N. 35 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 6 marzo 2020

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il  6  marzo  2020  (del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri). 
 
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Liguria  -  Disposizioni
  per  il  riutilizzo  di  locali  accessori   e   pertinenziali   di
  fabbricati, nonche' di immobili, anche diruti,  che  risultino  non
  utilizzati  da  almeno  cinque  anni  -  Previsione  nel  caso   di
  intervento consistente nel mutamento di  destinazione  d'uso  senza
  opere che  l'intervento  edilizio  e'  soggetto  alla  segnalazione
  certificata di inizio attivita' (SCIA). 
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Liguria  -  Disposizioni
  per  il  riutilizzo  di  locali  accessori   e   pertinenziali   di
  fabbricati, nonche' di immobili, anche diruti,  che  risultino  non
  utilizzati da almeno cinque anni - Ammissione degli  interventi  in
  deroga alla disciplina dei vigenti strumenti  e  piani  urbanistici
  comunali. 
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Liguria  -  Disposizioni
  per  il  riutilizzo  di  locali  accessori   e   pertinenziali   di
  fabbricati, nonche' di immobili, anche diruti,  che  risultino  non
  utilizzati da almeno cinque anni - Previsioni relative al  rispetto
  dei parametri di aeroilluminazione e dell'altezza minima interna. 
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Liguria  -  Disposizioni
  per  il  riutilizzo  di  locali  accessori   e   pertinenziali   di
  fabbricati, nonche' di immobili, anche diruti,  che  risultino  non
  utilizzati  da  almeno  cinque  anni  -   Ambiti   di   esclusione,
  adeguamento comunale e disposizione transitoria. 
- Legge della Regione Liguria 24 dicembre 2019, n. 30 (Disciplina per
  il riutilizzo di locali accessori, di pertinenza di fabbricati e di
  immobili non utilizzati), artt. 2, comma 1; 3, commi 1, 2 [e 3];  e
  4, commi 1, 2 e 3. 
(GU n.17 del 22-4-2020 )
    Ricorso per la Presidenza del Consiglio dei ministri, in  persona
del Presidente del Consiglio attualmente in carica,  rappresentata  e
difesa per mandato ex  lege  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
presso i cui uffici ha domicilio in  Roma,  via  dei  Portoghesi  12,
ricorrente; 
    Contro la Regione Liguria, in persona del Presidente della Giunta
regionale pro tempore, resistente; 
    Per la dichiarazione  di  incostituzionalita'  degli  articoli  2
comma l, 3 commi l e 2, 4 commi l, 2 e 3  della  legge  regionale  24
dicembre 2019, n. 30 recante «Disciplina per il riutilizzo di  locali
accessori, di pertinenza di fabbricati e di immobili non utilizzati»,
pubblicata nel Bollettino Ufficiale regionale n. 19 del  31  dicembre
2019. 
    Il Consiglio regionale della Liguria ha approvato il 24  dicembre
2019 la legge n. 30 che in sei articoli si occupa del  riutilizzo  di
locali  accessori  e  pertinenziali  dei  fabbricati,  nonche'  degli
immobili anche diroccati  che  non  risultino  utilizzati  da  almeno
cinque anni dalla sua  entrata  in  vigore,  per  destinarli  ad  uso
residenziale, turistico ricettivo, produttivo, commerciale, rurale  e
per servizi. 
    Si tratta  in  sostanza  di  una  normativa  che  si  propone  di
restituire a funzioni  di  sviluppo  economico  edifici  o  parti  di
edifici, creando opportunita' di riuso che non  comporti  consumo  di
suolo. 
    Tale normativa tuttavia, ad avviso della Presidenza del Consiglio
dei ministri si pone in contrasto con i principi costituzionali sotto
svariati profili, e deve pertanto essere impugnata per i seguenti  
 
                               Motivi 
 
1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma  l,  della  legge
regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 117, comma
3, della Costituzione. 
    La norma in questione prevede che il riutilizzo per le  finalita'
di legge dei locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche
collocati in piani seminterrati, puo'  essere  realizzato  attraverso
interventi sino alla ristrutturazione edilizia  di  cui  all'art.  3,
comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della  Repubblica  n.
380/2001. Inoltre, l'intervento consistente  nel  mero  mutamento  di
destinazione  d'uso  senza  opere  e'  soggetto   alla   segnalazione
certificata di inizio attivita'  (SCIA)  ai  sensi  dell'art.  13-bis
della legge regionale della Liguria n. 16/2008. 
    La  norma  regionale  richiamata  (intitolata   «Disciplina   dei
mutamenti di destinazione d'uso senza opere») a sua volta  stabilisce
che i cambi di destinazione d'uso non comportanti opere edilizie sono
soggetti  a  presentazione  di  segnalazione  certificata  di  inizio
attivita' (SCIA) ai sensi dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990,  n.
241. 
    Secondo l'interpretazione che la giurisprudenza amministrativa  e
penale pacificamente  da'  della  normativa  statale  che  regola  la
materia, il cambio di destinazione d'uso da cantina/garage  a  civile
abitazione,  in  quanto  comporta  il  passaggio  da  una   categoria
urbanistica ad un'altra, rientra tra gli  interventi  edilizi  per  i
quali e' necessario il rilascio del permesso di costruire. 
    Tale necessita' non viene meno ne' si attenua per  il  fatto  che
l'attuale legislazione prevede, accanto al permesso di costruire vero
e  proprio  la  SCIA  alternativa  al  permesso  di   costruire.   La
distinzione tra SCIA e SCIA  alternativa  al  permesso  di  costruire
emerge con ogni evidenza, se si considera che la seconda  disegna  un
procedimento aggravato (articoli 22 e 23 testo unico n. 380/2001). 
    Come  noto,  le  norme  del  testo   unico   dell'edilizia   sono
considerate espressione di principi fondamentali dettati dallo  Stato
nella materia edilizia, che come  tali  devono  valere  su  tutto  il
territorio nazionale. 
    Nella fattispecie, e' indubbio che la norma qui censurata  (anzi,
l'intera legge) interviene a regolare una  materia,  il  governo  del
territorio, che e' di competenza regionale; ma trattasi di competenza
legislativa concorrente che deve - in  quanto  tale  -  rispettare  i
principi fondamentali dettati dallo Stato. 
    E'  evidente  come  gli  interventi  edilizi,  quanto  a   titoli
abilitativi, non possano ricevere una disciplina diversa da regione a
regione; pertanto, la trasformazione della destinazione d'uso  di  un
bene che comporta  il  passaggio  da  una  categoria  urbanistica  ad
un'altra non puo' essere sottoposta qui  a  SCIA  semplice  e  la'  a
permesso di costruire o a SCIA rinforzata. 
    La norma di cui all'art. 2,. comma l, della  legge  regionale  in
questione non rispetta il limite  imposto  dall'art.  117,  comma  3,
della Costituzione ed e' pertanto illegittima.  
2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma  l,  della  legge
regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 117, comma
3, della Costituzione. 
    La disposizione in rubrica prevede che il riutilizzo per  i  fini
di legge di locali accessori e di pertinenze di un fabbricato,  anche
collocati in piani seminterrati, nonche' di immobili non  utilizzati,
anche diroccati, e' ammesso in deroga  alla  disciplina  dei  vigenti
strumenti e piani urbanistici comunali, nonche' alla  disciplina  del
vigente piano territoriale  di  coordinamento  paesistico  regionale,
approvato ai sensi della  legge  regionale  22  agosto  1984,  n.  39
(Disciplina dei piani territoriali  di  coordinamento)  e  successive
modificazioni ed integrazioni. 
    Questa possibilita' di riutilizzo si pone in contrasto - anche in
questo caso - con le norme statali in materia edilizia,  considerando
che l'art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380  del
2001 consente il permesso  di  costruire  in  deroga  agli  strumenti
urbanistici solo per edifici ed impianti di interesse pubblico previa
deliberazione del Consiglio comunale,  comunque  nel  rispetto  delle
disposizioni contenute nel decreto legislativo 29  ottobre  1999,  n.
490, e delle  altre  normative  di  settore  aventi  incidenza  sulla
disciplina dell'attivita' edilizia. 
    La stessa norma statale consente  il  permesso  di  costruire  in
deroga alle destinazioni d'uso per gli interventi di ristrutturazione
edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse,  ma  anche  qui
previa  deliberazione  del  Consiglio   comunale   che   ne   attesta
l'interesse pubblico, e a condizione che il mutamento di destinazione
d'uso  non  comporti  un  aumento  della  superficie  coperta   prima
dell'intervento di ristrutturazione,  fermo  restando,  nel  caso  di
insediamenti commerciali, quanto disposto dall'art. 31, comma 2,  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 20l, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni. 
    E in ogni caso, la deroga, nel rispetto  delle  norme  igieniche,
sanitarie e di sicurezza, puo' riguardare esclusivamente i limiti  di
densita' edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati  di  cui
alle norme di attuazione  degli  strumenti  urbanistici  generali  ed
esecutivi, nonche', nei casi di cui al comma l-bis,  le  destinazioni
d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni  di
cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n.
1444. 
    Se questa e' la  disciplina  statale,  il  legislatore  non  puo'
discostarsene  dettando  una  regola  diversa,  piu'  lasca  e   piu'
permissiva, perche' anche in questo caso - come  s'e'  detto  per  la
norma censurata con il precedente motivo - la competenza  legislativa
concorrente incide nella  materia  dei  titoli  abilitativi  in  modo
difforme dalla regola generale, che non puo' ammettere per sua natura
differenziazioni territoriali. 
    L'art. 3, comma l, della legge regionale n. 30/2019  e'  pertanto
illegittimo  per   violazione   dell'art.   117,   comma   3,   della
Costituzione.  
3) Illegittimita' costituzionale, sotto altro profilo,  dell'art.  3,
commi l e 4, della legge  regionale  24  dicembre  2019,  n.  30  per
violazione dell'art. 9 e dell'art. 117, comma  2,  lettera  s)  della
Costituzione. 
    La  disciplina  dettata  da  tali  norme  incentiva  in   maniera
generalizzata gli interventi su una pluralita' di  fabbricati,  anche
vetusti, disseminati su tutto il territorio regionale. Oggetto  della
legge sono, quindi, anche  gli  immobili  di  interesse  culturale  e
paesaggistico, sottoposti a tutela ai sensi della Parte  II  e  della
Parte III del codice dei beni culturali e del  paesaggio  di  cui  al
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. 
    Non e' infatti prevista alcuna eccezione in favore di  tali  beni
agli  articoli  3  o  4  della  stessa  legge,  ove   si   prevedono,
rispettivamente, le deroghe e gli ambiti di  esclusione  e,  in  tale
ultimo  caso,  si  demanda,  peraltro,  esclusivamente  al  Consiglio
comunale la  possibilita'  di  stabilire  alcune  limitate  eccezioni
all'indiscriminata applicazione  su  tutto  il  territorio  regionale
della disciplina introdotta. 
    Conseguentemente,  la  legge  regionale  invade   la   competenza
legislativa esclusiva statale in materia di tutela dei beni culturali
e del paesaggio di cui all'art. 117,  secondo  comma,  lettera  s  ),
della Costituzione - rispetto al quale le previsioni del  Codice  dei
beni culturali e del paesaggio costituiscono norme interposte - e  si
pone anche in contrasto con il principio  fondamentale  della  tutela
del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della  Nazione  di
cui all'art. 9 della Costituzione. 
    Il riutilizzo e' consentito anche in deroga ai vigenti  strumenti
urbanistici (art. 3, comma 1) e non e' prevista alcuna  eccezione  in
relazione ai beni sottoposti a tutela ai sensi  della  Parte  II  del
codice di settore. Conseguentemente, la legge incide direttamente sul
regime di tali beni, in quanto incentiva gli interventi  di  modifica
di immobili  potenzialmente,  per  la  loro  vetusta',  di  interesse
culturale. 
    Al riguardo, deve tenersi presente che, ai  sensi  dell'art.  20,
comma l, del codice di settore «I beni culturali non  possono  essere
distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non  compatibili
con il loro carattere storico  o  artistico  oppure  tali  da  recare
pregiudizio  alla  loro  conservazione».  Anche  la  modifica   della
destinazione d'uso di  tali  beni -  incentivata  indiscriminatamente
dalla legge  regionale  in  esame -  presenta  pertanto  una  diretta
rilevanza ai fini della tutela. In ogni caso, e' del  tutto  estranea
alle attribuzioni  regionali  la  disciplina  delle  possibilita'  di
«riutilizzo» di beni culturali  sottoposti  a  tutela,  essendo  tale
disciplina rimessa esclusivamente allo Stato. 
    E' nota la costante giurisprudenza costituzionale, che  ha  posto
una precisa  linea  di  distinzione  tra  le  competenze  legislative
statali e regionali, riservando allo Stato  la  competenza  tutte  le
volte in cui oggetto della disciplina sia  un  bene  tutelato,  anche
avendo riguardo al «supporto materiale» inciso dalla normativa. 
    In particolare, gia' con la sentenza n. 9 del 2004  la  Corte  ha
evidenziato  come  rientri  tra  le  attivita'  costituenti   tutela,
riservata in via esclusiva allo Stato, quella diretta «a conservare i
beni culturali e ambientali», ossia volta «principalmente ad impedire
che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi  nel
suo contenuto culturale». 
    Non spetta, pertanto, alla regione dettare una disciplina volta a
incentivare il «riutilizzo», anche con cambio di destinazione  d'uso,
di immobili sottoposti a tutela ai sensi della Parte  II  del  codice
dei beni culturali e del paesaggio. 
    Da cio' discende l'illegittimita' della legge regionale in  esame
nella parte in cui, all'art. 3, nel disciplinare le deroghe, mantiene
salva solo una parte del PTRC regionale, senza  prevedere  un'analoga
clausola di salvaguardia a favore del Codice dei beni culturali e del
paesaggio, e all'art. 4, demanda unicamente ai Comuni, nei  casi  ivi
indicati, la limitazione dell'ambito di applicazione della disciplina
introdotta dalla stessa legge, senza parimenti escludere dall' ambito
applicativo della legge i beni sottoposti a  tutela  ai  sensi  della
Parte II dei beni culturali e del paesaggio. 
    E',  inoltre,   violato   l'art.   9   della   Costituzione,   in
considerazione del potenziale pregiudizio ai beni tutelati  derivante
dagli interventi incentivati dalla legge regionale. 
    Sotto altro profilo, e con specifico riferimento al paesaggio, la
disciplina introdotta dalla legge regionale  in  esame,  destinata  a
consentire in modo indiscriminato, in relazione all'intero territorio
regionale, il «riutilizzo» di immobili, anche  sottoposti  a  vincolo
paesaggistico, comporta il  sostanziale  svuotamento  della  funzione
propria del piano paesaggistico. 
    Nel disegno delineato dagli articoli 135, 143 e  145  del  codice
dei beni culturali e del  paesaggio  spetta  infatti  a  quest'ultimo
strumento di dettare, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni
d'uso (e cioe' i criteri di gestione del vincolo, volti  a  orientare
la  fase  autorizzatoria)  e  di   stabilire   la   tipologia   delle
trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonche' le condizioni
delle eventuali trasformazioni. 
    La disciplina introdotta dalla legge regionale impugnata avrebbe,
percio', dovuto prevedere la propria applicazione,  in  relazione  ai
beni paesaggistici,  esclusivamente  nei  casi  e  con  le  modalita'
previamente  determinati  dal  piano  paesaggistico   in   corso   di
elaborazione congiunta con il  Ministero  per  i  beni  le  attivita'
culturali  o  eventualmente  fissati  d'intesa  con  quest'ultimo   e
destinati a confluire nel futuro piano. Cio' allo  scopo  di  evitare
che, in sede di  rilascio  delle  autorizzazioni  paesaggistiche,  le
singole trasformazioni vengano valutate in modo parcellizzato, e  non
nell'ambito della considerazione complessiva  del  contesto  tutelato
specificamente demandata al piano paesaggistico,  secondo  la  scelta
operata al riguardo dal legislatore nazionale. 
    La  Corte  costituzionale  ha,  infatti,   da   tempo   affermato
l'esistenza di un vero e proprio obbligo,  costituente  un  principio
inderogabile della legislazione statale,  di  elaborazione  congiunta
del piano paesaggistico, con riferimento  ai  beni  vincolati  (Corte
costituzionale n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria
della   pianificazione   paesaggistica   «e'   assunta    a    valore
imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale  in  quanto
espressione  di  un  intervento  teso  a  stabilire  una  metodologia
uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali
e   paesaggistici   sull'intero    territorio    nazionale»    (Corte
costituzionale, n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza  n.  272  del
2009). 
    Conseguentemente, e' da ritenere  costituzionalmente  illegittima
la norma in rubrica che, nel disciplinare le deroghe e  prevedere  le
clausole di salvaguardia, non prevede analoga clausola in favore  del
piano paesaggistico o di  uno  specifico  stralcio  di  esso  nonche'
l'art. 4 il quale demanda  l'eventuale  esclusione  dell'applicazione
della disciplina introdotta dalla stessa legge unicamente ai  comuni,
«in relazione a specifiche esigenze di tutela paesaggistica», e nelle
sole fattispecie ivi indicate (ossia «limitatamente al riutilizzo  di
locali contigui alla strada pubblica» e, in questi  casi,  unicamente
con riferimento al «riutilizzo  per  l'uso  residenziale  dei  locali
accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in  piani
seminterrati»),  senza  subordinare  l'applicazione  della   medesima
normativa alla previa introduzione di  un'apposita  disciplina  d'uso
dei beni paesaggistici tutelati, elaborata d'intesa con il  Ministero
per i beni e le attivita' culturali, ai  sensi  degli  articoli  135,
comma l, e 143, comma 2, del codice di settore. 
    Anche per questo aspetto, la disposizione qui censurata  si  pone
in contrasto con la potesta' legislativa  esclusiva  dello  Stato  in
materia di tutela del paesaggio, di cui all'art. 117, secondo  comma,
lettera s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme
interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni  culturali
e del paesaggio. 
    E', inoltre, violato l'art. 9 della Costituzione - il quale  pone
la tutela del paesaggio quale interesse  primario  e  assoluto  (cfr.
Corte costituzionale  n.  367  del  2017)  -  in  considerazione  del
potenziale pregiudizio ai beni tutelati  derivante  dagli  interventi
incentivati dalla legge regionale.  
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3,  commi  2  e  3,  della
legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 32 e
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione. 
    La norma prevede al comma 2  che  l'altezza  interna  dei  locali
destinati alla permanenza di persone non puo' essere inferiore a 2,40
metri, e che  qualora  i  locali  da  recuperare  presentino  altezze
interne diverse tra loro, si considera l'altezza media. 
    Al comma  3  essa  dispone  che  il  rispetto  dei  parametri  di
aeroilluminazione e dell'altezza minima interna e'  assicurato  anche
con opere edilizie che possono interessare i prospetti del fabbricato
o mediante l'installazione di impianti e attrezzature tecnologiche. 
    Le  disposizioni  in  questione  si  pongono  in  contrasto,   in
particolare, con il disposto di cui al decreto ministeriale 5  luglio
1975 «Modificazioni  alle  istruzioni  ministeriali  20  giugno  1896
relativamente all'altezza minima  ed  ai  requisiti  igienicosanitari
principali dei locali d'abitazione», il quale all'art.  l  stabilisce
che: 
      l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione
e' fissata in m. 2,70,  riducibili  a  m.  2,40  per  i  corridoi,  i
disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1); 
      nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare
puo' essere consentita,  tenuto  conto  delle  condizioni  climatiche
locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione  dell'altezza
minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2); 
      le altezze minime previste nel primo e  secondo  comma  possono
essere derogate entro i limiti gia' esistenti  e  documentati  per  i
locali di abitazione  di  edifici  situati  in  ambito  di  comunita'
montane  sottoposti  ad  interventi  di  recupero   edilizio   e   di
miglioramento   delle   caratteristiche   igienico-sanitarie   quando
l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del  luogo
meritevoli di conservazione ed  a  condizione  che  la  richiesta  di
deroga sia  accompagnata  da  un  progetto  di  ristrutturazione  con
soluzioni alternative atte a garantire,  comunque,  in  relazione  al
numero  degli   occupanti,   idonee   condizioni   igienico-sanitarie
dell'alloggio,  ottenibili   prevedendo   una   maggiore   superficie
dell'alloggio e dei vani abitabili  ovvero  la  possibilita'  di  una
adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e  tipologia
delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali  e  dall'impiego  di
mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3). 
    Lo stesso DM all'art. 5 prevede  inoltre  che:  «Tutti  i  locali
degli  alloggi,  eccettuati  quelli  destinati  a  servizi  igienici,
disimpegni, corridoi,  vani-scala  e  ripostigli  debbono  fruire  di
illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso. 
    Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della  finestra  deve
essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore  luce
diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata
apribile non dovra' essere  inferiore  a  1/8  della  superficie  del
pavimento. 
    Per gli  edifici  compresi  nell'edilizia  pubblica  residenziale
occorre assicurare,  sulla  base  di  quanto  sopra  disposto  e  dei
risultati  e  sperimentazioni  razionali,  l'adozione  di  dimensioni
unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi.». 
    Le  disposizioni  regionali  in  questione  non  sono   coerenti,
inoltre, con la disciplina  contenuta  nel  decreto  ministeriale  26
giugno  2015  «Applicazione  delle  metodologie  di   calcolo   delle
prestazioni  energetiche  e  definizione  delle  prescrizioni  e  dei
requisiti   minimi   degli   edifici»,   allegato   l,   punto    2.3
«Prescrizioni», n. 4, laddove si  prevede  che  «  ...  nel  caso  di
installazione di impianti  termici  dotati  di  pannelli  radianti  a
pavimento o a  soffitto  e  nel  caso  di  intervento  di  isolamento
dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste  al
primo e al secondo comma, del decreto  ministeriale  5  luglio  1975,
possono essere derogate, fino a un massimo di  10  centimetri.  Resta
fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000  sul  livello
del mare  puo'  essere  consentita,  tenuto  conto  delle  condizioni
climatiche locali e della locale tipologia  edilizia,  una  riduzione
dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55...». 
    La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che le norme in tema
di altezza  minima  ed  aereoilluminazione,  seppur  previste  da  un
decreto ministeriale (e quindi da norme di  carattere  regolamentare)
costituiscono diretta attuazione degli articoli 218, 344  e  345  del
testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n. 126. Secondo
i principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale
(sentenza n. 256/1996) le norme in  materia  di  salubrita'  ai  fini
dell'abitabilita' degli edifici non sono derogabili quando i relativi
requisiti  sono  fissati  da  disposizioni   legislative   e   quindi
costituiscono limiti invalicabili nel rilascio dell'abitabilita'.  In
altri  termini,  le   norme   anche   regolamentari   che   attengono
direttamente alla  salubrita'  e  vivibilita'  degli  ambienti,  sono
dirette a tutelare condizioni protette direttamente da norme primarie
e costituzionali (cosi' Cons. Stato, IV, sentenza n. 1997/2004 ).  In
questi casi, cioe',  la  norma  secondaria  concretizza  il  generico
imperativo della norma primaria sostanziandone  il  contenuto  minimo
inderogabile in direzione di una  tutela  della  salute  e  sicurezza
degli ambienti. La verifica dell'abitabilita' non puo' prescinderne. 
    Del  resto,  come  riconosce  il   giudice   amministrativo   con
ragionamento senz'altro da condividere, una  diversa  interpretazione
che giungesse a sostenere la derogabilita' dei  requisiti  minimi  di
salubrita',  per  il  sol  fatto  di   essere   fissati   con   norma
regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con  il  principio
di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con
l'art. 32 della stessa. 
    Alla luce della giurisprudenza sopra richiamata  le  disposizioni
regionali in rubrica ledono sia l'art.  32  della  Costituzione  (per
contrasto con  i  parametri  interposti  rappresentati  dalle  citate
disposizioni del decreto ministeriale 5 luglio 1975) che l'art.  117,
comma 3, della stessa Costituzione perche' non rispettano  il  limite
dei principi fondamentali dettati dallo Stato a tutela della salute e
del governo del territorio.  
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma  3,  della  legge
regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione  dell'art.  3  della
Costituzione. 
    La norma in  rubrica  presenta  ulteriori  vizi  di  legittimita'
costituzionale per il fatto che ai suoi sensi le  disposizioni  della
legge  in  esame  si  applicano  non  solo  agli  immobili  esistenti
(presumibilmente corrispondenti ad immobili legittimamente realizzati
o regolarmente legittimati alla data di entrata in vigore della legge
medesima, ma anche a quelli per la cui  costruzione  sia  gia'  stato
conseguito  il   titolo   abilitativo   edilizio   o   l'approvazione
dell'eventuale programma integrato di intervento richiesto alla  data
di approvazione della delibera del Consiglio comunale di cui al comma
l del medesimo articolo. 
    In tal modo, la portata derogatoria (gia' di per se'  censurabili
per i motivi sopra esposti) viene,  di  fatto,  estesa,  con  valenza
retroattiva, ad immobili  per  la  cui  costruzione  sia  gia'  stato
conseguito  il   titolo   abilitativo   edilizio   o   l'approvazione
dell'eventuale programma integrato di intervento. 
    Atteso che  la  previsione  regionale  e'  caratterizzata  da  un
indubbio  carattere  innovativo,  con  efficacia  retroattiva,   essa
potrebbe rendere legittime condotte  che,  non  considerate  tali  al
momento della loro realizzazione (perche' non conformi agli strumenti
urbanistici di riferimento), lo divengono per effetto dell'intervento
successivo del legislatore, con l'ulteriore conseguenza di consentire
la regolarizzazione ex post di  opere  che,  al  momento  della  loro
realizzazione, erano in contrasto con gli  strumenti  urbanistici  di
riferimento, dando corpo a un intervento che esula  dalle  competenze
regionali e risulta pertanto illegittimo. 
    La giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale n. 73  del
2017) non esclude che il legislatore regionale  possa  dettare  norme
sia  retroattive  che  di   interpretazione   autentica,   ma   esige
un'adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso
un puntuale bilanciamento tra le ragioni che  ne  hanno  motivato  la
previsione e  i  valori,  costituzionalmente  tutelati,  al  contempo
potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata (v.
anche Corte costituzionale n. 170 del 2013). 
    Nella specifica materia  urbanistica,  le  giustificazioni  della
retroattivita' devono ritenersi recessive rispetto  al  valore  della
certezza del  diritto,  rispetto  alla  quale  assume  una  peculiare
rilevanza l'affidamento che la collettivita' ripone  nella  sicurezza
giuridica (Corte costituzionale n. 209  del  2010).  Del  resto,  pur
guardando  alla  potenziale  incidenza  delle  norme  impugnate   sui
rapporti  tra  privati,  va  osservato  che  le  stesse,  per  quanto
prevalentemente  di  favore  rispetto  agli  interessi  dei   singoli
destinatari,  retroagendo  nel  tempo  sacrificano,   in   linea   di
principio, le posizioni soggettive dei  potenziali  controinteressati
che facevano  affidamento  sulla  stabilita'  dell'assetto  normativo
vigente all'epoca delle singole condotte.». 
    A cio', si aggiunga,  con  specifico  riferimento  alla  prevista
approvazione dell'eventuale programma integrato di intervento, che la
Corte costituzionale, nella sentenza n. 232 del  2017,  ha  precisato
che «Ne' alcun rilievo assume la presunta coerenza delle disposizioni
impugnate  con  gli  approdi  di  una  parte   della   giurisprudenza
amministrativa  (sulla   cosiddetta   sanatoria   giurisprudenziale),
peraltro contraddetta da orientamenti consolidati, espressi anche  di
recente (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016),  «perche'
un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe che  provenire
dal legislatore statale» (sentenza n. 233 del2015). 
    La norma in esame, quindi, nel prevedere una  retroattivita'  non
giustificata   da   ragioni    costituzionalmente    accettabili    e
contrastando, nell'introdurre  comunque  misure  non  legittime,  con
l'esigenza della certezza giuridica, viola i limiti individuati dalla
giurisprudenza  costituzionale  con  riferimento  all'art.  3   della
Costituzione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Per tutti gli esposti motivi, la  Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri, come sopra rappresentata e  difesa  conclude  affinche'  la
Corte costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittime
le norme della legge regionale ligure  n.  30/2019  con  il  presente
ricorso censurate. 
      Roma, 28 febbraio 2020 
 
                   L'Avvocato dello Stato: Corsini