N. 47 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 febbraio 2020

Ordinanza del 4 febbraio 2020 del G.I.P. del Tribunale di Milano  nel
procedimento penale a carico di S. L.. 
 
Pronunce della Corte costituzionale - Dichiarazione di illegittimita'
  costituzionale - Effetti retroattivi  -  Deroga  all'intangibilita'
  del giudicato penale di condanna  -  Inapplicabilita'  ai  casi  di
  sopravvenuta  dichiarazione  di  incostituzionalita'  di   sanzioni
  amministrative qualificabili come penali ai sensi della CEDU.  
- Legge 11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e  sul
  funzionamento della Corte costituzionale), art. 30, quarto comma. 
(GU n.22 del 27-5-2020 )
 
                         TRIBUNALE DI MILANO 
           ufficio del giudice per le indagini preliminari 
               in funzione di giudice dell'esecuzione 
 
    Il giudice,  dott.  Roberto  Crepaldi,  in  funzione  di  giudice
dell'esecuzione; 
    Nel procedimento di cui in epigrafe nei confronti di S . . . L  .
. .,  nato a S . . . il . . . , elettivamente domiciliato  presso  lo
studio del proprio difensore - presente; 
    Difeso di fiducia dall'avvocato Giuseppe  Locurcio  del  foro  di
Milano - presente; 
    Letta la richiesta formulata dal condannato  di  rideterminazione
della pena irrogata con la sentenza del Tribunale di Milano,  sezione
GIP, in data 20 novembre 2018, n.  2923,  irrevocabile  l'8  dicembre
2018, con la quale al S . . . e' stata applicata la pena di anni  uno
e mesi sei di reclusione in relazione  al  delitto  di  cui  all'art.
589-bis del codice penale (commesso in Milano, il  20  giugno  2017),
nonche' la sanzione  amministrativa  accessoria  della  revoca  della
patente di guida; 
    Letto il parere del pubblico  ministero,  il  quale  ha  concluso
favorevolmente; 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza camerale del  10
dicembre 2019 
 
                               Osserva 
 
    1. Con sentenza emessa  in  data  20  novembre  2018  n.  2923  e
rivenuta irrevocabile l'8 dicembre  2018,  il  Tribunale  di  Milano,
sezione giudice per  le  indagini  preliminari,  ha  applicato  -  in
relazione al delitto di cui all'art. 589-bis del codice penale -  nei
confronti del ricorrente, oltre alla sanzione penale richiesta  dalle
parti (anni uno e  mesi  sei  di  reclusione,  pena  condizionalmente
sospesa), la sanzione amministrativa accessoria  della  revoca  della
patente di guida ai  sensi  dell'art.  222,  comma  2,  c.d.s.  (come
modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 23 marzo  2016  n.
41). 
    In esecuzione della statuizione del giudice penale,  il  Prefetto
di Milano, con decreto 2017/8047 ha disposto la revoca della  patente
di guida al condannato. 
    1.1. Con ricorso del 18 giugno 2019, il condannato ha chiesto  la
revoca  della  sanzione  amministrativa  accessoria  predetta,  sulla
scorta della  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.  88  del  19
febbraio 2019, con la quale il  giudice  delle  leggi  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 222, comma 2, c.d.s. «nella
parte in cui  non  prevede  che,  in  caso  di  condanna,  ovvero  di
applicazione della pena su richiesta delle parti  a  norma  dell'art.
444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli  articoli
589-bis (Omicidio stradale) e  590-bis  (Lesioni  personali  stradali
gravi o gravissime) del codice penale, il giudice possa disporre,  in
alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione  della
stessa ai sensi del secondo e terzo  periodo  dello  stesso  comma  2
dell'art. 222 del Codice della strada allorche'  non  ricorra  alcuna
delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo  e
terzo degli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale». 
    Secondo  il  ricorrente  la  predetta  statuizione  della   Corte
costituzionale dovrebbe  trovare  immediata  applicazione  in  virtu'
dell'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior alle
sanzioni amministrative, predicato dallo stesso giudice  delle  leggi
nella sentenza n. 63/2019, atteso che la sanzione applicata,  pur  di
natura formalmente amministrativa,  assumerebbe  portata  afflittiva,
attratta alla c.d. materia penale sulla scorta dei principi  espressi
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    1.2. In relazione alla predetta istanza, il pubblico ministero ha
espresso parere favorevole, richiamandosi integralmente  al  percorso
argomentativo svolto dal ricorrente. 
    2. Preliminarmente va affermata la competenza  del  Tribunale  di
Milano - giudice che ha emesso  l'ultimo  provvedimento  di  condanna
irrevocabile a carico del S . . . -  quale  giudice  dell'esecuzione,
anche in  relazione  alla  revoca  di  una  sanzione  amministrativa.
L'attribuzione al giudice penale del  potere  di  applicare  sanzioni
amministrative come conseguenza della condanna per un reato,  operata
dal citato art. 222 c.d.s., comporta che il successivo  provvedimento
amministrativo, emesso ai sensi  dell'art.  224  c.d.s.,  costituisca
mero recepimento di quanto disposto in sentenza, senza che residui in
capo al Prefetto alcun margine di discrezionalita'. 
    Cosicche' non puo' che competere al giudice penale  lo  scrutinio
in merito alla perdurante validita' della statuizione  relativa  alla
sanzione amministrativa contenuta nella sentenza: lo stretto nesso di
dipendenza del provvedimento  amministrativo  rispetto  al  giudicato
penale non consentirebbe  la  revoca  del  primo  senza  la  parziale
caducazione del secondo. 
    La stessa Corte costituzionale (sentenza  n.  88/2019,  §  6)  ha
evidenziato come il provvedimento del Prefetto costituisca  «un  mero
atto  amministrativo   conseguenziale   di   esecuzione   dell'ordine
giudiziale; la pronuncia della revoca della patente,  quale  sanzione
amministrativa  che  accede  alla  dichiarazione  di  responsabilita'
penale per i reati  di  omicidio  stradale  e  di  lesioni  personali
stradali gravi o gravissime, e' demandata al giudice». 
    Non puo' che spettare al giudice penale, quindi,  il  compito  di
vigilare sulla perdurante rispondenza della  sanzione  amministrativa
accessoria al principio di legalita' per tutto  il  corso  della  sua
esecuzione. 
    Sotto tale profilo  occorre  evidenziare  come  la  sanzione  sia
ancora in atto, atteso che l'art. 222, comma 3-ter,  c.d.s.,  prevede
che il destinatario del  provvedimento  di  revoca  possa  conseguire
nuovamente la patente di guida solo qualora  siano  trascorsi  cinque
anni dalla revoca, periodo che nel  caso  di  specie  non  e'  ancora
trascorso. 
    2.1.  Il  ricorrente  non  individua  chiaramente  la  norma  che
attribuirebbe   al   giudice    dell'esecuzione    il    potere    di
rideterminazione della  sanzione  amministrativa  accessoria  da  lui
applicata. 
    Tale fondamento non puo' essere rintracciato  nell'art.  673  del
codice di procedura penale che, per un verso, riguarda il  differente
caso di radicale declaratoria di illegittimita' costituzionale  della
norma  incriminatrice  -  mentre,  nel  caso  di  specie,  la   Corte
costituzionale    ha    censurato    esclusivamente     l'automatismo
sanzionatorio e introdotto, mediante una sentenza  di  illegittimita'
parziale  c.d.  manipolativa  una  discrezionalita'  piu'  ampia  del
giudice della cognizione nei casi in cui non ricorrano, come nel caso
di specie, le aggravanti previste dai commi II e III  degli  articoli
589-bis e 590-bis del codice penale  -  e,  dall'altro,  comporta  la
revoca del giudicato e non la sua modifica. 
    Le stesse sezioni unite della  Suprema  Corte  hanno  evidenziato
l'inapplicabilita' dello strumento previsto dall'art. 673 del  codice
di procedura penale a porre rimedio (i) alla sentenza della Corte ECU
(sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009)  che  imponga  di
sostituire la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente con la  pena
di anni trenta  di  reclusione  perche'  assunta  in  violazione  del
principio di retroattivita' favorevole (Cass. pen., sezioni unite, n.
18821/14); (ii)  alla  declaratoria  di  incostituzionalita'  di  una
circostanza aggravante da cui consegua la necessita' di rideterminare
la pena (Cass. pen., sezioni unite, n. 42858/14) ovvero  (iii)  della
stessa cornice  sanzionatoria  applicata  nella  sentenza  definitiva
(Cass. pen., sezioni unite, n. 37107/15). 
    In tutti questi casi la Corte ha rintracciato nell'art. 30, comma
4, legge n. 87/1953 - il quale prevede che  «quando  in  applicazione
della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna,  ne  cessano  la  esecuzione  e  tutti  gli
effetti penali» - la norma chiamata a porre rimedio  alle  situazioni
innanzi ricordate. 
    La disposizione da ultimo citata, tuttavia, risulta inapplicabile
al caso di specie: lo stesso tenore letterale  della  norma  -  nella
parte in cui fa riferimento esplicito alla «sentenza irrevocabile  di
condanna»  e  ai  suoi  «effetti  penali»  -  ne   lascia   intendere
l'efficacia solo con riferimento alle sanzioni formalmente  penali  e
alle statuizioni tipicamente penali contenute nella sentenza. 
    L'estensione della norma citata alle sanzioni  amministrative  e'
stata sostenuta dalla Suprema Corte,  seppure  in  un  obiter  dictum
contenuto in un'ordinanza con la quale e' stato proposto un incidente
costituzionale (Cass. pen. , sezione V, ordinanza 15 gennaio 2015, n.
1782). 
    Anche senza voler considerare l'inequivoco tenore letterale della
disposizione, che non si presta ad una simile «lettura estensiva», va
evidenziato come la stessa Corte costituzionale abbia riconosciuto la
correttezza dell'opposta conclusione (Corte costituzionale,  sentenza
n. 43/2017, par. 2). 
    La sanzione amministrativa,  ancorche'  legata  indissolubilmente
all'accertamento contenuto nella sentenza  del  giudice  penale,  non
puo' essere neppure inclusa nel novero degli «effetti  penali»  della
condanna, anche se intesi in senso lato:  secondo  le  sezioni  unite
della Suprema Corte (Casa. pen., sezioni unite, n.  7/1994,  ribadite
in termini  da  Cassazione  pen.,  sezioni  unite,  nn.  5859/2011  e
31/2000), infatti, l'effetto penale e' caratterizzato «1) dall'essere
conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna  e  non
pure di altri provvedimenti che possano determinare quell'effetto; 2)
dall'essere conseguenza che deriva  direttamente,  ope  legis,  dalla
sentenza di condanna  e  non  da  provvedimenti  discrezionali  della
pubblica   amministrazione,   ancorche'   aventi   come    necessario
presupposto la sentenza di condanna; 3) dalla natura  "sanzionatoria"
dell'effetto». 
    Nel caso di specie, la revoca della patente puo' essere applicata
quale sanzione amministrativa indipendentemente da  una  sentenza  di
condanna del giudice penale (articoli 120 e 219 c.d.s.) e  per  fatti
diversi da un reato (si pensi al riferimento all'art. 75 del  decreto
del Presidente della Repubblica, n. 309/90). 
    Nel  medesimo  senso  depone  la  qualificazione   espressa   del
legislatore quale autonoma sanzione amministrativa e non  quale  mera
causa di efficacia del titolo di abilitazione alla guida. 
    Del resto e' pacifico che le sanzioni amministrative  accessorie,
eccezionalmente  applicate  dal   giudice   penale   in   conseguenza
dell'accertamento di un reato, non costituiscano effetti penali della
condanna (cosi Cassazione pen., sezione III,  n.  2674/2000;  sezione
VI, n. 9749/1994). 
    Neppure sotto tale profilo, dunque, l'art. 30, comma 4, legge  n.
87/1953 risulta applicabile al caso di specie. 
    3. Ad avviso  del  giudice  proprio  sotto  tale  profilo  appare
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale del citato art. 30, comma 4, legge n.  87/1953,  nella
parte in cui non consente al giudice dell'esecuzione di rideterminare
una sanzione amministrativa accessoria - la cui  e'  applicazione  e'
demandata al  giudice  penale,  unitamente  alle  sanzioni  penali  -
oggetto di una declaratoria di illegittimita' costituzionale  che  ne
abbia mutato di fatto la disciplina. 
    Una  simile  lacuna   dell'ordinamento,   infatti,   non   appare
pienamente conforme al disposto degli articoli 3, 25, 35, 41, 117  in
relazione agli articoli 6  e  7  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali -  e
136 della Costituzione. 
    La rilevanza della questione e' immediatamente percepibile  sulla
scorta di  quanto  detto:  senza  la  possibilita'  di  applicare  il
disposto dell'art. 30 della legge  n.  87/1953  anche  alle  sanzioni
amministrative applicate con la sentenza penale,  infatti,  l'istanza
avanzata dal ricorrente sarebbe inammissibile o  comunque  infondata,
difettando qualsiasi norma che consenta al giudice di  rimuovere  gli
effetti  della  sanzione   amministrativa   non   piu'   conforme   a
costituzione. 
    Neppure puo' dubitarsi che  al  ricorrente  spetti  il  beneficio
invocato: questi, infatti, e' stato condannato per un  fatto  per  il
quale  la  revoca  e'  divenuta,  dopo  la   sentenza   della   Corte
costituzionale,  facoltativa  (l'imputazione  concerne,  infatti,  il
reato di cui all'art. 589-bis, comma 1, del codice penale). 
    Sotto  tale  profilo  occorre  considerare,  da   un   lato,   le
indicazioni della  Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza  n.
88/2019 circa la necessita' di valutare «la gravita'  della  condotta
del condannato» e, dall'altro, il caso concreto per  come  consacrato
nel giudicato. All'esito di  tale  valutazione,  si  ritiene  che  la
limitata gravita' degli addebiti  di  colpa  specifica  -  consistita
essenzialmente nella violazione degli articoli 40, 145 e 146 c.d.s. -
impongano  una   riconsiderazione   della   sanzione   amministrativa
accessoria applicata, alla luce del rinnovato  quadro  sanzionatorio,
sostituendo la revoca della patente con la sospensione della  patente
di guida, ai sensi dell'art. 222, comma 2, per la durata di 3 anni. 
    4. Quanto alla non manifesta infondatezza occorre evidenziare, in
primo luogo, come entrambe le parti si siano richiamate al  principio
di retroattivita' della legge sopravvenuta piu' favorevole al reo. 
    Il richiamo appare erroneo sotto un duplice profilo: nel caso  di
specie non e' intervenuta alcuna modifica normativa ma la  disciplina
e' mutata in conseguenza di un intervento  manipolativo  del  giudice
delle leggi. 
    Non si tratta di una notazione di natura esclusivamente  formale,
in quanto la diversa natura del fenomeno - attinente  alla  validita'
della norma e non a  una  semplice  successione  di  leggi  penali  -
implica la loro sottoposizione a  limiti  molto  diversi.  Mentre  la
retroattivita' della legge favorevole trova un limite (art. 2,  comma
4, del codice penale) proprio nel giudicato,  costituisce  ormai  ius
receptum che la  dichiarazione  di  incostituzionalita'  della  norma
incriminatrice o, comunque, di una norma che incida  sul  trattamento
sanzionatorio non possa trovare  ostacolo  nel  giudicato,  come  del
resto e' dato desumere dallo  stesso  art.  30,  comma  4,  legge  n.
87/1953. 
    Appare  sufficiente  richiamarsi  alle  numerose  sentenze  delle
sezioni unite - gia' citate supra  -  che  hanno  fatto  applicazione
della  norma   da   ultimo   citata   per   consentire   al   giudice
dell'esecuzione di rideterminare la pena  a  seguito  delle  pronunce
della Corte costituzionale aventi ad oggetto, come detto, la  cornice
edittale, una circostanza aggravante  che  ha  comportato,  nel  caso
concreto, un aumento della pena, ovvero ancora la  disciplina  di  un
rito alternativo che incida sulla pena. 
    Tale considerazione si basa  essenzialmente  sulla  stessa  ratio
dell'art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, vale a  dire  «impedire  che
anche una sanzione penale,  per  quanto  inflitta  con  una  sentenza
divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una
norma  dichiarata  successivamente   incostituzionale,   perche'   la
conformita' a legge della pena, in particolare di quella  che  incide
sulla liberta' personale, deve  essere  costantemente  garantita  dal
momento della sua irrogazione a quello della sua  esecuzione»  (cosi'
Cassazione pen., sezioni unite, 37107/15; nello stesso senso, sezione
I, numeri 26899/2012, 19361/2012, 977/2011). 
    Occorre chiedersi, tuttavia, se - quantomeno ai fini del giudizio
di  non  manifesta  infondatezza  che  compete  a  questo  giudice  -
l'equiparazione tra sanzioni amministrative  e  sanzioni  penali  sia
imposta sul piano costituzionale. 
    4.1. Una prima indicazione in tal senso puo' essere tratta  dalla
stessa ragione che imporrebbe la rimodulazione del giudicato  secondo
le sopravvenienze sul piano costituzionale e che ne  differenzia  gli
effetti dalla mera successione di norme, anche abrogatrici:  «siccome
i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale delle leggi vanno  nettamente  distinti,  gli  effetti
della declaratoria di incostituzionalita',  a  differenza  di  quelli
derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall'origine, o,  per
le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione  di
questa, la disposizione impugnata (sezioni unite,  n.  42858  del  29
maggio 2014, Gatto, cit., in motiv.), con la conseguenza che,  mentre
l'applicazione della sopravvenuta legge penale piu'  favorevole,  che
attiene  alla  vigenza  normativa,  trova,  di  regola,   un   limite
invalicabile nella sentenza irrevocabile, cio' non puo' valere per la
sopravvenuta  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale,   che
concerne  il   diverso   fenomeno   della   invalidita'.   La   norma
costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio
perche'  affetta  da  una  invalidita'  originaria.  Cio'  impone   e
giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso
di rapporti giuridici pregressi, gia'  da  essa  disciplinati,  della
intervenuta pronuncia di  incostituzionalita',  la  quale  certifica,
come si e' visto, la definitiva uscita dall'ordinamento giuridico  di
una  norma  geneticamente  invalida.  Una  norma  che  deve,  dunque,
considerarsi tamquam non fuisset, percio'  inidonea  a  fondare  atti
giuridicamente validi, per  cui  tutti  gli  effetti  pregiudizievoli
derivanti da una sentenza penale di condanna  pronunciata,  sia  pure
parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale  devono  essere
rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti  in  cui  cio'
sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili
perche' gia' compiuti e del tutto consumati (sezione 6, n.  9270  del
16 febbraio 2007, Berlusconi,  cit.,  in  motiv.)»  (cosi  Cassazione
pen., sezioni unite, n. 42858/14). 
    In altre parole, secondo la giurisprudenza di legittimita', e' lo
stesso  sistema  di  gerarchia   delle   fonti   e   la   conseguente
sovra-ordinazione della normativa costituzionale  rispetto  a  quella
primaria ad imporre che la rimozione della sanzione divenuta -  anche
in parte - illegittima in conseguenza di  una  sentenza  dichiarativa
della Corte costituzionale, qualora essa non abbia ancora esaurito  i
propri effetti. 
    L'assenza di  uno  strumento  idoneo  a  rimuovere  i  perduranti
effetti   di   una   sanzione    amministrativa    costituzionalmente
illegittima, quindi, si pone in contrasto  con  lo  stesso  art.  136
della  Costituzione,  non  potendosi   considerare,   nonostante   il
giudicato,  il  rapporto  esaurito  fintanto  che  ne  sia  in  corso
l'esecuzione. 
    Il comma 4 dell'art. 30 della legge 87/53, infatti, non introduce
un'eccezione al principio di cui all'art. 136 della Costituzione, per
il quale «la norma cessa di avere  efficacia  dal  giorno  successivo
alla pubblicazione della decisione» d'incostituzionalita', ma e' anzi
concreta applicazione della disposizione costituzionale, declinata in
relazione    alle    norme    sanzionatorie,    giacche'    impedisce
l'ultrattivita' degli effetti della sanzione oggetto  della  sentenza
della Corte. 
    4.2. Sotto tale profilo non assume alcun rilievo  la  distinzione
tra sanzioni penali e sanzioni amministrative che, invece,  e'  posta
alla base della disciplina  in  questa  sede  censurata:  non  vi  e'
dubbio, infatti, che la sanzione penale  possa  incidere  su  diritti
fondamentali della persona - come la liberta'  personale  -  ma  tale
caratteristica non e' conseguenza esclusiva della pena  che  consegua
all'accertamento di un reato. 
    Da un lato, infatti, anche le  sanzioni  formalmente  qualificate
come  amministrative   possono   incidere   su   diritti   di   rango
costituzionale,  come  la   liberta'   d'impresa   (art.   41   della
Costituzione) o il diritto al lavoro (art. 35). 
    D'altro  canto,  le  sanzioni  penali   possono   incidere   solo
virtualmente sulla liberta' personale (perche', di fatto, eseguite in
forma  alternativa  alla  detenzione)  ovvero  coinvolgere   soltanto
interessi di rango inferiore (ad esempio il patrimonio) a  quello  di
alcune sanzioni amministrative. 
    Assume, quindi, rilievo anche il principio d'uguaglianza ex  art.
3  della  Costituzione,  vulnerato  dall'impossibilita'  di  impedire
l'efficacia ultrattiva della sanzione  dichiarata  costituzionalmente
illegittima: mentre per la sanzione  penale  l'art.  30  della  legge
87/53  consente  di  rimuovere,  per  quanto   possibile,   qualsiasi
discriminazione tra soggetti condannati prima  della  sentenza  della
Corte costituzionale e quelli il cui  comportamento  sia  ancora  sub
judice, tale eventualita' non risulta percorribile  per  le  sanzioni
amministrative. 
    Cio' implica che il soggetto condannato in via definitiva ad  una
sanzione amministrativa debba sottostare  -  eventualmente  anche  in
modo permanente, qualora si  tratti  di  sanzione  sine  die  -  alla
restrizione della propria  liberta',  senza  che  sia  consentita  la
ri-espansione  del  diritto  indebitamente  limitato  dalla  sanzione
fondata sulla legge  dichiarata  incostituzionale,  a  differenza  di
quello non ancora condannato in via definitiva, in relazione al quale
il giudice della cognizione sara' chiamato a rimodulare  la  sanzione
alla luce della decisione della Corte. Ne' si potrebbe sostenere  che
il passaggio in giudicato costituisca un  discrimen  accettabile  sul
piano costituzionale: la progressiva erosione dell'intangibilita' del
giudicato in ambito penale, infatti,  e'  stata  determinata  proprio
dalla constatazione  che  la  sua  ratio  di  certezza  nei  rapporti
giuridici  non  puo'  prevalere  sui  diritti  costituzionali   della
persona,    imponendone    il    sacrificio    anche     all'indomani
dell'accertamento    da    parte    della    Corte     costituzionale
dell'illegittimita' della loro compressione. 
    Nel caso di specie, non vi e' dubbio che il riferimento esclusivo
alle sanzioni penali contenute nell'art. 30 della legge 87/53 finisca
per imporre un discrimine - evidentemente irrazionale  -  tra  quanti
siano stati oggetto dell'applicazione  di  una  sanzione  illegittima
prima  e  dopo  la   pubblicazione   della   sentenza   della   Corte
costituzionale. 
    Inoltre, l'impossibilita' di rimuovere la sanzione amministrativa
-  pur  costituzionalmente  illegittima  -  finisce  per   comportare
un'indebita limitazione dei diritti costituzionali del ricorrente, se
non altro in relazione alla possibilita' di svolgere  la  professione
di autista di autocarri che svolgeva all'epoca e nel ricorso sostiene
di voler riprendere,id est la sua liberta' di iniziativa economica  e
il suo diritto al lavoro (articoli 35 e 41 della Costituzione). 
    4.3. Inoltre, ne risulterebbero violati gli  articoli  25  e  117
della  Costituzione,  in  relazione  agli  articoli  6  e   7   della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'Uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU). Come noto, infatti,  la  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  elaborato  un'autonoma
nozione di «sanzione penale», al  fine  di  garantire  l'applicazione
dello statuto  previsto  dalla  Convenzione  in  «materia  penale»  a
prescindere dalla qualificazione fornita dal diritto interno. 
    In particolare, a partire dalle sentenze Engel c. Paesi Bassi del
8 giugno 1976 e Ozturk c. Germania del 21 febbraio 1984, la Corte  ha
elaborato  una  serie  di  indicatori  per  valutare  se  una  misura
particolare  costituisca  in  sostanza  una  pena  ai   sensi   della
Convenzione, ben al di la' dei reati e delle  pene  come  formalmente
intesi in base al diritto interno, e richiamandosi a tutte le norme e
a tutte  le  misure  considerate  «intrinsecamente  penali»,  perche'
aventi caratteri e finalita' propriamente  afflittivi,  per  il  loro
collegamento ad un illecito penale nonche' in ragione della  gravita'
della sanzione imposta (c.d. «pene camuffate»). 
    Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e'
pacifico che la revoca o comunque la limitazione  all'utilizzo  o  al
conseguimento della patente di guida integrino  altrettante  sanzioni
penali. A tal proposito  e'  sufficiente  richiamarsi  alle  pronunce
Affaire Rivard c. Svizzera del 4 gennaio 2017 - nella quale la  Corte
ritiene rivesta la natura di sanzione penale  anche  il  mero  ritiro
della patente, ai fini dell'applicazione del principio del ne bis  in
idem - e Nillson c. Svezia, di analogo tenore. 
    Proprio alla luce  dei  parametri  costantemente  adottati  dalla
giurisprudenza   della   Corte   europea   dei   diritti    dell'uomo
(generalita', scopo  repressivo  o  preventivo,  afflittivita'  della
sanzione), la revoca della patente non puo' che assumere, del  resto,
la veste di  una  sanzione  sostanzialmente  penale,  soprattutto  se
ricollegata alla commissione di un reato  e  applicata  in  esito  al
processo penale. 
    Cio' comporta che si applichino alla sanzione della revoca  della
patente - evidentemente  ancora  piu'  grave  di  quella  della  mera
sospensione - le garanzie previste dalla Convenzione,  tra  le  quali
assume rilievo, nel caso di specie, tanto il principio  di  legalita'
penale quanto quello di retroattivita' ex art.  7  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali. 
    Non puo' dubitarsi che tali garanzie si estendano anche alla fase
di esecuzione della pena  e  di  determinazione  della  durata  della
sanzione, come chiaramente espresso dalla Corte europea  dei  diritti
dell'uomo nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21 ottobre 2013:
in particolare, la  Corte  nella  pronuncia  appena  menzionata,  pur
distinguendo tra una misura che costituisce una «pena» e  una  misura
relativa  all'«esecuzione»  o   all'«applicazione»   della   pena   e
richiamando solo la  prima  al  campo  applicativo  dell'art.  7,  ha
affermato che il termine «inflitta»  contenuto  nella  seconda  frase
dell'art. 7 § 1 non puo' essere interpretato nel senso  di  escludere
dal campo di applicazione di tale disposizione tutte  le  misure  che
possono intervenire dopo  che  sia  stata  pronunciata  la  sentenza.
Cosicche', a  fronte  della  ridefinizione  o  della  modifica  della
portata della  pena  dovra'  trovare  applicazione  il  principio  di
irretroattivita' delle pene. 
    Se e' vero che la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha  mai
esplicitamente riconosciuto come l'illegittimita' sopravvenuta  della
norma  sulla  base  della  quale  la  sanzione  era  stata  applicata
determini la violazione del principio di legalita',  pur  nella  piu'
ampia ottica convenzionale (intesa come  prevedibilita'  della  norma
sanzionatoria),  va  sottolineato  come  proprio  le  ragioni   della
declaratoria di  incostituzionalita'  possono  comportare  l'assoluta
arbitrarieta' della base legale stessa. 
    L'art. 7 della  Convenzione  richiede  l'esistenza  di  una  base
legale perche' possano essere  inflitte  una  condanna  e  una  pena.
Queste ultime, quindi, devono essere definite  dalla  legge,  nozione
che - nell'ottica convenzionale - ricomprende il diritto  di  origine
sia legislativa che  giurisprudenziale  e  implica  delle  condizioni
qualitative  -  tra  cui  (soprattutto  ma  non   solo)   quelle   di
accessibilita' e di prevedibilita' (Del Rio Prada c. Spagna  cit.,  §
91 e S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 35)  -  avuto  riguardo
non solo delle norme di rango legislativo e  regolamentare  (Kafkaris
c. Cipro, 12 febbraio 2008, §§ 145-146) ma anche della giurisprudenza
dei tribunali. 
    Tuttavia, i criteri  di  accessibilita'  e  prevedibilita'  della
sanzione alla luce dell'intero diritto vivente (all'epoca del  fatto)
non possono che costituire, sul piano logico prima che giuridico,  un
posterius rispetto a qualsiasi considerazione circa  la  validita'  e
vigenza della norma sanzionatoria. 
    Allorquando l'illegittimita' della norma  dipenda  proprio  dalla
arbitrarieta' della disposizione e dalla natura discriminatoria della
stessa (id est la violazione dell'art. 3 della Costituzione)  -  come
nel caso di specie - tale vizio originario non puo' che affliggere la
stessa interpretazione  della  norma,  la  quale,  quindi,  non  puo'
costituire una base legale valida a  fondare  l'applicazione  di  una
sanzione sostanzialmente penale. 
    Del  resto,  la  chiara  violazione  -  da  parte  dello   stesso
legislatore incriminante - dei principi costituzionali non  puo'  che
comportare un'incertezza sul piano della  validita'  della  norma  e,
quindi, minare alla radice la base legale della disposizione. 
    44. Sul piano del diritto interno, poi, il principio di legalita'
dei reati e delle pene ex art. 25, secondo comma, della  Costituzione
risulta vulnerato dall'impossibilita' per il giudice  dell'esecuzione
di allineare il  contenuto  della  sanzione  inflitta  all'intervento
della Corte costituzionale sulla norma sanzionatoria. 
    La  portata  dello  stesso  art.  30  della  legge  87/53  -  che
costituisce attuazione diretta dell'art.  25,  secondo  comma,  della
Costituzione  -  non   puo'   che   essere   estesa   alle   sanzioni
«sostanzialmente penali», rispondendo alla medesima ratio  di  tutela
dei diritti del cittadino, colpito da una sanzione sulla base di  una
norma  poi  espunta   dall'ordinamento   perche'   non   conforme   a
Costituzione. 
    Tale tutela non puo' mutare solo in considerazione  della  natura
formalmente penale della sanzione, risultando  ormai  pacifico,  come
detto,  che  alla  distinzione  nominalistica  non   faccia   seguito
indefettibilmente  -   in   concreto   -   una   diversa   intensita'
sanzionatoria. 
    5. Come noto, analoga questione  e'  stata  gia'  respinta  dalla
Corte costituzionale con sentenza n. 43 del 10 gennaio 2017. 
    Cio'  non  consente,  tuttavia,  di  considerare  il  dubbio   di
legittimita'  costituzionale  manifestamente  infondato,  proprio  in
considerazione   dei   mutamenti    della    stessa    giurisprudenza
costituzionale successivi a tale pronuncia. 
    In  primo  luogo,  va  evidenziata  la  differente  natura  della
sanzione che assume rilievo nel caso di specie - la  limitazione  del
diritto all'uso della patente  che  si  tramuta,  in  relazione  alla
professione svolta dal condannato, in  un  limite  alla  liberta'  di
iniziativa economica del S . . . - rispetto alla mera pena pecuniaria
allora considerata. 
    Inoltre,   sul   piano   del   mutamento   della   giurisprudenza
costituzionale, la stessa Corte ha  escluso  che,  per  invocare  una
violazione della Convenzione - quale  parametro  di  legittimita'  ex
art. 117  della  Costituzione  -  sia  necessaria  una  preventiva  e
puntuale decisione  della  Corte  EDU,  affermando  che  sarebbe  «da
respingere l'idea che l'interprete non possa applicare la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, se non con riferimento ai casi  che  siano  gia'  stati
oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte europea dei diritti
dell'uomo» (Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2017, § 7). 
    In secondo luogo, le sanzioni amministrative di  tipo  afflittivo
(«sostanzialmente penali» nell'ottica della Corte europea dei diritti
dell'uomo)  sono  state   oggetto   di   equiparazione,   sul   piano
costituzionale,  a  quelle  anche  formalmente  penali  in  relazione
all'applicazione del principio di retroattivita' della lex mitior  da
parte  della  stessa  Corte  costituzionale  (Sentenza  n.  63/2019),
superando cosi' le precedenti decisioni di segno contrario  (Sentenza
n. 193/2016). 
    Tale principio - come ricordato dalla citata  sentenza  -  appare
caratterizzato da una maggior  derogabilita'  rispetto  a  quello  di
legalita' in ambito penale (§ 6). 
    Proprio in tale pronuncia, la Corte esplicitamente evidenzia come
«l'estensione del principio di retroattivita'  della  lex  mitior  in
materia  di  sanzioni  amministrative  aventi   natura   e   funzione
"punitiva"  e',  del  resto,  conforme  alla  logica   sottesa   alla
giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla  base  dell'art.  3
della Costituzione, in  ordine  alle  sanzioni  propriamente  penali.
Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura "punitiva",
di regola non vi  sara'  ragione  per  continuare  ad  applicare  nei
confronti  di  costui   tale   sanzione,   qualora   il   fatto   sia
successivamente considerato non piu' illecito; ne' per continuare  ad
applicarla in una misura considerata  ormai  eccessiva  (e  per  cio'
stesso  sproporzionata)  rispetto  al  mutato   apprezzamento   della
gravita' dell'illecito da parte dell'ordinamento. E  cio'  salvo  che
sussistano ragioni cogenti di  tutela  di  controinteressi  di  rango
costituzionale, tali da resistere al  medesimo  «vaglio  positivo  di
ragionevolezza», al  cui  metro  debbono  essere  in  linea  generale
valutate le deroghe al principio di retroattivita'  in  mitius  nella
materia penale» § 6.2). 
    Se non vi e' ragione per (continuare ad) applicare ad un soggetto
una sanzione che il  legislatore  giudica  ormai  eccessiva,  non  si
comprende davvero come possa continuarsi ad  applicare  una  sanzione
radicalmente   travolta   da   una   pronuncia   di    illegittimita'
costituzionale. Il discrimine non puo' certo  essere  costituito  dal
giudicato, dovendosi dare prevalenza  alla  legalita'  costituzionale
rispetto alle ragioni di certezza (Corte costizionale, senz. 74/1980,
secondo la quale il  giudicato  costituirebbe  un  valido  limite  in
relazione alla successione di leggi penali meramente modificative  in
ossequio alla «esigenza di salvaguardare  la  certezza  dei  rapporti
ormai esauriti»). 
    Proprio  il  rinnovato  statuto  costituzionale  delle   sanzioni
(formalmente) amministrative (ma sostanzialmente penali) reca con se'
un possibile esito diverso della questione, imponendo  di  investirne
la Corte costituzionale. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli articoli 23 e seguenti della legge 11  marzo  1953,  n.
87; 
    Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata,  con
riferimento agli articoli 3, 25, 35, 41,  117  -  in  relazione  agli
articoli 6 e 7 della Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  -  e  136  della
Costituzione, la questione di costituzionalita' dell'art.  30,  comma
IV, della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  nella  parte  in  cui  la
disposizione stessa non e' applicabile alle  sanzioni  amministrative
che assumano natura sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione
EDU; 
    Dispone la sospensione del giudizio  e  l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte Costituzionale. 
    Manda la Cancelleria  per  la  notifica  al  condannato,  al  suo
difensore, al pubblico ministero, al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Milano, li' 4 febbraio 2020 
 
                        Il Giudice: Crepaldi