N. 137 SENTENZA 27 maggio - 6 luglio 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale -  Arresto  facoltativo  in  flagranza  per  uno  dei
  delitti di cui all'art. 381,  comma  2,  del  codice  di  procedura
  penale  -  Adozione  di  misura  cautelare  personale  in  sede  di
  convalida - Requisiti -  Possibilita'  di  disporre  l'applicazione
  della misura  coercitiva  anche  in  deroga  agli  ordinari  limiti
  edittali di pena - Denunciata disparita'  di  trattamento,  nonche'
  violazione dei principi di  proporzionalita'  e  di  inviolabilita'
  della  liberta'  personale  -  Non  fondatezza  delle  questioni  -
  Auspicato intervento di coordinamento del legislatore. 
- Codice di procedura penale, artt. 391, comma 5, e 280, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3 e 13. 
(GU n.28 del 8-7-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  280,
comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura penale, promosso dal
Tribunale  ordinario  di  Firenze  nel  procedimento   di   convalida
dell'arresto di A. B., con ordinanza del 7 dicembre 2018, iscritta al
n. 128 del  registro  ordinanze  2019  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 37,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito  il  Giudice  relatore  Stefano  Petitti  nella  camera  di
consiglio del 26 maggio 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 27 maggio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 7 dicembre 2018, il Tribunale ordinario  di
Firenze, in  composizione  monocratica,  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5,
del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt.  3  e  13
della Costituzione. 
    In particolare, l'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e' censurato
nella parte in cui prevede che quando l'arresto e' stato eseguito per
uno dei delitti indicati nell'art. 381,  comma  2,  cod.  proc.  pen.
l'applicazione della misura cautelare degli  arresti  domiciliari  e'
disposta anche al di fuori dei limiti di pena  previsti  dagli  artt.
274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen. L'art. 280, comma  1,
cod. proc. pen. e' a sua volta censurato  nella  parte  in  cui,  nel
prevedere  i  requisiti  di  applicazione  delle   misure   cautelari
coercitive, fa salvo il disposto dell'art. 391 cod. proc. pen. 
    1.1.- Il rimettente espone  che  A.  B.  e'  stato  arrestato  in
flagranza ai sensi dell'art. 381,  comma  2,  cod.  proc.  pen.  dopo
essere  stato  sorpreso,  a  breve  distanza   di   tempo   dal   suo
allontanamento dai locali del Pronto Soccorso  dell'Ospedale  di  C.,
con beni di modesto valore appartenenti alla dott. D. P. 
    In sede  di  udienza  di  convalida,  il  giudice  rimettente  ha
convalidato l'arresto dopo  aver  qualificato  il  fatto  come  furto
aggravato perche' commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti
pubblici, ai sensi dell'art. 625, primo comma, numero 7), del  codice
penale. Richiesto dal pubblico ministero di applicare  nei  confronti
del prevenuto la misura  della  custodia  cautelare  in  carcere,  il
giudice rimettente ha ritenuto sussistenti le esigenze  cautelari  di
cui all'art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., tenuto  conto
che l'arrestato era recidivo ed era pertanto da ritenersi concreto  e
attuale il rischio di reiterazione del  reato  o  di  commissione  di
reati della stessa specie. Identificata nella  misura  degli  arresti
domiciliari quella piu' idonea  a  soddisfare  le  predette  esigenze
cautelari e meglio commisurata all'entita' del fatto, il  giudice  ha
determinato, ai sensi e per gli  effetti  dell'art.  278  cod.  proc.
pen., un massimo edittale per il reato ascritto al prevenuto  pari  a
tre anni di  reclusione,  a  seguito  di  bilanciamento  compiuto  in
termini di equivalenza  ai  sensi  dell'art.  69  cod.  pen.  con  la
circostanza attenuante di cui all'art. 62, primo  comma,  numero  4),
cod. pen. 
    Alla luce di cio',  il  giudice  rimettente  ha  preso  atto  che
l'applicazione  della  misura  custodiale  domiciliare,  di  per  se'
impedita dai piu' elevati limiti edittali  contenuti  nell'art.  274,
comma 1, lettera c), cod.  proc.  pen.  (pena  della  reclusione  non
inferiore nel massimo a quattro anni) e nell'art. 280, comma 1,  cod.
proc. pen. (pena della reclusione superiore nel massimo a tre  anni),
era tuttavia possibile  nel  caso  di  specie  in  virtu'  di  quanto
disposto dall'art. 391, comma 5, cod. proc. pen.,  secondo  il  quale
«[q]uando l'arresto e' stato eseguito per uno  dei  delitti  indicati
dall'art. 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti  per  i  quali  e'
consentito anche fuori dei casi di  flagranza,  l'applicazione  della
misura e' disposta anche al di fuori  dei  limiti  di  pena  previsti
dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280». 
    2.- Il meccanismo derogatorio derivante dal combinato disposto di
cui agli artt. 280, comma 1, e 391,  comma  5,  cod.  proc.  pen.  e'
ritenuto dal giudice rimettente in contrasto con gli  artt.  3  e  13
della Costituzione. 
    Innanzi tutto, esso darebbe luogo a una irragionevole  disparita'
di trattamento poiche' uno stesso fatto, come nel caso di  specie  un
furto, o qualsiasi altro delitto per cui l'art. 381,  comma  2,  cod.
proc.  pen.  prevede  l'arresto   facoltativo   in   flagranza,   «e'
suscettibile di fondare o meno l'applicazione di una misura cautelare
coercitiva o addirittura custodiale a seconda che sia  intervenuto  o
meno un arresto in flagranza», dipendendo tale esito da fattori anche
casuali e che comunque denotano gravi indizi di colpevolezza a carico
dell'arrestato  ma  che  non  attengono,  invece,  al  profilo  della
gravita' del fatto di reato o della  pericolosita'  del  suo  autore.
Cio' si tradurrebbe in un difetto di  proporzionalita'  della  misura
cautelare perche' «ad incidere sull'applicabilita' della misura e' un
dato (l'arresto) estraneo all'entita'  del  fatto  (e  alla  sanzione
irrogabile) e alle esigenze cautelari». A contrastare con  l'art.  13
Cost. sarebbe anche il fatto che il giudice della convalida svolge un
apprezzamento limitato alla verifica dei presupposti  per  l'arresto,
con  la  conseguenza  che  una  simile  prospettiva   solo   parziale
acquisirebbe indebitamente rilievo anche ai fini dell'applicazione di
misure cautelari. Ad essere violato  sarebbe  altresi'  il  principio
costituzionale della riserva di legge in tema  di  limitazione  della
liberta' personale, perche' per effetto  delle  norme  censurate  «un
atto della Polizia Giudiziaria, soggetto a verifica  di  legittimita'
ma comunque discrezionale, finisce per effetto della citata deroga ex
art. 391 co. 5 c.p.p. per incidere non solo sulla  limitazione  della
liberta'  personale  connessa  alla  misura  precautelare,  ma  sulla
concreta applicabilita' successiva di una misura cautelare coercitiva
e dunque limitativa della liberta' personale». 
    2.1.- Distinto profilo di censura avanzato dal giudice rimettente
e' poi quello che investe gli artt. 280, comma 1,  e  391,  comma  5,
cod. proc. pen. per il fatto che la deroga in essi contenuta  darebbe
luogo ad «evidenti disparita' di  trattamento»,  che  discenderebbero
dal fatto che gli autori dei delitti di cui all'art.  381,  comma  2,
cod. proc. pen., tutti  puniti  con  la  pena  della  reclusione  non
inferiore nel massimo a tre anni, si troverebbero, in sede di udienza
di convalida, a subire ai fini cautelari un regime  piu'  sfavorevole
rispetto ai soggetti accusati dei delitti previsti  in  via  generale
dall'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., puniti con pene piu'  severe
(delitti non colposi, consumati o  tentati,  per  i  quali  la  legge
stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre  anni
ovvero delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena  della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni). 
    Tale  disparita'  di  trattamento  emergerebbe,  in  particolare,
laddove venga in rilievo  un  delitto  consumato  per  il  quale  sia
previsto un massimo edittale superiore a tre  anni,  ma  inferiore  a
cinque anni di reclusione (come nel caso di violenza privata ex  art.
610 cod. pen. o cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5,  d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309, recante il Testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati  di  tossicodipendenza),  in
relazione al quale sara' possibile l'arresto  ma  non  l'applicazione
della custodia cautelare in carcere. Altra ipotesi addotta a sostegno
dell'incostituzionalita' e' poi quella relativa alla  fattispecie  di
un delitto consumato per il quale sia previsto  un  massimo  edittale
superiore a tre anni ma inferiore a quattro anni (come nel caso della
cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5, del d.P.R. n.  309  del
1990, ove ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62, primo
comma, numero 4, cod. pen.), per il quale sara'  possibile  l'arresto
ma non l'applicazione di misure custodiali neppure domiciliari. Altri
casi da cui ricavare la medesima disparita' di trattamento  sarebbero
poi quelli consistenti in taluni reati di cui all'art. 381, comma  2,
cod. proc. pen. (come il furto aggravato di cui  all'art.  625,  cod.
pen.), ma integrati nella  sola  forma  tentata,  per  cui  l'arresto
sarebbe possibile ai sensi del comma 1 dello stesso articolo  ma  non
opererebbe la deroga di cui all'art. 391, comma 5, cod.  proc.  pen.,
ovvero in taluni reati sempre integrati nella forma  tentata  -  come
nel caso di tentati furti aggravati ex art. 625, primo comma,  numero
2, prima ipotesi, cod. pen. o ex art. 625, primo  comma,  numero  5),
cod. pen., senza che ricorra l'attenuante di cui all'art.  62,  primo
comma, numero 4), cod. pen -, per i quali l'arresto  e'  obbligatorio
secondo quanto prevede l'art. 380  cod.  proc.  pen.  senza  che  sia
applicabile  la  misura  della   custodia   cautelare   in   carcere,
riferendosi  il  censurato  art.  391,  comma  5,  cod.  proc.   pen.
unicamente agli specifici delitti per cui l'art. 381, comma  2,  cod.
proc. pen. prevede l'arresto facoltativo in flagranza. 
    3.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni vengano  dichiarate  inammissibili  e,  in
subordine, infondate. 
    L'Avvocatura ritiene le questioni inammissibili perche' prive del
requisito  della  rilevanza,  in  quanto  il  giudice  rimettente  ha
proceduto alla convalida dell'arresto  e,  senza  pronunciarsi  sulla
richiesta di misura cautelare, ha  ordinato  l'immediata  liberazione
dell'arrestato  all'atto  di  sollevare  le  presenti  questioni   di
legittimita' costituzionale. In questo modo, egli si situerebbe al di
fuori dello spazio applicativo dell'art. 391,  comma  5,  cod.  proc.
pen., che presuppone la  simultaneita'  tra  convalida  della  misura
precautelare  e  applicazione  delle   cautele,   optando,   con   la
liberazione dell'arrestato, per una soluzione alternativa rispetto  a
quella di cui alla  norma  censurata,  rappresentata  dalla  facolta'
attribuitagli dal comma 6 dello stesso  articolo,  secondo  il  quale
«[q]uando non provvede a norma del comma 5, il  giudice  dispone  con
ordinanza la immediata liberazione dell'arrestato o del fermato».  Le
questioni sarebbero poi inammissibili sotto l'ulteriore profilo della
violazione dell'ambito di discrezionalita' riservato  al  legislatore
in questa materia. 
    Esse sarebbero comunque infondate perche' il rimettente muove  da
erronei  presupposti  interpretativi   quanto   ai   presupposti   di
applicazione  delle  norme  censurate  e   denuncia   disparita'   di
trattamento  non  sussistenti,   ponendo   a   raffronto   situazioni
eterogenee. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e  13  della
Costituzione, dell'art. 391, comma 5, del codice di procedura penale,
nella parte in cui prevede che quando l'arresto e' stato eseguito per
uno dei delitti indicati nell'art. 381,  comma  2,  cod.  proc.  pen.
l'applicazione della misura cautelare personale e' disposta anche  al
di fuori dei limiti di  pena  previsti  dagli  artt.  274,  comma  1,
lettera c), e 280 cod. proc. pen., nonche' dell'art.  280,  comma  1,
cod. proc. pen., nella parte in cui, nel  prevedere  i  requisiti  di
applicazione delle misure coercitive, fa salvo il disposto  dell'art.
391 cod. proc. pen. 
    1.1.- Il rimettente ritiene che le norme  censurate  violerebbero
gli evocati parametri perche' esse  attribuiscono  rilievo,  ai  fini
dell'applicazione  di  misure  cautelari  in  sede  di   udienza   di
convalida, al "dato" dell'intervenuto arresto, di per se' non  idoneo
a giustificare la deroga  agli  ordinari  limiti  edittali,  ne'  con
riferimento alle ragioni giustificative  della  misura  precautelare,
consistenti  nei  soli  gravi  indizi  di   colpevolezza   a   carico
dell'arrestato,  ne',  di  conseguenza,  in  relazione  al  controllo
demandato  al  giudice  della  convalida,  limitato  a  vagliare,  in
un'ottica  retrospettiva,  la  sola   legittimita'   dell'apprehensio
effettuata dall'autorita' di pubblica sicurezza. Le  norme  censurate
sarebbero poi irragionevoli perche' esse si applicano  unicamente  ai
delitti elencati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen.,  puniti  in
modo meno grave rispetto ai delitti di cui al comma  1  dello  stesso
articolo. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di rilevanza,  perche'
il giudice rimettente, nel momento in cui ha convalidato l'arresto  e
disposto  la   liberazione   dell'arrestato,   avrebbe   optato   per
l'applicazione di una norma alternativa rispetto  al  censurato  art.
391, comma 5, cod. proc. pen. Mentre quest'ultimo, infatti,  rinviene
il suo presupposto applicativo  nel  fatto  che  il  giudice  adotti,
all'atto della convalida, misure cautelari nei confronti di  soggetto
gia' limitato nella sua liberta' personale per effetto  della  misura
precautelare,  nel  momento  in  cui  ha  disposto   la   liberazione
dell'arrestato il giudice a quo avrebbe dato invece seguito a  quanto
previsto dall'art. 391, comma 6, cod.  proc.  pen.,  che  costituisce
un'opzione alternativa e  incompatibile  rispetto  all'esercizio  del
potere cautelare attribuito dal comma  precedente  al  giudice  della
convalida, oggetto del presente giudizio di costituzionalita'. 
    2.1.- L'eccezione e' infondata. 
    Benche' l'esercizio del potere cautelare  attribuito  al  giudice
dall'art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen.  presupponga
che esso si dispieghi, simultaneamente alla  convalida  dell'arresto,
nei confronti di persona gia' sottoposta a limitazione della liberta'
personale, cio' non comporta che, quando il  giudice  dubiti  proprio
della  legittimita'  delle  norme  che  di   quel   potere   regolano
presupposti  e  condizioni,  la  mancata  applicazione  delle  misure
cautelari e la conseguente  necessita'  di  disporre  la  liberazione
dell'arrestato possano  essere  di  ostacolo  al  promovimento  della
relativa questione di costituzionalita'. 
    A  ragionare  diversamente,  il  giudice   della   convalida   si
troverebbe   sistematicamente   nell'impossibilita'   di    sollevare
questione di legittimita' costituzionale sulle norme che disciplinano
i presupposti delle misure cautelari, con  conseguente  creazione  di
una vera e propria "zona franca" dal giudizio  di  costituzionalita'.
Se, infatti, il giudice della  convalida  -  al  fine  di  promuovere
l'incidente di costituzionalita' - applicasse la misura richiesta dal
pubblico ministero, egli non solo limiterebbe la  liberta'  personale
dell'arrestato  sulla  base  di  presupposti  normativi   della   cui
legittimita'  costituzionale  dubita,  ma  farebbe  con  cio'  stesso
applicazione  della  disposizione  censurata,  esaurendo  il  proprio
potere decisionale e privando cosi' di rilevanza la stessa  questione
di legittimita' costituzionale.  In  questo  quadro,  la  liberazione
dell'arrestato disposta dal  giudice  e'  conseguenza  non  gia'  del
rigetto implicito della richiesta del pubblico  ministero,  ma  della
impossibilita' della protrazione  dello  stato  di  privazione  della
liberta' dell'arrestato in assenza di una misura  cautelare  adottata
ai sensi dell'art. 391, comma 5, cod. proc. pen., e cioe' della norma
della cui legittimita' costituzionale il rimettente dubita. 
    Del resto, la  questione  di  legittimita'  costituzionale  delle
norme censurate assume nel giudizio a quo, in  conformita'  a  quanto
richiesto dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme  sulla
costituzione  e  sul  funzionamento  della   Corte   costituzionale),
un'evidente portata pregiudiziale rispetto alla decisione del giudice
della convalida sulle misure cautelari, che egli ritiene di non poter
applicare in presenza dei riferiti vizi di  costituzionalita',  senza
che a cio' possa essere di ostacolo  la  struttura  del  giudizio  di
convalida. In proposito, non puo' non rilevarsi che  il  giudice  ben
puo' «limitare il provvedimento di sospensione al singolo  momento  o
segmento processuale in cui il giudizio si svolge» e che resta sempre
in capo a questa Corte il controllo «dell'effettiva  possibilita'  di
circoscrivere la rilevanza della questione,  che  rimane  pur  sempre
incidentale e che,  come  tale,  e'  pregiudiziale  rispetto  ad  una
decisione del giudice rimettente» (sentenza n. 180 del 2018). 
    Peraltro, il giudice a quo, con la convalida dell'arresto, da  un
lato, ha soddisfatto un presupposto necessario  per  pronunciarsi  in
materia cautelare ai sensi dell'art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e,
dall'altro, disponendo la  liberazione  dell'arrestato  e  sollevando
l'odierno  incidente  di  costituzionalita',   non   ha   omesso   di
condizionare l'esito del procedimento cautelare alla definizione  del
presente giudizio. In tal modo,  egli  non  ha  esaurito  la  propria
potestas iudicandi, potendo ancora adottare la  misura  cautelare  in
deroga agli ordinari limiti edittali (ex multis, sentenze n.  10  del
2018 e n. 84 del 2016). 
    3.- Deve essere  del  pari  disattesa  l'ulteriore  eccezione  di
inammissibilita' delle questioni formulata dalla difesa statale,  sul
rilievo che le questioni  stesse  investirebbero  un  ambito,  quello
relativo alle forme e alle modalita' di  limitazione  della  liberta'
personale, riservato  costituzionalmente  alla  discrezionalita'  del
legislatore. 
    L'eccezione e', in realta', relativa a un profilo che attiene  al
merito delle questioni, anziche' alla  loro  ammissibilita',  poiche'
implica un esame della ratio  e  dei  presupposti  applicativi  delle
norme censurate. 
    4.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    4.1.- Nella disciplina  del  codice,  l'arresto  obbligatorio  in
flagranza e' previsto dall'art. 380, comma 1, cod. proc. pen., per  i
delitti non colposi, consumati  o  tentati,  per  i  quali  la  legge
stabilisce la pena dell'ergastolo o della  reclusione  non  inferiore
nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti  anni;  ai  sensi  del
comma 2 del medesimo articolo,  l'arresto  e'  obbligatorio  per  una
serie di delitti  specificamente  indicati  dal  legislatore  per  il
titolo del reato. 
    Analoga struttura ha la disciplina  dell'arresto  facoltativo  in
flagranza: l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen.  prevede  che  «[g]li
ufficiali e gli agenti  di  polizia  giudiziaria  hanno  facolta'  di
arrestare chiunque e' colto in flagranza di un delitto  non  colposo,
consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la  pena  della
reclusione superiore nel massimo a tre  anni  ovvero  di  un  delitto
colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non
inferiore nel massimo  a  cinque  anni».  Il  comma  2  dello  stesso
articolo prevede poi alcuni delitti, specificamente e  tassativamente
indicati, per i quali e' comunque possibile procedere all'arresto  in
flagranza,  a  prescindere  dalla  entita'  della  sanzione   massima
edittale. 
    L'art. 391, comma  5,  cod.  proc.  pen.  attribuiva  al  giudice
chiamato a  convalidare  l'arresto  il  potere  di  applicare  misure
cautelari allorche' sussistessero le  condizioni  previste  dall'art.
273 cod. proc. pen. e taluna delle esigenze cautelari di cui all'art.
274 cod. proc.  pen.  Il  medesimo  comma,  in  un  secondo  periodo,
stabiliva che «[q]uando l'arresto  e'  stato  eseguito  per  uno  dei
delitti indicati nell'articolo  381  comma  2,  l'applicazione  della
misura  e'  disposta  anche  al  di   fuori   dei   limiti   previsti
dall'articolo 280». 
    L'art. 280, comma 1, cod. proc. pen., a sua volta, disponeva  che
le misure  coercitive  potessero  essere  disposte  dal  giudice  nei
procedimenti relativi a delitti puniti con  la  reclusione  superiore
nel massimo a  tre  anni:  cio'  faceva  si'  che  per  i  reati  che
ricadevano nella previsione generale di cui all'art.  381,  comma  1,
cod. proc.  pen.,  le  misure  cautelari  potevano  essere  applicate
secondo  la  regola  generale;  per  altro  verso,  per   i   delitti
tassativamente elencati nell'art. 381, comma 2, cod. proc. pen.,  per
i quali l'art. 280, cod. proc.  pen.  poneva  una  barriera  edittale
all'applicazione di misure coercitive, le  esigenze  cautelari  erano
comunque soddisfatte in virtu' del meccanismo derogatorio  scaturente
dal richiamo effettuato dallo stesso art. 280,  comma  1,  all'intero
art. 391, e dunque anche al suo comma  5,  cod.  proc.  pen.  e  alla
disciplina ivi prevista. 
    Il legislatore e' intervenuto successivamente a  modificare  tali
coordinate normative, innanzi tutto  stabilendo,  mediante  il  nuovo
comma 2 dell'art. 280 cod. proc. pen., introdotto dall'art.  7  della
legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura  penale
in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di
diritto di difesa), che, fermo quanto previsto dal comma  1  (rimasto
invariato), la custodia cautelare in carcere potesse essere  disposta
solo per delitti, consumati o tentati, per i quali fosse prevista  la
pena della reclusione non inferiore nel massimo  a  quattro  anni.  A
tale sopravvenienza normativa si aggiungeva poi,  per  effetto  della
modifica introdotta con l'art. 3, comma 2, della  medesima  legge  n.
332 del 1995, un periodo nell'art. 274, comma  1,  lettera  c),  cod.
proc. pen., secondo il quale, nel caso in  cui  l'esigenza  cautelare
derivasse  da  una  prognosi  di  recidiva,  le  misure  di  custodia
cautelare venivano disposte solo se il reato di cui si  paventava  la
reiterazione era punito con la reclusione non inferiore nel massimo a
quattro anni. 
    Solo con l'art. 12 della legge 26 marzo 2001, n. 128  (Interventi
legislativi in materia di tutela della sicurezza  dei  cittadini)  e'
stato modificato l'art. 391, comma 5,  secondo  periodo,  cod.  proc.
pen., il quale prevede oggi che «[q]uando l'arresto e' stato eseguito
per uno dei delitti indicati nell'articolo 381, comma 2,  ovvero  per
uno dei delitti per i quali e' consentito anche  fuori  dai  casi  di
flagranza, l'applicazione della misura e' disposta anche al di  fuori
dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera  c),
e 280». 
    Da ultimo, e per  effetto  della  modificazione  apportata  dalla
lettera 0a) del comma 1 dell'art. 1 del decreto-legge 1° luglio 2013,
n. 78 (Disposizioni urgenti in materia  di  esecuzione  della  pena),
convertito, con modificazioni, nella legge  9  agosto  2013,  n.  94,
l'art. 280, comma  2,  cod.  proc.  pen.  stabilisce  ora  che  «[l]a
custodia cautelare in carcere puo' essere disposta solo per  delitti,
consumati  o  tentati,  per  i  quali  sia  prevista  la  pena  della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per  il  delitto
di finanziamento illecito dei partiti di  cui  all'articolo  7  della
legge 2 maggio 1974, n. 195, e  successive  modificazioni».  Identico
limite edittale e' stato poi previsto,  per  effetto  della  modifica
introdotta dalla lettera  0b)  del  comma  1  dell'art.  1  del  gia'
richiamato d.l. n. 78 del 2013, nel testo  dell'art.  274,  comma  1,
lettera c), cod. proc. pen. per l'applicazione della misura cautelare
carceraria nel caso in cui ricorra l'esigenza cautelare ivi prevista. 
    Il quadro normativo scaturito dalle plurime modificazioni di  cui
si  e'  detto  mostra  un  difetto  di  coordinamento  tra  le  norme
richiamate, derivante  dalla  circostanza  che  solo  per  i  delitti
tassativamente indicati dall'art. 381, comma 2, cod. proc.  pen.,  e'
oggi possibile l'applicazione, in sede  di  convalida,  delle  misure
cautelari coercitive in deroga agli  ordinari  limiti  edittali,  nel
mentre per i delitti, consumati o tentati, di cui al precedente comma
1, per i quali la pena edittale massima sia compresa tra i tre anni e
i quattro anni, non e' possibile applicare la  misura  degli  arresti
domiciliari, fermo  restando  che  per  l'applicazione  della  misura
cautelare della  custodia  in  carcere,  al  di  fuori  della  deroga
contenuta nel comma 5 dell'art. 391, cod. proc. pen.,  e'  necessario
che il delitto per il quale si procede sia punito con la  pena  della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. 
    Ed  e'  proprio  muovendo  correttamente   dal   vigente   quadro
normativo, che il rimettente dubita della legittimita' costituzionale
degli artt. 391, comma 5 e 280, comma 1, cod. proc. pen. 
    4.2.- Tanto premesso, deve rilevarsi  che  la  facolta',  per  il
giudice chiamato a convalidare l'arresto, di applicare nei  confronti
del  prevenuto  misure  cautelari  in  deroga  agli  ordinari  limiti
edittali segnati dagli artt. 274, comma 1, lettera  c),  e  280  cod.
proc. pen., secondo quanto previsto dal censurato art. 391, comma  5,
cod.  proc.  pen.,  e'  riconducibile  all'esigenza   di   raccordare
funzionalmente la decisione in ordine alla  misura  precautelare  con
quella riguardante la salvaguardia di esigenze di natura propriamente
cautelare. Gia' la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega  legislativa
al Governo della Repubblica per  l'emanazione  del  nuovo  codice  di
procedura penale) aveva previsto  all'art.  2,  numero  34),  che  al
giudice dovesse incombere l'obbligo di decidere  «sulla  convalida  o
meno dell'arresto o del fermo e sulla loro eventuale conversione,  ai
sensi del  numero  59),  in  una  delle  misure  di  coercizione  ivi
previste»,  con  cio'  prefigurando  l'attribuzione   alle   relative
previsioni del codice di procedura penale di  un  carattere  speciale
rispetto ai limiti sanciti in via generale per  le  misure  cautelari
coercitive applicabili in via autonoma. 
    Cio' si e' tradotto nella  disciplina  dell'art.  391,  comma  5,
secondo periodo, cod. proc. pen., che contempla, come si e' detto, la
possibilita' di derogare agli ordinari limiti  edittali,  sia  quello
generale di cui all'art. 280, comma 1, cod. proc.  pen.,  sia  quello
connesso all'esigenza cautelare special-preventiva  di  cui  all'art.
274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., quando la misura cautelare
sia da applicarsi nei confronti  di  soggetto  accusato  di  uno  dei
delitti di cui  all'art.  381,  comma  2,  cod.  proc.  pen.  e  gia'
temporaneamente limitato nella sua  liberta'  personale  per  effetto
della misura precautelare dell'arresto. Tale eccezionale possibilita'
resta pur sempre rigidamente condizionata al «presupposto necessario»
(sentenza n. 4 del 1992) che l'arresto sia convalidato, a  differenza
di quanto avviene nei casi  ordinari,  nei  quali  il  giudice  della
convalida puo' pronunciarsi in materia cautelare nel  rispetto  della
disciplina generale di cui agli artt. 280 e 274, comma 1, lettera c),
cod. proc. pen.: in tali casi, dunque, «la decisione sulla  convalida
e' concettualmente e funzionalmente scissa  da  quella  che  inerisce
alla applicazione delle misure cautelari» (ancora sentenza n.  4  del
1992). 
    4.2.1.- Nel motivare il dubbio di incostituzionalita' delle norme
censurate,  il  rimettente  muove  pertanto  da  un  erroneo  assunto
interpretativo,  consistente  nel  fatto   che   ad   operare   quale
presupposto per l'applicazione delle misure cautelari di cui all'art.
391,  comma  5,  secondo  periodo,  cod.  proc.  pen.  sia  il  fatto
costituito dall'arresto e non, invece, l'intervenuta convalida  della
misura precautelare ad opera del  giudice.  Solo  la  verifica  della
legittimita' dell'arresto effettuata dal giudice, idonea come tale  a
preservare la natura di esso come istituto eccezionale  dai  contorni
applicativi di stretta interpretazione (sentenza n.  89  del  1970  e
ordinanza n. 412 del 1999), puo' operare infatti come presupposto  in
grado di attribuire al medesimo giudice il potere di pronunciarsi  in
materia cautelare anche  in  deroga  rispetto  agli  ordinari  limiti
edittali, «all'evidente e non irragionevole  fine  di  coordinare  la
facolta' di procedere all'arresto in flagranza con la possibilita' di
disporre  all'esito  della  convalida,  e  dunque  solamente   quando
l'arresto  risulti  legittimamente   eseguito,   misure   coercitive»
(ordinanza n. 187 del 2001). 
    Le  norme   censurate,   pertanto,   rientrano   in   un   ambito
caratterizzato dalla discrezionalita'  legislativa,  riguardante  «la
determinazione dei casi eccezionali di necessita' e  urgenza  in  cui
possono essere adottati  provvedimenti  provvisori  limitativi  della
liberta'  personale  ai  sensi  dell'art.  13,  terzo  comma,   della
Costituzione» (sentenza n. 188 del 1996 e ordinanza n. 187 del 2001),
intesa   anche   quale   riflesso   specifico   della   piu'    ampia
discrezionalita' del legislatore nella conformazione  degli  istituti
processuali in materia penale (sentenze n. 31 e n. 20  del  2017,  n.
216 del 2016). 
    Pur ribadendo che i provvedimenti  provvisori  restrittivi  della
liberta' personale, secondo quanto imposto  dall'art.  13,  comma  3,
Cost., possono essere adottati «solo quando abbiano  natura  servente
rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui
in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle  finalita'  del
processo penale» (sentenza n.  223  del  2004)  e  che  la  convalida
dell'arresto  e'  da  ritenersi  «di  per  se'  non   sufficiente   a
legittimare l'applicazione in concreto delle  misure»  (ordinanza  n.
148 del 1998), dovendo il giudice vagliare, secondo  un  criterio  di
stretta necessita', la sussistenza  delle  esigenze  cautelari  e  in
particolare quella di cui all'art. 274, comma  1,  lettera  c),  cod.
proc. pen., deve nondimeno ritenersi che le norme censurate non siano
di  per  se'  manifestamente  irragionevoli,  perche'  con  esse   il
legislatore ha ritenuto non impropriamente che possa  essere  esclusa
la  liberazione  dell'arrestato  ove  specifiche  esigenze  cautelari
impongano il mantenimento della restrizione della liberta' personale,
senza che a tale esito possano essere di impedimento soglie  edittali
piu' basse rispetto a quelle ordinarie, laddove i  relativi  delitti,
come quelli tassativamente elencati  dall'art.  381,  comma  2,  cod.
proc. pen., siano dal  legislatore  apprezzati  come  di  particolare
allarme sociale. 
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale  non  e'   quindi
fondata. 
    5.- Con una distinta censura, il  rimettente  prospetta  un  piu'
limitato motivo di illegittimita'  costituzionale  degli  artt.  280,
comma  1,  e  391,  comma  5,  cod.  proc.  pen.,  consistente  nella
disparita' di trattamento che da essi discende per chi,  accusato  di
uno dei delitti elencati dall'art. 381, comma 2, cod.  proc.  pen.  e
puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo  a  tre
anni, subisce ai fini dell'applicazione delle misure cautelari  -  e,
in particolare, della misura degli arresti domiciliari - in  sede  di
udienza di convalida dell'arresto un trattamento deteriore rispetto a
quello che si presterebbero a subire, ai medesimi  fini,  i  soggetti
arrestati in flagranza e accusati, secondo  quanto  prescrive  l'art.
381, comma 1, cod. proc. pen., di un delitto non colposo, consumato o
tentato, per il quale la legge stabilisce la  pena  della  reclusione
superiore nel massimo a tre anni. 
    5.1.- Anche tale questione non e' fondata. 
    Secondo la giurisprudenza di  questa  Corte,  «la  determinazione
delle ipotesi tassative, di  per  se'  eccezionali,  nelle  quali  e'
consentito adottare misure custodiali [...] spetta al legislatore, ai
sensi dell'art. 13  della  Costituzione,  nel  rispetto  degli  altri
principi  costituzionali   e   nei   limiti   della   non   manifesta
irragionevolezza» (ordinanza n. 137 del  2003;  nello  stesso  senso,
ordinanza n. 40 del 2002). 
    L'elenco di delitti di cui all'art.  381,  comma  2,  cod.  proc.
pen., in relazione ai quali  e'  previsto  l'arresto  facoltativo  in
flagranza ed e' attribuita al giudice della convalida, nei  confronti
dei soggetti di essi accusati e in stato  d'arresto  la  facolta'  di
applicare misure cautelari dall'art. 391, comma 5, cod.  proc.  pen.,
anche in deroga ai limiti edittali contenuti negli artt.  274,  comma
1, lettera  c),  e  280  cod.  proc.  pen.,  ha  sicuramente  portata
derogatoria rispetto alla clausola generale del comma 1 dell'art. 381
cod. proc. pen. e, pertanto, «non  e'  suscettibile  ne'  di  letture
estensive (i reati sono indicati con la loro denominazione e  con  il
richiamo alla corrispondente disposizione  del  codice  penale  o  di
altra legge, e dunque si tratta di fattispecie ben determinate),  ne'
tanto meno di applicazione analogica» (sentenza n. 188 del 1996). 
    Ribaditi questi principi, il rinvio, operato dall'art. 391, comma
5, cod. proc. pen. e, indirettamente, dall'art. 280 cod.  proc.  pen.
ai delitti di cui all'art. 381, comma 2, dello stesso codice  non  si
traduce tuttavia in una soluzione manifestamente  irragionevole,  ne'
in linea generale, ne' con  riferimento  alle  specifiche  figure  di
reato per  cui  si  procede  nel  giudizio  a  quo,  con  particolare
riferimento al delitto di furto. 
    Come questa Corte ha piu'  volte  stabilito,  «la  configurazione
delle fattispecie  criminose  e  la  determinazione  della  pena  per
ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalita'
del legislatore, involvendo apprezzamenti  tipicamente  politici.  Le
scelte legislative sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di
legittimita' costituzionale,  solo  ove  trasmodino  nella  manifesta
irragionevolezza o nell'arbitrio» (sentenza n.  35  del  2018;  nello
stesso senso, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016). 
    5.1.1.- La categoria di delitti elencati nell'art. 381, comma  2,
cod. proc. pen. risponde a un apprezzamento tipicamente riservato  al
legislatore, che ha  ritenuto  -  anche  sulla  scorta  del  criterio
direttivo contenuto nel gia' richiamato  art.  2,  numero  34)  della
legge n. 81 del 1987 - di individuare in quelle figure di  reato  non
solo delle fattispecie idonee a consentire l'arresto in flagranza  al
di fuori  della  regola  generale  del  comma  1,  ma  anche,  e  per
l'effetto, delle ipotesi in relazione  alle  quali  il  rispetto  dei
limiti edittali ordinari per  l'applicazione  delle  cautele  avrebbe
irragionevolmente  frustrato  l'esigenza  di  dare  continuita',   al
ricorrere  di  determinati  presupposti  (tra  cui   in   primis   la
legittimita' dell'arresto,  vagliata  in  sede  di  convalida),  alla
preservazione delle esigenze  cautelari  messe  a  repentaglio  dagli
autori di delitti  ritenuti  generatori  di  un  particolare  allarme
sociale. 
    Peraltro, nel caso di specie il legislatore non ha  stabilito  un
collegamento  tra  determinati  titoli  di  reato  e   l'applicazione
necessaria di determinate misure cautelari, come  quella  carceraria,
nei termini di una presunzione assoluta, facendo  leva  semplicemente
sulla loro gravita' astratta e sull'allarme sociale da  essi  destato
(sentenza n. 45 del 2014). Non e'  infatti  superfluo  ribadire,  sul
punto, che il compito di pronunciarsi in materia cautelare, valutando
la sussistenza delle relative esigenze (con particolare riferimento a
quella contenuta nell'art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc.  pen.)
e approntando la misura eventualmente ritenuta piu' idonea, non  puo'
nel caso di specie che spettare in ultima istanza  al  giudice  della
convalida, chiamato a liberamente valutare gli elementi  forniti  dal
pubblico ministero. 
    Del  resto,  il  collegamento   tra   la   discrezionale   scelta
legislativa  intorno  all'allarme  sociale  generato  da  determinati
delitti e la correlata possibilita' che, in  relazione  ad  essi,  si
proceda all'arresto in flagranza e si applichino, anche in deroga  ai
limiti  edittali  previsti,  misure  cautelari   coercitive   e'   di
particolare evidenza nel caso dell'art.  381,  comma  2,  cod.  proc.
pen., che ha una struttura e una ratio non omogenee rispetto a quelle
del primo comma del medesimo articolo. Non solo perche'  quest'ultimo
prevede limiti generali di pena, laddove  il  secondo  comma  rimanda
invece a fattispecie determinate, da intendersi in modo  tassativo  e
non ancorate a  soglie  edittali  massime  predeterminate,  ma  anche
perche' il catalogo di cui al medesimo art. 381, comma 2, cod.  proc.
pen. ha  operato  col  tempo  -  a  riprova  dell'inerenza  dei  suoi
contenuti a scelte politiche discrezionali - quale  catalogo  aperto,
nel quale sono stati via via inseriti ulteriori  delitti  rispetto  a
quelli originariamente previsti, e nel quale  figurano  oggi  delitti
che si prestano ad essere ricondotti anche  alla  categoria  generale
del primo comma, come nel caso della violazione di domicilio  di  cui
all'art. 614, primo e secondo comma, cod. pen. (art.  381,  comma  2,
lettera f-bis, cod. proc. pen.), punita con la pena della  reclusione
fino a quattro anni, dell'appropriazione indebita di cui all'art. 646
cod. pen. (art. 381, comma 2, lettera l, cod. proc. pen.), punita con
la pena della reclusione fino a cinque anni, ovvero delle fraudolente
alterazioni  per  impedire  l'identificazione  o  l'accertamento   di
qualita' personali di cui all'art. 495-ter cod. pen. (art. 381, comma
2, lettera m-quater, cod. proc.  pen.),  punite  con  la  pena  della
reclusione fino a sei anni. 
    Fermo rimanendo, pertanto, il rispetto del complesso dei principi
costituzionali attinenti alla tutela della liberta' personale,  e  in
particolare del principio di  tassativita'  (art.  13,  comma  terzo,
Cost.), deve pertanto essere  ribadito  come  nella  materia  de  qua
spetti  al  legislatore  il  compito  di  individuare  presupposti  e
condizioni  per  l'esercizio  dell'azione   punitiva   dello   Stato,
raccordando  le  relative  scelte,   anche   quelle   concernenti   i
presupposti    per    l'applicazione    delle    misure    cautelari,
all'apprezzamento dei  fatti  generatori  di  allarme  sociale.  Tali
scelte incontrano i soli limiti della non manifesta  irragionevolezza
e della non arbitrarieta', che, nel caso di specie,  per  le  ragioni
sin qui esposte, non possono ritenersi superati. 
    5.2.- Ne', per quanto detto, le norme censurate danno luogo,  nel
caso di specie, a una disparita' di trattamento lesiva degli artt.  3
e 13 Cost. 
    Il giudice rimettente ha addotto a  sostegno  delle  censure  una
serie di esempi, da cui tuttavia non e' dato ricavare alcun  elemento
a  supporto  della   pretesa   disparita'   di   trattamento   subita
dall'arrestato nel giudizio a quo. 
    Le situazioni poste a raffronto sono infatti, nella maggior parte
dei casi, inconferenti e inidonee a  essere  commisurate  rispetto  a
quella sub iudice, perche' riferite a situazioni del tutto eterogenee
e non comparabili, come nel caso  di  delitti  integrati  nella  sola
forma tentata ovvero nel caso  in  cui  la  disparita'  sia  riferita
all'applicazione della custodia cautelare in carcere. Ne' e'  fondata
la  censura  relativa  alla  disparita'  di  trattamento  subita  dal
soggetto arrestato e accusato di furto semplice  (delitto  ricompreso
nell'art. 381, comma 2, lettera g, cod. proc. pen.)  rispetto  a  chi
sia accusato di cessione di stupefacenti ai sensi dell'art. 73, comma
5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309  (Testo  unico  delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), quando ricorre la circostanza attenuante  di  cui
all'art. 62, primo comma, numero 4,  cod.  pen.,  in  relazione  alla
quale e' consentito l'arresto facoltativo in flagranza secondo quanto
prevede l'art. 381, comma 1, cod. proc. pen., ma  non  l'applicazione
della  misura  custodiale  domiciliare,  perche'  punita   con   pena
inferiore a quattro anni e per la quale non opera la  deroga  di  cui
all'art. 391, comma 5, cod. proc.  pen.  Anche  in  questo  caso,  il
giudice pone a raffronto situazioni marcatamente eterogenee, sia  con
riferimento alla struttura dei reati che al bene  giuridico  rispetto
ai quali essi si pongono a presidio, sicche' non  e'  dato  a  questa
Corte di addivenire a una pronuncia che, senza  inficiare  la  scelta
non manifestamente irragionevole del  legislatore  di  consentire  al
giudice della convalida l'adozione in deroga delle misure  custodiali
per i delitti di cui all'art. 381, comma 2, cod. proc. pen., consenta
di superare il problema denunciato dal rimettente. 
    Pertanto, il fatto  che  siano  stati  indicati  a  paragone  una
quantita' di reati, tra loro diversi, e non soltanto uno od alcuni di
essi, mostra chiaramente  che  nessuno  di  questi  e'  in  grado  di
costituire un modello comparativo. Ed e' noto che «anche in  presenza
di   norme   manifestamente   arbitrarie   o   irragionevoli,    solo
l'indicazione di un  tertium  comparationis  idoneo,  o  comunque  di
specifici cogenti punti di riferimento, puo' legittimare l'intervento
della Corte in materia penale, poiche' non spetta  ad  essa  assumere
autonome determinazioni in sostituzione delle  valutazioni  riservate
al legislatore. Se cosi' non fosse, l'intervento,  essendo  creativo,
interferirebbe indebitamente nella sfera  delle  scelte  di  politica
sanzionatoria rimesse al legislatore (sentenze n. 236 e  n.  148  del
2016)» (sentenza n. 207 del 2017). 
    5.3.- Non puo' peraltro non rilevarsi come la deroga  ai  termini
massimi della pena detentiva edittale previsti per  l'adozione  delle
misure  cautelari  coercitive,  non  irragionevolmente  disposta  dal
legislatore  con  le   disposizioni   censurate,   presenti   profili
problematici  che,  pur  senza   dare   luogo   alla   illegittimita'
costituzionale delle disposizioni  qui  in  esame,  tuttavia  rendono
opportuno  un  intervento  che  eccede  l'ambito  del  sindacato   di
costituzionalita'. In proposito, non puo'  non  considerarsi  che  la
disciplina dei presupposti per  l'adozione  delle  misure  cautelari,
anche di quella custodiale in carcere, originariamente coordinata con
quelli per le misure precautelari, ha subito numerose variazioni  nel
corso degli anni,  sicche'  sarebbe  auspicabile  un  intervento  del
legislatore volto a ricondurre il rapporto tra misure precautelari  e
misure cautelari coercitive all'originario  coordinamento  quanto  ai
presupposti per la loro adozione. 
    6.- In conclusione, le questioni di  legittimita'  costituzionale
degli artt. 280, comma 1, e 391, comma  5,  cod.  proc.  pen.  devono
essere dichiarate non fondate in riferimento a entrambi  i  parametri
evocati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5,  del  codice  di  procedura
penale, sollevate dal Tribunale ordinario di Firenze, in  riferimento
agli artt. 3 e 13 della Costituzione,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 maggio 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                     Stefano PETITTI, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2020. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA