quater, comma 4 e 21-bis ord. penit., entrambi connessi all'art. 4-bis: la Corte e' pervenuta, con queste ultime sentenze, a dichiarare nuovamente l'illegittimita' di due automatismi fondati sulla assoluta presunzione di pericolosita' sociale di cui all'art. 4-bis, in quanto contrastanti con alcuni - a questo punto preminenti - principi costituzionali. Di cruciale importanza sono, in particolare, alcuni passaggi argomentativi della sentenza 149/2018, in cui la Corte ha censurato la norma di cui all'art. 58-quater per violazione dell'art. 27, comma 3 Cost., mettendo in luce il ruolo cardine svolto dai benefici contemplati dall'art. 4-bis, comma 1, nell'ottica del «progressivo reinserimento armonico della persona nella societa', che costituisce l'essenza della finalita' rieducativa», della quale, peraltro, «il principio della progressivita' trattamentale e flessibilita' della pena costituiscono diretta attuazione». Ad avviso dei giudici costituzionali, la preclusione in base alla quale i condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo, di eversione o di estorsione (articoli 289-bis e 630 codice penale) che abbiano cagionato la morte del sequestrato «non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell'art. 4-bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell'ergastolo, almeno ventisei anni», impedisce l'individualizzazione del trattamento e oblitera, di conseguenza, «il principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di' ogni altra, pur legittima, funzione della pena». Dunque, deve concludersi che l'orientamento piu' recente esprime un'evidente tendenza della Corte a restringere le preclusioni legate ai reati ostativi. Anche la Suprema Corte di cassazione si e' mossa nel medesimo senso. Si intende fare riferimento alle ordinanze con le quali i giudici del Supremo Collegio hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale, rispettivamente: dell'art. 4-bis, comma 1 ord. penit. per contrasto con gli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi di prima fascia il sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 codice penale, qualora il fatto sia stato riconosciuto di lieve entita', attesa l'irragionevolezza della presunzione di elevata pericolosita' sociale questo specifico specifico caso; dell'art. 4-bis, comma 1, per violazione degli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio; infine, dell'art. 58-ter, comma I-bis ord. penit., per contrasto con gli articoli 3, comma 1 e 27, comma 1 e 3 Cost., nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'art. 4-bis. Dunque, se la finalita' rieducativa della pena assume carattere precipuo nella fase di esecuzione, indubbiamente le scelte ampliative del regime di rigore di cui all'art. 4-bis che il legislatore ha da ultimo compiuto con la legge n. 3/2019 suscitano seri dubbi di legittimita' costituzionale. In particolare, gli argomenti impiegati nella sentenza 149/2018 manifestano una netta presa di posizione nel senso della prevalenza della finalita' rieducativa rispetto alle altre funzioni della pena. Ne discende la censurabilita' di qualsiasi meccanismo legislativo che, attraverso preclusioni assolute sostitutive di qualsiasi valutazione individualizzata della personalita' e della pericolosita' sociale, sacrifichi eccessivamente il principio rieducativo al fine di soddisfare esigenze punitive ulteriori che, per quanto legittime, sono in ogni caso recessive a fronte della garanzia di cui all'art. 27 Cost. Proprio queste argomentazioni, hanno trovato, peraltro, riscontro nella piu' recente giurisprudenza costituzionale, ove si e' rimarcato che «l'esito dello scrutinio di legittimita'» sulle ipotesi di disallineamenti tra la sospensione dell'ordine di esecuzione e la possibilita' di fruire dell'affidamento in prova «dipende [...] dall'adeguatezza degli indicatori che nella visione del legislatore dovrebbero opporsi all'esigenza della coerenza sistematica, fino a poter prevalere su di essa» (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 2018, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 5, codice di procedura penale, riscontrando non «un mero difetto di coordinamento» bensi' un difetto di ragionevolezza - e dunque una violazione dell'art. 3 Cost. - nel mancato adeguamento legislativo - del termine previsto per sospendere l'ordine di esecuzione della pena detentiva, in modo da renderlo corrispondente al termine di concessione dell'affidamento in prova allargato (quattro anni); mancato adeguamento operato «senza alcuna ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalita' intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalita' di incisione della liberta' personale del condannato». Cosi' la citata sentenza n. 41 del 2018, sottolineando ancora - appunto con riferimento all'affidamento in prova al servizio sociale - che «[l]a natura servente dell'istituto [...] lo espone a profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo che lega la sospensione dell'ordine di esecuzione alla possibilita' riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario». Alla stregua di tali argomenti, ritiene questa Corte che possa giungersi a rilevare un difetto di ragionevolezza nell'inclusione, rilevante - in questa sede - ai fini della non sospensibilita' dell'ordine di esecuzione emesso nei confronti degli odierni istanti del delitto di cui all'art. 319, codice penale, attratto ora nell'orbita dell'art. 4-bis ord. pen. Nessun particolare indicatore segnala la necessita' di abbandonare «l'obiettivo di risparmiare il carcere al condannato», segnalato come prioritario dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 569 del 1989 e perseguito «al massimo grado» dal legislatore sin dalla legge n. 165 del 1998, consentendo a chi si trovava in stato di liberta' la possibilita' di accedere all'affidamento in prova, ossia una misura «specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere». Di qui la possibile violazione dell'art. 3 Cost., anche nella precipua prospettiva di una indebita compressione del principio rieducativo (art. 27/3 Cost.), e del principio del «minimo sacrificio necessario» che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale. La deroga ad una simile scelta, dunque, e' deroga al principio rieducativo, e come tale - per essere ammissibile - deve trovare fondamento in una valutazione capace di giustificare l'eccezione alla luce della necessaria tutela di valori di pari rilievo costituzionale, appunto «nei limiti della ragionevolezza». Ora, nella scelta di ricomprendere tra i reati «ostativi» i menzionati reati contro la pubblica amministrazione, ed in particolare l'art. 319 codice penale, non pare possibile rintracciare - tra gli interessi perseguiti dal legislatore e contrapposti all'istanza rieducativa - altre valutazioni che non siano di schietto ordine general-preventivo e di mera «deterrenza», nulla avendo a che fare la misura - e il periodo di «osservazione» intramuraria - con peculiarita' trattamentali imposte dalle connotazioni strutturali del reato in rilievo (e/o delle relative tipologie di autore), alla stregua di quanto sopra esposto. Giova ricordare, a supportare tale argomentare, che la Corte costituzionale, in una recente pronuncia in tema di ergastolo, ha espressamente affermato il «principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena», prima fra tutte la funzione general-preventiva, posto che tale «pur legittima» finalita' non puo' «nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all'obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella societa'» (cosi' la sentenza n. 149 del 2018, punto 7, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui esclude dai benefici indicati dall'art. 4-bis, comma 1, legge cit., i condannati all'ergastolo per il delitto di cui all'art. 630 codice penale - e per il delitto di cui all'art. 289-bis codice penale - che abbiano cagionato la morte del sequestrato, ove non abbiano raggiunto la soglia dei ventisei anni di pena concretamente espiata; decisione che dunque riconosce «l'inderogabilita'» dell'unica finalita' della pena enunciata nella Costituzione). Ed in questa prospettiva e' dunque apprezzabile il contrasto con l'art. 27/3 Cost., nel prisma della valutazione di ragionevolezza che, appunto, fonda e limita la legittimita' delle relative deroghe. La prospettata questione e' rilevante nel presente giudizio, potendo gli istanti, in caso di dichiarata incostituzionalita', ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi per loro il termine di trenta giorni per proporre richiesta, da liberi, di misure alternative alla detenzione per l'esecuzione della pena. Alla stregua di quanto sopra argomentato va sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) codice di procedura penale, come integrato dall'art. 4-bis legge n. 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione ed, in particolare, l'art. 319 c.p., tra quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 27, comma 3, Cost. Parimenti, ma in via subordinata, la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le «carte in tavola» senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost., la' dove si traduce, per i condannati nel passaggio - «a sorpresa» e dunque non prevedibile - da una sanzione «senza assaggio di pena» ad una sanzione con necessaria incarcerazione appare non manifestamente infondata. Tali considerazioni, tuttavia, non possono condurre ad una «interpretazione costituzionalmente orientata» di una norma la cui natura rimane, come detto, squisitamente processuale e soggetta al tempo di applicazione. Pongono, al contrario, un serio profilo di incostituzionalita' per assenza di previsione di un regime intertemporale che renda espressamente applicabile la nuova regola processuale ai soli reati commessi prima dell'entrata in vigore della novella. Tanto puntualizzato, la questione posta all'attenzione di questo giudice dell'esecuzione puo' essere cosi' esemplificata: premesso che l'art. I, comma 6, lettera b) della recente legge n. 3/2019 - che ha inserito nell'elenco del 4-bis ord. pen. anche l'art. 319 codice penale - non prevede alcuna norma di diritto intertemporale, dev'essere verificato se il disposto di cui al comma 9, lettera a) dell'art. 656 codice di procedura penale, nella parte modificata a seguito della novella legislativa possa trovare applicazione anche per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della predetta novella ma in cui l'esecuzione sia iniziata successivamente. Escluso che possa procedersi ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, non sostenibile alla luce del granitico orientamento innanzi richiamato, e che pure questa Corte fa proprio, sulla natura processuale della norma in questione, risulta rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) come integrato dall'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito il reato di cui all'art. 319 codice penale, tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 25, comma 2, e 117 Cost. in riferimento all'art. 7 CEDU, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. Per quel che riguarda la legittimazione di questa Corte territoriale a proporre l'incidente di costituzionalita', si rimanda a quanto prima affermato in tema di una effettiva ed attuale potestas decidendi proprio in relazione alla norma sospettata di incostituzionalita'. Sussiste, pertanto, il requisito della rilevanza stante la pregiudizialita' necessaria della questione di legittimita' costituzionale rispetto alla decisione, sempre subordinatamente a quella prospettata in via principale. Parimenti, deve ritenersi sussistere la non manifesta infondatezza della questione proposta, sussistendo profili di incostituzionalita' dell'art. 656, comma 9, lettera a) codice di procedura penale in base all'art. 4-bis ord. penit. (come novellato nel gennaio 2019) in relazione agli articoli 3, 25, comma 2, 27 e 117 Cost. (come integrato dall'art. 7 CEDU). Ed invero, il differente regime introdotto, senza la previsione di una norma transitoria con riguardo ai reati commessi prima dell'entrata in vigore della legge 3/2019, in quanto non accessibile ne' prevedibile al momento di commissione del fatto, pare porsi in aperto contrasto con l'interpretazione, ormai consolidatasi presso la Corte E.D.U., con riferimento a diversi istituti implicanti, come nel caso di specie, variazioni delle modalita' esecutive della pena. In particolare, giova richiamare la sentenza resa dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo in data 21 dicembre 2013, nel caso Del Rio Prada contro Spagna, con la quale - ravvisando una violazione dell'art. 7 CEDU, ai sensi del quale «... non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso», tale principio ha applicato al caso della «redencion de penas por trabajo» (che consentiva uno sconto di pena di un giorno ogni due giorni di lavoro intramurario), istituto abrogato del nuovo codice penale del 1995 ma mantenuto in via transitoria per i soggetti condannati sulla base del codice previgente, ossia un istituto assimilabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento. In particolare, nella richiamata sentenza, si e' chiaramente delineato il concetto di «pena» e la sua «portata», evidenziando che: «Il concetto di "pena" previsto all'art. 7 § 1 della Convenzione e', come la nozione di "diritti e doveri di carattere civile" e "accusa penale" di cui all'art. 6 § 1, un concetto della Convenzione autonomo. Per rendere effettiva la protezione offerta dall'art. 7, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare da sola se una particolare misura equivale in sostanza a una "pena" ai sensi di questa disposizione (si vedano Welch contro Regno Unito: sentenza del 9 febbraio 1995, Serie A n. 307-A e Jamil e. Francia, 8 giugno 1995, § 35, Serie A n. 317-B)». Nel ribadire che «Il punto di partenza di ogni valutazione dell'esistenza di una pena e' se la misura in questione e' inflitta a seguito di condanna per un "reato" si e' precisato che: "Altri fattori che possono essere presi in considerazione in quanto rilevanti a tale riguardo sono la natura e il fine della misura; la sua caratterizzazione in base al diritto interno; le procedure relative all'emanazione e all'attuazione della misura; e la sua gravita' (si vedano Welch, sopra citata, § 28; Jamil, sopra citata)». Inoltre, si e' puntualizzato che «Sia la Commissione sia la Corte hanno delineato nella loro giurisprudenza una distinzione tra una misura che costituisce in sostanza una "pena" e una misura che riguarda "l'esecuzione" o "l'applicazione" della "pena". Conseguentemente, se la natura e il fine della misura riguarda la detrazione di pena o una modifica del regime di liberazione anticipata, essa non fa parte della pena ai sensi dell'art. 7 (si vedano, tra altri precedenti Hogben, sopra citata; Hosein, sopra citata; L G. R. e. Svezia, n. 27032/95, decisione della Commissione del 15 gennaio 1997; Grava, sopra citata, § 51; Uttley, sopra citata; Kafkaris, sopra citata; § 142; Monne e. Francia, (dee), n. 39420/06, 1° aprile 2008; M. e. Germania, sopra citata, § 121; e Giza e. Polonia, (dee), n. 1997/11, § 31, 23 ottobre 2012). Nella causa Uttley, per esempio, la Corte ha ritenuto che le modifiche apportate alle norme sulla liberazione anticipata successivamente alla condanna del ricorrente non gli fossero state "inflitte" ma che facessero parte del regime generale applicabile ai detenuti, e lungi dall'essere punitivi, la natura e il fine della "misura" erano di consentire la liberazione anticipata, pertanto non potevano essere considerati intrinsecamente "severe". La Corte ha conseguentemente ritenuto che l'applicazione al ricorrente del nuovo regime di liberazione anticipata non facesse parte della "pena"che gli era stata inffitta». «Nella causa Kafkaris, in cui delle modifiche della legislazione penitenziaria avevano privato dei detenuti che espiavano la pena dell'ergastolo - compreso il ricorrente - del diritto alle detrazioni di pena, la Corte riteneva che le modifiche riguardavano l'esecuzione della pena e non la pena inflitta al ricorrente, che rimaneva quella dell'ergastolo. Essa spiegava che benche' le modifiche della legislazione penitenziaria e delle condizioni di liberazione potevano aver reso piu' dura la reclusione del ricorrente, non si poteva interpretare che tali modifiche infliggessero una "pena" piu' pesante di quella inflitta dal tribunale del merito. Essa ribadiva a tale riguardo che le questioni relative alle politiche di liberazione, alla loro modalita' di attuazione e al ragionamento che e' alla loro base rientrano nei poteri degli Stati parti della Convenzione di determinare la propria politica penale (si vedano Achour, sopra citata, § 44, e Kafkaris, sopra citata, § 151). Ma la medesima Corte ha tuttavia riconosciuto anche che in pratica la distinzione tra una misura che costituisce una "pena" e una misura che riguarda "l'esecuzione" e "l'applicazione" della "pena" puo' non essere sempre chiara (si vedano Kafkaris, sopra citata, § 142; Gurguchiani, sopra citata, § 31; e M. e. Germania, sopra citata, § 121). Per di piu' chiaramente da detta sentenza si' ricava che «Il termine "inflitta" utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere interpretato nel senso di escludere dal campo di applicazione dell'art. 7 § 1 tutte le misure introdotte successivamente alla pronuncia della condanna. Essa ribadisce a tale riguardo che e' estremamente importante che la Convenzione sia interpretata e applicata in modo da rendere i suoi diritti pratici ed effettivi, non teorici e illusori (si vedano Hirsi Jamaa e Altri e. Italia [GC], n. 27765/09, § 175, CEDO 2012, e Scoppola (n. 2), sopra citata, § 104)». Pertanto, si e' cosi' statuito: «Alla luce di quanto sopra, la Corte non esclude la possibilita' che le misure adottate dal legislatore, dalle autorita' amministrative o dai tribunali successivamente all'inflizione della pena definitiva, o nel corso dell'espiazione della pena, possano comportare la ridefinizione o la modifica della portata della pena inflitta dal tribunale del merito. Quando cio' accade, la Corte ritiene che le misure interessate dovrebbero rientrare nell'ambito del divieto di applicazione retroattiva delle pene previsto dall'art. 7 § 1 in fine della Convenzione. Diversamente, gli Stati sarebbero liberi - per esempio modificando la legislazione o reinterpretando i regolamenti stabiliti - di adottare delle misure che ridefinivano retroattivamente la portata della pena inflitta, a svantaggio della persona condannata, quando quest'ultima non avrebbe potuto immaginare tale sviluppo al momento in cui e' stato commesso il reato o e' stata inflitta la pena. In tali condizioni l'art. 7 § 1 sarebbe privo di qualsiasi effetto utile per le persone condannate a pene delle quali e' stata modificata la portata ex post facto a loro svantaggio. La Corte sottolinea che tali modifiche devono essere distinte dalle modifiche apportate alla modalita' di esecuzione della pena, che non rientrano nel campo di applicazione dell'art. 7 § 1 in fine». «Per determinare se una misura adottata nel corso dell'esecuzione di una pena riguarda solo la modalita' di esecuzione della pena o, al contrario, incide sulla sua portata, la Corte deve esaminare in ciascun caso che cosa comportava effettivamente la "pena" inflitta in base al diritto interno in vigore al momento pertinente, o in altre parole, quale era la sua natura intrinseca. Nel fare cio' essa deve considerare il diritto interno nel suo complesso e la modalita' con cui esso era applicato al momento pertinente (si veda Kafkaris, sopra citata, § 145)». A supportare il dato di «non manifesta infondatezza» della questione in esame, soccorre la recente pronuncia della Suprema Corte Sez. VI Penale n. 12541 del 14 marzo 2019, nella quale, pur precisandosi che la questione non atteneva alla sentenza di applicazione della pena oggetto del ricorso in Cassazione, tuttavia i giudici del Supremo Collegio hanno evidenziato che: «... l'omessa previsione di una disciplina transitoria circa l'applicabilita' della disposizione (come novellata) possa suscitare fondati dubbi di incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine di esecuzione, in quanto non piu' suscettibile di sospensione in forza della previsione dell'art. 656, comma 9, codice di procedura penale». Ed invero, appare fonte di ingiustificata disparita' di trattamento ex art. 3 Costituzione la novella del 2019 che pone sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente residua, inferiore a quattro anni, e chi ha commesso o commette il reato dopo l'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2019, n. 13. Ancora, la norma presenta, nella parte in cui non ha previsto una disposizione di diritto intertemporale, profili di non manifesta infondatezza di illegittimita' costituzionale per contrasto con il disposto del comma 2 dell'art. 25 Costituzione, per i suoi indubbi riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena in concreto, cosi' come intesa nella piu' recente giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell'uomo, in quanto frutto di un cambiamento delle regole successivo alla data del commesso reato. Infine, appare contrastante con l'art. 117 perche' l'avere il legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della pena per taluni reati senza prevedere alcuna norma transitoria presenta tratti di non conformita' con l'art. 7 CEDU e quindi, con l'art. 117 Costituzione, laddove si traduce, per i condannati nel passaggio a sorpresa e non prevedibile, al momento della commissione del reato, alla sanzione con necessaria incarcerazione. La prospettata questione e' rilevante nel presente giudizio, potendo gli istanti, in caso di dichiarata incostituzionalita', ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi per loro il termine di trenta giorni per proporre richiesta, da liberi, di misure alternative alta detenzione per l'esecuzione della pena. Alla stregua di quanto sopra argomentato va sollevata, in subordine rispetto a quella principale, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) codice penale, come integrato dall'art. 4-bis, legge n. 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 25, comma 2, e 117 Cost. come integrato dall'art. 7 C.E.D.U., senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. Consegue la sospensione del presente processo e l'ordine di trasmettere gli atti immediatamente alla Corte costituzionale nonche' di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, mentre non possono trovare accoglimento le istanze di sospensione o di dichiarazione di inefficacia degli ordini di esecuzione emessi dal P.G.
P.Q.M. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; la Corte, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, solleva, in via principale, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) codice di procedura penale, come integrato dall'art. 4-bis, legge n. 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito il reato di cui all'art. 319 codice penale, tra quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 della possibilita' di accesso alle misure alternative alla detenzione, per contrasto con gli articoli 3, 27, comma 3, Cost. Solleva, altresi', in via subordinata, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale, come integrato dall'art. 4-bis, legge n. 354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito il reato di cui all'art. 319, comma 1, codice penale tra quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 della possibilita' di accesso alle misure alternative alla detenzione, per contrasto con gli articoli 3, 25, comma 2, e 117 Cost. in relazione all'art. 7 C.E.D.U., senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3 ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. Consegue la sospensione del presente processo. Rigetta le richieste di sospensione o di dichiarazione di inefficacia degli ordini di esecuzione emessi dal P.G. Ordina, a cura della cancelleria, l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale nonche' la notifica della presente ordinanza alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma l'11 novembre 2019 Il Presidente: Garofalo