N. 150 SENTENZA 24 giugno - 16 luglio 2020
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Illegittimo licenziamento per vizi formali e procedurali - Diritto del lavoratore ad un'indennita' ragguagliata esclusivamente all'anzianita' di servizio - Violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonche' di tutela del lavoro - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, art. 4. - Costituzione, artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 24.(GU n.30 del 22-7-2020 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Marta CARTABIA; Giudici :Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promossi dal Tribunale ordinario di Bari, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 18 aprile 2019, e dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 9 agosto 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 214 e 235 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2019 e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2020. Visto l'atto di costituzione di A. P.; uditi il Giudice relatore Silvana Sciarra e gli avvocati Gianluca Loconsole e Amos Andreoni per A. P., nell'udienza pubblica del 23 giugno 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e d), in collegamento da remoto, su richiesta degli avvocati Amos Andreoni e Gianluca Loconsole, pervenuta in data 9 giugno 2020; udito il Giudice relatore Silvana Sciarra nella camera di consiglio del 24 giugno 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2020. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 18 aprile 2019, iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Bari, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 24 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui prevede un criterio legato alla sola anzianita' di servizio per la determinazione dell'indennita' da corrispondere nell'ipotesi di licenziamento viziato dal punto di vista formale o procedurale. 1.1.- Con sentenza non definitiva, il giudice a quo ha escluso il ricorrere di ipotesi di nullita' o di illegittimita' sostanziale del licenziamento e ha riscontrato soltanto vizi formali, consistenti nella mancata contestazione di uno degli addebiti e, per tutte le violazioni, nell'inosservanza della previsione del contratto collettivo, che impone, al momento della contestazione degli addebiti, di comunicare per iscritto al lavoratore il termine entro il quale potra' presentare gli argomenti a propria difesa. Il giudizio e' proseguito unicamente per la determinazione dell'indennita' da corrispondere per il licenziamento viziato dal punto di vista formale o procedurale e, in tale contesto, il rimettente ha sollevato d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che la disciplina. La disposizione censurata - argomenta il rimettente - non sarebbe stata travolta dalla sentenza n. 194 del 2018 di questa Corte, che ha dichiarato inammissibile per difetto di rilevanza la questione di legittimita' costituzionale sollevata a tale riguardo dal Tribunale di Roma e ha scrutinato soltanto la distinta fattispecie del licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015). Ne' si potrebbe sperimentare una interpretazione adeguatrice, a fronte del tenore letterale inequivocabile della previsione censurata. 1.2.- In merito alla rilevanza della questione, il rimettente evidenzia che la modesta anzianita' di servizio della lavoratrice implicherebbe il riconoscimento di un'indennita' non superiore alla soglia minima delle due mensilita'. La declaratoria di illegittimita' costituzionale consentirebbe, per contro, di valutare altri fattori idonei «ad aumentare detta misura», e, segnatamente, «le notevolissime dimensioni dell'impresa convenuta in termini di fatturato e l'elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell'ordine di migliaia), nonche' la non trascurabile entita' della violazione commessa dalla societa' datrice». 1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo, nel richiamare diffusamente le motivazioni della sentenza n. 194 del 2018, assume che esse siano pertinenti anche per l'omologo criterio di quantificazione dell'indennita' fissato dall'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015. Il meccanismo di determinazione dell'indennita' parametrato alla sola anzianita' di servizio si porrebbe anzitutto in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. In violazione del principio di eguaglianza, una siffatta predeterminazione dell'indennita' omologherebbe situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta - diverse. Difatti, «anche le violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di gravita', e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma puo' produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti, all'anzianita' del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda». Sarebbe violato anche il canone di ragionevolezza, in quanto «il diritto a essere licenziati solo all'esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtu' di un provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato, non riceverebbe adeguata tutela da un meccanismo risarcitorio che consentisse di predeterminare in maniera fissa l'importo dell'indennita' sulla base del solo criterio dell'anzianita' del dipendente». Tale rimedio non sarebbe neppure «congruo rispetto alla finalita' di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma». Il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., in quanto «una tutela inadeguata a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale» si rivelerebbe «lesiva del diritto al lavoro quanto l'analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo sostanziale». La disposizione censurata, nel prevedere una «irragionevole modalita' di calcolo dell'indennita'», sarebbe lesiva anche dell'art. 24 Cost., che tutela le «garanzie procedurali poste dall'ordinamento a presidio di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare». 2.- Con atto depositato il 20 dicembre 2019, si e' costituita la parte ricorrente nel giudizio principale, chiedendo di accogliere la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal Tribunale di Bari. La parte ne sostiene l'ammissibilita', in quanto il rimettente avrebbe descritto in maniera esaustiva la fattispecie concreta e avrebbe offerto una motivazione plausibile sull'applicabilita' dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, riguardante i vizi formali del licenziamento e caratterizzato da un tenore letterale inequivocabile, che non si presta a un'interpretazione adeguatrice. La questione, nel merito, sarebbe fondata, in quanto «la misura fissa dell'indennita'» impedirebbe al giudice di valutare l'effettivo pregiudizio subito e di attribuire rilievo non solo all'anzianita' di servizio, ma anche al comportamento e alle condizioni delle parti. Secondo la parte, la predeterminazione legislativa, in contrasto con il principio di eguaglianza, equipara situazioni oggettivamente diverse e, nel dar luogo a «una quantificazione tanto modesta ed evanescente», lede «il diritto al lavoro, come strumento di realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico», irriducibile alla mera dimensione economica e tutelato dalla Carta fondamentale come «principio di struttura, necessario alla individuazione e definizione dell'ordinamento italiano vigente», per il suo ruolo di «sintesi fra il principio personalistico [...] e quello solidarista». La parte ritiene viziata da contraddittorieta' intrinseca una disciplina che appiattisce il regime sanzionatorio sull'aspetto dell'anzianita' di servizio, senza tener conto della «situazione di bisogno» e delle «caratteristiche individuali», relative ai carichi di famiglia e all'eta', e cosi' penalizza proprio i «soggetti piu' deboli nel mercato del lavoro». 2.1.- In vista dell'udienza pubblica, la parte ha depositato una memoria illustrativa e ha chiesto, in via preliminare, di ammettere la discussione pubblica e, nel merito, di accogliere la questione, estendendo la declaratoria di illegittimita' costituzionale all'enunciato «non superiore a dodici mensilita'». La parte segnala che, con decisione dell'11 febbraio 2020, il Comitato europeo dei diritti sociali ha ritenuto contraria all'art. 24 della Carta sociale europea riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, la fissazione di un tetto massimo che svincoli le indennita', come quella prevista dal censurato art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, dal danno subito. Secondo l'orientamento del Comitato europeo dei diritti sociali, il rimedio compensatorio, ove previsto in alternativa rispetto alla reintegrazione, rappresenta una adeguata forma di riparazione soltanto quando assicura un ristoro tendenzialmente integrale del danno provocato dal licenziamento illegittimo. Quanto alla legislazione italiana, il Comitato europeo dei diritti sociali ha escluso che il meccanismo conciliativo e la previsione della risarcibilita' di danni ulteriori (danno morale o danno biologico, arrecati dal licenziamento illegittimo) rendano dissuasivo il sistema sanzionatorio. Gli orientamenti del Comitato europeo dei diritti sociali, proprio per la peculiare autorevolezza che anche questa Corte mostra di riconoscere loro, ben potrebbero e dovrebbero «esercitare un proprio effetto conformativo, per quanto soft, anche ai fini della determinazione del quantum dell'indennita' risarcitoria per licenziamento illegittimo». La parte evidenzia che l'indennita' per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali si attesta sulle dodici mensilita' e non e' stata modificata dall'art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignita' dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha elevato a trentasei mensilita' l'ammontare massimo dell'indennita' per il licenziamento affetto da vizi sostanziali. Tale discrasia renderebbe ancor piu' irragionevole la disparita' di trattamento tra le due discipline. La violazione dell'art. 3 Cost., oltre che sul piano dell'arbitraria disparita' di trattamento con la disciplina prevista dall'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, si coglierebbe sul versante dell'irragionevolezza intrinseca di una disciplina che prevede un tetto massimo di dodici mensilita' per la violazione del fondamentale obbligo di motivazione del licenziamento e delle altre regole di garanzia del lavoratore, che prescrivono la pubblicita' del codice disciplinare, la preventiva contestazione degli addebiti, l'esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Sulla base di tali considerazioni e in linea con i riferimenti dell'ordinanza di rimessione all'esigenza di adeguato ristoro del pregiudizio subito, si chiede a questa Corte di dichiarare l'illegittimita' consequenziale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui sancisce il tetto massimo di dodici mensilita', anziche' di trentasei mensilita'. Ad avviso della parte, difatti, l'accoglimento della questione, nei circoscritti termini prospettati dal rimettente, implica che il sistema si ricomponga «in modo nuovamente incostituzionale per persistente violazione dell'art. 3 Cost.». 3.- Con ordinanza del 9 agosto 2019, iscritta al n. 235 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, per violazione degli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «limitatamente alle parole "di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio"». 3.1.- Il rimettente espone che gli addebiti mossi al lavoratore integrano grave violazione del rapporto fiduciario e degli obblighi fondamentali inerenti al rapporto di lavoro e che, pertanto, in ragione della loro gravita', giustificano il licenziamento intimato. Tale licenziamento, tuttavia, sarebbe viziato dal punto di vista formale. Il datore di lavoro, in violazione delle garanzie apprestate dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), avrebbe ignorato le difese del lavoratore, ritenendole erroneamente tardive. Secondo il giudice a quo, il caso di specie e' regolato dall'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che prevede, al pari del precedente art. 3, dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 194 del 2018, «un criterio di commisurazione dell'indennita' automaticamente legato all'anzianita' di servizio» e non si presta a un'interpretazione costituzionalmente orientata. 3.2.- Il rimettente ritiene che l'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 incorra nelle medesime censure che questa Corte, con riguardo all'indennita' dovuta per i vizi sostanziali del licenziamento, ha accolto con la richiamata sentenza n. 194 del 2018. Il licenziamento viziato sotto il profilo formale o procedurale si tradurrebbe nell'inosservanza di disposizioni imperative, preordinate a garantire il principio di civilta' giuridica "audiatur et altera pars", e si configurerebbe pur sempre come «un illecito che deve dar luogo ad un risarcimento "adeguato e personalizzato", ancorche' forfettizzato». Il rimettente denuncia la violazione dell'art. 3 Cost. e, in particolare, il contrasto con il «principio di uguaglianza/ragionevolezza». La disposizione censurata sanzionerebbe «in modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma di gravita' che possono essere, a loro volta, del tutto differenti» e, soprattutto nei casi di anzianita' di servizio «assai modesta», non rappresenterebbe «una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e neppure garantirebbe un risarcimento adeguato e personalizzato, necessario anche nel caso di violazione di norme imperative attinenti alla forma e alla procedura. Il meccanismo di predeterminazione dell'indennita' si risolverebbe in un ristoro inadeguato del danno prodotto dal licenziamento e in una dissuasione inefficace e pregiudicherebbe, pertanto, l'interesse del lavoratore alla stabilita' dell'occupazione, tutelato dalla Carta fondamentale. 4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto nei giudizi. 5.- All'udienza pubblica, svoltasi in collegamento da remoto ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e d), la parte costituita nel giudizio di cui al reg. ord. n. 214 del 2019 ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni di merito formulate nella memoria illustrativa. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale ordinario di Bari (reg. ord. n. 214 del 2019) e il Tribunale ordinario di Roma (reg. ord. n. 235 del 2019), entrambi in funzione di giudici del lavoro, dubitano, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, primo comma, della Costituzione, della legittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui prevede, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura di cui all'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale «di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» e attribuisce cosi' rilievo esclusivo, ai fini della quantificazione dell'indennita', al criterio dell'anzianita' di servizio. 1.1.- Il Tribunale di Bari reputa il «congegno automatico di quantificazione dell'indennita'» lesivo dei «principi di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall'art. 3 Cost.». Un siffatto meccanismo, per un verso, non terrebbe conto delle «diverse gradazioni di gravita'» delle violazioni procedurali e dei diversi pregiudizi che il licenziamento illegittimo per questioni di forma arreca «in base alle condizioni delle parti, all'anzianita' del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda». Per altro verso, il meccanismo automatico di calcolo non garantirebbe una adeguata tutela al «diritto a essere licenziati solo all'esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtu' di un provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato» e neppure sarebbe congruo «rispetto alla finalita' di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma». Il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., sul presupposto che «una tutela inadeguata a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale e' altrettanto lesiva del diritto al lavoro quanto l'analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo sostanziale». Ad avviso del rimettente, «l'irragionevole modalita' di calcolo dell'indennita'» contrasta anche con l'art. 24 Cost., che impone di apprestare idonee garanzie procedurali «a presidio di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare». 1.2.- Anche il Tribunale di Roma censura l'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, poiche' stabilisce «un criterio di commisurazione dell'indennita' automaticamente legato all'anzianita' di servizio» e trascura di considerare «una pluralita' di fattori di correlazione al danno sofferto». La commisurazione dell'indennita' alla sola anzianita' di servizio contrasterebbe con il «principio di uguaglianza/ragionevolezza» (art. 3 Cost.), perche' sanzionerebbe «in modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma di gravita' che possono essere, a loro volta, del tutto differenti» e, nei casi di anzianita' di servizio modesta, non rappresenterebbe «una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e non garantirebbe «un adeguato ristoro al concreto pregiudizio». Per le medesime ragioni, l'indennita' determinata in modo «rigido e fisso» non sarebbe rispettosa neppure delle garanzie riconosciute dagli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. 1.3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto nei giudizi. 2.- In ragione dell'identita' della disposizione censurata e dell'omogeneita' delle censure, i giudizi devono essere riuniti, per essere trattati congiuntamente e per essere decisi con un'unica sentenza. 3.- I rimettenti muovono dalla corretta premessa che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza con la sentenza n. 194 del 2018, possa essere riproposta in un diverso giudizio, senza essere preclusa dalla pronuncia in rito di questa Corte. Con riguardo alla necessita' di applicare la previsione citata, i giudici a quibus svolgono un'argomentazione puntuale, che consente di ricostruire la fattispecie concreta e di cogliere la rilevanza del dubbio di costituzionalita'. 3.1.- Il Tribunale di Bari, dopo aver escluso la sussistenza di vizi sostanziali del licenziamento, ha ravvisato vizi di natura esclusivamente formale e procedurale, consistenti nell'omessa contestazione di un addebito e nell'omessa comunicazione al lavoratore del termine entro il quale, per tutti gli addebiti, avrebbe potuto presentare le proprie difese. Il rimettente ha accertato i vizi in esame con una sentenza non definitiva e ha disposto la prosecuzione del giudizio per la determinazione dell'indennita'. In tale contesto, il giudice a quo ha sollevato d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale della disciplina applicabile, non senza illustrare le ragioni che - nell'ipotesi di accoglimento delle censure - condurrebbero a riconoscere una indennita' piu' cospicua rispetto a quella parametrata alla sola anzianita' di servizio (pari, nella specie, a un anno). 3.2.- Il Tribunale di Roma, all'esito di una delibazione sommaria, che riconosce di poter mutare re melius perpensa, disattende l'eccezione pregiudiziale di decadenza dall'impugnazione del licenziamento e reputa infondate le doglianze sui vizi sostanziali dedotti dal lavoratore. Il licenziamento, pur sorretto da giusta causa, risulterebbe viziato sotto il profilo formale, in quanto il datore di lavoro non avrebbe tenuto in alcun conto le difese del lavoratore, sull'erroneo presupposto che fossero tardive. Il giudice a quo ritiene, pertanto, allo stato degli atti, di dovere applicare la disciplina sui vizi formali del licenziamento e di non poter definire la controversia indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale. La motivazione in punto di rilevanza non appare implausibile e supera, pertanto, il vaglio di ammissibilita'. 3.3.- Entrambi i rimettenti riferiscono di avere esplorato la possibilita' di una interpretazione adeguatrice e di averla ritenuta impraticabile, alla luce dell'univoco dato testuale della disposizione censurata. Anche da questo punto di vista, la questione non presenta profili di inammissibilita', poiche' e' stata consapevolmente esclusa - da entrambi i rimettenti - la praticabilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata. 4.- Al fine di delimitare il tema del decidere devoluto all'esame di questa Corte, occorre rilevare che, nella memoria illustrativa depositata in vista dell'udienza, la parte costituita nel giudizio di cui al reg. ord. n. 214 del 2019 ha chiesto di dichiarare l'illegittimita' costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui fissa l'indennita' nell'ammontare massimo di dodici mensilita'. Anche per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, si dovrebbe incrementare la soglia massima fino alle trentasei mensilita' che oggi stabilisce, per il licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo, l'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, cosi' come modificato dall'art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignita' dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. Prospettata nei termini di una declaratoria di illegittimita' costituzionale in via consequenziale, la richiesta della parte, ribadita anche nel corso dell'udienza di discussione pubblica da remoto, adombra, in realta', una diversa questione di legittimita' costituzionale, che verte sul trattamento difforme, quanto alle soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali. Ne' si puo' ritenere identica la questione sulla scorta del dato - posto in risalto nel corso dell'udienza - che non mutano la disposizione censurata e i parametri evocati e che viene pur sempre in rilievo il tema della adeguatezza della tutela. Se il Tribunale di Bari non contesta il trattamento differenziato che il legislatore ha scelto di riservare ai vizi formali e procedurali del licenziamento rispetto a quelli sostanziali e - su questo presupposto - propone incidente di costituzionalita', la parte privata dubita della conformita' a Costituzione di tale disparita' di trattamento e chiede a questa Corte di assimilare, quanto alla tutela indennitaria, la disciplina dei vizi formali e quella dei vizi sostanziali. La diversa prospettiva in cui si collocano i dubbi di costituzionalita' avanzati dal rimettente e dalla parte privata avvalora la novita' delle censure che quest'ultima ha formulato nella memoria illustrativa. Tali censure travalicano e tendono ad ampliare irritualmente il tema del decidere, cosi' come tracciato dall'ordinanza di rimessione, e, pertanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n. 26 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), non devono essere prese in considerazione. Lo scrutinio di questa Corte e' dunque circoscritto ai profili di illegittimita' costituzionale denunciati dai rimettenti. 5.- Le questioni sollevate da entrambi i rimettenti sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. 6.- Occorre, in primo luogo, raffigurare nella sua evoluzione piu' recente il quadro normativo in cui si colloca la disciplina censurata. 6.1.- La legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), ha riservato un'autonoma disciplina alle conseguenze sanzionatorie dei vizi formali e ha modulato le tutele, in ragione della diversa gravita' di tali vizi. Nell'intervenire sull'art. 18, primo e secondo comma, della legge n. 300 del 1970, la legge citata ha conferito autonomo rilievo al licenziamento intimato in forma orale, disponendo, a prescindere dal numero di lavoratori occupati, la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno, pari a «un'indennita' commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attivita' lavorative» e comunque non inferiore a cinque mensilita' della retribuzione globale di fatto. L'art. 2, commi 1, ultimo periodo, e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel confermare tale linea di tendenza, puntualizza che, per il licenziamento intimato in forma orale, l'indennita' e' commisurata non piu' all'ultima retribuzione globale di fatto, ma all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Regole diverse vigono per gli altri vizi formali e, in particolare, per l'ipotesi di «licenziamento dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni», prevista nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La legge n. 92 del 2012 (art. 1, comma 42, lettera b), nel modificare l'art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento. Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore «un'indennita' risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravita' della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo». La tutela indennitaria definita dallo statuto dei lavoratori e' applicabile, dal punto di vista soggettivo, «al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze piu' di quindici lavoratori o piu' di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonche' al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa piu' di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa piu' di cinque dipendenti, anche se ciascuna unita' produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa piu' di sessanta dipendenti» (art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970). Nell'assetto della legge n. 92 del 2012, il datore di lavoro che non raggiunga le dimensioni di cui all'art. 18, ottavo comma, dello statuto dei lavoratori, e sia assoggettato, pertanto, al regime della tutela obbligatoria, dovra' corrispondere, nell'ipotesi di vizi formali diversi dall'inosservanza della forma scritta del licenziamento, una indennita' determinata secondo le regole dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966, in un «importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianita' di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti», accresciuto in rapporto all'anzianita' di servizio (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 settembre 2016, n. 17589). 6.2.- L'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli operai, agli impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, riproduce in gran parte le disposizioni dell'art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, cosi' come novellato dalla legge n. 92 del 2012. La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo. La previsione regola la sola ipotesi del licenziamento «intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970». Ove riscontri i vizi indicati, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilita'». L'art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone che l'importo della indennita' sia dimezzato, nel caso di «piccole imprese», che non raggiungano i requisiti dimensionali dell'art. 18, ottavo e nono comma, dello statuto dei lavoratori. 7.- Le prescrizioni formali, la cui violazione la disposizione censurata ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria, rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civilta' giuridica. Nell'ambito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora piu' pregnante, poiche' segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei principi costituzionali. L'obbligo di motivazione, inizialmente subordinato a una specifica richiesta del lavoratore, ha assunto caratteri piu' stringenti, in seguito alle novita' introdotte dall'art. 1, comma 37, della legge n. 92 del 2012. Il datore di lavoro e', infatti, obbligato a dar conto in maniera sollecita e circostanziata delle giustificazioni per l'applicazione della sanzione piu' grave, secondo il principio di buona fede che permea ogni rapporto obbligatorio e vincola le parti a comportamenti univoci e trasparenti. L'obbligo di motivazione, che ha il suo corollario nella immutabilita' delle ragioni del licenziamento, e' tratto qualificante di una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso. Le previsioni dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, richiamate dalla disposizione oggi censurata, assegnano un ruolo centrale al principio del contraddittorio, piu' che mai cruciale nell'esercizio di un potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto). La conoscibilita' delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell'addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignita' del lavoratore, come traspare anche dalla collocazione sistematica della norma nel Titolo I dello statuto dei lavoratori, denominato «Della liberta' e dignita' del lavoratore». Dopo questo intervento del legislatore, il potere disciplinare, nient'affatto dimidiato ne' tanto meno sospeso, assume le cadenze di un procedimento: esso si estrinseca nel rispetto di precise regole e si snoda attraverso fasi successive (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto). Le garanzie sancite dall'art. 2 della legge n. 604 del 1966 e dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori, consistono nell'imporre alle parti di esternare le contrapposte ragioni, al fine di chiarire i punti controversi e favorire, ove possibile, composizioni stragiudiziali. Tali garanzie preludono a un esercizio piu' efficace del diritto di difesa nel corso della fase giudiziale che il lavoratore puo' scegliere di instaurare successivamente. La violazione delle prescrizioni formali e procedurali, all'origine di un possibile e piu' ampio contenzioso riferito al recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell'immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito contraddittorio e incide, pertanto, sull'effettivita' del diritto di difesa del lavoratore. 8.- L'obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» il recesso del datore di lavoro (sentenza n. 45 del 1965, punto 4. del Considerato in diritto), come questa Corte ha ribadito da ultimo nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 9.1. del Considerato in diritto). Anche i vincoli di forma e di procedura rientrano nell'ambito delle garanzie prescritte dalle norme ora richiamate, lette congiuntamente, proprio perche' volte ad ampliare il perimetro delle tutele che circonda la persona del lavoratore. Questa Corte ha affermato, sin da epoca risalente, che l'inosservanza del principio del contraddittorio e delle scansioni procedurali imposte dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori «puo' incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare. Tanto piu' grave e' il pregiudizio che si verifica se il licenziato non sia posto in grado di difendersi e fare accertare l'insussistenza dei motivi "disciplinari", peraltro unilateralmente mossi e addebitati dal datore di lavoro» (sentenza n. 427 del 1989). Il contraddittorio «esprime un valore essenziale per la persona del lavoratore» (sentenza n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto) e anche l'obbligo di motivazione risponde ad analoghe esigenze di tutela. La violazione di tale obbligo, difatti, non solo preclude in radice il dispiegarsi del contraddittorio, ma reca offesa alla dignita' del lavoratore, esposto all'irrogazione della sanzione espulsiva senza avere adeguata cognizione delle ragioni che la giustificano. 9.- La disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale che sono stati richiamati, deve essere incardinata nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, cosi' da garantire una tutela adeguata. La prudente discrezionalita' del legislatore, pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione dell'importo spettante al lavoratore, non puo' trascurare la valutazione della specificita' del caso concreto. Si tratta di una valutazione tutt'altro che marginale, se solo si considera la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Nel rispetto del dettato costituzionale, la predeterminazione dell'indennita' deve tendere, con ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale specificita' e non puo' discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta un meccanismo rigido e uniforme. 10.- La disciplina censurata non attua un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco. 11.- Entrambi i rimettenti prendono le mosse dalla sentenza n. 194 del 2018, con cui questa Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determinava l'indennita' per il licenziamento intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Le censure ricalcano in gran parte le argomentazioni svolte nella citata sentenza di questa Corte circa il carattere rigido dell'indennita', lesivo dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), tutelato dalla Costituzione in tutte le sue forme e applicazioni. 11.1.- Le ragioni su cui questa Corte ha fondato la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere ripercorse lungo una linea di continuita', al fine di esaminare la disciplina dell'indennita' dovuta per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali. 11.2.- Anche la fattispecie oggi scrutinata si caratterizza per un criterio di determinazione dell'indennita' commisurato alla sola anzianita' di servizio e oscillante tra un limite minimo di due mensilita' e un insuperabile limite massimo di dodici mensilita'. 11.3.- Al dato significativo dell'identita' del criterio congegnato dal legislatore, si affianca la considerazione della ratio decidendi della pronuncia di questa Corte, che serve a orientare la soluzione dell'odierno dubbio di costituzionalita'. Nel giudizio deciso con la sentenza n. 194 del 2018, le censure non riguardavano le soglie fissate dal legislatore, ma il «meccanismo di determinazione» dell'indennita', in quanto «rigido e automatico» (punto 3. del Considerato in diritto). Partendo da tali premesse, questa Corte ha ritenuto ininfluenti le innovazioni introdotte dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito, giacche' esse si limitavano ad apportare correttivi alle soglie stabilite dal legislatore (innalzate da quattro a sei mensilita' nel minimo e da ventiquattro a trentasei mensilita' nel massimo), senza incidere sul meccanismo denunciato dal rimettente e senza mutare, pertanto, i termini essenziali delle questioni proposte. La carenza di giustificazione del licenziamento sul piano sostanziale rende piu' stridenti i profili di contrasto con i parametri costituzionali evocati e fa emergere, con ancor maggiore evidenza, l'irragionevolezza intrinseca del criterio adottato dal legislatore, per la rigidita' che lo caratterizza. 11.4.- Non puo' condurre a diverse conclusioni la differenza che intercorre tra i vizi meramente formali o procedurali e i vizi sostanziali del licenziamento. Essa, difatti, si riverbera sulla diversa modulazione dell'indennita' sancita dalla legge, ma non vale a rendere ragionevole e adeguato un criterio che si presta a censure di irragionevolezza intrinseca. Un sistema che, solo per i vizi formali, lasci inalterato un criterio di determinazione dell'indennita' imperniato sulla sola anzianita' di servizio non potrebbe che accentuare le sperequazioni e la frammentarieta' di una disciplina dei licenziamenti, gia' attraversata da molteplici distinzioni. 12.- L'anzianita' di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, e' inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non puo' esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianita' di servizio. La disciplina censurata prescinde da altri fattori non meno significativi, gia' presi in considerazione dal legislatore, come la diversa gravita' delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, valorizzata dalla legislazione del 2012 nell'area della tutela reale (art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012), o i piu' flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell'impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti (art. 8 della legge n. 604 del 1966), applicabili nell'ambito della tutela obbligatoria, cosi' come definito dalla stessa legge n. 92 del 2012. Nell'appiattire la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianita' di servizio, la disposizione in esame determina un'indebita omologazione di situazioni che, nell'esperienza concreta, sono profondamente diverse e cosi' entra in conflitto con il principio di eguaglianza. 13.- L'art. 3 Cost. e' violato anche sotto il profilo della ragionevolezza, che questa Corte, nell'ambito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialita' dell'apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro (sentenza n. 194 del 2018, punti 12.1. e 12.2. del Considerato in diritto). Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralita' di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, e' chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in se' sempre traumatico, dell'espulsione del lavoratore. L'adeguatezza deve essere valutata alla luce della molteplicita' di funzioni che contraddistinguono l'indennita' disciplinata dalla legge. Alla funzione di ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo si affianca, infatti, anche quella sanzionatoria e dissuasiva (sentenza n. 194 del 2018, punto 12.3. del Considerato in diritto). In un prudente bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente rilevanti, l'esigenza di uniformita' di trattamento e di prevedibilita' dei costi di un atto, che l'ordinamento qualifica pur sempre come illecito, non puo' sacrificare in maniera sproporzionata l'apprezzamento delle particolarita' del caso concreto, peraltro accompagnato da vincoli e garanzie dirette ad assicurarne la trasparenza e il fondamento razionale. 13.1.- La disposizione censurata entra in collisione con tali principi. Sul versante dei licenziamenti viziati dal punto di vista formale, all'arretrare della tutela riferita alla reintegrazione del lavoratore licenziato corrisponde un progressivo affievolirsi della tutela indennitaria, che non basta ad attuare un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto. Nel disegno complessivo prospettato dal legislatore un criterio ancorato in via esclusiva all'anzianita' di servizio non fa che accentuare la marginalita' dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor piu' la funzione di garanzia di fondamentali valori di civilta' giuridica, orientati alla tutela della dignita' della persona del lavoratore. L'incongruenza di una misura uniforme e immutabile si coglie in maniera ancor piu' evidente nei casi di un'anzianita' modesta, come quelli esaminati nei giudizi principali. In queste ipotesi, si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l'efficacia deterrente della tutela indennitaria. Ne' all'inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge puo' porre sempre rimedio la misura minima dell'indennita', fissata in due mensilita'. Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa il pregiudizio arrecato dall'inosservanza di garanzie fondamentali e neppure rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie prescritte dalla legge. Proprio perche' strutturalmente inadeguato, il congegno delineato dal legislatore lede il canone di ragionevolezza. 14.- I rimedi previsti dalla disposizione censurata, in ragione dell'inadeguatezza che li contraddistingue, si rivelano lesivi anche della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.). Tali principi costituzionali, gia' richiamati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 13. del Considerato in diritto), devono essere ribaditi anche per la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignita' della persona del lavoratore. 15.- Si deve, pertanto, dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Restano assorbite le censure di violazione dell'art. 24 Cost., formulate dal solo Tribunale di Bari. 16.- Nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell'indennita', terra' conto innanzitutto dell'anzianita' di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potra' ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell'indennita' aderente alle particolarita' del caso concreto. Ben potranno venire in rilievo, a tale riguardo, la gravita' delle violazioni, enucleata dall'art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai vizi formali nell'ambito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012. 17.- Spetta alla responsabilita' del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in piu' occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2020. F.to: Marta CARTABIA, Presidente Silvana SCIARRA, Redattore Filomena PERRONE, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2020. Il Cancelliere F.to: Filomena PERRONE