N. 16 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 ottobre 2019
Ordinanza del 22 ottobre 2019 del Tribunale di Lagonegro sull'istanza proposta da M. A.. Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 - Inserimento del delitto di peculato di cui all'art. 314, primo comma, del codice penale tra i reati ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari. - Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), art. 1, comma 6, lettera b), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), in relazione all'art. 314, primo comma, del codice penale.(GU n.8 del 19-2-2020 )
TRIBUNALE ORDINARIO DI LAGONEGRO Sezione Penale Il Tribunale nelle persone dei magistrati: dott. Nicola Marrone, Presidente; dott.ssa Giusy Viterale, giudice; dott. Filippo Lombardi, giudice est., sulla istanza, depositata il 2 ottobre 2019 dall'avv. Antonio Boccia, di sospensione dell'ordine di carcerazione n. 31/2019 SIEP emesso dalla Procura di Lagonegro nei confronti di M. A. , nata a ... il ... , ivi residente alla ...; sentite le parti all'udienza camerale del 10 ottobre 2019, in particolare il difensore che si e' riportato ai motivi e alle richieste contenuti nell'istanza, ed il pubblico ministero che nulla ha osservato; a scioglimento della riserva assunta, pronuncia la seguente ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione dell'esecuzione e di contestuale rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), legge n. 3/2019 (articoli 656, comma 9, 666, 670 codice di procedura penale art. 23, legge n. 87/1953). 1. Con l'istanza indicata in premessa, l'avv. Boccia, difensore della condannata M. A. , ha chiesto sospendersi l'efficacia dell'ordine di carcerazione disposto dalla Procura di Lagonegro nei confronti della prevenuta, condannata da questo Tribunale alla pena di anni due mesi 10 di reclusione, con sentenza n. 1084 del 2 novembre 2018 (depositata in data 9 novembre 2018; divenuta irrevocabile in data 26 marzo 2019), per il reato di cui all'art. 314, comma 1, codice penale commesso fino al 25 luglio 2014. Nell'istanza, il difensore evidenzia che e' stato illegittimamente applicato nei confronti della M. l'art. 4-bis L. ord. pen., come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge n. 3/2019, c.d. «Spazzacorrotti», che ha incluso nel novero dei reati ostativi all'accesso alle misure alternative alla detenzione, al di fuori dei casi di «collaborazione», il delitto di peculato nella sua formulazione piu' grave di cui al primo comma, sicche' non e' stata disposta ex ante dal pubblico ministero la sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656, comma 5, codice di procedura penale, in quanto vietata dal successivo comma 9 richiamante l'art. 4-bis per come novellato. Ha chiesto inoltre sollevarsi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b), legge n. 3/2019 nella parte in cui modifica l'art. 4-bis legge cit., per contrasto con l'art. 3 Cost. per mancata previsione di una disciplina transitoria che ne comportasse l'applicazione ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore; nonche' per contrasto con gli articoli 117 Cost. e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali poiche' la norma in parola non puo' ricevere applicazione retroattiva in senso sfavorevole, avendo natura sostanziale. Richiama a sostegno la giurisprudenza di legittimita' e di merito che piu' di recente ha affrontato la questione ritenendo di dover attribuire alla norma natura sostanziale e/o rinvenendo nella stessa profili di dubbia costituzionalita' sotto il profilo della retroattivita' in peius e dell'assenza di una disciplina transitoria che ne garantisca l'applicazione solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (in particolare l'istanza cita Cassazione, sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541; Corte app. Reggio Calabria, sez. II, ordinanza del 10 aprile 2019; tribunale Como, Ufficio giudice per le indagini preliminari, ordinanza 8 marzo 2019; Corte app. Lecce, Sez. penale, ordinanza 4 aprile 2019; Tribunale sorveglianza Venezia, ordinanza 8 aprile 2019). 2. Giova preliminarmente rammentare i termini della questione transitando per una breve disamina della normativa rilevante ai nostri fini. L'attuazione della condanna a pena detentiva, previamente pronunciata dal giudice di cognizione avverso l'imputato, avviene mediante la fase esecutiva, della quale e' elevato a dominus il pubblico ministero; egli, infatti, in ossequio all'art. 656, comma 1 del codice di procedura penale, emette un «ordine di esecuzione» con il quale dispone la carcerazione. Detto ordine di esecuzione e' sospeso ai sensi dell'art. 656, comma 5 del codice di procedura penale quando la pena detentiva, anche costituente residuo di maggiore pena, non supera i quattro anni nei casi ordinari (cfr. Corte costituzionale, 2 marzo 2018, n. 41) e nelle ipotesi ex art. 47-ter, comma 1, legge n. 354/1975 o i sei anni nei casi ex articoli 90 e 94 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990: in questo caso, l'ordine e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al suo difensore, al fine di consentire, entro i trenta giorni successivi, di proporre, al Tribunale di sorveglianza competente, istanza per l'accesso alle misure alternative alla detenzione. Non e' pero' sospendibile l'ordine di esecuzione, ai sensi del successivo comma 9, nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354/1975 ed ulteriori ipotesi criminose specificamente indicate dal comma in parola. Dalla lettura congiunta dell'art. 4-bis L. ord. pen. richiamato («Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosita' sociale dei condannati per alcuni delitti»), si evince, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019), che, per i reati commessi contro la pubblica amministrazione, tassativamente indicati e tra i quali figura il delitto di cui all'art. 314, comma 1 del codice penale per il quale la prevenuta ha subito condanna, i benefici indicati nella norma - assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio, accesso alle misure alternative alla detenzione - possono essere attribuiti solo qualora i detenuti o internati collaborino con la giustizia a norma dell'art. 58-ter della L. ord. pen. o ai sensi dell'art. 323-bis del codice penale. E' stato sostenuto in dottrina e in giurisprudenza, anche recentissima, che l'ampliamento per tipologie di reato del novero di cui all'art. 4-bis cit. avviene nella logica legislativa di presunzione di pericolosita' della persona condannata per lo specifico titolo di reato e di sua marcata diffidenza al richiamo rieducativo, sicche' sarebbe giustificato inasprirne le condizioni di' accesso a vantaggiose modalita' esecutive della pena e vietarne l'immediata facolta', al momento dell'emissione dell'ordine di carcerazione, di fare istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione. 3. Il primo profilo da analizzare riguarda la natura della norma e la applicabilita' nei suoi riguardi del divieto di retroazione sfavorevole, invocato dall'istante. Non sussistono infatti criticita' di sorta per coloro che commetteranno (o abbiano gia' commesso) i reati indicati nell'art. 4-bis L. ord. pen. dopo il 31 gennaio 2019, data di entrata in vigore della legge n. 3/2019. Osservazioni particolareggiate vanno invece svolte con riguardo a coloro i quali abbiano commesso i fatti delittuosi prima del 31 gennaio 2019, siano cosi' stati condannati dal giudice della cognizione, ed abbiano visto iniziare la fase esecutiva della condanna, che coincide col passaggio in giudicato della relativa pronuncia giurisdizionale, dopo l'avvento della novella del 2019. In questi casi infatti, deve rispondersi alla domanda se il nuovo art. 4-bis cit. possa applicarsi acriticamente al condannato in fase di esecuzione della pena, o indirizzi i propri effetti solo verso le «condotte» poste in essere dopo la sua entrata in vigore. La risposta dipende con tutta evidenza dalla natura che si attribuisce alla norma in parola. Se si' conferisce alla stessa una natura processuale, essa andra' applicata in ossequio al principio tempus regit actum, si' da operare nei confronti di tutti i condannati quando la «fase esecutiva» della loro condanna trovi il proprio incipit successivamente alla entrata in vigore della legge n. 3/2019. Laddove invece si attribuisse all'art. 4-bis cit. una natura sostanziale, esso dovrebbe essere sottoposto al divieto di retroazione sfavorevole di cui agli articoli 25 Cost., 2 del codice penale e 7, comma 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sicche' l'inasprimento del regime di accesso ai benefici ed il correlato divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione troverebbero ricaduta pratica solo per i «fatti» commessi successivamente all'entrata in vigore della legge n. 3/2019. Sul punto, deve darsi atto dell'esistenza di una recente opinione ermeneutica, diffusa in una parte della giurisprudenza di merito e sostenuta da ampia dottrina, secondo cui la norma qui di interesse assumerebbe la conformazione di norma sostanziale alla luce degli orientamenti sovranazionali secondo cui avrebbe natura sostanziale ogni norma penale che incida sullo status libertatis della persona e che non attenga strettamente alle modalita' di accertamento del reato. Si e' infatti sostenuto che occorre avere riguardo, per attribuire alla norma penale natura sostanziale, alla incidenza della stessa sulla natura afflittiva della pena e sulla aggressione del bene della liberta' personale. In quest'ottica, gli articoli 656, comma 9 del codice di procedura penale e 4-bis L. ord. pen. non inciderebbero sulle modalita' esecutive della pena ma imporrebbero nell'immediatezza un regime detentivo in attesa che il Tribunale di sorveglianza si pronunci sull'accesso alla misura alternativa, la quale potra' essere invocata solo a carcerazione avvenuta; si' e' ritenuto pertanto che la norma in questione escluda una dinamica sostitutiva incidendo sulla riespansione dell'istituto privativo della liberta' personale, in questo modo sfuggendo alla dimensione meramente esecutiva. A sostegno della tesi ora esposta, si e' richiamata la sentenza Cassazione sez. VI, n. 12541/2019, nella quale si rammenta come nella recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo «ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione antiformalista e sostanzialista, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall'ordinamento (all'«etichetta» assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle modalita' di esecuzione della sanzione o della misura imposta». La stessa pronuncia di legittimita' citata richiama a supporto la sentenza del 21 ottobre 2013 della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Del Rio Prada contro Spagna, in cui si giungerebbe ad affermare che «ai fini del rispetto del principio di affidamento del consociato circa la prevedibilita' della sanzione penale occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata ma anche alla sua esecuzione». E' stato in senso contrario statuito che le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, riguardando le sole modalita' esecutive della stessa, non guadagnano la veste di norme penali sostanziali e pertanto, in difetto di una specifica disciplina transitoria, soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo (si veda Cassazione sez. un. 24561/2006; Cassazione sez. I, 37578/2016; Cassazione sez. I, 11580/2013; Cassazione sez. IV, 18 settembre 2012, n. 43117; Cassazione sez. I, 46649/2009; Cassazione sez. I, 46924/2009; Cassazione sez. I, 3789/1994). Inoltre, la stessa Corte della nomofilachia ha di recente superato la teoria sostanzialista svolgendo importanti precisazioni sul punto (v. Cassazione sez. I, ordinanza 18 giugno 2019, n. 31853). La modifica normativa avrebbe introdotto, per i reati contro la pubblica amministrazione tassativamente indicati, una riformulazione peggiorativa delle (sole) condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione (richiedendo la condizione della «collaborazione» nel senso su descritto), non incidendo sull'accessibilita' del beneficio in senso assoluto, non interessando la tipologia ne' il quadro edittale della sanzione penale ne' producendo effetti sulla durata della pena. Cio' comporterebbe prima facie l'irrilevanza della questione per l'ordinamento convenzionale EDU e per il nostro ordinamento costituzionale sotto il profilo della prevedibilita' ed accessibilita' delle conseguenze penali della condotta. Infatti, per questo filone giurisprudenziale di legittimita', non rientra tra gli aspetti da garantire la predeterminazione, in fase anteriore alla consumazione del fatto illecito, dell'opportunita' di accedere alle misure alternative, rimesse pur sempre alla valutazione discrezionale del giudicante. In questi termini, il principio di affidamento dell'imputato risulta un valore «relativamente tutelabile». Infatti, quanto al caso della normativa sopravvenuta avente ad oggetto le misure alternative alla detenzione, la tutela sarebbe certamente da accordare nel caso in cui la modifica peggiorativa sia intervenuta quando il soggetto abbia gia' formulato la domanda di accesso al beneficio. Questo Collegio ritiene di aderire all'impostazione giurisprudenziale da ultimo segnalata, condividendone le argomentazioni. Si osservi altresi' che il richiamo, formulato dalla tesi antagonista, alla sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo Del Rio Prada contro Spagna, nella parte in cui farebbe rientrare nelle maglie dell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali la fase esecutiva della pena, non appare a nostro parere convincente. Nella sentenza in parola, la Corte europea dei diritti dell'uomo, affrontando il caso del mutamento giurisprudenziale comportante effetti sull'istituto della liberazione anticipata, ha osservato come rientri nell'alveo funzionale dell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali la modifica normativa (o, in base alla giurisprudenza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, anche il revirement giurisprudenziale) che abbia inciso sulla «portata della pena», con conseguente esclusione, dal tessuto normativo de quo, della legislazione che influisca in senso peggiorativo sulla sola «modalita' di esecuzione della pena inflitta» (par. 104). Secondo la Grande Camera, la modifica (in questo caso) giurisprudenziale non poteva applicarsi in via retroattiva alla ricorrente, pena la dichiarata violazione dell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, in quanto, incidendo sull'istituto della liberazione anticipata e pertanto sulle detrazioni di pena, aveva «condotto anche alla ridefinizione della portata della pena inflitta» (par. 109). Giova dunque osservare come la stessa giurisprudenza sovranazionale non abbia espresso il principio secondo cui le modifiche «in corso d'opera» che riguardino la fase esecutiva della pena siano ex se rilevanti ex art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali sicche' se ne debba vietare l'applicazione retroattiva a condotte poste in essere prima del loro avvento. Ha invece meramente escluso il meccanismo valutativo inverso asetticamente imperniato sulla rigida dicotomia «reato/pena - esecuzione della pena» secondo cui a quanto attenga alla fase esecutiva della pena va acriticamente applicato il principio tempus regit actum mentre a quanto attenga all'identificazione del reato nelle sue componenti strutturali e al trattamento sanzionatorio nella sua perimetrazione legale va invece applicato il divieto di retroazione sfavorevole. L'impostazione di certo «sostanziale» da sempre adottata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo andra' interpretata, a nostro avviso, in maniera flessibile andando a sondare se, pur attenendo l'intervento normativo al momento esecutivo della pena, esso comporti riverberi sulla «modalita' esecutiva della pena» o sulla «portata della pena», quest'ultima da interpretarsi dunque sotto il profilo del quantum di pena in astratto eseguibile. Concludendo sul punto, questo Collegio ritiene che l'art. 4-bis L. ord. pen. abbia natura processuale e non sostanziale, cosi' come per le stesse ragioni conserva natura processuale l'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale, norma richiamante l'art. 4-bis, in quanto attinente alle modalita' esecutive della pena e, piu' in particolare, alla «tempistica» di accesso alle misure alternative; consegue che non potra' disporsi la sospensione dell'esecuzione della pena in favore della prevenuta, in quanto la nuova formulazione dell'art. 4-bis L. ord. pen. (richiamato dall'art. 656 cit.), intervenuta dopo la commissione del fatto per cui v'e' stata condanna e prima del passaggio in giudicato della stessa, potra' regolarmente operare in fase esecutiva nella sua attuale portata lessicale. 4. Quanto alla invocata rimessione degli atti alla Corte costituzionale per incostituzionalita' della norma che ha rimodulato art. 4-bis L. ord. pen. (art. 1, comma 6 della legge n. 3/2019), l'istante si allinea alle argomentazioni gia' profuse da diversi giudici di merito che hanno sollevato la medesima questione di legittimita' costituzionale. In particolare, secondo il difensore, la norma censurata si porrebbe in conflitto con l'art. 3 della Costituzione in quanto la legge modificativa non ha previsto per l'operativita' della nuova formulazione dell'art. 4-bis cit., un regime transitorio che disciplini le condizioni ostative alle misure alternative alla detenzione in modo che le stesse non si applicassero a condotte poste in essere prima della vigenza della norma rinnovata; inoltre si porrebbe in conflitto con gli articoli 117 della Costituzione e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali perche' opererebbe indebitamente secondo la logica della retroazione sfavorevole. Giova in questa sede osservare che il giudice a quo, dinanzi ad una questione di costituzionalita' prospettata dalle parti, deve in primo luogo operare una valutazione di rilevanza della questione nel caso al suo vaglio ed una valutazione di non manifesta infondatezza della stessa; deve al contempo, nel caso di apparente contrasto tra la norma censurata ed i principi costituzionali, tentare di smentire il conflitto mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della norma primaria. Nel caso di specie, in primo luogo si ritiene rilevante la questione in quanto una eventuale dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019, norma di legge che ha modificato l'art. 4-bis L. ord. pen. per difetto di una disciplina transitoria, sortirebbe nel caso all'attenzione di questo Collegio gli effetti favorevoli invocati dalla richiedente. E' tuttavia sotto il profilo della non manifesta infondatezza che questo Collegio ritiene di dover considerare inammissibile l'istanza difensiva per come formulata, in quanto non si ritiene, per le ragioni esposte in precedenza (in particolare, § 3 della presente ordinanza), che sia irragionevole la mancata introduzione di un regime intertemporale che vieti all'art. 4-bis L. ord. pen. (per come riformulato), norma processuale per natura sottoposta al principio tempus regit actum, di disciplinare la fase esecutiva di una pena irrogata per una condotta illecita tenuta in un momento antecedente all'entrata in vigore della legge n. 3/2019. Quanto detto trova la propria ratio nella considerazione secondo cui la garanzia della prevedibilita' delle conseguenze sanzionatorie dei comportamenti umani, tutelata dagli articoli 25 Cost., 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e 2 del codice penale, non opera con riguardo alle modalita' esecutive della pena e, in specie, con riferimento alle condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione, non riguardando le stesse la descrizione del fatto vietato, il trattamento sanzionatorio ne' una modalita' esecutiva che, in ossequio alla richiamata giurisprudenza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, abbia un diretto riverbero sulla portata della pena incidendo sul quantum di pena da eseguirsi. Consegue che in questi casi la previsione di una disciplina transitoria nel senso invocato dal difensore resta appannaggio del legislatore e rientra nella sua piena discrezionalita'. Per i medesimi motivi, si ritiene che la norma non violi gli articoli 117 della Costituzione e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, in quanto la norma processuale sfugge al loro ambito di applicazione non intercettando le esigenze di predeterminazione e di prevedibilita' delle conseguenze cristallizzate negli addentellati costituzionale e convenzionale citati. Ad abundantiam, si aggiunga che la rimessione della questione di costituzionalita' alla Consulta andrebbe esclusa anche laddove si aderisse alla tesi della natura sostanziale della norma, in quanto la stessa valutazione della norma in termini sostanziali comporterebbe l'applicazione del divieto di retroazione in peius, che costituirebbe di per se' quella interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata della norma in grado di fugare ex ante il dubbio di costituzionalita'. Ritiene il Collegio tuttavia, aderendo alle riflessioni gia' ampiamente profuse nella citata ordinanza della Cassazione sez. I, ordinanza 18 giugno 2019, n. 31853, di dover sollevare questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019 modificativo dell'art. 4-bis L. ord. pen. quanto al diverso profilo della inclusione dell'art. 314, comma 1 del codice penale nel novero dei reati (condizionatamente) ostativi all'accesso ai benefici penitenziari, con diretto riverbero sulla sospendibilita' dell'ordine di esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale, questione sottoposta a questo giudice dell'esecuzione. A tal fine, incidentalmente si prendono le distanze dalla tesi pur sostenuta secondo cui al giudice dell'esecuzione sarebbe precluso il diretto scrutinio preliminare di costituzionalita' dell'art. 4-bis L. ord. pen. in quanto giudice sfornito di competenza sotto il profilo dell'attribuzione dei benefici penitenziari; al contrario, il giudice dell'esecuzione e' abilitato a sollevare la questione di costituzionalita' di una norma di legge esorbitante dal proprio raggio d'azione quando la stessa, come nel caso al presente vaglio, viene espressamente richiamata dalla norma processuale regolatrice dell'esecuzione penale, materia ontologicamente rientrante nella titolarita' di questo giudice. L'eventuale incostituzionalita' dell'art. 4-bis L. ord. pen. (rectius della norma che lo ha novellato) inciderebbe, in altri termini, in maniera diretta sulla portata funzionale dell'art. 656, comma 9 del codice di procedura penale, rilevante nel caso di specie. Si e' gia' superiormente detto che l'ampliamento della lista tassativa di reati, per cui l'accesso alle misure alternative alla detenzione e' subordinato al requisito della collaborazione nel senso gia' descritto, e' effettuato inserendo progressivamente nel testo della norma tipologie di' reato per cui si ritiene, secondo presunzione assoluta, sussistente la pericolosita' dell'individuo oggettivamente relazionata al titolo del reato per cui e' intervenuta la condanna, per cui soltanto la collaborazione con la giustizia proverebbe quella volonta' di emenda che l'intero ordinamento penale, imperniato sulla finalita' rieducativa ex art. 27 della Costituzione, si pone quale propria ragione esistenziale. E' stato tuttavia chiarito a piu' riprese dal Giudice delle leggi che «si deve partire dal costante orientamento di questa Corte, che esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi automatismi e richiede invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata»; infatti, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit»; pertanto, «l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa». (Corte costituzionale, 4 ottobre 2010, n. 291; Corte costituzionale, 7 luglio 2010, n. 265; Corte costituzionale, 14 aprile 2010, n. 139). Calando i principi teste' enucleati nella realta' procedimentale che ne occupa, si ritiene che l'inserimento nel novero dei reati «condizionatamente» ostativi ai benefici penitenziari del peculato, nella piu' grave formulazione di cui all'art. 314, comma 1 del codice penale, reato fondato, sul piano oggettivo, sullo sviamento della res di cui si ha il possesso dalla destinazione funzionale ad essa originariamente assegnata e, sul piano della colpevolezza, sul «tradimento» della propria funzione pubblicistica che impone di preservare la funzionalita' e la destinazione della cosa in ossequio a primari interessi generali, non sia giustificato da una indefettibile pericolosita' sociale e da una genetica ritrosia al ravvedimento tali da postulare l'assoluta necessita' che il soggetto collabori con la giustizia per attestare la propria suscettibilita' di emenda. Nei termini sopra esposti, riconducibili ai principi stabiliti nel tempo dalla Corte costituzionale, questo Collegio non ritiene sussistente alcuna massima empirica secondo cui il colpevole del delitto di peculato sia, secondo la logica dell'id quod plerumque accidit, restio alla rieducazione; ed e' altrettanto agevole, per gli stessi motivi, rinvenire casistica opposta a tale opera di generalizzazione legislativa. Si ritengono pertanto violati in primo luogo l'art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza della disposizione di legge e della parita' di' trattamento tra i consociati, poiche', con l'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019, il legislatore ha inserito nell'ordinamento penitenziario (con riverberi peggiorativi anche nell'espletamento della fase iniziale dell'esecuzione) una condizione ostativa per i condannati per peculato destinata ad operare indistintamente sia nei confronti di coloro i quali denotino effettivamente una elevata pericolosita' e ritrosia alla rieducazione in quanto particolarmente radicati nelle prassi malsane che talvolta affliggono la pubblica amministrazione, sia nei confronti di coloro i quali, ad esempio per la occasionalita' della condotta e per la avulsione da contesti allargati e capillari di cattiva gestione della cosa pubblica, denotino gia' prima facie una migliore propensione all'emenda. In secondo luogo, si ritiene violato l'art. 27, comma 3 della Costituzione, nella parte in cui pone quale finalita' della pena la rieducazione. E' del tutto pacifico che il primo fattore causale utile alla rieducazione e' proprio la fruibilita' non ostacolata di benefici calibrati sull'effettivo bisogno di pena del condannato; rendere inaccessibile, se non a stringenti condizioni, la misura alternativa alla detenzione a soggetti per i quali tale misura si paleserebbe di per se' idonea alla rieducazione, esaspera l'aspetto generalpreventivo e punitivo della pena ed accresce nell'individuo quel senso di sfiducia nell'ordinamento che trova quale naturale effetto la refrattarieta' alle tecniche rieducative. In definitiva, il Collegio rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019 nella parte in cui inserisce nell'art. 4-bis L. ord. pen. il riferimento al delitto di peculato di cui all'art. 314, comma 1 del codice penale, per violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione.
P.Q.M. Il Collegio, letti gli articoli 656, comma 9 e 666, comma 6 del codice di procedura penale, rigetta l'istanza di sospensione dell'esecuzione. Letto l'art. 23, legge n. 87/1953, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva, con riferimento alla violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019 nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis L. ord. pen. il riferimento al delitto di peculato di cui all'art. 314, comma 1 del codice penale. Sospende il presente procedimento e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza alle parti del giudizio nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri. Manda alla cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza ai presidenti delle due Camere del Parlamento. Lagonegro, 22 ottobre 2019 Il Presidente: Marrone I giudici: Viterale - Lombardi