N. 47 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 febbraio 2020
Ordinanza del 4 febbraio 2020 del G.I.P. del Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di S. L.. Pronunce della Corte costituzionale - Dichiarazione di illegittimita' costituzionale - Effetti retroattivi - Deroga all'intangibilita' del giudicato penale di condanna - Inapplicabilita' ai casi di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalita' di sanzioni amministrative qualificabili come penali ai sensi della CEDU. - Legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), art. 30, quarto comma.(GU n.22 del 27-5-2020 )
TRIBUNALE DI MILANO ufficio del giudice per le indagini preliminari in funzione di giudice dell'esecuzione Il giudice, dott. Roberto Crepaldi, in funzione di giudice dell'esecuzione; Nel procedimento di cui in epigrafe nei confronti di S . . . L . . ., nato a S . . . il . . . , elettivamente domiciliato presso lo studio del proprio difensore - presente; Difeso di fiducia dall'avvocato Giuseppe Locurcio del foro di Milano - presente; Letta la richiesta formulata dal condannato di rideterminazione della pena irrogata con la sentenza del Tribunale di Milano, sezione GIP, in data 20 novembre 2018, n. 2923, irrevocabile l'8 dicembre 2018, con la quale al S . . . e' stata applicata la pena di anni uno e mesi sei di reclusione in relazione al delitto di cui all'art. 589-bis del codice penale (commesso in Milano, il 20 giugno 2017), nonche' la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida; Letto il parere del pubblico ministero, il quale ha concluso favorevolmente; A scioglimento della riserva assunta all'udienza camerale del 10 dicembre 2019 Osserva 1. Con sentenza emessa in data 20 novembre 2018 n. 2923 e rivenuta irrevocabile l'8 dicembre 2018, il Tribunale di Milano, sezione giudice per le indagini preliminari, ha applicato - in relazione al delitto di cui all'art. 589-bis del codice penale - nei confronti del ricorrente, oltre alla sanzione penale richiesta dalle parti (anni uno e mesi sei di reclusione, pena condizionalmente sospesa), la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida ai sensi dell'art. 222, comma 2, c.d.s. (come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 23 marzo 2016 n. 41). In esecuzione della statuizione del giudice penale, il Prefetto di Milano, con decreto 2017/8047 ha disposto la revoca della patente di guida al condannato. 1.1. Con ricorso del 18 giugno 2019, il condannato ha chiesto la revoca della sanzione amministrativa accessoria predetta, sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 19 febbraio 2019, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 222, comma 2, c.d.s. «nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna, ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli articoli 589-bis (Omicidio stradale) e 590-bis (Lesioni personali stradali gravi o gravissime) del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell'art. 222 del Codice della strada allorche' non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale». Secondo il ricorrente la predetta statuizione della Corte costituzionale dovrebbe trovare immediata applicazione in virtu' dell'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior alle sanzioni amministrative, predicato dallo stesso giudice delle leggi nella sentenza n. 63/2019, atteso che la sanzione applicata, pur di natura formalmente amministrativa, assumerebbe portata afflittiva, attratta alla c.d. materia penale sulla scorta dei principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 1.2. In relazione alla predetta istanza, il pubblico ministero ha espresso parere favorevole, richiamandosi integralmente al percorso argomentativo svolto dal ricorrente. 2. Preliminarmente va affermata la competenza del Tribunale di Milano - giudice che ha emesso l'ultimo provvedimento di condanna irrevocabile a carico del S . . . - quale giudice dell'esecuzione, anche in relazione alla revoca di una sanzione amministrativa. L'attribuzione al giudice penale del potere di applicare sanzioni amministrative come conseguenza della condanna per un reato, operata dal citato art. 222 c.d.s., comporta che il successivo provvedimento amministrativo, emesso ai sensi dell'art. 224 c.d.s., costituisca mero recepimento di quanto disposto in sentenza, senza che residui in capo al Prefetto alcun margine di discrezionalita'. Cosicche' non puo' che competere al giudice penale lo scrutinio in merito alla perdurante validita' della statuizione relativa alla sanzione amministrativa contenuta nella sentenza: lo stretto nesso di dipendenza del provvedimento amministrativo rispetto al giudicato penale non consentirebbe la revoca del primo senza la parziale caducazione del secondo. La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88/2019, § 6) ha evidenziato come il provvedimento del Prefetto costituisca «un mero atto amministrativo conseguenziale di esecuzione dell'ordine giudiziale; la pronuncia della revoca della patente, quale sanzione amministrativa che accede alla dichiarazione di responsabilita' penale per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime, e' demandata al giudice». Non puo' che spettare al giudice penale, quindi, il compito di vigilare sulla perdurante rispondenza della sanzione amministrativa accessoria al principio di legalita' per tutto il corso della sua esecuzione. Sotto tale profilo occorre evidenziare come la sanzione sia ancora in atto, atteso che l'art. 222, comma 3-ter, c.d.s., prevede che il destinatario del provvedimento di revoca possa conseguire nuovamente la patente di guida solo qualora siano trascorsi cinque anni dalla revoca, periodo che nel caso di specie non e' ancora trascorso. 2.1. Il ricorrente non individua chiaramente la norma che attribuirebbe al giudice dell'esecuzione il potere di rideterminazione della sanzione amministrativa accessoria da lui applicata. Tale fondamento non puo' essere rintracciato nell'art. 673 del codice di procedura penale che, per un verso, riguarda il differente caso di radicale declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma incriminatrice - mentre, nel caso di specie, la Corte costituzionale ha censurato esclusivamente l'automatismo sanzionatorio e introdotto, mediante una sentenza di illegittimita' parziale c.d. manipolativa una discrezionalita' piu' ampia del giudice della cognizione nei casi in cui non ricorrano, come nel caso di specie, le aggravanti previste dai commi II e III degli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale - e, dall'altro, comporta la revoca del giudicato e non la sua modifica. Le stesse sezioni unite della Suprema Corte hanno evidenziato l'inapplicabilita' dello strumento previsto dall'art. 673 del codice di procedura penale a porre rimedio (i) alla sentenza della Corte ECU (sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009) che imponga di sostituire la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente con la pena di anni trenta di reclusione perche' assunta in violazione del principio di retroattivita' favorevole (Cass. pen., sezioni unite, n. 18821/14); (ii) alla declaratoria di incostituzionalita' di una circostanza aggravante da cui consegua la necessita' di rideterminare la pena (Cass. pen., sezioni unite, n. 42858/14) ovvero (iii) della stessa cornice sanzionatoria applicata nella sentenza definitiva (Cass. pen., sezioni unite, n. 37107/15). In tutti questi casi la Corte ha rintracciato nell'art. 30, comma 4, legge n. 87/1953 - il quale prevede che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali» - la norma chiamata a porre rimedio alle situazioni innanzi ricordate. La disposizione da ultimo citata, tuttavia, risulta inapplicabile al caso di specie: lo stesso tenore letterale della norma - nella parte in cui fa riferimento esplicito alla «sentenza irrevocabile di condanna» e ai suoi «effetti penali» - ne lascia intendere l'efficacia solo con riferimento alle sanzioni formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali contenute nella sentenza. L'estensione della norma citata alle sanzioni amministrative e' stata sostenuta dalla Suprema Corte, seppure in un obiter dictum contenuto in un'ordinanza con la quale e' stato proposto un incidente costituzionale (Cass. pen. , sezione V, ordinanza 15 gennaio 2015, n. 1782). Anche senza voler considerare l'inequivoco tenore letterale della disposizione, che non si presta ad una simile «lettura estensiva», va evidenziato come la stessa Corte costituzionale abbia riconosciuto la correttezza dell'opposta conclusione (Corte costituzionale, sentenza n. 43/2017, par. 2). La sanzione amministrativa, ancorche' legata indissolubilmente all'accertamento contenuto nella sentenza del giudice penale, non puo' essere neppure inclusa nel novero degli «effetti penali» della condanna, anche se intesi in senso lato: secondo le sezioni unite della Suprema Corte (Casa. pen., sezioni unite, n. 7/1994, ribadite in termini da Cassazione pen., sezioni unite, nn. 5859/2011 e 31/2000), infatti, l'effetto penale e' caratterizzato «1) dall'essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possano determinare quell'effetto; 2) dall'essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorche' aventi come necessario presupposto la sentenza di condanna; 3) dalla natura "sanzionatoria" dell'effetto». Nel caso di specie, la revoca della patente puo' essere applicata quale sanzione amministrativa indipendentemente da una sentenza di condanna del giudice penale (articoli 120 e 219 c.d.s.) e per fatti diversi da un reato (si pensi al riferimento all'art. 75 del decreto del Presidente della Repubblica, n. 309/90). Nel medesimo senso depone la qualificazione espressa del legislatore quale autonoma sanzione amministrativa e non quale mera causa di efficacia del titolo di abilitazione alla guida. Del resto e' pacifico che le sanzioni amministrative accessorie, eccezionalmente applicate dal giudice penale in conseguenza dell'accertamento di un reato, non costituiscano effetti penali della condanna (cosi Cassazione pen., sezione III, n. 2674/2000; sezione VI, n. 9749/1994). Neppure sotto tale profilo, dunque, l'art. 30, comma 4, legge n. 87/1953 risulta applicabile al caso di specie. 3. Ad avviso del giudice proprio sotto tale profilo appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del citato art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, nella parte in cui non consente al giudice dell'esecuzione di rideterminare una sanzione amministrativa accessoria - la cui e' applicazione e' demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali - oggetto di una declaratoria di illegittimita' costituzionale che ne abbia mutato di fatto la disciplina. Una simile lacuna dell'ordinamento, infatti, non appare pienamente conforme al disposto degli articoli 3, 25, 35, 41, 117 in relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e 136 della Costituzione. La rilevanza della questione e' immediatamente percepibile sulla scorta di quanto detto: senza la possibilita' di applicare il disposto dell'art. 30 della legge n. 87/1953 anche alle sanzioni amministrative applicate con la sentenza penale, infatti, l'istanza avanzata dal ricorrente sarebbe inammissibile o comunque infondata, difettando qualsiasi norma che consenta al giudice di rimuovere gli effetti della sanzione amministrativa non piu' conforme a costituzione. Neppure puo' dubitarsi che al ricorrente spetti il beneficio invocato: questi, infatti, e' stato condannato per un fatto per il quale la revoca e' divenuta, dopo la sentenza della Corte costituzionale, facoltativa (l'imputazione concerne, infatti, il reato di cui all'art. 589-bis, comma 1, del codice penale). Sotto tale profilo occorre considerare, da un lato, le indicazioni della Corte costituzionale nella citata sentenza n. 88/2019 circa la necessita' di valutare «la gravita' della condotta del condannato» e, dall'altro, il caso concreto per come consacrato nel giudicato. All'esito di tale valutazione, si ritiene che la limitata gravita' degli addebiti di colpa specifica - consistita essenzialmente nella violazione degli articoli 40, 145 e 146 c.d.s. - impongano una riconsiderazione della sanzione amministrativa accessoria applicata, alla luce del rinnovato quadro sanzionatorio, sostituendo la revoca della patente con la sospensione della patente di guida, ai sensi dell'art. 222, comma 2, per la durata di 3 anni. 4. Quanto alla non manifesta infondatezza occorre evidenziare, in primo luogo, come entrambe le parti si siano richiamate al principio di retroattivita' della legge sopravvenuta piu' favorevole al reo. Il richiamo appare erroneo sotto un duplice profilo: nel caso di specie non e' intervenuta alcuna modifica normativa ma la disciplina e' mutata in conseguenza di un intervento manipolativo del giudice delle leggi. Non si tratta di una notazione di natura esclusivamente formale, in quanto la diversa natura del fenomeno - attinente alla validita' della norma e non a una semplice successione di leggi penali - implica la loro sottoposizione a limiti molto diversi. Mentre la retroattivita' della legge favorevole trova un limite (art. 2, comma 4, del codice penale) proprio nel giudicato, costituisce ormai ius receptum che la dichiarazione di incostituzionalita' della norma incriminatrice o, comunque, di una norma che incida sul trattamento sanzionatorio non possa trovare ostacolo nel giudicato, come del resto e' dato desumere dallo stesso art. 30, comma 4, legge n. 87/1953. Appare sufficiente richiamarsi alle numerose sentenze delle sezioni unite - gia' citate supra - che hanno fatto applicazione della norma da ultimo citata per consentire al giudice dell'esecuzione di rideterminare la pena a seguito delle pronunce della Corte costituzionale aventi ad oggetto, come detto, la cornice edittale, una circostanza aggravante che ha comportato, nel caso concreto, un aumento della pena, ovvero ancora la disciplina di un rito alternativo che incida sulla pena. Tale considerazione si basa essenzialmente sulla stessa ratio dell'art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, vale a dire «impedire che anche una sanzione penale, per quanto inflitta con una sentenza divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata successivamente incostituzionale, perche' la conformita' a legge della pena, in particolare di quella che incide sulla liberta' personale, deve essere costantemente garantita dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione» (cosi' Cassazione pen., sezioni unite, 37107/15; nello stesso senso, sezione I, numeri 26899/2012, 19361/2012, 977/2011). Occorre chiedersi, tuttavia, se - quantomeno ai fini del giudizio di non manifesta infondatezza che compete a questo giudice - l'equiparazione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali sia imposta sul piano costituzionale. 4.1. Una prima indicazione in tal senso puo' essere tratta dalla stessa ragione che imporrebbe la rimodulazione del giudicato secondo le sopravvenienze sul piano costituzionale e che ne differenzia gli effetti dalla mera successione di norme, anche abrogatrici: «siccome i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, gli effetti della declaratoria di incostituzionalita', a differenza di quelli derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall'origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata (sezioni unite, n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, cit., in motiv.), con la conseguenza che, mentre l'applicazione della sopravvenuta legge penale piu' favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova, di regola, un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, cio' non puo' valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimita' costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidita'. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perche' affetta da una invalidita' originaria. Cio' impone e giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, gia' da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalita', la quale certifica, come si e' visto, la definitiva uscita dall'ordinamento giuridico di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve, dunque, considerarsi tamquam non fuisset, percio' inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna pronunciata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui cio' sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perche' gia' compiuti e del tutto consumati (sezione 6, n. 9270 del 16 febbraio 2007, Berlusconi, cit., in motiv.)» (cosi Cassazione pen., sezioni unite, n. 42858/14). In altre parole, secondo la giurisprudenza di legittimita', e' lo stesso sistema di gerarchia delle fonti e la conseguente sovra-ordinazione della normativa costituzionale rispetto a quella primaria ad imporre che la rimozione della sanzione divenuta - anche in parte - illegittima in conseguenza di una sentenza dichiarativa della Corte costituzionale, qualora essa non abbia ancora esaurito i propri effetti. L'assenza di uno strumento idoneo a rimuovere i perduranti effetti di una sanzione amministrativa costituzionalmente illegittima, quindi, si pone in contrasto con lo stesso art. 136 della Costituzione, non potendosi considerare, nonostante il giudicato, il rapporto esaurito fintanto che ne sia in corso l'esecuzione. Il comma 4 dell'art. 30 della legge 87/53, infatti, non introduce un'eccezione al principio di cui all'art. 136 della Costituzione, per il quale «la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» d'incostituzionalita', ma e' anzi concreta applicazione della disposizione costituzionale, declinata in relazione alle norme sanzionatorie, giacche' impedisce l'ultrattivita' degli effetti della sanzione oggetto della sentenza della Corte. 4.2. Sotto tale profilo non assume alcun rilievo la distinzione tra sanzioni penali e sanzioni amministrative che, invece, e' posta alla base della disciplina in questa sede censurata: non vi e' dubbio, infatti, che la sanzione penale possa incidere su diritti fondamentali della persona - come la liberta' personale - ma tale caratteristica non e' conseguenza esclusiva della pena che consegua all'accertamento di un reato. Da un lato, infatti, anche le sanzioni formalmente qualificate come amministrative possono incidere su diritti di rango costituzionale, come la liberta' d'impresa (art. 41 della Costituzione) o il diritto al lavoro (art. 35). D'altro canto, le sanzioni penali possono incidere solo virtualmente sulla liberta' personale (perche', di fatto, eseguite in forma alternativa alla detenzione) ovvero coinvolgere soltanto interessi di rango inferiore (ad esempio il patrimonio) a quello di alcune sanzioni amministrative. Assume, quindi, rilievo anche il principio d'uguaglianza ex art. 3 della Costituzione, vulnerato dall'impossibilita' di impedire l'efficacia ultrattiva della sanzione dichiarata costituzionalmente illegittima: mentre per la sanzione penale l'art. 30 della legge 87/53 consente di rimuovere, per quanto possibile, qualsiasi discriminazione tra soggetti condannati prima della sentenza della Corte costituzionale e quelli il cui comportamento sia ancora sub judice, tale eventualita' non risulta percorribile per le sanzioni amministrative. Cio' implica che il soggetto condannato in via definitiva ad una sanzione amministrativa debba sottostare - eventualmente anche in modo permanente, qualora si tratti di sanzione sine die - alla restrizione della propria liberta', senza che sia consentita la ri-espansione del diritto indebitamente limitato dalla sanzione fondata sulla legge dichiarata incostituzionale, a differenza di quello non ancora condannato in via definitiva, in relazione al quale il giudice della cognizione sara' chiamato a rimodulare la sanzione alla luce della decisione della Corte. Ne' si potrebbe sostenere che il passaggio in giudicato costituisca un discrimen accettabile sul piano costituzionale: la progressiva erosione dell'intangibilita' del giudicato in ambito penale, infatti, e' stata determinata proprio dalla constatazione che la sua ratio di certezza nei rapporti giuridici non puo' prevalere sui diritti costituzionali della persona, imponendone il sacrificio anche all'indomani dell'accertamento da parte della Corte costituzionale dell'illegittimita' della loro compressione. Nel caso di specie, non vi e' dubbio che il riferimento esclusivo alle sanzioni penali contenute nell'art. 30 della legge 87/53 finisca per imporre un discrimine - evidentemente irrazionale - tra quanti siano stati oggetto dell'applicazione di una sanzione illegittima prima e dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale. Inoltre, l'impossibilita' di rimuovere la sanzione amministrativa - pur costituzionalmente illegittima - finisce per comportare un'indebita limitazione dei diritti costituzionali del ricorrente, se non altro in relazione alla possibilita' di svolgere la professione di autista di autocarri che svolgeva all'epoca e nel ricorso sostiene di voler riprendere,id est la sua liberta' di iniziativa economica e il suo diritto al lavoro (articoli 35 e 41 della Costituzione). 4.3. Inoltre, ne risulterebbero violati gli articoli 25 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). Come noto, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha elaborato un'autonoma nozione di «sanzione penale», al fine di garantire l'applicazione dello statuto previsto dalla Convenzione in «materia penale» a prescindere dalla qualificazione fornita dal diritto interno. In particolare, a partire dalle sentenze Engel c. Paesi Bassi del 8 giugno 1976 e Ozturk c. Germania del 21 febbraio 1984, la Corte ha elaborato una serie di indicatori per valutare se una misura particolare costituisca in sostanza una pena ai sensi della Convenzione, ben al di la' dei reati e delle pene come formalmente intesi in base al diritto interno, e richiamandosi a tutte le norme e a tutte le misure considerate «intrinsecamente penali», perche' aventi caratteri e finalita' propriamente afflittivi, per il loro collegamento ad un illecito penale nonche' in ragione della gravita' della sanzione imposta (c.d. «pene camuffate»). Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e' pacifico che la revoca o comunque la limitazione all'utilizzo o al conseguimento della patente di guida integrino altrettante sanzioni penali. A tal proposito e' sufficiente richiamarsi alle pronunce Affaire Rivard c. Svizzera del 4 gennaio 2017 - nella quale la Corte ritiene rivesta la natura di sanzione penale anche il mero ritiro della patente, ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in idem - e Nillson c. Svezia, di analogo tenore. Proprio alla luce dei parametri costantemente adottati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (generalita', scopo repressivo o preventivo, afflittivita' della sanzione), la revoca della patente non puo' che assumere, del resto, la veste di una sanzione sostanzialmente penale, soprattutto se ricollegata alla commissione di un reato e applicata in esito al processo penale. Cio' comporta che si applichino alla sanzione della revoca della patente - evidentemente ancora piu' grave di quella della mera sospensione - le garanzie previste dalla Convenzione, tra le quali assume rilievo, nel caso di specie, tanto il principio di legalita' penale quanto quello di retroattivita' ex art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Non puo' dubitarsi che tali garanzie si estendano anche alla fase di esecuzione della pena e di determinazione della durata della sanzione, come chiaramente espresso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21 ottobre 2013: in particolare, la Corte nella pronuncia appena menzionata, pur distinguendo tra una misura che costituisce una «pena» e una misura relativa all'«esecuzione» o all'«applicazione» della pena e richiamando solo la prima al campo applicativo dell'art. 7, ha affermato che il termine «inflitta» contenuto nella seconda frase dell'art. 7 § 1 non puo' essere interpretato nel senso di escludere dal campo di applicazione di tale disposizione tutte le misure che possono intervenire dopo che sia stata pronunciata la sentenza. Cosicche', a fronte della ridefinizione o della modifica della portata della pena dovra' trovare applicazione il principio di irretroattivita' delle pene. Se e' vero che la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha mai esplicitamente riconosciuto come l'illegittimita' sopravvenuta della norma sulla base della quale la sanzione era stata applicata determini la violazione del principio di legalita', pur nella piu' ampia ottica convenzionale (intesa come prevedibilita' della norma sanzionatoria), va sottolineato come proprio le ragioni della declaratoria di incostituzionalita' possono comportare l'assoluta arbitrarieta' della base legale stessa. L'art. 7 della Convenzione richiede l'esistenza di una base legale perche' possano essere inflitte una condanna e una pena. Queste ultime, quindi, devono essere definite dalla legge, nozione che - nell'ottica convenzionale - ricomprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale e implica delle condizioni qualitative - tra cui (soprattutto ma non solo) quelle di accessibilita' e di prevedibilita' (Del Rio Prada c. Spagna cit., § 91 e S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 35) - avuto riguardo non solo delle norme di rango legislativo e regolamentare (Kafkaris c. Cipro, 12 febbraio 2008, §§ 145-146) ma anche della giurisprudenza dei tribunali. Tuttavia, i criteri di accessibilita' e prevedibilita' della sanzione alla luce dell'intero diritto vivente (all'epoca del fatto) non possono che costituire, sul piano logico prima che giuridico, un posterius rispetto a qualsiasi considerazione circa la validita' e vigenza della norma sanzionatoria. Allorquando l'illegittimita' della norma dipenda proprio dalla arbitrarieta' della disposizione e dalla natura discriminatoria della stessa (id est la violazione dell'art. 3 della Costituzione) - come nel caso di specie - tale vizio originario non puo' che affliggere la stessa interpretazione della norma, la quale, quindi, non puo' costituire una base legale valida a fondare l'applicazione di una sanzione sostanzialmente penale. Del resto, la chiara violazione - da parte dello stesso legislatore incriminante - dei principi costituzionali non puo' che comportare un'incertezza sul piano della validita' della norma e, quindi, minare alla radice la base legale della disposizione. 44. Sul piano del diritto interno, poi, il principio di legalita' dei reati e delle pene ex art. 25, secondo comma, della Costituzione risulta vulnerato dall'impossibilita' per il giudice dell'esecuzione di allineare il contenuto della sanzione inflitta all'intervento della Corte costituzionale sulla norma sanzionatoria. La portata dello stesso art. 30 della legge 87/53 - che costituisce attuazione diretta dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione - non puo' che essere estesa alle sanzioni «sostanzialmente penali», rispondendo alla medesima ratio di tutela dei diritti del cittadino, colpito da una sanzione sulla base di una norma poi espunta dall'ordinamento perche' non conforme a Costituzione. Tale tutela non puo' mutare solo in considerazione della natura formalmente penale della sanzione, risultando ormai pacifico, come detto, che alla distinzione nominalistica non faccia seguito indefettibilmente - in concreto - una diversa intensita' sanzionatoria. 5. Come noto, analoga questione e' stata gia' respinta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 43 del 10 gennaio 2017. Cio' non consente, tuttavia, di considerare il dubbio di legittimita' costituzionale manifestamente infondato, proprio in considerazione dei mutamenti della stessa giurisprudenza costituzionale successivi a tale pronuncia. In primo luogo, va evidenziata la differente natura della sanzione che assume rilievo nel caso di specie - la limitazione del diritto all'uso della patente che si tramuta, in relazione alla professione svolta dal condannato, in un limite alla liberta' di iniziativa economica del S . . . - rispetto alla mera pena pecuniaria allora considerata. Inoltre, sul piano del mutamento della giurisprudenza costituzionale, la stessa Corte ha escluso che, per invocare una violazione della Convenzione - quale parametro di legittimita' ex art. 117 della Costituzione - sia necessaria una preventiva e puntuale decisione della Corte EDU, affermando che sarebbe «da respingere l'idea che l'interprete non possa applicare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, se non con riferimento ai casi che siano gia' stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo» (Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2017, § 7). In secondo luogo, le sanzioni amministrative di tipo afflittivo («sostanzialmente penali» nell'ottica della Corte europea dei diritti dell'uomo) sono state oggetto di equiparazione, sul piano costituzionale, a quelle anche formalmente penali in relazione all'applicazione del principio di retroattivita' della lex mitior da parte della stessa Corte costituzionale (Sentenza n. 63/2019), superando cosi' le precedenti decisioni di segno contrario (Sentenza n. 193/2016). Tale principio - come ricordato dalla citata sentenza - appare caratterizzato da una maggior derogabilita' rispetto a quello di legalita' in ambito penale (§ 6). Proprio in tale pronuncia, la Corte esplicitamente evidenzia come «l'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione "punitiva" e', del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell'art. 3 della Costituzione, in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura "punitiva", di regola non vi sara' ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non piu' illecito; ne' per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per cio' stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravita' dell'illecito da parte dell'ordinamento. E cio' salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattivita' in mitius nella materia penale» § 6.2). Se non vi e' ragione per (continuare ad) applicare ad un soggetto una sanzione che il legislatore giudica ormai eccessiva, non si comprende davvero come possa continuarsi ad applicare una sanzione radicalmente travolta da una pronuncia di illegittimita' costituzionale. Il discrimine non puo' certo essere costituito dal giudicato, dovendosi dare prevalenza alla legalita' costituzionale rispetto alle ragioni di certezza (Corte costizionale, senz. 74/1980, secondo la quale il giudicato costituirebbe un valido limite in relazione alla successione di leggi penali meramente modificative in ossequio alla «esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti»). Proprio il rinnovato statuto costituzionale delle sanzioni (formalmente) amministrative (ma sostanzialmente penali) reca con se' un possibile esito diverso della questione, imponendo di investirne la Corte costituzionale.
P. Q. M. Visti gli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 25, 35, 41, 117 - in relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e 136 della Costituzione, la questione di costituzionalita' dell'art. 30, comma IV, della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui la disposizione stessa non e' applicabile alle sanzioni amministrative che assumano natura sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU; Dispone la sospensione del giudizio e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Manda la Cancelleria per la notifica al condannato, al suo difensore, al pubblico ministero, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, li' 4 febbraio 2020 Il Giudice: Crepaldi