N. 123 SENTENZA 26 maggio - 23 giugno 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Licenziamento disciplinare  -  Falsa  attestazione
  della presenza in servizio  mediante  alterazione  dei  sistemi  di
  rilevamento  o  con  altre  modalita'  fraudolente  -  Applicazione
  "comunque"  della  sanzione  disciplinare   del   licenziamento   -
  Denunciata irragionevolezza, violazione del diritto al lavoro,  del
  diritto  di  difesa,  nonche'  del  principio,  affermato  in   via
  convenzionale, alla tutela effettiva in  caso  di  licenziamento  -
  Inammissibilita' delle questioni. 
- Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 55-quater, comma 1,
  lettera a). 
- Costituzione, artt. 3, primo  comma,  4,  primo  comma,  24,  primo
  comma, 35, primo comma, e 117, primo comma; Carta sociale  europea,
  art. 24. 
(GU n.26 del 24-6-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  55-quater,
comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165
(Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle  dipendenze  delle
amministrazioni pubbliche),  inserito  dall'art.  69,  comma  1,  del
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4
marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione  della  produttivita'
del lavoro pubblico e di efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche
amministrazioni), promosso dal Tribunale ordinario di Vibo  Valentia,
in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente  tra  L.
C. e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con ordinanza
del 13 marzo 2019, iscritta al n. 199 del registro ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  46,  prima
serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito  il  Giudice  relatore  Stefano  Petitti  nella  camera  di
consiglio del 20 maggio 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 13 marzo 2019, il  Tribunale  ordinario  di
Vibo Valentia, in  funzione  di  giudice  del  lavoro,  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  55-quater,  comma
1, lettera a), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni pubbliche),  inserito  dall'art.  69,  comma  1,  del
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4
marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione  della  produttivita'
del lavoro pubblico e di efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche
amministrazioni), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4,  primo
comma, 24, primo comma, 35, primo comma, e 117,  primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo  in  relazione  all'art.  24  della  Carta
sociale europea, riveduta, con  annesso,  fatta  a  Strasburgo  il  3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  9  febbraio
1999, n. 30. 
    Il Tribunale di Vibo Valentia sospetta  che  la  norma  censurata
violi gli evocati parametri nella parte in  cui  stabilisce  che,  in
caso di falsa attestazione della presenza in  servizio  del  pubblico
dipendente, mediante alterazione dei sistemi  di  rilevamento  o  con
altre   modalita'   fraudolente,   la   sanzione   disciplinare   del
licenziamento si applichi «comunque». 
    2.- Il rimettente  espone  che  il  giudizio  principale  ha  per
oggetto l'impugnazione  del  licenziamento  disciplinare  di  L.  C.,
dipendente civile del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti,
in servizio presso la Capitaneria di Porto di Vibo  Valentia  Marina,
sanzione comminata al lavoratore il 7 novembre 2018  per  avere  egli
falsamente attestato la  sua  presenza  in  ufficio  durante  quattro
giorni del mese di settembre 2018. 
    2.1.- In punto di rilevanza delle questioni,  il  giudice  a  quo
osserva che l'illecito addebitato a  L.  C.  integra  la  fattispecie
tipica di cui all'art. 55-quater, comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.
165 del 2001, poiche' il materiale fotografico acquisito al  processo
dimostra che il dipendente, per quattro  giorni,  si  e'  allontanato
dalla  sede  di  servizio  omettendo  di   timbrare   il   cartellino
marcatempo,   per   poi   rientrare   in   ufficio   e    registrarsi
definitivamente in uscita alcune ore dopo. 
    Le  modalita'  fraudolente   della   condotta   del   lavoratore,
evidenziate  dall'inconsueto  posizionamento  della  sua  autovettura
all'esterno   dell'area   portuale,   renderebbero   applicabile   la
disposizione dell'art. 55-quater, comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.
165 del 2001,  conferendo  rilevanza  alla  questione  del  carattere
automatico del licenziamento disciplinare, per come  tipizzato  dalla
norma. 
    2.2.- In punto di non manifesta infondatezza delle questioni,  il
giudice a quo si dice certo che l'art. 55-quater,  comma  1,  lettera
a), del d.lgs. n. 165  del  2001  abbia  introdotto  «un  automatismo
sanzionatorio», poiche' «[i]l tenore letterale della  proposizione  -
e, piu' segnatamente, l'impiego dell'avverbio "comunque"  -  preclude
interpretazioni adeguatrici». 
    Proprio con riguardo al tenore  letterale  della  norma,  laddove
essa  stabilisce  che  il  licenziamento  disciplinare  «si   applica
comunque», il rimettente  considera  impraticabile  l'interpretazione
adeguatrice tramite la quale  la  Corte  di  cassazione  assicura  il
sindacato di proporzionalita' sulla sanzione espulsiva. 
    Atteso che «[l]'utilizzo del modo verbale indicativo e del  tempo
presente  -   in   funzione   deontica   -   unitamente   all'impiego
dell'avverbio  "comunque"  inibiscono   letture   alternative   della
disposizione», l'art. 55-quater, comma 1, lettera a), del  d.lgs.  n.
165  del  2001  contemplerebbe,  secondo  il  giudice  a   quo,   una
fattispecie automatica di licenziamento disciplinare, non sindacabile
dal giudice dell'impugnazione sotto il profilo della proporzionalita'
in concreto. 
    Ne risulterebbe violato l'art. 3, primo comma, Cost.,  in  quanto
il principio di eguaglianza e ragionevolezza  esige  che  sia  sempre
conservata all'organo di disciplina,  e  successivamente  al  giudice
dell'impugnazione, la valutazione concreta di proporzionalita'  della
sanzione. 
    Sarebbero violati anche gli artt. 4, primo  comma,  e  35,  primo
comma, Cost., in quanto la preclusione del sindacato  giurisdizionale
di congruita' del licenziamento disciplinare non potrebbe conciliarsi
con la tutela costituzionale dell'effettivita' del diritto al lavoro. 
    Sarebbe altresi' violato l'art. 24, primo comma, Cost., in quanto
l'impossibilita' per il  giudice  dell'impugnazione  di  vagliare  la
congruita' del licenziamento in relazione al coefficiente psicologico
e alla gravita' oggettiva della condotta, oltre  che  agli  eventuali
precedenti disciplinari del lavoratore, impedirebbe a quest'ultimo di
esercitare  pienamente  il  diritto  di  difesa  in  giudizio,   onde
contestare la proporzionalita' della sanzione espulsiva e  ottenerne,
se del caso, la riduzione a misura conservativa. 
    Sarebbe  infine  violato  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, che garantisce  il
diritto  del  lavoratore  ad  una  tutela  effettiva   in   caso   di
licenziamento, tutela in realta' vanificata dalla  previsione  di  un
automatismo insindacabile. 
    Secondo il Tribunale  di  Vibo  Valentia,  occorrerebbe  pertanto
l'intervento   del   giudice   delle   leggi,   «affinche'    rimuova
l'automatismo   denunziato,   ripristinando   la   possibilita'    di
individualizzazione    della    risposta    sanzionatoria,    insieme
all'integrale espandibilita' del sindacato giudiziale». 
    3.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  che  ha
chiesto  dichiararsi  l'inammissibilita'  delle   questioni   e,   in
subordine, l'infondatezza. 
    Le questioni sarebbero inammissibili per difetto  di  motivazione
sulla rilevanza, atteso che la gravita'  della  condotta  di  specie,
reiterata  e  fraudolenta,  per  come  descritta  nell'ordinanza   di
rimessione, comunque non lascerebbe  spazio  ad  una  valutazione  di
eccessivita' del licenziamento disciplinare. 
    Ove la Corte lo ritenesse,  dovrebbe  ordinarsi  la  restituzione
degli atti al giudice a  quo,  «perche'  si  pronunzi  motivatamente,
tenuto conto di quanto precede, sul requisito della  rilevanza  della
questione stessa ai fini del decidere». 
    Nel merito, alla difesa statale le questioni appaiono  infondate,
perche' spetterebbe al legislatore  tipizzare  discrezionalmente  gli
illeciti  disciplinari  la  cui  gravita'  sia  tale  da  indurre  la
cessazione automatica del rapporto di lavoro. 
    L'Avvocatura dello Stato auspica,  peraltro,  che  questa  Corte,
qualora non reputi legittima la norma censurata «nella sua  accezione
letterale piu' rigorosa», ne indichi un'interpretazione  adeguatrice,
«sulla falsariga di quanto ritenuto da talune decisioni  della  Corte
di cassazione». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario  di  Vibo  Valentia,  in  funzione  di
giudice  del  lavoro,  ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 1, lettera a), del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito
dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27  ottobre  2009,  n.
150 (Attuazione della legge 4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche   amministrazioni),   in
riferimento agli artt. 3, primo comma,  4,  primo  comma,  24,  primo
comma, 35, primo comma,  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 24 della  Carta  sociale  europea,
riveduta,  con  annesso,  fatta  a  Strasburgo  il  3  maggio   1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30. 
    La norma censurata violerebbe gli evocati parametri  nella  parte
in cui stabilisce che, in caso di falsa attestazione  della  presenza
in servizio del pubblico dipendente, mediante alterazione dei sistemi
di  rilevamento  o  con  altre  modalita'  fraudolente,  la  sanzione
disciplinare del licenziamento si applichi «comunque». 
    1.1.-  Il  tenore  letterale  della   disposizione,   con   l'uso
dell'avverbio   «comunque»,    impedirebbe    ogni    interpretazione
adeguatrice, delineando un  automatismo  sanzionatorio  contrario  ai
principi di ragionevolezza ed effettivita' della  tutela  del  lavoro
nonche' al diritto di difesa, i quali esigono la  verificabilita'  in
giudizio   della   concreta   proporzionalita'   del    licenziamento
disciplinare. 
    2.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  intervenuto  in
giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, ha  eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di  motivazione  sulla
rilevanza, non avendo il giudice a quo  indicato  specifiche  ragioni
idonee ad attenuare la gravita' della condotta del dipendente si'  da
rendere concreta  l'eventualita'  di  un  licenziamento  disciplinare
sproporzionato. 
    2.1.- L'eccezione e' infondata. 
    Essa tradisce un'inversione della sequenza  logica,  poiche'  non
considera che il giudice a quo sarebbe ammesso ad individuare profili
attenuanti della gravita' dell'illecito disciplinare solo se,  ed  in
quanto,  per  tale  illecito  non  fosse  previsto  un  licenziamento
automatico, cio' che costituisce, appunto, l'oggetto della  questione
incidentale. 
    Vale  anche  qui  l'argomento  espresso  da  questa   Corte   nel
respingere  un'analoga  eccezione  di   inammissibilita',   sollevata
dall'Avvocatura  a  proposito   della   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma  5,  del  decreto  legislativo  23
febbraio 2006, n. 109 (Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei
magistrati, delle relative sanzioni e della  procedura  per  la  loro
applicabilita',  nonche'  modifica  della  disciplina  in   tema   di
incompatibilita', dispensa dal servizio e  trasferimento  di  ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f),  della
legge 25 luglio 2005, n. 150), nella parte in cui prevede la sanzione
obbligatoria  della  rimozione  del  magistrato  condannato  in  sede
disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, comma 1,  lettera  e),
del medesimo decreto legislativo. 
    In  detta  occasione,  e'  stato  evidenziato  come  sia  proprio
l'automatismo legislativo nella previsione della  sanzione  espulsiva
ad impedire la valutazione in concreto  della  gravita'  oggettiva  e
soggettiva  dei  fatti  addebitati,  «valutazione  che,  invece,  ben
potrebbe essere compiuta ove tale automatismo fosse rimosso da questa
Corte, in accoglimento della prospettata  questione  di  legittimita'
costituzionale» (sentenza n. 197 del 2018). 
    3.- Le questioni sollevate dal Tribunale di  Vibo  Valentia  sono
inammissibili per un differente ordine di ragioni. 
    3.1.-  In  linea  generale,  il  principio   di   eguaglianza   e
ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  Cost.  esige  che  la  sanzione
disciplinare, soprattutto quella massima di carattere espulsivo,  sia
sempre suscettibile di un giudizio di proporzionalita'  in  concreto,
sicche'  la  relativa  applicazione  non  puo'   essere   di   regola
automatica, ma deve essere mediata dalle  valutazioni  di  congruita'
cui e' deputato il procedimento disciplinare e, in secondo luogo,  il
sindacato giurisdizionale. 
    Nella  giurisprudenza  costituzionale  questo   orientamento   di
principio si e' manifestato fin dalla sentenza n. 971 del 1988,  che,
preannunciata dal monito contenuto nella sentenza n. 270 del 1986, ha
dichiarato  l'illegittimita'   costituzionale   delle   norme   sulla
destituzione  di  diritto  del  pubblico   dipendente,   segnatamente
dell'art. 85, primo comma, lettera a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n.
3 (Testo  unico  delle  disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli
impiegati civili dello Stato). 
    Per  la  sua  portata  generale,  innestato  sul   principio   di
eguaglianza  e  ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  Cost.,   questo
orientamento resta insensibile al  nomen  iuris  che  il  legislatore
variamente  adopera  per  identificare  una  sanzione  espulsiva   di
carattere automatico (sentenza n. 197  del  1993);  esso  ha  trovato
applicazione anche nell'ambito degli ordinamenti  professionali,  per
la destituzione o radiazione di diritto dei notai (sentenza n. 40 del
1990), dottori commercialisti (sentenza n. 158 del 1990),  ragionieri
e periti commerciali (sentenza n. 2 del 1999), e ha  pure  riguardato
gli appartenenti all'Arma dei carabinieri (sentenza n. 363 del  1996)
ed il personale militare in genere (sentenza n. 268 del 2016). 
    3.1.1.- L'illegittimita' di principio degli automatismi espulsivi
non esclude tuttavia che il legislatore possa  configurare  eccezioni
relative a casi soggettivamente e funzionalmente peculiari, nei quali
il diritto del  singolo  alla  gradualita'  sanzionatoria  receda  di
fronte alla necessita' di tutelare interessi pubblici essenziali. 
    Nella  rammentata  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del  2006,  il  diritto  del
singolo magistrato alla gradualita' sanzionatoria e' stato  giudicato
recessivo di fronte  all'esigenza  di  ripristinare  la  fiducia  dei
consociati  nel  sistema  giudiziario,  scossa  dall'evidenza  di  un
illecito disciplinare di indeclinabile gravita' (sentenza n. 197  del
2018). 
    Altra  eccezione  la  Corte  ha  individuato  nel   giudizio   di
legittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, lettera c), del
d.P.R.  25  ottobre  1981,  n.  737  (Sanzioni  disciplinari  per  il
personale    dell'Amministrazione    di    pubblica    sicurezza    e
regolamentazione dei relativi procedimenti), norma che, prevedendo la
destituzione    di     diritto     dell'appartenente     ai     ruoli
dell'Amministrazione della pubblica sicurezza cui sia stata applicata
una misura di sicurezza  personale,  attribuisce  preminente  rilievo
alla  specificita'  di   funzioni   di   salvaguardia   dei   diritti
fondamentali, le quali non possono rimanere affidate ad  un  soggetto
del quale sia stata accertata la pericolosita' sociale  (sentenza  n.
112 del 2014). 
    Talora, l'eccezione  e'  giustificata  dalla  complessita'  della
fattispecie disciplinare,  che,  ad  esempio,  include  una  base  di
recidiva,  come  nella  dichiarata  legittimita'  della  destituzione
obbligatoria prevista dall'art. 147, comma 2, della legge 16 febbraio
1913,  n.  89  (Sull'ordinamento  del  notariato  e   degli   archivi
notarili), a carico del notaio il  quale,  gia'  condannato  per  due
volte alla sospensione, commetta un nuovo illecito disciplinare entro
il decennio (sentenza n. 133 del 2019). 
    3.2.- L'art. 55-quater, comma 1,  del  d.lgs.  n.  165  del  2001
stabilisce che «[f]erma la disciplina in tema  di  licenziamento  per
giusta causa o per giustificato  motivo  e  salve  ulteriori  ipotesi
previste dal contratto collettivo, si applica  comunque  la  sanzione
disciplinare del licenziamento nei seguenti casi [...]». 
    Segue un'elencazione  di  fattispecie  tipiche,  la  prima  delle
quali,  distinta  dalla  lettera  a),  e'   descritta   come   «falsa
attestazione della presenza in servizio, mediante  l'alterazione  dei
sistemi  di  rilevamento  della  presenza  o  con   altre   modalita'
fraudolente [...]». 
    A norma del comma 1-bis dell'art. 55-quater,  inserito  dall'art.
1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 20  giugno  2016,  n.
116,  recante   «Modifiche   all'articolo   55-quater   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell'articolo  17,  comma
1, lettera s), della legge 7 agosto  2015,  n.  124,  in  materia  di
licenziamento disciplinare», «[c]ostituisce falsa attestazione  della
presenza in servizio qualunque modalita' fraudolenta posta in essere,
anche avvalendosi di  terzi,  per  far  risultare  il  dipendente  in
servizio o trarre in inganno l'amministrazione  presso  la  quale  il
dipendente presta attivita' lavorativa circa il rispetto  dell'orario
di lavoro dello stesso [...]». 
    Aggiunto dall'art. 69 del d.lgs. n. 150 del 2009, attuativo della
legge  4  marzo  2009,  n.  15   (Delega   al   Governo   finalizzata
all'ottimizzazione della produttivita' del  lavoro  pubblico  e  alla
efficienza e  trasparenza  delle  pubbliche  amministrazioni  nonche'
disposizioni  integrative  delle  funzioni  attribuite  al  Consiglio
nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti),  l'art.
55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001 si inscrive nel piano di riforma
che  il  legislatore  del  2009  ha  orientato  al   recupero   della
produttivita'  del  lavoro  pubblico,  obiettivo   perseguito   anche
mediante  il  contrasto  del  fenomeno   dell'assenteismo;   progetto
riformistico affidato ad  un'ossatura  di  norme  legali  imperative,
destinate  a   prevalere   sulle   clausole   di   fonte   collettiva
eventualmente  difformi,  secondo  un  modello   regolativo   sovente
definito in dottrina  come  "rilegificazione"  del  pubblico  impiego
privatizzato. 
    Le stesse disposizioni dell'art. 55-quater sono annoverate tra le
«norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli  1339  e
1419, secondo comma, del codice civile» (art. 55 del  d.lgs.  n.  165
del 2001, come sostituito dall'art. 68 del d.lgs. n. 150  del  2009),
sicche' il contratto collettivo  le  cui  clausole  fossero  da  esse
difformi  sarebbe  nullo  in  parte  qua  e  verrebbe  integrato  per
inserzione automatica. 
    3.2.1.- Gia' all'indomani della riforma del 2009, la dottrina  si
e'  interrogata  sul  valore  esegetico   dell'avverbio   «comunque»,
impiegato dal nuovo art.  55-quater  del  d.lgs.  n.  165  del  2001,
maturando l'opinione, largamente condivisa, che questo dato letterale
non possa di per se' definire  un  automatismo  espulsivo,  contrario
alla    giurisprudenza    costituzionale    sulla    proporzionalita'
sanzionatoria. 
    Nel  senso  dell'esclusione  di  un  automatismo  espulsivo   gli
interpreti hanno valorizzato la circostanza che l'art. 55 del  d.lgs.
n. 165 del 2001,  pur  dopo  aver  attribuito,  nel  comma  1,  forza
imperativa  alle  disposizioni  dell'art.   55-quater,   continui   a
richiamare, nel comma 2, la necessaria  applicazione  dell'art.  2106
cod. civ., e quindi il  canone  generale  di  proporzionalita'  delle
sanzioni disciplinari rispetto alla «gravita' dell'infrazione». 
    Si e' quindi ritenuta  possibile  e  doverosa  un'interpretazione
costituzionalmente  orientata  dell'art.  55-quater,  che,  ferma  la
spettanza alle amministrazioni datoriali del potere di recesso  nelle
fattispecie disciplinari  tipizzate  dal  legislatore,  e  fermo  che
questo potere spetta all'amministrazione  «comunque»,  anche  laddove
non sia previsto o  sia  limitato  dalla  contrattazione  collettiva,
lasci tuttavia al giudice dell'impugnazione il potere di sindacare la
concreta  proporzionalita'  del   licenziamento,   verificandone   la
qualita' di "giusta sanzione" alla luce dell'art. 2106 cod. civ. 
    Questa interpretazione adeguatrice  e'  stata  accolta  e  si  e'
consolidata in "diritto vivente" presso la sezione lavoro della Corte
di  cassazione,  la  cui  giurisprudenza  e'  univoca  nel   riferire
l'avverbio «comunque», impiegato dall'art. 55-quater, alla dialettica
interna tra le fonti del rapporto di lavoro, in  esso  rinvenendo  un
ostacolo imperativo a qualunque limitazione di fonte  pattizia  circa
la titolarita' astratta del potere datoriale di  licenziamento  nelle
fattispecie tipizzate dal legislatore, ma non anche un impedimento al
sindacato giurisdizionale sull'esercizio concreto e proporzionato del
potere medesimo (ex multis, sentenze 11 settembre 2018, n. 22075,  16
aprile 2018, n. 9314, 14 dicembre 2016, n. 25750, 1°  dicembre  2016,
n. 24574, 19 settembre 2016, n. 18326, 25 agosto 2016, n.  17335,  24
agosto 2016, n. 17304, e 26 gennaio 2016, n. 1351). 
    Escluso  che  la  tipizzazione  legale   delle   fattispecie   di
licenziamento disciplinare implichi un automatismo  refrattario  alla
verifica giurisdizionale di congruita', la sezione lavoro della Corte
di cassazione ad essa ricollega un'inversione dell'onere della prova,
ponendo a carico del dipendente, autore materiale del  fatto  tipico,
l'onere di provare la sussistenza di elementi fattuali  di  carattere
attenuante o esimente, idonei a superare  la  presunzione  legale  di
gravita'  dell'illecito  (sentenze  11  luglio  2019,  n.  18699,  11
settembre 2018, n. 22075, 19 settembre 2016, n. 18326,  e  24  agosto
2016, n. 17304). 
    3.3.-  Il  Tribunale  di  Vibo  Valentia  mostra   di   conoscere
l'orientamento della giurisprudenza di legittimita', e  ne  cita  gli
estremi nell'ordinanza di rimessione, ma, riguardo ad esso, si limita
ad affermare che l'interpretazione adeguatrice praticata  dall'organo
nomofilattico e' antiletterale, e non puo' essere quindi seguita,  in
rapporto alla dizione dell'art. 55-quater,  a  tenore  del  quale  la
sanzione disciplinare del licenziamento, nelle  ipotesi  tipiche,  si
applica «comunque». 
    Nell'assumere  questa  posizione,  tuttavia,  il  giudice  a  quo
enfatizza un singolo dato letterale, per  quanto  appariscente,  come
evocativo  di  un'applicazione  indiscriminata  e  insindacabile  del
licenziamento disciplinare. 
    Il rimettente non mette a confronto questo dato letterale con gli
ulteriori  profili  del  quadro  normativo,  pur   illustrati   dalla
giurisprudenza  di  legittimita'  e,  prima  di  essa,   dall'analisi
dottrinale. 
    In particolare, il giudice a  quo  non  considera  la  permanenza
nell'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche dopo  la  riforma  del
2009, di un testuale richiamo all'art. 2106 cod. civ., e cioe' di  un
rinvio diretto al canone generale di proporzionalita' delle  sanzioni
disciplinari. 
    Il Tribunale di Vibo  Valentia  omette  cosi'  di  verificare  la
persuasivita'   della    corrente    interpretazione,    la    quale,
confrontandosi con la presenza dell'avverbio «comunque» nella dizione
dell'art. 55-quater, ne coordina il significato col testuale richiamo
all'art. 2106 cod. civ. attraverso il riferimento  dell'imperativita'
espressa  da  tale  avverbio  al  rapporto  tra  legge  e   contratto
collettivo, fermo il sindacato giurisdizionale  di  congruita'  della
sanzione;  con  un   risultato   interpretativo   coerente   con   il
tradizionale sfavore manifestato dalla giurisprudenza di questa Corte
rispetto agli automatismi espulsivi. 
    Nessuna  specifica  attenzione  il  giudice  a  quo  rivolge  poi
all'orientamento di legittimita' che interpreta la tipizzazione delle
fattispecie di  licenziamento  di  cui  all'art.  55-quater  come  un
dispositivo  di  inversione  dell'onere  della  prova  a  carico  del
dipendente autore materiale del fatto  tipico,  inversione  collegata
alla paradigmatica gravita' di condotte,  tra  queste  l'assenteismo,
percepite dall'intera comunita' come odiose. 
    3.3.1.- Per la  giurisprudenza  piu'  recente  di  questa  Corte,
l'effettiva sostenibilita' dell'interpretazione  adeguatrice  che  il
giudice a quo abbia consapevolmente escluso  sulla  base  del  tenore
letterale  della  disposizione  censurata  attiene  al  merito  della
questione   di   legittimita'   costituzionale   e   non   alla   sua
ammissibilita' (sentenze n. 11 del 2020, n. 189 e n. 12 del 2019,  n.
135 e n. 15 del 2018, n. 194, n. 83 e n. 42  del  2017,  n.  221  del
2015). 
    La  Corte  ha  tuttavia  osservato  che,  per  essere   realmente
consapevole, l'esclusione dell'interpretazione adeguatrice  da  parte
del giudice a quo deve fondarsi su un esame «accurato  ed  esaustivo»
delle   alternative    poste    a    disposizione    dal    dibattito
giurisprudenziale (sentenza n. 253 del  2017):  in  difetto  di  tale
esame, la questione di legittimita' costituzionale e' inammissibile. 
    L'inidoneita' dell'esame operato dal Tribunale di Vibo Valentia a
proposito   delle   ragioni    giustificative    dell'interpretazione
adeguatrice di matrice  dottrinale  e  nomofilattica  e'  tanto  piu'
pregnante in quanto il giudice a  quo  ha  sollevato  l'incidente  di
costituzionalita' per promuovere un assetto normativo coincidente con
quello sotteso all'interpretazione da lui ricusata; cioe' un  assetto
normativo che assicuri il sindacato  giurisdizionale  sulla  concreta
proporzionalita' del licenziamento disciplinare ex art. 55-quater del
d.lgs. n. 165 del 2001. 
    Del resto, questa Corte ha escluso di  poter  essere  chiamata  a
scrutinare una norma di legge in un'attribuzione di significato  che,
ad  avviso  del  giudice  a  quo,  la  renderebbe  costituzionalmente
illegittima, quando  invece  la  giurisprudenza  prevalente  fornisce
della medesima norma una lettura conforme all'assetto  auspicato  dal
rimettente (sentenza n. 21 del 2013). 
    Per  vero,   e'   improprio   un   utilizzo   dell'incidente   di
costituzionalita'  finalizzato  ad  ottenere  lo   stesso   risultato
normativo prodotto dall'esegesi giurisprudenziale  corrente,  sebbene
da questa il giudice a quo possa dissentire sulla base di un elemento
letterale della disposizione, trattandosi pur sempre di un  risultato
normativo «conseguibile, e gia' conseguito,  in  via  interpretativa»
(ordinanza n. 97 del 2017). 
    4.- Alla luce delle considerazioni che  precedono,  le  questioni
devono essere dichiarate inammissibili. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 1, lettera a), del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito
dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27  ottobre  2009,  n.
150 (Attuazione della legge 4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), sollevate,
in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, primo comma,  24,  primo
comma, 35, primo comma,  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 24 della  Carta  sociale  europea,
riveduta,  con  annesso,  fatta  a  Strasburgo  il  3  maggio   1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30,  dal
Tribunale ordinario di Vibo Valentia,  in  funzione  di  giudice  del
lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                     Stefano PETITTI, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2020. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA