N. 146 SENTENZA 19 giugno - 10 luglio 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Straniero - Straniero extracomunitario - Reddito di inclusione  (ReI)
  - Requisiti richiesti - Possesso del permesso di soggiorno  UE  per
  soggiornanti di  lungo  periodo  -  Denunciata  irragionevolezza  e
  discriminazione tra cittadini e stranieri, nonche'  violazione  dei
  principi a tutela della famiglia e di quelli, anche  convenzionali,
  relativi all'assistenza sociale - Inammissibilita' delle questioni. 
- Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147,  art.  3,  comma  1,
  lettera a), numero 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 31, 38 e 117 Cost.;  Convenzione  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 14; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,  artt.
  20, 21, 33 e 34. 
(GU n.29 del 15-7-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Augusto Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,
lettera a), numero 1, del decreto legislativo 15 settembre  2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto  alla  poverta'),  promosso  dal  Tribunale  ordinario   di
Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra  J.C.C.  e  il
Comune di Bergamo e altro, con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta
al n. 244 del registro ordinanze 2019  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n.  3,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2020. 
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di  J.C.C.  e   dell'Istituto
nazionale  della  previdenza  sociale  (INPS),  nonche'   l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito il Giudice relatore Daria de Pretis ai  sensi  del  decreto
della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a)
e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data  10
giugno 2020; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bergamo,  sezione  lavoro,  solleva
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,  comma  1,
lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto alla poverta'), che, fra i diversi requisiti necessari  per
l'ottenimento  del  reddito  di  inclusione  (da  ora,  anche:  ReI),
richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per
soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2,  3,  31,
38, 117 della Costituzione, nonche' in relazione  all'art.  14  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e  agli  artt.  20,
21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007. 
    Il  giudizio  a  quo  e'  stato  promosso  da  J.C.C.,  cittadina
boliviana, con ricorso proposto ai sensi  dell'art.  28  del  decreto
legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni  complementari  al
codice di procedura civile in materia di riduzione e  semplificazione
dei procedimenti civili di  cognizione,  ai  sensi  dell'articolo  54
della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il  Comune  di  Bergamo  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS). 
    La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6  marzo  2018
aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito
di inclusione. Tale domanda e' stata respinta dal Comune, per mancato
uso delle  modalita'  telematiche  e  per  il  mancato  possesso  del
permesso di soggiorno  UE  per  soggiornanti  di  lungo  periodo.  La
ricorrente riferiva di  essere  in  possesso  di  tutti  i  requisiti
previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per beneficiare  del  reddito  di
inclusione, ad eccezione del permesso di soggiorno di lungo  periodo,
ed eccepiva in giudizio l'illegittimita' costituzionale in parte  qua
dell'art. 3 del d.lgs. n. 147 del 2017. 
    Il rimettente argomenta  l'ammissibilita'  dell'azione  proposta,
osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di
azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente  «ha  ad
oggetto l'accertamento della discriminazione, la sua  cessazione,  la
rimozione degli effetti e, quale conseguenza  di  cio',  l'erogazione
della prestazione, [...] per cui correttamente e' stato  attivato  il
procedimento» di cui all'art. 28 del d.lgs.  n.  150  del  2011.  Non
osterebbe, poi, all'ammissibilita'  il  fatto  che  il  Comune  abbia
applicato  una  norma  legislativa   «in   quanto   la   nozione   di
discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla  legislazione
nazionale  e'  di  tipo   oggettivo   e   ha   riguardo   all'effetto
pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi,
atto, patto o comportamento, indipendentemente  dalla  motivazione  e
dall'intenzione di chi li pone in essere». 
    Il giudice a  quo  ritiene  dirimente,  per  la  soluzione  della
controversia, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
3, comma 1, lettera a), numero  1),  del  d.lgs.  n.  147  del  2017,
«vigente ratione temporis»,  la'  dove  richiede  agli  stranieri  il
permesso di soggiorno di lungo periodo, «escludendo gli stranieri  in
possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o  per  altri
motivi)». 
    Il rimettente precisa, quanto alla rilevanza,  che  non  sono  in
discussione tutti gli altri requisiti per l'accesso al beneficio, dal
momento che la ricorrente «risultava  residente  in  Italia,  in  via
continuativa,  da  almeno  due  anni»  e  sussistevano,  altresi',  i
requisiti relativi alla condizione economica e alla composizione  del
nucleo familiare. Ne' rileverebbe il fatto che la domanda  sia  stata
presentata in forma cartacea, anziche' telematicamente,  «trattandosi
solo   di   irregolarita'   formale,   peraltro    imputabile    alla
strutturazione del sistema, che non incide sul  riconoscimento  della
prestazione, ove sussista il diritto». 
    Il rimettente ricorda  che  il  reddito  di  inclusione  era  una
«misura unica a  livello  nazionale  di  contrasto  alla  poverta`  e
all'esclusione sociale» (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2017)
e ne illustra i requisiti, sia  economici  sia  attinenti  al  nucleo
familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione e'  una
prestazione  essenziale,  volta  al  soddisfacimento   di   «"bisogni
primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della  persona  umana»:
di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini
e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 14 CEDU (vengono citate a tal proposito le sentenze di  questa
Corte n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010).  Il  reddito  di  inclusione
sarebbe   una   prestazione   essenziale   perche'   e'   finalizzato
all'affrancamento da una «situazione di vera e  propria  poverta'»  e
alla garanzia del «diritto ad un'esistenza libera  e  dignitosa».  Il
rimettente ricorda  che  numerose  norme  costituzionali  si  pongono
l'obiettivo di contrastare la poverta' economica in  quanto  ostacolo
al godimento dei diritti fondamentali; inoltre, in base  all'art.  2,
comma 13, del d.lgs.  n.  147  del  2017  il  reddito  di  inclusione
costituiva «livello essenziale delle  prestazioni  [...]  nel  limite
delle risorse disponibili nel Fondo Poverta'». 
    Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento
in cui limita il godimento di prestazioni  essenziali  e  di  diritti
fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si  porrebbe  in
contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonche'  con  l'art.
14 della CEDU. 
    In ogni caso,  anche  qualora  il  reddito  di  inclusione  fosse
considerato «prestazione esterna al nucleo dei  bisogni  essenziali»,
la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre  rispondere
al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio puo'
ritenersi  rispettato  solo   qualora   «sussista   una   ragionevole
correlazione tra la  richiesta  e  le  situazioni  di  bisogno  o  di
disagio, in vista delle  quali  le  singole  prestazioni  sono  state
previste» (vengono citate le sentenze di questa Corte n. 166 e n. 107
del 2018). Il giudice a quo rileva che  la  disciplina  in  questione
gia' contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario -
per ottenere il beneficio -  essere  «residente  in  Italia,  in  via
continuativa, da almeno due anni al momento  di  presentazione  della
domanda». L'esclusione degli stranieri  sprovvisti  del  permesso  di
soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio  i  nuclei
familiari  piu'  bisognosi,   tradendo   l'intento   dichiarato   dal
legislatore». Infatti, molto spesso  gli  stranieri  non  riescono  a
ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di  un  reddito
inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall'art. 9 T.U.
immigrazione». 
    Il rimettente ritiene che per la  norma  censurata  varrebbero  a
fortiori le argomentazioni svolte dalla Cassazione,  sezione  lavoro,
nell'ordinanza 17 giugno 2019, n. 16164, con cui e'  stata  sollevata
questione di legittimita' costituzionale in relazione all'assegno  di
natalita' di cui all'art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014,
n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale
e pluriennale dello Stato (legge di stabilita'  2015)».  Inoltre,  la
norma censurata si discosterebbe dall'art. 42 (recte, 41) del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo  unico  delle  disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla  condizione
dello straniero), che garantisce parita' di trattamento - in  materia
di assistenza sociale  -  agli  stranieri  titolari  di  permesso  di
soggiorno valido almeno un anno. 
    Dunque, l'art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.lgs.  n.
147  del  2017   contemplerebbe   una   disparita'   di   trattamento
irragionevole, in violazione dell'art. 3  Cost.,  in  quanto  avrebbe
«introdotto un elemento di distinzione arbitrario, nella mancanza  di
alcuna ragionevole correlazione tra la  residenza  protratta  per  il
tempo necessario all'ottenimento del permesso di lungo soggiorno e la
situazione di disagio economico che il legislatore ha posto alla base
della provvidenza»; ne' si comprenderebbe perche' il legislatore  non
abbia «ritenuto sufficiente, quale elemento indicativo di uno stabile
radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa
biennale, pretendendo  il  permesso  di  lungo  soggiorno».  Inoltre,
secondo  il  rimettente  il  reddito  di   inclusione   sarebbe   una
prestazione diversa dall'assegno sociale, per il quale la sentenza n.
50 del 2019 della Corte costituzionale ha fatto  salvo  il  requisito
del permesso di soggiorno di lungo periodo. 
    In definitiva, la norma censurata si porrebbe in contrasto, oltre
che con l'art. 3 Cost., con gli artt. 20, 21, 33  e  34  CDFUE,  «che
enunciano il principio  di  uguaglianza  e  di  non  discriminazione,
garantiscono "la  protezione  della  famiglia  sul  piano  giuridico,
economico e sociale"  (art.  33,  1°  comma,  CDFUE)  e  "il  diritto
all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa  [...]"  (art.  34,
comma 3, CDFUE)». 
    Il giudice a quo precisa poi che  la  prestazione  in  esame  non
ricade nell'ambito  di  operativita'  dell'art.  12  della  direttiva
2011/98/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del  13  dicembre
2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso  unico  che  consente  ai  cittadini  di  paesi   terzi   di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno  Stato  membro  e  a  un
insieme comune di  diritti  per  i  lavoratori  di  paesi  terzi  che
soggiornano regolarmente  in  uno  Stato  membro,  che  riconosce  il
diritto alla parita'  di  trattamento  nei  settori  della  sicurezza
sociale di cui  al  regolamento  (CE)  n.  883/2004,  del  Parlamento
europeo  e  del  Consiglio,  del  29   aprile   2004,   relativo   al
coordinamento dei  sistemi  di  sicurezza  sociale,  «non  rientrando
nell'elenco dei rischi di cui all'art.  3»  del  citato  regolamento:
infatti, il  reddito  di  inclusione  non  avrebbe  la  finalita'  di
«compensare i carichi familiari, poiche' il suo riconoscimento non e'
subordinato  alla  sussistenza  di  nucleo  familiare   numericamente
consistente, ma alla situazione di poverta' del nucleo familiare, che
puo' essere semplicemente composto anche da  solo  due  persone».  In
ogni caso, aggiunge il rimettente, se anche l'art. 12 della direttiva
2011/98/UE fosse applicabile, «cio'  non  impedirebbe  un  vaglio  di
legittimita' della disposizione per le motivazioni gia' esposte dalla
Corte di cassazione con la richiamata ordinanza n. 16164/19,  che  si
intendono qui richiamate». 
    2.- Il 30 gennaio 2020 si e'  costituito  l'INPS,  convenuto  nel
giudizio a quo. 
    In primo  luogo,  la  parte  eccepisce  l'inammissibilita'  della
questione per difetto  di  motivazione  sulla  rilevanza,  in  quanto
un'eventuale pronuncia di accoglimento «non potrebbe portare  ad  una
conseguente pronuncia di riconoscimento del reddito  d'inclusione  in
capo alla ricorrente». Infatti, il ricorso ex art. 28 del  d.lgs.  n.
150 del 2011 sarebbe inammissibile in quanto esperibile solo a fronte
di un comportamento discriminatorio, non in caso di legittimo diniego
della prestazione per assenza di un requisito previsto  dalla  legge.
La motivazione del giudice a quo  su  tale  eccezione  sarebbe  «poco
plausibile».  Inoltre,  la  sentenza  di  accoglimento  non  potrebbe
rendere antigiuridico un comportamento che tale non era  nel  momento
in cui e' stato tenuto. 
    Ancora, la questione sarebbe inammissibile perche' il  rimettente
- in assenza  di  pronunce  della  Cassazione  -  avrebbe  omesso  di
sperimentare  una   possibile   interpretazione   adeguatrice   della
disposizione censurata. 
    La parte osserva poi che la  motivazione  dell'ordinanza  sarebbe
contraddittoria, in quanto il giudice a quo riconduce il  reddito  di
inclusione alle  prestazioni  essenziali  ma  poi  esclude  che  esso
rientri nell'ambito di applicazione della direttiva  2011/98/UE,  che
riconosce il diritto alla parita' di trattamento  nei  settori  della
sicurezza sociale. 
    Venendo alla non manifesta infondatezza, la  parte  riepiloga  la
normativa dettata in materia e osserva che il reddito  di  inclusione
non  potrebbe  essere  considerato  ne'  un   mero   "sussidio"   per
l'affrancamento dalla poverta' ne' «una prestazione che  afferisce  a
bisogni  primari  ed  essenziali  della  persona».  Il   reddito   di
inclusione non sarebbe solo un beneficio economico ma «un piu'  ampio
progetto personalizzato [...] volto a "traghettare" verso l'autonomia
chi e' in condizioni  di  poverta'».  Non  sarebbe  una  «prestazione
meramente assistenziale e  generalizzata»,  poiche'  esso  non  viene
corrisposto «ove il nucleo familiare non sottoscriva  e  persegua  il
"progetto  personalizzato"».  La  realizzazione  di   tale   progetto
comporterebbe «una giustificata  e  necessaria  correlazione  tra  la
prestazione ed un maggiore e piu' intenso  radicamento  del  soggetto
nel territorio dello Stato italiano tale da  rendere  ragionevole  la
previsione del requisito del possesso del permesso  di  soggiorno  di
lungo periodo»: invero la realizzazione del progetto potrebbe  essere
«vanificata e/o non  perseguibile  ove  fosse  sufficiente,  ai  fini
dell'accesso al ReI, un permesso lavorativo di piu' breve periodo». 
    Il reddito di inclusione  non  rientrerebbe  fra  le  prestazioni
essenziali di  sicurezza  sociale  di  cui  al  regolamento  (CE)  n.
883/2004 e cio' implicherebbe «la discrezionalita' dello Stato membro
di disciplinare e condizionare  il  riconoscimento  della  misura  di
politica attiva [...] in  considerazione  della  peculiare  finalita'
della prestazione all'esame». 
    L'INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa  Corte  (che
ha fatto salvo  il  requisito  del  permesso  di  lungo  periodo  per
l'assegno sociale) e osserva che l'uguaglianza tra cittadini italiani
(ed europei)  e  stranieri  va  garantita  solo  per  le  prestazioni
finalizzate al soddisfacimento di un bisogno primario dell'individuo,
«che si configura come diritto inviolabile». Al di  fuori  di  questi
casi, il legislatore potrebbe richiedere agli stranieri un titolo  di
soggiorno che  attesti  «un'attiva  partecipazione  [...]  alla  vita
sociale ed allo  sviluppo/progresso  del  Paese».  Le  considerazioni
espresse nella citata sentenza n. 50 del 2019 sarebbero estendibili a
tutte le prestazioni «che non sono  poste  a  garanzia  della  stessa
sopravvivenza», che potrebbero essere limitate a quegli stranieri che
hanno  contribuito  al   «progresso   morale   e   materiale»   della
collettivita'. 
    Il requisito del permesso di lungo periodo si  raccorderebbe  con
la previsione dell'art. 41  t.u.  immigrazione,  in  connessione  con
l'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000,  n.  388,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2001)». 
    3.- Il 3 febbraio 2020 si e' costituita  J.C.C.,  ricorrente  nel
giudizio a quo. La  parte  espone  che  i  profili  rilevanti,  quali
emergono dall'ordinanza di rimessione, sono due:  a)  la  prestazione
risponde a bisogni essenziali della persona e,  dunque,  non  sarebbe
«suscettibile di limitazioni afferenti lo status  civitatis»;  b)  il
requisito in questione (permesso di soggiorno di lungo  periodo)  non
risponderebbe al criterio di «ragionevole correlabilita'» di cui alla
giurisprudenza costituzionale. 
    Sotto  il  primo  profilo,  la  parte  ricorda  le  pronunce   di
accoglimento  di  questa   Corte   relative   alle   prestazioni   di
invalidita', che si sono fondate su diversi parametri, che  sarebbero
pertinenti anche nel caso in esame.  Infatti,  anche  il  bisogno  di
emanciparsi  «da  una  condizione  di  poverta'   assoluta»   sarebbe
riconducibile alla ratio delle sentenze menzionate: in altri termini,
il   «diritto   a   una   vita   dignitosa»    avrebbe    «fondamento
costituzionale». La parte rammenta che la legge 15 marzo 2017, n.  33
(Delega recante  norme  relative  al  contrasto  della  poverta',  al
riordino delle prestazioni  e  al  sistema  degli  interventi  e  dei
servizi sociali), definisce il reddito  di  inclusione  come  livello
essenziale delle prestazioni sociali, in  coerenza  con  la  legge  8
novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del  sistema
integrato di interventi e servizi sociali), e rileva  che  la  soglia
economica fissata dalla norma censurata e'  «ampiamente  inferiore  a
quella utilizzata dall'ISTAT per definire le famiglie  in  condizioni
di  poverta'  assoluta».  Sarebbe  evidente  che  «l'uscita  da   una
condizione di poverta' assoluta  appartiene  al  nucleo  dei  bisogni
primari ed essenziali della  persona».  Il  diritto  ad  un'esistenza
libera e dignitosa dovrebbe essere «tutelato in quanto tale»,  al  di
la' del "canale" di cui all'art. 36 Cost. e dei casi di inabilita' al
lavoro. Anche l'art. 34, paragrafo 3, CDFUE parlerebbe di  «esistenza
dignitosa» senza fare riferimento al lavoro. 
    Con riferimento ai bisogni primari, nessuna limitazione  potrebbe
essere opposta con riferimento a  condizioni  personali  estranee  al
bisogno: men che meno potrebbero essere esclusi gli stranieri ratione
census (cioe'  per  non  aver  raggiunto  il  reddito  necessario  ad
ottenere il permesso di lungo periodo) o ratione temporis (cioe'  per
non  aver  maturato  la  residenza  quinquennale  necessaria  per  il
permesso in questione). 
    Sotto il secondo profilo, la parte evidenzia il «circolo vizioso»
tra un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo)  che  richiede
due requisiti economici minimi (reddito pari  all'assegno  sociale  e
alloggio idoneo) e una prestazione  destinata  ai  casi  di  poverta'
assoluta. Anche a tale proposito viene richiamata  la  giurisprudenza
costituzionale relativa alle prestazioni di invalidita'. 
    La parte poi rileva che, nel caso di prestazioni richieste  prima
del 31  luglio  2018  (come  nel  caso  di  specie),  il  reddito  di
inclusione «si configura  [...]  essenzialmente  come  prestazione  a
sostegno della famiglia con bimbi minori», il che la differenzierebbe
rispetto all'assegno sociale oggetto della sentenza di  questa  Corte
n. 50 del 2019, in quanto si tratterebbe di una «prestazione  erogata
nella  prima  fase  della  vita  adulta»,  quando  il   percorso   di
inserimento sociale e' necessariamente piu' breve di quello  compiuto
da un ultrasessantacinquenne. Il legislatore non potrebbe  introdurre
criteri selettivi estranei alla  finalita'  perseguita.  Il  «circolo
vizioso» sarebbe «ancora piu' illogico»  poiche',  piu'  alto  e'  il
numero di figli, piu' e' difficile  ottenere  il  permesso  di  lungo
periodo in quanto aumenta il reddito necessario per conseguirlo. 
    La parte sottolinea poi che nel senso  dell'infondatezza  non  si
potrebbe invocare la citata sentenza n. 50 del 2019, in quanto quella
pronuncia avrebbe differenziato l'assegno sociale  dalle  prestazioni
destinate a soddisfare i bisogni primari della persona.  Inoltre,  la
sentenza di questa Corte n.  107  del  2018  avrebbe  negato  rilievo
all'argomento del "contributo pregresso" ai fini  dell'individuazione
dei beneficiari delle prestazioni sociali. 
    Ancora, la  parte  osserva  che  la  disciplina  statale  prevede
ulteriori  requisiti  che  garantiscono   comunque   un   sufficiente
radicamento territoriale del richiedente: sarebbe  sempre  necessario
un permesso per lavoro nel nucleo familiare e inoltre e' richiesta la
residenza biennale in Italia. 
    In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe
irragionevole,  non  proporzionato  e   discriminatorio   verso   gli
stranieri. 
    4.- Con atto depositato il 4  febbraio  2020  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    In primo luogo, l'Avvocatura eccepisce  l'inammissibilita'  della
questione perche' il rimettente chiederebbe «una  sentenza  additiva,
che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo  proporrebbe  di
abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo,
«reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza
continuativa in Italia da  almeno  due  anni».  Senonche',  una  cosa
sarebbero  i  requisiti  di  residenza,  un'altra  i   requisiti   di
soggiorno, che sarebbero richiesti anche  per  i  cittadini  europei,
dovendo questi essere  titolari  «del  diritto  di  soggiorno  o  del
diritto di soggiorno permanente» (come previsto  dalla  stessa  norma
censurata). La difesa dello Stato rileva  che,  in  base  al  diritto
europeo (art. 11 della direttiva 2003/109/CE  del  Consiglio  del  25
novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi  che
siano soggiornanti di lungo periodo), l'accesso degli stranieri  alle
prestazioni sociali e' limitato ai  soggiornanti  di  lungo  periodo,
salvo l'ampliamento previsto dalla direttiva 2011/98/UE in  relazione
a  determinati  settori  di  sicurezza  sociale.  Dunque,  la   norma
censurata avrebbe optato per «la sola  possibilita'»  a  disposizione
del legislatore nazionale. In base alla proposta del  rimettente,  il
reddito di inclusione dovrebbe essere concesso agli  stranieri  sulla
base  della  sola  residenza  biennale  continuativa,  mentre  per  i
cittadini europei cio' non sarebbe sufficiente:  cio'  determinerebbe
uno  «stravolgimento  dell'impianto  della  norma   denunciata,   che
verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non
costituzionalmente  obbligata;  e  anzi  costituzionalmente   vietata
dall'art. 117 c.  1  Cost.,  nella  misura  in  cui  genererebbe  una
discriminazione a danno dei cittadini dell'Unione e a  vantaggio  dei
cittadini di paesi terzi». Poiche' quella proposta dal giudice a  quo
non e'  l'unica  soluzione  configurabile  in  alternativa  a  quella
censurata, la questione sarebbe  inammissibile  per  invasione  della
discrezionalita' legislativa. 
    Inoltre, secondo l'Avvocatura l'ordinanza di  rimessione  sarebbe
«priva di idonea motivazione in punto di rilevanza». Essa rileva  che
la ricorrente ha chiesto il reddito di inclusione il  6  marzo  2018,
«ricevendo  un  immediato  rigetto»,  e   non   ha   impugnato   tale
provvedimento,    proponendo     invece     nel     2019     l'azione
anti-discriminazione al fine di ottenere l'attribuzione  del  reddito
di inclusione. Tale istituto, osserva la difesa  erariale,  e'  stato
poi abrogato dal decreto-legge 28 gennaio 2019,  n.  4  (Disposizioni
urgenti in  materia  di  reddito  di  cittadinanza  e  di  pensioni),
convertito nella legge 28 marzo 2019, n. 26,  che  ha  introdotto  il
reddito di cittadinanza. In  base  all'art.  13,  comma  1,  di  tale
decreto, «[a] decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito  di  inclusione
non puo` essere piu` richiesto e a decorrere dal successivo  mese  di
aprile  non  e`  piu`  riconosciuto,  ne´   rinnovato».   La   stessa
disposizione regola il caso in cui  «il  Reddito  di  inclusione  sia
stato riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019»: invece,
rileva l'Avvocatura,  «[n]on  sono  state  adottate  disposizioni  di
diritto transitorio che regolino in modo  specifico  l'applicabilita'
della disciplina del reddito di inclusione nelle cause,  come  quella
pendente davanti  al  giudice  a  quo,  che  abbiano  ad  oggetto  la
richiesta di attribuzione del  REI,  ancora  pendenti  alla  data  di
entrata in vigore della nuova  disciplina».  Il  giudice  a  quo  non
argomenterebbe sull'applicabilita' della norma abrogata ai fini della
decisione. Inoltre, l'ordinanza non indicherebbe la data  precisa  di
presentazione del ricorso, non essendo possibile  stabilire  se  esso
sia precedente o successivo al 29 gennaio 2019, data  di  abrogazione
della norma censurata (recte: l'abrogazione  decorre  dal  1°  aprile
2019, ai sensi dell'art. 11 del d.l. n. 4 del 2019). 
    Ancora, la  motivazione  sulla  rilevanza  sarebbe  insufficiente
perche' il rimettente  non  specifica  il  titolo  che  legittima  il
soggiorno in Italia della ricorrente. 
    In relazione alla non manifesta infondatezza, l'Avvocatura rileva
che il reddito di inclusione sarebbe diverso dalle altre  prestazioni
assistenziali in relazione alle  quali  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art.  80,  comma  19,
della  legge  n.  388  del  2000:  in  quei  casi  «si  trattava  del
riconoscimento di benefici attinenti  ai  bisogni  primari  e  vitali
della persona». Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova  del
radicamento dello straniero nell'ordinamento  italiano,  in  mancanza
del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione  di  poverta'  che
spetti all'ordinamento italiano soccorrere, ne' vi  e'  la  base  per
predisporre e attuare  nel  tempo  il  progetto  personalizzato».  Il
reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento  gia'  esistente,
non sarebbe lo strumento per  crearlo.  La  norma  censurata  sarebbe
volta a scoraggiare il cosiddetto "turismo assistenziale". A sostegno
dell'infondatezza, l'Avvocatura invoca la citata sentenza n.  50  del
2019, riguardante l'assegno sociale.  Inoltre,  proprio  le  sentenze
della Corte costituzionale che hanno esteso  a  tutti  gli  stranieri
regolari, a  prescindere  dal  permesso  di  lungo  periodo,  diverse
prestazioni  assistenziali  condurrebbero  ancor  piu'   a   ritenere
ragionevole  la  richiesta  di  tale  permesso  per  il  reddito   di
inclusione,   trattandosi    di    un    diritto    "finanziariamente
condizionato", che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed
esigenze finanziarie. Dunque, l'art. 3 Cost. non sarebbe violato. 
    L'Avvocatura nega poi  che  sia  violato  l'art.  31  Cost.,  che
contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti  delle
compatibilita' finanziarie e sul presupposto che si tratti non  della
famiglia  "in  astratto",  bensi'   della   famiglia   specificamente
riferibile alla societa' italiana».  Inoltre,  l'art.  31  lascerebbe
discrezionalita' al legislatore e non lo costringerebbe  a  prevedere
proprio  il  reddito  di  inclusione  e  a  individuare  i  requisiti
auspicati dal rimettente. 
    Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione  sia
una «prestazione essenziale»: esso mira a contrastare una  situazione
di poverta', «per  quanto  difficile,  comunque  compatibile  con  lo
svolgimento di attivita' lavorativa». 
    Sarebbe infondata anche la questione riferita all'art. 117, primo
comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di
cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. La scelta di limitare  la  prestazione
de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in  linea  con  il
diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE. 
    Infine, sarebbe insussistente la violazione dell'art.  34  CDFUE.
Tale  disposizione  non  si  applicherebbe  perche'  la  materia  del
«contrasto alla poverta'» sarebbe di competenza degli  Stati  membri.
Comunque, come gia' detto per l'art. 31 Cost., l'art.  34  CDFUE  non
costringerebbe il legislatore  a  prevedere  proprio  il  reddito  di
inclusione ne' a individuare i requisiti auspicati dal rimettente. 
    5.-  L'11  maggio  2020  l'INPS   ha   depositato   una   memoria
integrativa.  In  essa  afferma  che  il  rimettente  avrebbe  dovuto
motivare  sull'applicabilita',  nel   suo   giudizio,   della   norma
censurata, abrogata dal d.l. n. 4 del 2019, in quanto la  fattispecie
oggetto  del  giudizio  a  quo  non   rientrerebbe   nell'ambito   di
applicazione della disposizione transitoria di cui  all'art.  13  del
d.l. n. 4 del 2019. Nel merito, l'INPS  ribadisce  le  considerazioni
gia' svolte nell'atto di costituzione, sottolineando la natura non di
mero sussidio economico della misura ma di progetto personalizzato di
inclusione  sociale  e  di  accompagnamento  del   nucleo   familiare
destinatario, e sostenendo che le conclusioni della  sentenza  n.  50
del 2019, piu' volte richiamata, sarebbero estensibili al reddito  di
inclusione, che  non  sarebbe  destinato  al  soddisfacimento  di  un
bisogno primario. Si dovrebbe inoltre tener conto  della  limitatezza
delle risorse disponibili. 
    Il  15  maggio  2020  anche  J.C.C.  ha  depositato  una  memoria
integrativa. In primo  luogo  la  parte  replica  alle  eccezioni  di
inammissibilita' sollevate dall'INPS e dall'Avvocatura nei loro  atti
di costituzione e intervento. Nel merito osserva che il fatto che  il
ReI comprenda un progetto personalizzato di  inclusione  sociale  non
giustifica la  sua  destinazione  esclusiva  agli  stranieri  che  in
passato hanno gia' conseguito tale inclusione, ottenendo il  permesso
di soggiorno di lungo  periodo,  con  esclusione  dei  soggetti  piu'
bisognosi, che non sono riusciti ad avere i requisiti  necessari  per
quel permesso. 
    Inoltre, non sarebbe esatto rappresentare lo straniero privo  del
permesso di lungo  periodo  come  una  persona  "di  passaggio",  ne'
ravvisare nel permesso di lungo periodo una  garanzia  di  stabilita'
futura (a tal proposito la parte invoca la sentenza di  questa  Corte
n. 44 del 2020). Ancora, la parte rileva che il  parametro  dell'art.
31 Cost. e' stato invocato in modo pertinente dal giudice a  quo,  in
quanto la domanda del ReI e' stata presentata quando era  vigente  il
testo  del  d.lgs.  n.  147  del  2017  che  richiedeva   una   certa
composizione del  nucleo  familiare.  Infine,  non  sarebbe  corretto
evocare il tema dei limiti  finanziari,  perche'  la  prestazione  in
questione e' erogata nei limiti della dotazione del Fondo poverta'. 
    6.-  Il  3  giugno  2020  J.C.C.  ha   depositato   «brevi   note
aggiuntive», ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20
aprile 2020, punto 1, lettera c). In esse rileva che il  giudizio  in
questione e' destinato ad avere effetti «su  soli  due  casi  o  poco
piu'»  ma  che  la  decisione  della  Corte  assume   rilevanza   con
riferimento al reddito di cittadinanza. La parte  sottolinea  poi  le
differenze tra il ReI  e  l'assegno  sociale,  oggetto  della  citata
sentenza n. 50 del 2019, osservando che per il ReI non avrebbe  senso
chiedere un titolo di soggiorno che attesta il precedente inserimento
sociale, visto che tale inserimento renderebbe superfluo il  ReI.  La
parte rimarca che il d.lgs. n. 147 del 2017  qualifica  come  livello
essenziale delle prestazioni non solo il beneficio economico del  ReI
ma   anche   la   valutazione   multidimensionale   e   il   progetto
personalizzato, confermando che il  percorso  di  inclusione  «e'  il
tratto caratteristico dell'istituto». Per lo  stesso  motivo  non  si
potrebbe estendere al ReI l'argomento della sentenza n. 50 del  2019,
secondo la quale il reddito conseguito per accedere  al  permesso  di
lungo  periodo  puo'  poi  venire  meno:  diversamente   dall'assegno
sociale, il ReI e' destinato al  lavoratore  povero  o  a  chi  cerca
lavoro e una differenza nelle  possibilita'  di  accesso  a  migliori
occasioni di lavoro «contraddirebbe il principio  generale  paritario
di  cui  all'art.  10  convenzione  OIL  143/74».  Infine,  la  parte
riferisce della situazione di altri Paesi europei e  osserva  che  in
nessuno le prestazioni di inclusione sociale  sarebbero  condizionate
«a un titolo di soggiorno che manifesti gia' tale inclusione». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel giudizio iscritto al  reg.  ord.  n.  244  del  2019,  il
Tribunale  ordinario  di  Bergamo,  sezione  lavoro,   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n.  147  (Disposizioni
per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di  contrasto   alla
poverta'), che, fra i diversi requisiti necessari  per  l'ottenimento
del reddito di inclusione, richiede agli stranieri il  «possesso  del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo». 
    Il rimettente divide le questioni sollevate  in  due  gruppi,  il
secondo dei quali  ha  carattere  subordinato.  In  primo  luogo,  il
giudice a quo ritiene che la norma censurata violi gli  artt.  2,  3,
31, 38, 117 della Costituzione, nonche' l'art. 14  della  Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto  il  reddito  di
inclusione sarebbe una prestazione essenziale, diretta  a  soddisfare
«"bisogni primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della persona
umana».  In  relazione  a  questo  tipo  di  prestazioni,   qualsiasi
discriminazione tra cittadini e stranieri  regolarmente  soggiornanti
sarebbe incostituzionale. 
    Con il secondo ordine di censure il rimettente osserva che, anche
qualora il  reddito  di  inclusione  fosse  considerato  «prestazione
esterna al  nucleo  dei  bisogni  essenziali»,  non  vi  sarebbe  una
ragionevole correlazione tra il requisito richiesto e  le  situazioni
di  bisogno  a  rimedio  delle  quali  la  prestazione  e'  prevista,
considerato anche che la disciplina in questione gia' contemplava «il
requisito del radicamento», essendo  necessario  -  per  ottenere  il
beneficio - essere «residente in  Italia,  in  via  continuativa,  da
almeno due anni al momento di presentazione della domanda»  (art.  3,
comma 1, lettera a, numero 2, del d.lgs. n. 147 del 2017); di qui  la
asserita violazione dell'art. 3 Cost. e degli artt. 20, 21, 33  e  34
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,  proclamata
a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a  Strasburgo  il  12  dicembre
2007. 
    2.- Sia l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS)  che
l'Avvocatura generale dello Stato hanno sollevato  diverse  eccezioni
di inammissibilita'. Con una di esse - formulata dall'Avvocatura  nel
primo atto difensivo e ripresa dall'INPS nella memoria integrativa  -
in  particolare,  e'  lamentato  un  difetto  di  motivazione   sulla
rilevanza delle questioni, in quanto il rimettente non avrebbe tenuto
conto dell'intervenuta abrogazione della norma censurata ad opera del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in  materia
di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito nella legge  28
marzo 2019, n. 26, ne' avrebbe argomentato sulla sua  applicabilita',
nonostante l'abrogazione e sebbene la  stessa  normativa  abrogatrice
preveda una disposizione transitoria sui  termini  di  applicabilita'
della disciplina censurata. Piu' precisamente, sia  l'Avvocatura  che
l'INPS osservano che, in base alla disciplina  transitoria  contenuta
nell'art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019,  come  convertito,  il
reddito di inclusione puo' essere chiesto fino al 28 febbraio 2019  e
puo' essere riconosciuto fino al 31 marzo 2019,  nel  qual  caso  «il
beneficio continua ad  essere  erogato  per  la  durata  inizialmente
prevista», fatta salva la possibilita' di presentare domanda  per  il
reddito di cittadinanza. Secondo  l'Avvocatura,  «la  ricorrente  non
rientra tra coloro ai quali il REI e' stato erogato prima  della  sua
abrogazione e che possono percio' continuare  a  fruirne  secondo  la
previgente disciplina, sia pure per un periodo limitato,  anche  dopo
l'abrogazione del D.Lgs. n. 147/17». 
    Nella  propria   memoria   integrativa,   J.C.C.   ha   replicato
all'eccezione, osservando che, in caso di contenzioso,  la  decisione
del giudice «si  sostituisce  con  effetto  ex  tunc  alla  decisione
dell'amministrazione» (la domanda e' stata  respinta  dal  Comune  di
Bergamo nel marzo 2018); non ci sarebbe stata necessita' di una norma
transitoria sui giudizi pendenti, «essendo  ovvio  che  le  decisioni
giudiziarie garantiscono tutti i diritti  azionati  entro  il  limite
temporale fissato dal legislatore (1.3.2019)»,  a  prescindere  dalla
successiva abrogazione. 
    2.1.- L'eccezione e' fondata. 
    Il rimettente omette completamente di dare conto dell'intervenuta
abrogazione della norma censurata, cosi' come di indicare le  ragioni
che lo inducono a ritenerla nondimeno applicabile. 
    Il  Capo  II  del  d.lgs.  n.  147  del  2017  (comprendente   la
disposizione censurata, cioe' l'art. 3, comma 1, lettera a, numero 1)
e' stato abrogato a decorrere dal  1°  aprile  2019  (e  non  dal  29
gennaio 2019,  come  riferisce  l'Avvocatura)  in  virtu'  di  quanto
disposto dall'art. 11,  comma  1,  del  d.l.  n.  4  del  2019,  come
convertito, che ha sostituito la misura del reddito di inclusione con
la nuova misura del reddito di cittadinanza. 
    Sebbene,  dunque,  l'abrogazione  della   norma   sospettata   di
incostituzionalita' fosse stata gia' disposta il 28 gennaio 2019, con
efficacia dal successivo  1°  aprile,  nell'ordinanza  di  rimessione
assunta il 1° agosto 2019 il giudice  a  quo  tace  del  tutto  sulla
radicale modifica del quadro normativo,  non  menziona  l'intervenuta
abrogazione  della  norma  censurata,  ne'  tanto  meno   prende   in
considerazione la norma transitoria contenuta nell'art. 13, comma  1,
del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e la sua  specifica  portata
in relazione al caso oggetto del suo giudizio,  come  invece  sarebbe
stato necessario per  dare  conto  della  rilevanza  della  questione
sottoposta a questa Corte. 
    Dall'ordinanza  si  puo'  solo  indirettamente  cogliere  che  il
rimettente  non   era   probabilmente   inconsapevole   dell'avvenuta
abrogazione, per il riferimento  al  fatto  che  la  norma  censurata
sarebbe stata «vigente ratione temporis» e per l'uso  in  vari  punti
dell'imperfetto nella descrizione della  disciplina  del  reddito  di
inclusione. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti ne'  ai  fini
della corretta ricostruzione del quadro  normativo,  ne'  comunque  a
quelli  di  un'adeguata  illustrazione  della  rilevanza,  dato  che,
trascurando del tutto l'esistenza della norma transitoria indicata  e
omettendo di considerarne il contenuto, il  rimettente  non  fornisce
alcuna argomentazione  a  sostegno  dell'applicabilita'  della  norma
abrogata. 
    La citata disposizione transitoria stabilisce quanto segue:  «[a]
decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito di inclusione non puo' essere
piu' richiesto e a decorrere dal successivo mese  di  aprile  non  e'
piu' riconosciuto, ne' rinnovato. Le richieste presentate  ai  comuni
entro i termini di cui al primo periodo, ai fini  del  riconoscimento
del beneficio, devono pervenire all'INPS entro i successivi  sessanta
giorni. Per coloro ai  quali  il  Reddito  di  inclusione  sia  stato
riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019,  il  beneficio
continua ad essere erogato per la durata inizialmente prevista, fatti
salvi la possibilita' di presentare domanda per il  Rdc  [Reddito  di
cittadinanza], nonche' il progetto personalizzato definito  ai  sensi
dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 147 del 2017». 
    L'Avvocatura e l'INPS interpretano siffatta  previsione  come  un
divieto assoluto  di  riconoscimento  del  reddito  di  inclusione  a
partire dal 1° aprile 2019, mentre la ricorrente nel giudizio  a  quo
ritiene che essa non riguardi  l'ipotesi  in  cui  il  reddito  venga
riconosciuto dopo quella data in esito a un giudizio pendente che  lo
riconosca come dovuto precedentemente, e che dunque il  beneficio  in
essa previsto possa essere riconosciuto anche dopo il 1° aprile 2019,
a seguito di una decisione giurisdizionale. 
    La totale mancanza di una  benche'  minima  argomentazione  sulla
portata della norma transitoria - come detto, neppure menzionata -  e
sulla permanente applicabilita' della  norma  censurata  nei  giudizi
pendenti si traduce in una  omessa  motivazione  sulla  rilevanza  di
tutte le questioni, con la conseguenza  della  loro  inammissibilita'
(ex multis, sentenze n. 30 e n. 13 del 2020). Di fronte  al  silenzio
del  giudice  a  quo  toccherebbe   a   questa   Corte   pronunciarsi
direttamente sugli effetti dell'abrogazione della norma censurata sui
giudizi pendenti,  ricostruendo  il  significato  della  disposizione
transitoria e applicando  i  criteri  in  ipotesi  individuati  dalla
giurisprudenza  per  fattispecie  simili,  ma   si   tratterebbe   di
operazioni di spettanza del giudice a quo, sulle quali  questa  Corte
esercita solo un controllo successivo di sufficienza e  plausibilita'
in funzione della verifica della rilevanza. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma  1,  lettera  a),  numero  1),  del
decreto legislativo 15  settembre  2017,  n.  147  (Disposizioni  per
l'introduzione di una misura nazionale di contrasto  alla  poverta'),
sollevate, in riferimento agli  artt.  2,  3,  31,  38  e  117  della
Costituzione, nonche' in relazione all'art. 14 della Convenzione  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,  dal
Tribunale ordinario  di  Bergamo,  sezione  lavoro,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2020. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA