N. 64 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 dicembre 2019

Ordinanza  del  27  dicembre  2019  del  Tribunale  di   Genova   nel
procedimento civile promosso da R. M. contro Presidente del Consiglio
dei ministri.. 
 
Elezioni  -  Testo   unico   delle   disposizioni   in   materia   di
  incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche  elettive  e  di
  Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna  per  delitti
  non  colposi   -   Sospensione   e   decadenza   di   diritto   per
  incandidabilita' alle cariche regionali - Mancata previsione di una
  valutazione di proporzionalita' tra i provvedimenti di  sospensione
  o decadenza e la sentenza di condanna - Denunciata adozione di  una
  disciplina senza il coordinamento e la collaborazione tra  Stato  e
  Regioni. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo  unico  delle
  disposizioni  in  materia  di  incandidabilita'  e  di  divieto  di
  ricoprire cariche elettive e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
  definitive  di  condanna  per  delitti   non   colposi,   a   norma
  dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre  2012,  n.  190),
  art. 8. 
(GU n.25 del 17-6-2020 )
 
                         TRIBUNALE DI GENOVA 
                            Sezione Prima 
 
    In procedimento ex art. 702-bis del codice di procedura civile; 
    Promosso da M. R. (avv. Cocchi Luigi); 
    Contro  Presidenza  del  Consiglio   dei   ministri   (Avvocatura
distrettuale dello Stato. 
    Il Tribunale, composto dai signori: 
      dott. Mario Tuttobene - Presidente; 
      dott.ssa Lorenza Calcagno - Giudice; 
      dott. Paolo Gibelli - Giudice rel. 
    Osserva quanto segue 
1)  in  merito  al  fatto,  al   ricorso   ed   alle   questioni   di
costituzionalita' sollevate. 
    Il dott. M.  R.  e'  stato  eletto  Consigliere  regionale  della
Regione Liguria in occasione delle elezioni  amministrative  tenutesi
il 31 maggio 2015 e cosi' nelle precedenti due legislature  regionali
rivestendo quindi continuamente la carica dal 2005; 
    In data 30 maggio 2019, la cancelleria del Tribunale di Genova  -
2ª Sezione  penale  -,  ha  trasmesso  alla  prefettura  -  ai  sensi
dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 31  dicembre  2012,  n.
235, dispositivo della sentenza penale resa lo stesso 30 maggio 2019,
a carico - tra gli altri - dello stesso dott. M. R. 
    Con la suddetta sentenza il dott. R. e' stato condannato in primo
grado per il reato di cui all'art. 478 del  codice  penale  (falsita'
ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici),  e  per
il reato di cui all'art. 314 del codice  penale  (peculato),  ad  una
pena complessiva pari a anni tre,  mesi  due  e  giorni  quindici  di
reclusione, con sanzioni accessorie di legge. 
    I fatti erano relativi alla modalita'  di  spesa  dei  contributi
economici destinati al funzionamento dei gruppi  politici  consiliari
regionali e, nelle tesi di accusa, accolta in prima  cure,  destinati
da consiglieri e capigruppo a  finalita'  estranee  al  funzionamento
politico  di  gruppi  medesimi,  con  ulteriore  rendicontazione  non
veritiera dei capigruppo. 
    Dalla sentenza di condanna, constano a carico del dott. R.  spese
personali  presentate  a   rimborso   e   non   attinenti   a   spese
effettivamente rimborsabili per soli euro 138,20 (par.  31.7.2  della
sentenza di condanna, corrispondente al capo 21 J), mente avendo egli
ricoperto la carica di capogruppo consiliare (del Omissis) dalla fine
del 2011 risulta aver attestato la veridicita' ed inerenza  di  spese
di colleghi per alcune decine di migliaia di euro,  nel  contesto  di
una prassi  la  cui  qualificazione  come  illecita  ha  prodotto  la
condanna a carico di altri  capigruppo  e  la  pendenza  di  processi
ancora da definire. 
    A seguito di quanto sopra in data 5 luglio 2019 il Presidente del
Consiglio dei ministri (avv. Giuseppe  Conte)  sentito  il  Ministero
dell'interno (sen. Matteo Salvini), visto  l'art.  8,  comma  1,  del
decreto legislativo n. 235//2012 (di seguito anche, secondo la comune
menzione «legge Severino»), emetteva il decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri contenente  il  provvedimento  di  sospensione
dalla  carica  di  Consigliere  regionale  la  Regione  Liguria   nei
confronti del dott. M. R. dalla data del 30  maggio  2019  (pronuncia
della sentenza di condanna). 
    In data 10 e 11  luglio  2019  il  provvedimento  era  notificato
all'interessato. 
    Ricevuta la notifica il dott. R. ha formulato ricorso avverso  il
provvedimento ex art. 22, comma  1  della  legge  n.  150  del  2011,
siccome  avverso  provvedimento  incidente  in  materia   elettorale,
instaurando, come prevede  la  norma  suddetta,  un  procedimento  da
condursi con «rito sommario collegiale» (art. 702-bis del  codice  di
procedura civile), e come tale iscritto e rubricato. 
    Si deve subito anticipare che la via formale di tutela prescelta,
e' conforme, quanto a  profili  di  rito,  a  quella  indicata  dalla
sentenza della Cassazione A Sezioni unite n. 11131/15, pronuncia  con
la quale, in analogo caso di applicazione della c.d. legge  Severino,
la Suprema  Corte,  risolvendo  il  conflitto  con  la  giurisdizione
amministrativa, adita in prima  battuta,  ritenuta  la  questione  di
diritto soggettivo, ha fatto  riferimento  espresso  al  procedimento
suddetto  come  «sede  della  tutela»  avverso  il  provvedimento  di
sospensione. Si deve ancora rilevare che  tale  sede  e'  individuata
nonostante che non sia specificata dal testo del decreto  legislativo
n. 235/12, testo strutturato attorno ad un «secco automatismo» tra la
condanna penale, status di incandidabilita', sospensioni e  decadenze
conseguenti. Infatti, nonostante la particolarita'  dell'istituto  la
Corte   ha   osservato   che   le   questioni   di   ineleggibilita',
incompatibilita' e decadenza sono in tutto assimilabili. 
    Con il ricorso il dott.  R.  richiede  che  il  provvedimento  di
sospensione suddetto sia disapplicato, o  per  difetto  di  legittimo
presupposto   normativo,   o   per   entita'    sproporzionata    del
provvedimento, con sua reintegrazione nel consiglio regionale, previo
riconoscimento, a seguito del rinvio alla Corte costituzionale, della
incostituzionalita' dell' art. 8 del decreto  legislativo  n.  231/12
per i due motivi principali che seguono e che tendono  in  effetti  o
alla cancellazione integrale del fondamento  normativo  dell'istituto
adottato in concreto o alla  introduzione  di  un  potere  di  vaglio
necessario minimo della proporzione tra il fatto ritenuto e l'effetto
sull'elettorato passivo. 
    I motivi principali detti sono quindi in estrema  sintesi  due  e
sono i seguenti: 
      1) con il primo si sostiene che, nella misura in cui l'articolo
in questione, e per il vero l'intero impianto del decreto legislativo
n. 235/12, pretende di essere applicabile ai  consiglieri  regionali,
esso violerebbe gli artt. 117 e 122 della Costituzione, invadendo  la
sfera di competenza legislativa regionale, ovvero (tesi sostenuta con
maggior convinzione) comprimendola con modalita' di esercizio di  una
potesta' legislativa  statale  incidente  in  materia  regionale,  ed
esercitata in difetto di ogni  coordinamento  e  collaborazione.  (di
fatto   auspicando   una   pronuncia    soppressiva    della    Corte
costituzionale); 
      2) con il secondo si sostiene  l'illegittimita'  costituzionale
della   mancata   introduzione   di   un   vincolo   di    necessaria
proporzionalita' in concreto tra fatto accertato in sede penale e  la
«conseguenze automatiche», sul piano  del  godimento  dell'elettorato
passivo, previste dalla legge  (di  fatto  auspicando  una  pronuncia
additiva della Corte  costituzionale,  ovvero  ancora  una  pronuncia
soppressiva, ove la Corte non ravvisi una integrazione  necessaria  e
sufficiente    ad     ovviare     alla     eventualmente     rilevata
incostituzionalita').   Piu'    precisamente    l'incostituzionalita'
deriverebbe,  evidentemente  per  il   medio   dell'art.   11   della
Costituzione, dalla violazione dei  principi  in  materia  di  tutela
dell'eletto  ritraibili  dalla  Convenzione   europea   dei   diritti
dell'uomo e precisamente dell'art. 3  del  primo  protocollo  accluso
alla Convenzione (necessita' di ordinamento  democratico).  La  norma
suddetta, per come  interpretata  nel  reiterato  insegnamento  della
Corte EDU, esige  la  possibilita'  di  una  delibazione  bilanciata,
individualizzata   e   giudiziaria   di   ogni   forma   di   perdita
dell'elettorato attivo e passivo, laddove la legge in  questione  non
prevede ne' presupposti sostanziali del provvedimento  diversi  dalla
sussistenza della condanna penale (che tuttavia nel  suo  dispositivo
non ha ad oggetto direttamente la sospensione, ne' la decadenza), ne'
la sede per l'impugnativa, ne' i contenuti dell'impugnativa medesima,
cosi' violando (in tesi) il trattato EDU sotto il profilo visto. 
    All'evidenza ambo  i  motivi,  ove  ritenuti  non  manifestamente
infondati, richiedono necessariamente il  rinvio  pregiudiziale  alla
Corte costituzionale. 
    Sussistono anche ulteriori motivi che, come brevemente si vedra',
possono essere anche  ritenti  meri  argomenti  a  sostegno  dei  due
primari compiutamente  esposti  ovvero  eccezioni  non  compiutamente
sviluppate e come tali non  tali  da  superare  il  primo  vaglio  di
ammissibilita'. 
    Contemporaneamente al ricorso principale ex art.700 del codice di
procedura civile il dott. R. richiede di disporre con disapplicazione
anche  in  sede  cautelare  del   provvedimento   opposto,   la   sua
riammissione, pleno iure, quale Consigliere in seno  al  «legislativo
ligure». 
    I ricorsi di merito, che  interessa  in  questa  sede,  e  quello
cautelare, sono stati notificati nelle forme di legge alla Presidenza
del Consiglio dei ministri la quale si e' costituita  a  mezzo  della
locale Avvocatura distrettuale dello Stato, in entrambi. 
    L'Avvocatura non ha contestato  la  giurisdizione  sul  caso  del
giudice adito, ne' il rito prescelto, con conferma di quanto  cennato
sulla  correttezza  della  individuata  sedes  iudicii,  ha  tuttavia
radicalmente    contestato    tutti    i    sollevati    motivi    di
incostituzionalita', uno per uno e per i motivi cui si  fara'  cenno,
per il necessario, alla motivazione della presente, cosi' concludendo
per il rigetto del ricorso direttamente  conseguente  alla  manifesta
infondatezza delle questioni sollevate. In effetti,  prescindendo  di
un intervento censorio od adeguatore del  giudice  delle  leggi,  non
sussiste alcuna possibilita' di tutela della posizione del ricorrente
nella pur riconosciuta presente sede processuale, se non  per  motivi
puramente formali (non  corrispondenza  della  condanna  ai  casi  di
legge, error in personam, estinzione del reato per fatti  successivi,
abotilio crimins, nullita' della sentenza  ai  sensi  del  codice  di
procedura penale, ecc)  motivi  nessuno  dei  quali  e'  dedotto  dal
ricorrente. 
2) In merito alla ammissibilita' del ricorso, alla sussistenza  della
giurisdizione ordinaria ed alla corretta impostazione in rito. 
    Preliminarmente occorre ribadire l'ammissibilita' del ricorso, la
giurisdizione ordinaria e la competenza di questo giudice secondo  la
linea in rito gia' specificata. 
    Nella sua struttura di base il decreto legislativo n. 235/12  non
prevede un controllo giurisdizionale dei provvedimenti di sospensione
o decadenza dalle cariche elettive che introduce. 
    La giurisprudenza costituzionale ha gia' chiarito che i  suddetti
provvedimenti non hanno natura sanzionatoria, ma piuttosto una natura
paragonabile ad una misura cautelare operante ex lege  e  finalizzata
ad evitare la permanenza in cariche pubbliche di rilievo di  soggetti
fortemente indiziati di condotte delittuose di un determinato genere,
ovvero  riconosciuti  responsabili  delle  stesse.  Tanto  e'   stato
dichiarato soprattutto per sottrarre gli istituti della legge, ovvero
la c.d.  «incandidabilita'»  e  di  provvedimenti,  conseguenti  alla
stessa, «sospensioni» e «decadenze» ad una ricostruzione  in  termini
di sanzione accessoria che  avrebbe  portato  alla  non  applicazione
retroattiva. (la ricostruzione  non  e'  tuttavia  priva  di  diverse
conseguenze). 
    Nel quadro suddetto e' stata gia' confermata, anche da  un  primo
indiretto vaglio costituzionale sul punto, la scissione  formale  tra
il provvedimento penale e le sue motivazione (che attengono  solo  al
fatto di base accertato) ed  il  successivo  provvedimento  incidente
sulla  posizione  elettiva  (nel  caso  decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri) il quale si configura come  «esecutivo  della
condanna in senso improprio» (la vera esecuzione  vi  sarebbe  se  le
misure fossero comprese nel dispositivo penale e competerebbe al PM),
nel senso che adotta la condanna quale «mero presupposto  di  fatto»,
sia  pur  intrinsecamente  giuridico,  di   un   autonomo   ulteriore
provvedimento  amministrativo  indicente  -eccezionalmente-  su   uno
status derivante da diritto soggettivo (alla carica  elettiva).  Tale
status non viene degradato, ma  ne  viene  dichiarata  la  successiva
cessazione per  il  venir  in  essere  di  un  presupposto  di  legge
contrario ad esso. Si tratta all'evidenza, nella mens  legis,  di  un
provvedimento restrittivo di diritti  di  «natura  automatica»  e  la
sottolineatura della accessorieta' ed automaticita' della conseguenza
della incandidabilita' e' data da diversi elementi della disciplina: 
      1) dalla gia' detta mancata previsione dei qualsiasi  forma  di
opposizione; 
      2) dal tentativo di  sminuire  la  necessita'  di  una  tutela,
almeno formale (sotto il profilo della reale ostativita' del titolo e
della identita'  del  destinatario),  menzionando  esplicitamente  il
cancelliere quale pubblico ufficiale certificatore della trasmissione
di una sentenza autentica, ma anche conforme ai presupposti di  legge
per i provvedimenti restrittivi; 
      3) dalla ulteriore previsione di  un  «collegamento»  tra  tali
provvedimenti restrittivi e la «vita» della sentenza, in  termini  di
sua riforma o conferma nei gradi successivi". 
    Naturalmente  l'idea  di  un  provvedimento  capace  di  incidere
addirittura su cariche di rilievo costituzionale, non essendo  «parte
della sentenza penale», ed essendo tuttavia non impugnabile,  non  e'
compatibile  con  il  diritto  di  difesa.  Ogni  tesi  che   dovesse
propendere in  tal  senso  urterebbe  frontalmente  con  il  disposto
dell'art. 24 della costituzione. E' evidente, come  cennato,  che  e'
necessaria una sede ove, almeno sul piano formale, possa essere presa
in considerazione la  corrispondenza  tra  il  presupposto  di  legge
(sentenza di un certo tipo e carico di  una  certa  persona)  con  il
provvedimento amministrativo sospensivo o decadenziale adottato.  Per
chiarirlo   e'   sufficiente   considerare   che   la   tesi    della
inoppugnabilita'  validerebbe  irreparabilmente  anche  provvedimenti
gravemente viziati, ad esempio emessi per  titolo  non  previsto,  in
relazione a carica non menzionata - con analogia legis -,  con  error
in personam o nonostante la successiva abolitio  crimis,  non  ancora
dichiarata dal giudice penale). L'inoppugnabilita' sarebbe «tale  per
tutto» e quindi condurrebbe ad un esito abnorme che non  pare  meriti
ulteriore considerazione. 
    Ammessa  la  possibilita'  dell'opposizione  si  deve  richiamare
ancora la sentenza della Cass. civ. sez. un.  n.  11131/15  la  quale
individuando  chiaramente  la  questione  dell'opposizione  ai  detti
provvedimenti sospensivi o decadenziali come «di diritto soggettivo»,
con conseguente giurisdizione del G.O., individua  senza  dubbio  una
potenziale sede di tutela piena. Solo ragionando «al  limite»  si  e'
affermato l'accessibilita' di detta tesi solo per profili procedurali
o di forma, ma, invero, nulla pare escludere, che la sede  di  tutela
sia utilizzata anche per richiedere una  tutela  non  prevista  dalla
legge, sui presupposti che, in termini di  giustizia  costituzionale,
la  legge  dovrebbe  prevedere  per  ragioni  di  tutela  di  diritti
fondamentali. 
    Sussistono quindi l'ammissibilita' del ricorso, la  giurisdizione
e competenza di questo Tribunale in  composizione  collegiale  e  nel
contesto del correttamente scelto rito sommario introdotto. Il  tutto
anche in relazione al luogo dell'intervenuta lamentata violazione del
diritto, violazione che, come visto e' il vero oggetto  della  tutela
richiesta. 
4) In merito alla non manifesta infondatezza di due  delle  sollevate
questioni di costituzionalita' 
    Detto quanto sopra sulla rituale impostazione del giudizio in cui
sono  sollevate  le  eccezioni  di  costituzionalita'  si  puo'   ora
procedere all'esame delle stesse sotto il profilo della  rilevanza  e
della non manifesta infondatezza. 
    Il profilo della rilevanza e' gia' esaurito da  quanto  detto  in
precedenza sull'oggetto del giudizio. 
    Il dott. R. non nega di aver  ricevuto  condanna  per  un  titolo
ostativo alla sua permanenza in Consiglio e chiede la  rimozione  del
provvedimento  solo  perche'  esso,  pur  conforme   a   legge,   non
corrisponde a suoi asseriti diritti di rango  costituzionale,  ovvero
perche' la normativa di riferimento  e'  ritenuta  costituzionalmente
viziata per ragioni inerenti  l'iter  legis.  Non  si  rileva  alcuna
possibilita'  per  questo  giudice  ordinario  adito  di   fare   una
applicazione diretta di norme che consentano un vaglio delle  istanze
del dott. R.  La  domanda  di  integrale  disapplicazione  ha  quindi
ragioni esclusivamente costituzionali  La  rilevanza  e'  chiaramente
riscontrabile. 
    Quanto  alla  «non  manifesta  infondatezza»  il  Collegio,   pur
consapevole della sussistenza di una  seria  forza  persuasiva  anche
degli argomenti sollevati in senso contrario alla  prospettazione  di
incostituzionalita' del dott. R. non riesce a ravvisare negli  stessi
qual carattere di «palese evidenza» da  cui  conseguirebbe  la  detta
«manifesta infondatezza». Come cennato,  infatti,  almeno  due  delle
questioni    sollevate,    continuano    ad    apparire     altamente
controvertibili,   con   conseguente    assenza    della    manifesta
infondatezza. 
    Nel corpo del ricorso, per il vero, sono contenuti,  anche  altri
riferimenti  sviluppati   in   parte   come   autonomi   profili   di
incostituzionalita', in parte come argomenti ulteriori per  sostenere
la generale esigenza  di  un  giudizio  di  proporzionalita'  tra  la
condanna e l'effetto. In tal senso si possono leggere  i  riferimenti
all'ingiustizia  dell'eguale  disciplina  dell'incandidabilita'   per
ragioni di «lotta alla mafia» ovvero per condanna «per reati  avverso
la PA» ed altresi'  alla  ingiustizia  del  pari  trattamento  tra  i
consiglieri regionali, privi di funzioni amministrative, ed assessori
e Presidente, che invece svolgono tali funzioni. I  motivi  suddetti,
ove li si volesse considerare  autonomi,  non  potrebbero  che  esser
ritenuti manifestamente  infondati.  Infatti  nulla  esclude  che  il
legislatore possa adottare una misura di natura cautelare  oltre  una
certa soglia di necessita', senza piu' operare distinzioni,  superata
la soglia, tra esigenze piu' o meno pressanti. 
    Detto quanto sopra si  puo'  passare  all'esame  degli  argomenti
ritenuti «non manifestamente infondati». 
    Non  appare  innanzitutto  manifestamente  infondato  il   motivo
attinente il difetto di ogni previsione da  parte  della  c.d.  legge
Severino di un vaglio di proporzionalita' tra i fatti  oggetto  della
condanna e la conseguenza della decadenza da una carica elettiva  del
condannato. 
    Si deve considerare che la struttura della normativa in esame  e'
ispirata, come  gia'  illustrato,  ad  un  rigido  automatismo.  Essa
considera unicamente il rapporto tra  la  permanenza  in  una  carica
elettiva e l'intervenuta condanna penale per  determinati  fatti.  Un
particolare aspetto di tale rigidita' e'  l'esclusione  dell'esigenza
di ogni connessione concreta  tra  i  fatti  accertati  e  la  carica
esercitata al momento della decadenza, potendo benissimo essere, come
in effetti risulta nel caso, i fatti accertati risalenti nel tempo  e
seguiti da condotta difforme nell'esercizio  della  medesima  carica,
oppure generati da una occasione, di fatto,  o  normativa,  non  piu'
attuale, oppure seguiti da una nuova elezione ad una carica  diversa.
La normativa contestata considera  quindi  de  iure  «pericolosa»  la
permanenza in carica  del  condannato  (evidentemente  per  caratteri
della condotta ex ante valutati dal legislatore)  per  non  dire  che
considera il condannato «indegno» della carica, cosa che  in  effetti
contrasterebbe con la supposta e gia' dichiarata natura  cautelare  e
non sanzionatoria della normativa e, in effetti, imporrebbe la sempre
rifiutata  irretroattivita'   e   forse,   piu'   in   generale,   la
considerazione complessiva, anche in rito, quale sanzione accessoria. 
    Ribadita la rigidita' del presupposto della supposta «cautela  ex
lege» si deve a questo punto osservare  che  i  titoli  di  reato  in
relazione ai quali sono previste decadenza  e  correlata  sospensione
sono si' edittalmente gravi, ma la normativa in esame non consente al
giudice penale - ne' ad alcun altro - di apprezzarne in  concreto  la
gravita', elemento questo che, in effetti, per qualsiasi reato, scema
al limite  minore  della  fattispecie.  Si  puo'  ad  esempio  essere
condannati per un peculato per aver utilizzato alcuni fogli di  carta
dell'amministrazione  al  fine  di  scrivere  una  lettera  personale
durante una seduta consigliare, ovvero per corruzione  impropria  per
aver accettato un  regalo  di  modesto  valore  da  una  associazione
beneficiata  da  un  determinato  provvedimento,  persino   per   una
telefonata non necessaria fatta a spese  dell'amministrazione  e  per
ragioni  non  di  servizio.  Si  tratta  di  fatti  normalmente   non
denunciati,  non  provabili,  non  perseguibili,  ma  non  di   fatti
penalmente  irrilevanti.  Si  deve  notare  che  i   fatti   suddetti
appartengono probabilmente alla categoria dei fatti di lieve  entita'
per i quali la riforma attuata con il decreto legislativo n.  28  del
2015 che ha introdotto l'art. 133-bis del codice penale ha escluso la
punibilita'  previo,  appunto,  un  vaglio  concreto   del   giudice.
Nondimeno al peculato ed alla corruzione non si applica la  norma  in
esame posto che essa  esclude  i  reati  con  pena  edittale  massima
superiore ad anni cinque. Con il che la struttura rigida della  norma
resta invariata e del tutto insensibile alla gravita' del fatto.  Gli
autori anche delle condotte minime ipotizzate, de iure condito,  sono
soggetti alla  decadenza  da  cariche  politiche  anche  di  notevole
rilievo ed ottenute  anche  con  larghissimo  consenso,  anche  nella
consapevolezza da parte dell'elettorato del procedimento penale,  dei
fatti in esso ascritti all'eletto e di primi esiti degli accertamenti
giudiziari. 
    La rigidita' della normativa coinvolge, evidentemente,  tutte  le
misure previste dalla legge, venendo in questa sede in considerazione
l'art. 8, siccome concretamente applicato. 
    Un   ultimo   aspetto   meritevole   di   sottolineatura    della
particolarita'  anche  alla  luce  dell'ordinamento   interno   della
normativa in esame e' il fatto che la supposta natura cautelare opera
sulla base di un pericolo completamente presunto  ex  lege,  come  ad
esempio nel caso in cui  l'illecito  fosse  relativo  ad  una  carica
pregressa  e  mutata,  con  impossibilita'  nella  nuova  carica   di
reiterare la  condotta.  Si  deve  notare,  con  possibile  ulteriore
profilo di incostituzionalita' della normativa, che appare  assorbito
in quelli in diretto esame, che la pericolosita' presunta ex lege  e'
ormai totalmente espulsa sia dal novero delle  misure  cautelari  sia
dallo stesso ambito delle misure di sicurezza personali,  laddove  e'
stato  ritenuto  sulla  base  dei  soli   principi   dell'ordinamento
costituzionale italiano la necessita' assoluta dell'esame in concreto
del caso. 
    Il ricorso evidenzia con chiarezza l'aspetto  detto  e  nulla  di
specifico e' stato replicato sul punto, se non  una  invocazione  del
carattere  speciale  della   normativa   intesa   alla   tutela   del
funzionamento libero delle istituzioni. Naturalmente  occorre  ancora
esaminare sotto quale esatto profilo tale  indubbia  rigidita'  possa
urtare con una disposizione di rango costituzionale. 
    Il dott. R. indica  in  tal  senso  il  contrasto  detto  tra  il
carattere rigido della normativa in  esame  ed  i  trattato  EDU.  e,
precisamente l'art. 3 del protocollo aggiuntivo n.  1  in  forza  del
quale   gli   stati   aderenti   dichiarano   il    loro    carattere
«necessariamente democratico». In tema di elettorato passivo la Corte
di Strasburgo ha sempre fatto discendere dal dato normativo  suddetto
l'esistenza  di  un  diritto  fondamentale  all'elettorato  attivo  e
passivo  riconosciuto  dal  trattato,  e  quindi,  per  l'ordinamento
italiano, di rango sostanzialmente costituzionale. 
    Nel conformare tale tutela la Corte, con diverse  pronunce  (Gran
Camera 5/10/05 Hirst  -Regno  Unito;  Sez  I  15/6/06,  Lykourezos  -
Grecia; Sez. III 5/4/07, Kavakcu - Turchia; Sez.  I  8/4/10  Frodl  -
Italia; Gran  Camera  27/4/10  Tanse  -  Moldavia)  ha  espressamente
ritenuto la necessita' che eventuali limiti di  qualsiasi  genere  al
diritto  degli  eletti  di  rivestire  le  cariche  conferitegli  dal
meccanismo  democratico  potessero  derivare  solo  da  un  "processo
decisorio individualizzato", giungendo  poi  ad  affermare  che  tale
processo deve essere  tendenzialmente  di  natura  giurisdizionale  e
comunque pervenire ad un concreto collegamento tra il fatto  commesso
e l'impossibilita' di ricoprire la carica elettiva. (Tra  le  cariche
prese  in  considerazione  risulta  espressamente  anche  quella   di
consigliere regionale nell'ordinamento Italiano). 
    Non pare affatto certo  che  la  attuale  struttura  della  legge
Severino, in forza  della  vista  rigidita',  pur  nel  condivisibile
intento di garantire la qualita' morale  degli  eletti,  risponda  al
requisito  detto.  Come  gia'  visto,  infatti,  la  struttura  della
normativa si presenta come del tutto  accessoria  ad  una  risultanza
penale, ma  non  esiste,  de  iure  condito,  alcuna  sede  ed  alcun
parametro, per valutare la concreta rilevanza dell'intervento  penale
e la sua relazione, anche temporale, con l'effetto della  distorsione
che apporta nel processo democratico.  A  fronte  di  tale  argomento
l'unica  obiezione  risulta  quella  relativa   alla   facolta'   del
legislatore di effettuare, una volte per tutte, ed in  astratto  tale
valutazione. Nondimeno, come gia' detto, la mancanza di  ogni  potere
del giudice penale di considerare i fatti in questione come di  lieve
entita' gia' da sola esclude che la astratta valutazione legislativa,
che  comprende  ogni  fatto,  si  presenti  come   un   criterio   di
discernimento satisfattivo.  Inoltre  la  giurisprudenza  della  CEDU
sembra rifiutare espressamente tale ipotesi e  nella  misura  in  cui
esige  che  l'impedimento  all'elezione  operi  nel  contesto  di  un
procedimento individualizzato (individual decision) e tendenzialmente
giurisdizionale,   essa,   infatti,   rifiuta   espressamente    ogni
restrizione dell'elettorato passivo ed attivo, che  non  coincida  la
astratta definizione dei consueti limiti costituzionali del suffragio
universale e che non passi attraverso un procedimento  dedicato  alla
sua valutazione, nel contesto del  quale  possa  essere  valutato  in
concreto il rilievo del tema impeditivo. 
    Non  e'  difficile  intravedere  nelle  pronunce  menzionate   la
preoccupazione di impedire che una chiara volonta' popolare, espressa
nel voto a dispetto  di  un  fatto  potenzialmente  impeditivo  della
elezione, sia poi posta nel nulla non nel contesto  del  procedimento
democratico, ma con il ricorso a leggi  che  neghino  il  diritto  ad
essere portatori della rappresentanza politica. Questa finalita'  e',
ovviamente,  piuttosto  lontana  dal  contesto  del  caso  in  esame,
nondimeno la struttura per  la  limitazione  dell'elettorato  passivo
prevista dalla CEDU pare sussistere come una garanzia generalizzata. 
    L'eccezione attinente alla  mancata  previsione  da  parte  della
legge Severino (e precisamente nel caso  da  parte  dell'art.  8  del
decreto legislativo n. 235/12) della possibilita' di  effettuale  una
valutazione di  proporzionalita'  tra  la  condanna  riportata  e  la
sospensione da pronunciarsi non pare quindi manifestamente infondata.
Quanto sopra non pare escluso dal fatto che l'aspetto  potenzialmente
piu' grave della violazione,  ovvero  la  mancata  previsione  di  un
procedimento per la  contestazione  dei  provvedimenti  sospensivi  o
decadenziali, sembra ovviato  dalla  gia'  citata  giurisprudenza  di
legittimita' che invece consente una opposizione giudiziaria. Infatti
la mera sussistenza di una sede formale per tale  opposizione,  senza
una previsione  di  parametri  decisionali  in  proposito,  non  pare
raggiungere un esito adeguatore, esito che pare possa pervenire  solo
da  un  intervento  correttivo  del  giudice  delle   leggi   o   del
legislatore. 
    Si  deve  notare  che  quest'ultimo,  nella   sua   generalissima
discrezionalita', potrebbe anche ricostruire la reale connessione tra
il processo penale e l'effetto  in  esame,  facendo  della  pronuncia
limitativa dell'elettorato un vero oggetto di tale processo. 
    Il secondo complesso di motivi per cui  e'  richiesto  il  rinvio
alla Corte costituzionale attiene al supposto conflitto  dell'art.  8
in questione, ed  in  generale  dell'intero  decreto  legislativo  n.
231/12 per quanto concerne gli enti  locali  e  le  regioni,  con  il
riparto di potesta' legislativa stato-regione. 
    La  tesi  di  parte  ricorrente  non  e'  quella,  senza   dubbio
semplicistica, che assume una intervenuta violazione  plateale  della
competenza legislativa regionale. Nonostante il testo  dell'art.  122
cost. assegni  alla  competenza  regionale  esclusiva  la  disciplina
dell'elettorato attivo e passivo per gli organi di vertice dell'Ente,
il ricorso prende atto della tesi  gia'  sostenuta  sul  punto  dalla
Consulta, per cui la normativa in  esame  concernerebbe  un  istituto
diverso  da  quelli  espressamente  indicati  nel  detto   art.   122
(eleggibilita' e incompatibilita'), ovvero la «incandidabilita'». 
    E'  nella   sostanza   gia'   considerata   la   tesi,   peraltro
espressamente ribadita in  questa  sede  anche  dalla  Avvocatura  di
Stato,  per  cui  la  normativa  in  esame  non  avrebbe  ragioni  di
regolazione dell'ordinario funzionamento  della  democrazia  su  base
nazionale, o locale, ma prevederebbe una limitazione straordinaria  e
speciale  dei  diritti   correlati   al   processo   elettorale,   ed
all'avvenuta elezione, per ragioni di  ordine  pubblico  e  sicurezza
pubblica, realizzando una estensione speciale, con altri mezzi, della
tutela di determinati beni (imparzialita' e buon andamento della  PA)
dotati in primo luogo di protezione penale. In sostanza pur ritenendo
preferibile la tesi della competenza regionale in materia ex art. 122
cost. il ricorrente si pone gia' nell'ottica per  cui,  in  relazione
alla ragione sostanziale che la giustifica, la normativa in questione
si  potrebbe  ben  ritenere  ricompresa  nell'area  della  competenza
legislativa  statale  ex  art.  117,  comma  2,  lettera   e)   della
Costituzione. 
    Nondimeno  parte  ricorrente  sostiene  che  la   disciplina   in
questione, anche ove  rientrasse  nella  competenza  esclusiva  dello
Stato, tuttavia, disciplinando materia incidente in modo estremamente
significativo  nell'ordinamento  regionale,  andando  addirittura  ad
incidere sulla possibilita' di permanenza in carica dei  suoi  organi
apicali elettivi, avrebbe potuto essere adottata, con tale espansione
sull'ordinamento regionale, solo previa attivazione di una  procedura
di leale consultazione, ovvero previo confronto in sede di conferenza
stato/regioni. In proposto  viene  citata  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 251/16 (relativa  alla  c.d.  riforma  Madia  della
dirigenza pubblica) con  la  quale  e'  stato  fissato  il  principio
suddetto proprio per le materie di competenza  statale  in  relazione
alle quali, tuttavia, vi sia una concreta  incidenza  della  ricaduta
della normativa in sede regionale. A  fronte  di  tale  argomento  e'
stato replicato che la riforma censurata per difetto di coordinamento
concerneva  un  diverso  e  minore  tema,  tema  tipico  del  diritto
amministrativo e  del  lavoro,  per  il  quale  l'interlocuzione  era
necessaria a differenza che nella materia in questione. Nondimeno non
consta con chiarezza come la minor incidenza della riforma in  allora
esaminata avrebbe reso necessaria la procedura  di  consultazione  in
conferenza stato-regioni, mentre un intervento  legislativo  tale  da
incidere sullo stesso vertice  politico  delle  regioni,  in  materia
almeno estremamente affine a quella che lo stato  riserva  alla  loro
potesta' esclusiva ex art.  122,  si  potrebbe  invece  prescinderne.
L'Avvocatura ha insistito nell'evidenziare che l'interlocuzione sulle
«ragioni» della incandidabilita'  sarebbe  «inutile»,  posto  che  le
regioni non avrebbero titolo formulare proposte sul punto, cosa sulla
quale si potrebbe anche convenire,  ma  residuerebbe  il  tema  degli
effetti,  e  della  discriminazione  delle   diverse   posizione   di
Presidente, assessore e consigliere sul quale forse  l'interlocuzione
sarebbe stata dotata di un suo spazio. 
    In ogni caso il preliminare vaglio del giudice  del  merito  deve
escludere la manifesta infondatezza della questione ed operare  anche
per il motivo detto per la remissione. 
    Resta quindi confermata la rilevanza e non manifesta infondatezza
di due eccezioni di incostituzionalita' sollevate. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il Tribunale, visto l'art. 1 della legge costituzionale n. 1  del
1948, 
    Dispone la sospensione del procedimento  e  la  remissione  degli
atti alla Corte costituzionale per l'esame delle  eccezioni  ritenute
rilevanti e non manifestamente infondate in parte motiva. 
      Genova, 4 dicembre 2019 
 
                      Il Presidente: Tuttobene 
 
 
                    Il Giudice estensore: Gibelli