N. 73 SENTENZA 7 - 24 aprile 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Concorso di  circostanze  aggravanti  e  attenuanti  -
  Divieto di prevalenza del vizio parziale di mente di  cui  all'art.
  89 cod. pen. sulla recidiva reiterata di cui  all'art.  99,  quarto
  comma, cod. pen. - Violazione dei principi di ragionevolezza  e  di
  proporzionalita', personalizzazione e finalita'  rieducativa  della
  pena - Illegittimita' costituzionale parziale. 
- Codice penale, art. 69, quarto comma. 
- Costituzione, artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32. 
(GU n.18 del 29-4-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Augusto Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 69,  quarto
comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di  Reggio
Calabria, nel procedimento penale a carico di V.  M.  e  V.  V.,  con
ordinanza del 29 gennaio  2019,  iscritta  al  n.  121  del  registro
ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito il Giudice  relatore  Francesco  Vigano'  nella  camera  di
consiglio del 6 aprile  2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 24 marzo 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 29 gennaio 2019, il Tribunale ordinario  di
Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27,  primo
e terzo comma, e 32 della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice  penale,  nella
parte in cui prevede  il  divieto  di  prevalenza  della  circostanza
attenuante del vizio parziale di mente di cui all'art. 89  cod.  pen.
sulla circostanza aggravante  della  recidiva  di  cui  all'art.  99,
quarto comma, cod. pen. 
    1.1.-  Il  giudice  rimettente  premette  di  essere  chiamato  a
giudicare, in sede  di  giudizio  abbreviato,  della  responsabilita'
penale di V. M. e V. V., imputati del reato di  furto  pluriaggravato
di cui agli artt. 624, 625, numeri 2) e 7), e  61,  numero  5),  cod.
pen., commesso in concorso tra loro. 
    A  entrambi  gli  imputati  e'  stata  contestata   la   recidiva
reiterata, specifica e  infraquinquennale,  in  relazione  a  plurimi
precedenti per reati contro il patrimonio, alcuni dei quali  commessi
anche in epoca relativamente recente. 
    D'altra parte, dalla perizia psichiatrica disposta dal giudice e'
emersa per  entrambi  gli  imputati  un'infermita'  mentale  tale  da
scemare grandemente la capacita' di  intendere  e  di  volere  senza,
tuttavia,  escluderla,   essendo   state   riscontrate   «alterazioni
psicopatologiche che soddisfano i criteri diagnostici per il Disturbo
della Personalita'», nonche' le «stimmate psicologiche di un Disturbo
da Abuso di Sostanze (oppiacei), oggidi' in parziale remissione». 
    Quanto  in  particolare  a  V.  M.,  la  relazione  peritale   ha
evidenziato  «un  importante  sbilanciamento   depressivo   dell'asse
affettivo e la presenza [...] di  tratti  personologici  marcatamente
disarmonici»,   nonche'   «severe   disarmonie    dell'organizzazione
fondamentale della personalita'» che «fanno assumere una connotazione
disforica  alla  sofferenza   affettiva   e,   assai   probabilmente,
facilitano   l'emergere   di    condotte    regressive    finalizzate
all'ottenimento di  immediata  gratificazione  e  prive  di  adeguata
valutazione del rischio che esse comportano»; il tutto in un  «quadro
di Depressione Persistente». 
    Quanto a V. V., il perito ha rimarcato  un  quadro  di  «disturbo
della  personalita'  con  tratti  misti  del  primo  e  del   secondo
raggruppamento  (particolarmente  rilevanti  i  tratti  schizotipico,
narcisistico,  istrionico,  antisociale)»,  unitamente  a   «poverta'
dell'empatia»  e  «insistita  convinzione  di  essere  meritevole  di
particolare considerazione». 
    Interrogato  in   udienza   sulla   rilevanza   delle   patologie
riscontrate rispetto  all'eziologia  delle  condotte  contestate,  il
perito ha aggiunto  che  tali  patologie,  pur  non  apparendo  tanto
destrutturanti da giustificare un giudizio  medico-legale  di  totale
abolizione  della  capacita'  di  intendere  e  di  volere,  incidono
«specialmente [su] quelle parti del funzionamento mentale che vengono
definite funzioni  esecutive,  quindi  capacita'  di  programmazione,
valutazione, valutazione inferenziale, criteri di appropriatezza e di
opportunita',  pesatura  del   rischio   anche   rispetto   all'utile
personale». 
    Il rimettente riferisce, infine, che in due occasioni V.  V.  era
stato prosciolto da precedenti imputazioni per vizio totale di mente,
mentre  in  altra  circostanza  -  malgrado  la  contestazione  della
recidiva  reiterata  -   il   giudice   aveva   ritenuto   prevalente
l'attenuante del vizio parziale  di  mente,  applicando  la  relativa
diminuzione  di  pena.  Nei  confronti  di  V.  M.,  poi,  era  stata
riconosciuta in almeno una occasione l'attenuante del vizio  parziale
di mente, ritenuta equivalente alla contestata recidiva reiterata. 
    1.2.- Su richiesta del  pubblico  ministero,  alla  quale  si  e'
associata la difesa degli imputati, il giudice a quo ha sollevato  le
questioni di legittimita' costituzionale sopra  formulate,  aventi  a
oggetto in sostanza il divieto  -  desumibile  dall'art.  69,  quarto
comma, cod. pen. - di prevalenza dell'attenuante del  vizio  parziale
di mente sull'aggravante della recidiva reiterata. 
    1.3.-  Quanto  alla  rilevanza  delle  questioni,  il  rimettente
ritiene di non potere, allo stato degli atti,  escludere  tout  court
nei confronti di V. M. e V. V. la recidiva  reiterata,  specifica  ed
infraquinquennale, cosi' come ad essi contestata. 
    Entrambi gli imputati hanno infatti plurimi precedenti per  reati
contro  il   patrimonio   (rapina,   furto   tentato   e   consumato,
ricettazione, danneggiamento), alcuni dei quali intervenuti anche  in
epoca  relativamente  recente  e,  in  ogni  caso,  nel   quinquennio
precedente alla commissione del fatto per il quale  si  procede.  Nei
confronti di entrambi, d'altronde, in piu' occasioni  e'  gia'  stata
riconosciuta  la  recidiva  (reiterata),  ed  applicato  il  relativo
aumento di pena. 
    Osserva il rimettente che «sussist[o]no senz'altro, nel  caso  di
specie, gli indici rivelatori di  una  relazione  qualificata  tra  i
descritti precedenti ed il nuovo illecito, per il  quale  si  procede
(il furto in concorso di due pluviali in rame), trattandosi di  reati
della stessa indole, omogenei dal punto di vista del  bene  giuridico
offeso, posti in essere nel tempo, senza  che  possa  ravvisarsi  una
qualche soluzione di  continuita'  nella  perpetrazione  di  condotte
antigiuridiche da parte di entrambi gli imputati». 
    Il giudice a quo ritiene pertanto, in accordo con  l'orientamento
espresso in materia dalla giurisprudenza costituzionale (e' citata la
sentenza n. 192 del 2007) e di legittimita' (sono citate le  sentenze
della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio-5  ottobre
2010, n. 35738, e 24 febbraio-24 maggio 2011, n. 20798), che nel caso
di specie la reiterazione dell'illecito,  «al  di  la'  del  mero  ed
indifferenziato  riscontro  formale  dell'esistenza   di   precedenti
penali», sia effettivo sintomo tanto di  una  maggiore  colpevolezza,
quanto di una piu' elevata capacita' a delinquere dei due imputati. 
    Ed invero, accanto ad una piu' accentuata pericolosita'  sociale,
i  numerosi  precedenti  specifici,  posti  in  essere  con  analoghe
modalita', lascerebbero emergere una «peculiare insensibilita'  degli
imputati nei confronti delle  condanne  precedentemente  riportate  e
dell'implicito monito a non violare piu' la legge, in esse contenuto,
comportando   un   maggiore   addebito   anche    in    termini    di
rimproverabilita' soggettiva». 
    D'altra parte,  le  patologie  mentali  riscontrate  in  sede  di
perizia sembrerebbero aver avuto un sicuro rilievo nella genesi delle
condotte delittuose poste in essere dai due imputati. 
    Ad avviso del  rimettente,  tuttavia,  la  ridotta  capacita'  di
intendere e di  volere  degli  imputati  al  momento  del  fatto  non
potrebbe  valere  ad  escludere  tout  court  l'applicabilita'  della
recidiva  reiterata  nei   loro   confronti.   Una   tale   soluzione
presupporrebbe infatti l'impossibilita' di «muovere nei loro riguardi
un addebito  di  maggiore  rimproverabilita'  soggettiva»,  e  dunque
l'affermazione che le patologie riscontrate  negli  imputati  abbiano
avuto «un  valore  tanto  determinante  nella  genesi  del  reato  da
escludere che, nel  caso  di  specie,  gli  stessi  potessero  essere
sufficientemente sensibilizzati e  motivati  dai  moniti  provenienti
dalle condanne riportate in precedenza». Il che, secondo il giudice a
quo, non potrebbe essere sostenuto nel caso di specie. 
    Tanto piu'  che  -  osserva  il  rimettente  -  la  soluzione  di
un'automatica  non  applicazione  della  recidiva  nei  confronti  di
imputati affetti da patologie mentali che ne riducano la capacita' di
intendere e di volere finirebbe  per  sovrapporre  indebitamente  due
piani diversi nella struttura  stessa  del  reato.  L'attenuante  del
vizio   parziale   di   mente   atterrebbe    infatti    «al    piano
dell'imputabilita', che della colpevolezza [...] e'  un  presupposto,
senza  confondersi  con  essa»,  concernendo  piu'  precisamente   la
possibilita' del soggetto di essere  motivato,  «almeno  in  parte  e
secondo criteri di normalita' psico-fisica», dalle norme di  divieto.
Di  talche',  «[a]nche  laddove  si  riconosca  un   ruolo   decisivo
nell'eziologia del reato alla  condizione  di  seminfermita'  mentale
[...], ben diverso puo' essere,  nel  caso  concreto,  l'addebito  in
termini di colpevolezza nei confronti  di  un  soggetto  parzialmente
incapace (e quindi, parzialmente capace) che abbia nel passato, anche
recente, commesso plurimi reati della stessa specie di quello per cui
si  procede,  rispetto  a  quello  inerente  un  soggetto,  parimenti
seminfermo, a carico del quale non vi siano  precedenti  o  vi  siano
precedenti non altrettanto significativi». La  stessa  giurisprudenza
di legittimita' avallerebbe, del resto, tale impostazione, escludendo
ogni incompatibilita' in linea di principio  tra  vizio  parziale  di
mente e recidiva (e' citata  Corte  di  cassazione,  sezione  seconda
penale, sentenza 9 giugno-28 settembre 2010, n. 35006). 
    La compatibilita' in linea di principio  tra  vizio  parziale  di
mente  e  recidiva,  peraltro,  non  escluderebbe  di  per   se'   la
possibilita' di ritenere quest'ultima subvalente nel  caso  concreto,
laddove  un  tale  esito  non  fosse  precluso   dalla   disposizione
censurata. 
    Dal che la rilevanza delle questioni prospettate. 
    1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza di  tali  questioni,
rileva il  rimettente  che  l'applicazione  dell'automatismo  di  cui
all'art. 69, quarto comma, cod. pen. condurrebbe  ad  individuare  la
pena, al piu', entro la cornice edittale prevista dall'art. 624  cod.
pen., restando esclusa la  possibilita'  di  adeguarla  all'effettiva
gravita' del fatto e  alle  particolari  condizioni  personali  degli
imputati,  attraverso  il  riconoscimento   (precluso   dalla   norma
censurata) della prevalenza dell'attenuante  del  vizio  parziale  di
mente rispetto alla recidiva reiterata. 
    Il giudice a quo sottolinea, invero,  che  la  giurisprudenza  di
questa Corte riconosce la legittimita' costituzionale di  deroghe  al
regime ordinario del bilanciamento tra circostanze; ma evidenzia  che
- secondo la  medesima  giurisprudenza  -  tali  deroghe  non  devono
trasmodare «nella manifesta  irragionevolezza  o  nell'arbitrio»  (e'
citata  la  sentenza  n.  68  del  2012),  ne'  possono  «giungere  a
determinare un'alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti
nella strutturazione della  responsabilita'  penale»  (e'  citata  la
sentenza n. 251 del 2012). 
    Il rimettente richiama, quindi, le  ormai  numerose  pronunce  di
questa  Corte  che  hanno  dichiarato  la   parziale   illegittimita'
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen. in  relazione  a
specifiche circostanze attenuanti, evidenziando come tali pronunce si
siano sinora sempre riferite ad attenuanti a effetto  speciale  e  di
natura oggettiva, espressive di «un  forte  scarto  nell'offensivita'
della condotta delittuosa» ovvero, nel caso  dell'attenuante  di  cui
all'art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo  unico
delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti  e  sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza), connesse al ravvedimento post delictum del reo. A
parte quest'ultimo caso, tutte le restanti pronunce hanno valorizzato
il principio di offensivita' e la connessa prospettiva di un "diritto
penale del fatto", la quale escluderebbe che  aspetti  relativi  alla
maggiore colpevolezza o pericolosita' dell'agente «possano  assumere,
nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da
renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo» (e'
citata, ancora, la sentenza n. 251 del 2012). 
    Cionondimeno, il divieto di  prevalenza  della  circostanza  -  a
effetto comune, e di natura soggettiva - del vizio parziale di  mente
appare al giudice a quo anch'esso  di  dubbia  compatibilita'  con  i
principi di ragionevolezza, personalita' della responsabilita' penale
e proporzionalita' della pena, di cui agli artt.  3  e  27,  primo  e
terzo comma, Cost. 
    L'effetto comune dell'attenuante che viene  qui  in  rilievo  non
sarebbe, anzitutto, preclusivo dell'esame delle questioni, posto  che
l'irragionevolezza   di   un    «vaglio    individualizzante    della
responsabilita' del singolo individuo», adeguatamente riflesso  dalla
misura  della   pena,   resterebbe   tale   -   ove   sussistente   -
indipendentemente dalla «piu' o meno  ampia  distanza  quoad  poenam,
rispetto  al  tipo  base»,  che  il  riconoscimento   dell'attenuante
comporta. 
    Osserva,  d'altra  parte,  il  rimettente  che  le   «circostanze
inerenti la persona del colpevole», tra le quali si iscrive il  vizio
parziale di mente, hanno  sempre  goduto  di  un  particolare  status
nell'impianto del codice penale, che - nella sua versione originaria,
anteriore alla novella  del  decreto-legge  11  aprile  1974,  n.  99
(Provvedimenti urgenti sulla giustizia  penale)  -  le  sottraeva  in
radice al bilanciamento con le circostanze aggravanti. 
    L'impossibilita', oggi, di graduare il trattamento  sanzionatorio
rispetto ai disturbi della personalita' dell'agente  si  tradurrebbe,
allora,  in  una  violazione  dei  principi   di   ragionevolezza   e
individualizzazione della pena, nonche' nel  mancato  rispetto  della
finalita'  rieducativa  della  pena,  che   implica   la   necessaria
proporzionalita' della pena  rispetto  alla  «concreta  gravita'  del
fatto, nonche' alla personalita' e colpevolezza dell'autore, tale  da
poter  costituire  il  punto  di  partenza  di  un  legittimo  -   ed
auspicabilmente proficuo - percorso rieducativo». 
    Infine, la disposizione censurata violerebbe altresi'  l'art.  32
Cost., dal momento che il soggetto semi-imputabile per vizio di mente
dovrebbe ricevere dall'ordinamento una «risposta alla commissione  di
un fatto reato che sia non  solo  funzionale  alla  rieducazione  ma,
anche e soprattutto, improntata alla tutela della [sua] salute». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate   siano   dichiarate
inammissibili e, comunque, infondate. 
    2.1.- Esse sarebbero, anzitutto,  irrilevanti  per  insufficiente
descrizione della fattispecie oggetto del giudizio. 
    Come osservato da questa Corte nella sentenza n. 120 del  2017  e
nella successiva ordinanza n.  145  del  2018,  l'applicazione  della
recidiva presuppone che  il  giudice  verifichi  in  concreto  se  la
reiterazione dell'illecito sia sintomo  effettivo  di  riprovevolezza
della  condotta  e  di  pericolosita'  del  suo  autore.  Una  simile
verifica, pero', non sarebbe stata compiutamente svolta dal giudice a
quo, il quale non avrebbe  adeguatamente  motivato  se  gli  imputati
avessero  avuto   «piena   capacita'   di   recepire   il   messaggio
specialpreventivo» derivante dalle  precedenti  condanne  pronunciate
nei loro confronti. 
    2.2.- Nel merito, le questioni sarebbero infondate. 
    L'Avvocatura generale dello Stato rammenta in  proposito  che  la
giurisprudenza costituzionale ha «piu' volte censurato l'art. 69 c. 4
c.p. in esame, senza negarne  pero'  radicalmente  la  compatibilita'
costituzionale,  ma  sempre  verificando,  caso  per  caso,   se   la
presunzione  assoluta  sottesa  al  divieto   di   prevalenza   fosse
giustificata in rapporto alle specifiche attenuanti volta a volta  in
esame; lasciando cosi' impregiudicata la possibilita' astratta che la
condizione personale di recidiva reiterata, nell'economia complessiva
di ciascun  concreto  episodio  di  reato,  abbia  un  peso  tale  da
giustificare l'eliminazione iuris et de iure degli effetti diminuenti
delle  particolari  circostanze  attenuanti  con  cui  essa  viene  a
concorrere». 
    Nel  caso  in  esame,  il  divieto   di   prevalenza   troverebbe
giustificazione  anche  in  considerazione  della  modesta  incidenza
dell'attenuante   in   questione   sul   trattamento    sanzionatorio
complessivo, non potendo comunque  tale  divieto  essere  considerato
manifestamente irragionevole o arbitrario. 
    La disposizione censurata, inoltre,  non  contrasterebbe  con  il
principio di personalita' della responsabilita'  penale  ne'  con  la
finalita' rieducativa della pena, che non si opporrebbero di per  se'
a inasprimenti del trattamento sanzionatorio connessi  alla  recidiva
dell'imputato. Il  legislatore  avrebbe  qui  «inteso  sanzionare  il
fenomeno della recidiva reiterata [...] in  quanto  il  fatto  stesso
della persistenza nelle condotte antisociali, quali che  esse  siano,
dimostra che la funzione  rieducativa  non  ha  potuto  efficacemente
esplicarsi  nei  confronti  del  soggetto,  e  quindi  e'  necessario
assicurare la possibilita' (quantomeno escludendo  la  prevalenza  di
determinate attenuanti) che, attraverso  l'applicazione  della  pena,
tale funzione trovi una nuova occasione di svolgimento». 
    Si tratterebbe, in conclusione, di una scelta  discrezionale  del
legislatore, immune dalle censure formulate dal giudice rimettente. 
    Dovrebbe infine escludersi ogni profilo di contrasto  con  l'art.
32 Cost., dal momento che «[l]'impossibilita'  di  far  prevalere  la
seminfermita' mentale sulla recidiva reiterata [...] incide  soltanto
quoad poenam» e non «sul diritto alla salute  dell'imputato  che  ben
puo' essere  tutelato  mediante  la  sottoposizione  alla  misura  di
sicurezza del ricovero nella casa di cura o di custodia». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale  ordinario
di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento  agli  artt.  3,  27,
primo  e  terzo  comma,  e  32  della  Costituzione,   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto  comma,  del  codice
penale, nella parte in cui prevede il  divieto  di  prevalenza  della
circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all'art. 89
cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all'art.
99, quarto comma, cod. pen. 
    In sostanza, la disposizione censurata impedirebbe al giudice  di
determinare una pena proporzionata rispetto  alla  concreta  gravita'
del  reato,  e  pertanto  adeguata  al   grado   di   responsabilita'
"personale" del suo autore, non consentendo di  tenere  adeguatamente
conto - attraverso il riconoscimento della prevalenza dell'attenuante
del vizio parziale di mente rispetto  all'aggravante  della  recidiva
reiterata - della minore possibilita' di essere motivato dalle  norme
di divieto da parte di chi risulti affetto da  patologie  o  disturbi
della  personalita'  che,  seppur   non   escludendola   del   tutto,
diminuiscano grandemente la sua capacita' di intendere e di volere. 
    Secondo  il  giudice  rimettente,   la   disposizione   censurata
violerebbe altresi' l'art. 32 Cost., non consentendo  al  giudice  di
determinare una  pena  funzionale  non  solo  alla  rieducazione  del
condannato, ma anche alla tutela della sua salute. 
    2.- La disposizione  censurata,  nella  versione  attualmente  in
vigore, e' - come e' noto - il frutto di una duplice  stratificazione
normativa rispetto al testo originario del codice penale. 
    Nella versione del 1930,  l'art.  69,  quarto  comma,  cod.  pen.
sottraeva tout court alle  regole  sul  bilanciamento  enunciate  nei
commi precedenti le «circostanze inerenti alla persona del colpevole»
e «qualsiasi altra circostanza per la quale la legge  stabilisca  una
pena di specie diversa o determini  la  misura  della  pena  in  modo
indipendente da quella  ordinaria  del  reato».  L'art.  70,  secondo
comma, cod. pen.  disponeva  poi  -  e  tuttora  dispone  -  che  per
«circostanze inerenti alla persona del colpevole» si intendono quelle
riguardanti l'imputabilita' e la recidiva. Il legislatore  intendeva,
in tal modo, assicurare che il giudice fosse in ogni caso  tenuto  ad
applicare separatamente le diminuzioni (o gli aggravamenti)  di  pena
correlati alla capacita' di intendere e di volere,  tra  i  quali  la
diminuzione  di  cui  all'art.  89  cod.  pen.  in  questa  sede   in
discussione, cosi' come gli aggravamenti  di  pena  dipendenti  dalla
recidiva. 
    Il quarto comma dell'art. 69 cod. pen. fu  modificato  una  prima
volta a mezzo del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99  (Provvedimenti
urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella
legge  7  giugno  1974,  n.  220,  che  estese  il   meccanismo   del
bilanciamento  disciplinato  nei  commi   precedenti   a   tutte   le
circostanze, comprese quelle inerenti  alla  persona  del  colpevole:
conferendo cosi' al giudice il potere di applicare, o non  applicare,
i relativi aumenti o diminuzioni di pena, in presenza di  circostanze
di segno contrario, ritenute equivalenti o prevalenti. 
    Infine, la legge 5 dicembre 2005, n.  251  (Modifiche  al  codice
penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di  attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di reato per i  recidivi,  di  usura  e  di  prescrizione)  modifico'
nuovamente la disposizione, introducendo il divieto di prevalenza  di
qualsiasi circostanza attenuante, inclusa  la  diminuente  del  vizio
parziale  di  mente,  nell'ipotesi  -  tra  l'altro  -  di   recidiva
reiterata;  precludendo  cosi'  in  modo  assoluto  al   giudice   di
applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena. 
    Come meglio  si  dira'  piu'  innanzi  (infra,  4.1.),  il  testo
risultante dalla legge n. 251 del  2005  e'  stato  gia'  oggetto  di
numerose dichiarazioni di illegittimita'  costituzionale,  che  hanno
restaurato  il  potere  discrezionale   del   giudice   di   ritenere
prevalenti,  rispetto  alla  recidiva  reiterata,  varie  circostanze
attenuanti  nominativamente  individuate.  Le  odierne  questioni  di
legittimita'  costituzionale  mirano  a  ripristinare   tale   potere
discrezionale anche con riferimento alla circostanza  attenuante  del
vizio parziale di mente. 
    3.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   eccepito
l'inammissibilita'  delle  questioni  per  insufficiente  descrizione
della fattispecie oggetto del giudizio, non avendo in particolare  il
rimettente chiarito se gli imputati avessero avuto  «piena  capacita'
di  recepire  il   messaggio   specialpreventivo»   derivante   dalle
precedenti  condanne,  e  dunque  se  fosse  giustificata  nei   loro
confronti l'applicazione della recidiva. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    E' ben vero che l'applicazione  della  recidiva,  come  da  tempo
chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e  di  legittimita',  in
tanto si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da  chi  sia
gia' stato condannato per precedenti  delitti  non  colposi,  sia  in
concreto espressivo non solo di una maggiore pericolosita' criminale,
ma anche di un maggior grado di colpevolezza,  legato  alla  maggiore
rimproverabilita'  della  decisione  di  violare  la   legge   penale
nonostante  l'ammonimento  individuale  scaturente  dalle  precedenti
condanne (sentenza n. 192 del 2007 e poi, ex  plurimis,  sentenza  n.
185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza  27
maggio-5 ottobre 2010, n. 35738, nonche', inter alia,  sezione  sesta
penale,  sentenza  28  giugno-5  agosto  2016,  n.  34670);  maggiore
rimproverabilita' che non puo' essere presunta in via generale  sulla
base del solo fatto delle precedenti condanne, dovendo - ad esempio -
essere esclusa allorche' il nuovo delitto sia stato commesso dopo  un
lungo  lasso   di   tempo   dal   precedente,   o   allorche'   abbia
caratteristiche affatto diverse. 
    Ed e' ben vero, altresi', che questa Corte, con  la  sentenza  n.
120 del 2017 e poi con l'ordinanza  n.  145  del  2018,  ha  ritenuto
irrilevanti questioni analoghe a quella ora all'esame, non  avendo  i
giudici rimettenti, in quelle occasioni, chiarito le ragioni  per  le
quali avevano ritenuto applicabile  la  recidiva,  sotto  il  profilo
specifico della maggiore colpevolezza  rivelata  dalla  decisione  di
commettere il delitto, nonostante il contestuale riconoscimento della
presenza nel reo di gravi patologie o  disturbi  della  personalita',
che necessariamente anch'essi incidevano - ma  in  direzione  opposta
rispetto alla ritenuta recidiva - sul grado della sua colpevolezza. 
    Tuttavia, in questo caso il giudice a quo motiva ampiamente sulle
ragioni per le quali, a suo avviso, gli  imputati  non  potevano  non
essere  consapevoli  dell'ammonimento  rappresentato  dalle  numerose
condanne pronunciate nei loro confronti, talune delle quali in  epoca
molto recente, per reati omogenei a quello  per  il  quale  sono  ora
rinviati a giudizio; cio' che  dimostrerebbe  la  loro  peculiare  (e
specialmente riprovevole) insensibilita' nei  confronti  della  legge
penale, e assieme giustificherebbe l'applicazione nei loro  confronti
dell'aggravante  di  cui  all'art.  99,  quarto  comma,   cod.   pen.
L'applicazione della recidiva - sempre ad avviso del rimettente - non
contrasterebbe peraltro con il  contestuale  riconoscimento  in  loro
favore di un vizio parziale di mente tale da scemare  grandemente  in
loro la capacita' di intendere e di volere, e tale in particolare  da
ridurre la loro capacita' di orientare la condotta secondo criteri di
«appropriatezza e  di  opportunita'»,  oltre  che  di  «pesatura  del
rischio». Le due valutazioni si collocherebbero, in effetti, su piani
differenti,  non  risultando   comunque   mutualmente   escludentisi.
Dopodiche' il giudice potrebbe e dovrebbe comunque "pesare"  entrambi
questi dati ai fini della valutazione della  gravita'  del  reato,  e
della conseguente  determinazione  di  un  trattamento  sanzionatorio
effettivamente proporzionato e calibrato sulla personalita' dei  suoi
autori. Operazione, quest'ultima, che sarebbe pero' irragionevolmente
preclusa dal divieto di prevalenza dell'attenuante del vizio parziale
di mente, contenuto nella  disposizione  censurata;  con  conseguente
rilevanza delle questioni di legittimita' formulate. 
    Cosi'  sinteticamente  riassunta,  la  linea  argomentativa   del
giudice a quo in punto di rilevanza appare a questa Corte  senz'altro
plausibile, al di  la'  della  condivisibilita'  o  meno,  sul  piano
teorico,    della    (notoriamente     controversa)     ricostruzione
dell'imputabilita'   come   mero   presupposto   del   giudizio    di
colpevolezza, ovvero come  elemento  costitutivo  di  tale  categoria
dogmatica. 
    Cio' basta per ritenere ammissibili le questioni prospettate  (ex
multis, sentenza n. 250 del 2018). 
    4.- Nel merito, le questioni sollevate con riferimento agli artt.
3 e 27, primo e terzo comma, Cost., che devono qui  essere  esaminate
congiuntamente, sono fondate. 
    4.1.- Questa Corte ha piu' volte affermato che deroghe al  regime
ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via
generale dall'art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente  ammissibili
e rientrano nell'ambito delle scelte discrezionali  del  legislatore,
risultando  sindacabili  soltanto  ove  «trasmodino  nella  manifesta
irragionevolezza o nell'arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012; in  senso
conforme, sentenza n. 88 del 2019), non  potendo  pero'  giungere  in
alcun   caso   «a   determinare   un'alterazione   degli    equilibri
costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilita'
penale» (sentenza n. 251 del 2012). 
    Sulla base di tali criteri, questa Corte ha  gia'  dichiarato  in
varie occasioni l'illegittimita' costituzionale dell'art. 69,  quarto
comma, cod.  pen.,  nella  parte  in  cui  prevedeva  il  divieto  di
prevalenza  di  altrettante  circostanze  attenuanti  particolarmente
significative ai fini della determinazione  della  gravita'  concreta
del reato. Nella maggior parte dei casi, come correttamente evidenzia
il rimettente, si e' trattato di circostanze espressive di  un  minor
disvalore  del  fatto  dal  punto  di  vista  della  sua   dimensione
offensiva: cosi' la «lieve  entita'»  nel  delitto  di  produzione  e
traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), i  casi
di «particolare tenuita'» nel delitto di  ricettazione  (sentenza  n.
105 del 2014), i casi di «minore gravita'» nel  delitto  di  violenza
sessuale (sentenza n.  106  del  2014),  il  «danno  patrimoniale  di
speciale tenuita'» nei delitti di bancarotta  e  ricorso  abusivo  al
credito (sentenza n. 205 del 2017). Nella sola  sentenza  n.  74  del
2016, la dichiarazione di illegittimita' ha invece colpito il divieto
di prevalenza di una circostanza - l'essersi  il  reo  adoperato  per
evitare che il delitto di produzione e traffico di  stupefacenti  sia
portato  a  conseguenze  ulteriori  -  che  mira  invece  a  premiare
l'imputato per la propria condotta post delictum; circostanza che  e'
stata comunque ritenuta «significativa,  anche  perche'  comporta  il
distacco dell'autore del reato dall'ambiente criminale nel  quale  la
sua attivita' in materia  di  stupefacenti  era  inserita  e  trovava
alimento,  e  lo  espone  non  di  rado  a   pericolose   ritorsioni,
determinando cosi' una situazione di fatto tale da indurre  in  molti
casi un cambiamento di vita». 
    4.2.- Le questioni ora sottoposte all'attenzione di questa  Corte
concernono una circostanza attenuante espressiva non gia' - sul piano
oggettivo - di  una  minore  offensivita'  del  fatto  rispetto  agli
interessi protetti dalla norma penale, ne' di una finalita'  premiale
rispetto a condotte post delictum,  quanto  piuttosto  della  ridotta
rimproverabilita' soggettiva dell'autore;  ridotta  rimproverabilita'
che deriva, qui, dal suo  minore  grado  di  discernimento  circa  il
disvalore della propria condotta e  dalla  sua  minore  capacita'  di
controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie  o  disturbi
che lo affliggono (e che devono essere tali, per espressa indicazione
legislativa, da «scemare grandemente» la sua capacita' di intendere e
di volere: art. 89 cod. pen.). 
    Ora, il principio di proporzionalita' della  pena  rispetto  alla
gravita' del reato, da tempo affermato da questa Corte sulla base  di
una lettura congiunta degli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  Cost.  (a
partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993; in senso conforme,  ex
multis, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236  del  2016),
esige in via generale che la pena  sia  adeguatamente  calibrata  non
solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di reato per gli
interessi protetti, ma anche al  disvalore  soggettivo  espresso  dal
fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il quantum di  disvalore
soggettivo dipende in maniera determinante  non  solo  dal  contenuto
della volonta' criminosa (dolosa o colposa) e dal grado  del  dolo  o
della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori  che  hanno
influito sul processo motivazionale dell'autore,  rendendolo  piu'  o
meno rimproverabile. 
    Tra tali fattori si colloca, in posizione  eminente,  proprio  la
presenza di patologie o  disturbi  significativi  della  personalita'
(cosi' come definiti da Corte di cassazione,  sezioni  unite  penali,
sentenza 25 gennaio-8 marzo  2005,  n.  9163),  come  quelli  che  la
scienza medico-forense stima idonei a diminuire, pur senza escluderla
totalmente, la capacita' di intendere e  di  volere  dell'autore  del
reato. In tali ipotesi, l'autore puo'  si'  essere  punito  per  aver
commesso un  reato  che  avrebbe  pur  sempre  potuto  -  secondo  la
valutazione dell'ordinamento - evitare, attraverso un maggiore sforzo
della volonta'; ma al tempo stesso merita una punizione  meno  severa
rispetto a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato
a  compiere  una  condotta  identica,  in  condizioni  di  normalita'
psichica. 
    Il principio di  proporzionalita'  della  pena  desumibile  dagli
artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale,  che
al minor grado di rimproverabilita' soggettiva corrisponda  una  pena
inferiore rispetto a quella che  sarebbe  applicabile  a  parita'  di
disvalore oggettivo del fatto, «in modo da assicurare altresi' che la
pena appaia una risposta - oltre che non  sproporzionata  -  il  piu'
possibile "individualizzata", e dunque calibrata sulla situazione del
singolo condannato,  in  attuazione  del  mandato  costituzionale  di
"personalita'" della responsabilita' penale di cui all'art. 27, primo
comma, Cost.» (sentenza n. 222 del 2018). 
    4.3.- La disciplina  censurata  in  questa  sede  vieta  in  modo
assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza  attenuante
del vizio parziale di mente in presenza dello specifico indicatore di
maggiore   colpevolezza   (e   maggiore   pericolosita')   del    reo
rappresentato  dalla  recidiva  reiterata;  laddove   tale   maggiore
colpevolezza  si  fonda,  a  sua  volta,  sull'assunto  secondo   cui
normalmente merita un  maggiore  rimprovero  chi  non  rinuncia  alla
commissione di nuovi reati, pur essendo gia' stato destinatario di un
ammonimento individualizzato sul  proprio  dovere  di  rispettare  la
legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne. 
    Nonostante il  carattere  facoltativo  dell'aggravante,  un  tale
inderogabile  divieto  di  prevalenza  non   puo'   essere   ritenuto
compatibile   con   l'esigenza,   di   rango    costituzionale,    di
determinazione di una pena proporzionata e  calibrata  sull'effettiva
personalita' del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva
- con le  parole  della  sentenza  n.  251  del  2012  -  di  precisi
«equilibri  costituzionalmente  imposti  sulla  strutturazione  della
responsabilita' penale».  Tale  divieto,  infatti,  non  consente  al
giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo  di  mente,  una
pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato  di
pari gravita' oggettiva, ma commesso da una persona che  abbia  agito
in condizioni di normalita' psichica, e pertanto pienamente capace  -
al  momento  del  fatto  -  di  rispondere  all'ammonimento  lanciato
dall'ordinamento, rinunciando alla  commissione  del  reato.  E  cio'
anche laddove il giudice - come nel caso del giudizio a quo - ritenga
che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo  abbiano  inciso  a
tal punto sulla sua personalita', da rendergli assai  piu'  difficile
la  decisione  di  astenersi  dalla  commissione  di   nuovi   reati,
nonostante l'ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne. 
    Il  divieto  in  esame  d'altra  parte  comporta   una   indebita
parificazione sotto il profilo sanzionatorio di  fatti  di  disvalore
essenzialmente   diverso,   in   ragione   del   diverso   grado   di
rimproverabilita' soggettiva che li connota: con un risultato che  la
giurisprudenza  di  questa  Corte  ha  da   tempi   ormai   risalenti
considerato di per se' contrario all'art. 3 Cost. (sentenza n. 26 del
1979), prima ancora che alla finalita' rieducativa e all'esigenza  di
"personalizzazione" della pena. 
    Non osta a tale conclusione la natura di  circostanza  a  effetto
comune dell'attenuante di cui all'art. 89 cod. pen., che determina  -
ai sensi dell'art. 65 cod. pen. - la  diminuzione  fino  a  un  terzo
della pena che dovrebbe essere  altrimenti  inflitta.  A  prescindere
dalla considerazione che l'entita' concreta della diminuzione di pena
dipende ovviamente dall'entita' della pena base -  ben  potendo  tale
diminuzione tradursi, rispetto ai delitti piu' gravi, in vari anni di
reclusione  in  meno  -,  va  infatti  ribadito  che  la  circostanza
attenuante in parola mira ad  adeguare  il  quantum  del  trattamento
sanzionatorio alla significativa  riduzione  della  rimproverabilita'
soggettiva dell'agente, ed e' pertanto riconducibile a  un  connotato
di sistema di un diritto penale "costituzionalmente orientato", cosi'
come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza
che - dalla sentenza n.  364  del  1988  in  poi  -  individua  nella
rimproverabilita'  soggettiva  un  presupposto   essenziale   dell'an
dell'imputazione  del  fatto  al  suo  autore,   e   conseguentemente
dell'applicazione della pena nei suoi confronti. 
    4.4.- La conclusione appena raggiunta non comporta il  sacrificio
delle esigenze di  tutela  della  collettivita'  contro  l'accentuata
pericolosita' sociale espressa dal recidivo reiterato. 
    Se  infatti  e'  indubbio  che  il  quantum  della   pena   debba
adeguatamente riflettere il  grado  di  rimproverabilita'  soggettiva
dell'agente, cionondimeno il diritto vigente consente, nei  confronti
di chi sia stato condannato a una pena diminuita in ragione della sua
infermita' psichica, l'applicazione di una misura  di  sicurezza,  da
individuarsi secondo i criteri oggi indicati dall'art.  3-ter,  comma
4, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per
il   contrasto   della    tensione    detentiva    determinata    dal
sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella
legge 17 febbraio 2012, n. 9. La  misura  di  sicurezza,  non  avendo
alcun connotato "punitivo", non e' subordinata alla rimproverabilita'
soggettiva  del  suo  destinatario,  bensi'  alla   sua   persistente
pericolosita' sociale, che deve peraltro, ai sensi dell'art. 679  del
codice di procedura penale, essere oggetto di vaglio caso per caso da
parte del magistrato di sorveglianza una volta che la pena sia  stata
scontata (sentenze n. 1102 del 1988  e  n.  249  del  1983).  D'altra
parte,  la  misura  di  sicurezza  dovrebbe  auspicabilmente   essere
conformata in modo da assicurare, assieme, un  efficace  contenimento
della pericolosita' sociale del  condannato  e  adeguati  trattamenti
delle patologie o disturbi di cui e'  affetto  (secondo  il  medesimo
principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003,  in  relazione  al
soggetto totalmente  infermo  di  mente),  nonche'  fattivo  sostegno
rispetto alla finalita' del suo «riadattamento alla vita  sociale»  -
obiettivo  quest'ultimo  che,  come  recentemente  rammentato   dalla
sentenza n. 24 del 2020, il legislatore  espressamente  ascrive  alla
liberta' vigilata  (art.  228,  quarto  comma,  cod.  pen.),  ma  che
riflette un principio  certamente  estensibile,  nell'attuale  quadro
costituzionale, alla generalita' delle misure di sicurezza. 
    Una razionale sinergia tra pene e misure di sicurezza - purtroppo
solo in  minima  parte  realizzata  nella  prassi  -  potrebbe  cosi'
consentire un'adeguata prevenzione  del  rischio  di  commissione  di
nuovi reati da parte del condannato  affetto  da  vizio  parziale  di
mente, senza indebite forzature della fisionomia costituzionale della
pena, intesa come reazione proporzionata dell'ordinamento a un  fatto
di   reato    (oggettivamente)    offensivo    e    (soggettivamente)
rimproverabile al suo autore. 
    5.-  Resta  assorbita  la  questione  formulata  in   riferimento
all'art. 32 Cost. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  69,  quarto
comma, del codice penale, nella parte in cui prevede  il  divieto  di
prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 89 cod.  pen.
sulla circostanza aggravante  della  recidiva  di  cui  all'art.  99,
quarto comma, cod. pen. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA