N. 158 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 settembre 2020
Ordinanza dell'8 settembre 2020 della Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di B. G., B. S. e S. S.. Reati e pene - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza della circostanza attenuante della lieve entita' del fatto prevista dall'art. 311 del codice penale (in relazione al reato di sequestro a scopo di estorsione ex art. 630 del codice penale) sulla recidiva reiterata. - Codice penale, art. 69, quarto comma.(GU n.47 del 18-11-2020 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Prima Sezione Penale Composta da: Filippo Casa - Presidente - Ord. n. sez. 340/2020; Domenico Fiordalisi - UP - 17 luglio 2020; Luigi Fabrizio Mancuso - R.G.N. 19800/2020; Giacomo Rocchi - Relatore; Francesco Aliffi. Ha pronunciato la seguente Ordinanza sui ricorsi proposti da: B. G.; B. S.; S. S.; avverso la sentenza dell'8 marzo 2019 della Corte Assise appello di Bari; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal Consigliere Giacomo Rocchi; Udito il Pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore Luca Tampieri che ha concluso come indicato nel prosieguo; Ritenuto in fatto 1. Nel presente processo, relativo ad un'associazione per delinquere armata finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ex art. 74, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 e nel quale sono stati addebitati a numerosi imputati innumerevoli episodi di acquisto, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi nonche' violazioni delle norme sulle misure di prevenzione personale, e' stato contestato a cinque imputati - B. G., B. V., B. S /. S. S. classe S. S. classe - il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 del codice penale, con l'aggravante di cui all'art. 112, comma 1, n. 1) del codice penale per essere i concorrenti in numero di cinque. Gli imputati sono stati condannati in primo grado dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari e in appello dalla Corte di assise di appello di Bari. La loro responsabilita' non e' in discussione e i motivi di ricorso per cassazione attengono esclusivamente alla determinazione della pena. Contrariamente a quanto valutato dal giudice di primo grado, la Corte di assise di appello, in ragione di quanto reso possibile dalla sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012, ha riconosciuto a favore degli imputati l'attenuante di cui all'art. 311 del codice penale, ritenendo il fatto di lieve entita': si trattava, infatti, del sequestro operato per poche ore nei confronti di un associato, che si era impossessato di un'arma appartenente al sodalizio e non aveva versato il ricavato della vendita di una piccola quantita' di stupefacente affidatagli, al fine di costringerlo a versare la somma di euro 1.400 e a restituire la pistola. Nella determinazione della pena nei confronti dei cinque imputati la Corte territoriale ha diversificato le posizioni; mentre l'attenuante predetta e' stata ritenuta prevalente sull'aggravante del numero di persone per B. V. e S. S. classe, ai quali non e' stata contestata la recidiva, con conseguente rilevante diminuzione della pena complessiva rispetto a quella inflitta in primo grado, per B. G., B. S. e S. S. classe, in ragione della contestazione della recidiva ai sensi dell'art. 99, comma 4 del codice penale e della valutazione della sua operativita', la diminuente e' stata ritenuta equivalente all'aggravante contestata e alla recidiva stessa, con la conseguente conferma della pena finale di anni venti di reclusione inflitta dal giudice di primo grado: la Corte territoriale ha adottato come pena base per il calcolo della pena complessiva il minimo edittale previsto dall'art. 630 del codice penale di anni venticinque di reclusione, l'ha aumentata per la continuazione con i numerosi e gravi reati contestati ai tre imputati a pena superiore ad anni trenta di reclusione, ha applicato il criterio moderatore di cui all'art. 78 del codice penale, determinando la pena in anni trenta di reclusione e, infine, l'ha ridotta di un terzo per il rito abbreviato. 2. A sostegno della decisione, la Corte territoriale ha correttamente richiamato il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti stabilito dall'art. 69, comma 4, del codice penale per il caso di applicazione della recidiva di cui all'art. 99, comma 4, del codice penale. Non convincono, d'altro canto, le argomentazioni svolte dai tre ricorrenti secondo cui l'attenuante di cui all'art. 311 del codice penale avrebbe natura di «diminuente speciale» e dovrebbe essere sottratta al bilanciamento delle circostanze o che sostengono che l'aggravante del numero delle persone non poteva essere applicata poiche' il Giudice di primo grado non l'aveva presa in considerazione nel calcolo della pena, pur non escludendola: da una parte, il bilanciamento tra le circostanze non puo' essere escluso per quanto disposto dall'art. 69, comma 4 del codice penale, salvo i casi in cui il legislatore lo prevede espressamente; dall'altra, l'applicabilita' o meno dell'aggravante del numero di persone ex art. 112, comma 1, n. 1 del codice penale e' questione irrilevante in quanto, in forza di quanto previsto dallo stesso art. 69, comma 4, del codice penale, il bilanciamento tra recidiva ex art. 99, comma 4 del codice penale e attenuante di cui all'art. 311 del codice penale non puo' in ogni caso risolversi nella prevalenza della circostanza attenuante. 3. Sembra a questa Corte inevitabile fare riferimento alle sentenze della Corte costituzionale emesse con riferimento all'art. 69, comma 4, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, e con riferimento all'applicabilita' al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 del codice penale dell'attenuante di cui all'art. 311 del codice penale In effetti, la sentenza n. 68 del 2012 dava atto della «risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza» fornita dal legislatore negli anni 1978 e 1980 al fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione e del successivo emergere di «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell'emergenza». La Corte ribadiva che la commisurazione delle sanzioni per ciascuna fattispecie astratta di reato e' materia affidata al legislatore, in quanto involge apprezzamenti tipicamente politici, limitando la sindacabilita' ai casi di manifesta irragionevolezza o arbitrio; riteneva che il sequestro di persona a scopo di terrorismo e di eversione fosse strettamente affine ed omogeneo rispetto al sequestro estorsivo sotto diversi profili; valutava, quindi, come manifestamente irrazionale, e dunque lesiva dell'art. 3 della Costituzione, la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entita'; sottolineava che la funzione di tale attenuante e' quella di «mitigare ... una risposta punitiva improntata ad eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varieta' delle situazioni concrete riconducibili al modello legale»; ne deduceva la concorrente violazione dell'art. 27, comma terzo della Costituzione «nel suo valore fondante, in combinazione con l'art. 3 della Costituzione, del principio di proporzionalita' della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata - e, dunque - inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato - vanifica, gia' a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalita' rieducativa». Tale pronuncia rileva perche', in forza del divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva ex art. 99, comma 4 del codice penale, la pena per un episodio che il giudice del merito ha ritenuto motivatamente di lieve entita', resta di «eccezionale asprezza». 4. Le sentenze della Corte costituzionale di parziale illegittimita' dell'art. 69, comma 4, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, richiamano i principi gia' enunciati nella pronuncia appena evocata. Nel dichiarare illegittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, sulla recidiva di cui all'art. 99, comma 4, del codice penale, la sentenza n. 251 del 2012 rimarcava che "due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell'art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell'offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e cio' «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, che pone il fatto alla base della responsabilita' penale» (sentenza n. 249 del 2010). La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosita', ed e' da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensivita' e' chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se cosi' non fosse, la rilevanza dell'offensivita' della fattispecie base potrebbe risultare «neutralizzata» da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita'." La Corte ravvisava anche la violazione del principio di uguaglianza e del principio di proporzionalita' della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione): la deroga «a un principio generale che governa la complessa attivita' commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell'applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011) impediva, infatti, il necessario adeguamento della pena attribuendo alla risposta punitiva "i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012)". Di conseguenza, la norma era da ritenere in contrasto anche con la finalita' rieducativa della pena, "che implica «un costante "principio di proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra» (sentenza n. 341 del 1994)". 5. Anche le successive decisioni ribadivano i medesimi principi. Con la sentenza n. 105 del 2014, nel dichiarare illegittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 648, secondo comma, del codice penale, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma del codice penale, la Corte ne valutava le conseguenze come «manifestamente irragionevoli», per l'annullamento delle differenze tra le due diverse cornici edittali delineate dal primo e dal secondo comma dell'art. 648 del codice penale, avuto riguardo soprattutto ai livelli minimi edittali. Di conseguenza "due fatti, quelli previsti dal primo e dal secondo comma dell'art. 648 del codice penale, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell'offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, «che pone il fatto alla base della responsabilita' penale» (sentenze n. 251 del 2012 e n. 249 del 2010)". Anche in questo caso venivano ritenuti violati il principio di uguaglianza e quello di proporzionalita' della pena: il primo, «perche' il recidivo reiterato autore di una ricettazione di normale o anche di rilevante gravita', da punire, in presenza delle attenuanti generiche, con il minimo edittale della pena stabilita dall'art. 648, primo comma, del codice penale, riceverebbe lo stesso trattamento sanzionatorio - quest'ultimo irragionevolmente severo - spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di particolare tenuita'»; il secondo, in quanto «il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all'attenuante dell'art. 648, secondo comma, del codice penale, impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di particolare tenuita'»; cosicche' la norma censurata doveva ritenersi in contrasto anche con la finalita' rieducativa della pena, «che implica un costante 'principio di proporzione' tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 341 del 1994)». Con la sentenza n. 106 del 2014, che dichiarava l'illegittimita' del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis, terzo comma, del codice penale, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma del codice penale, la Corte riteneva che lo stesso impedisse «il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire appunto attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per il caso di minore gravita'», attribuendo alla risposta punitiva "i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012)"; conclusione "resa ancor piu' evidente dalla notevole divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per la fattispecie base, prevista dal primo comma dell'art. 609-bis del codice penale, e per quella circostanziata, prevista dal terzo comma del medesimo articolo". Veniva ritenuta fondata la censura relativa al principio di uguaglianza, perche' «fatti anche di minima entita' vengono, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell'art. 609-bis del codice penale, per le ipotesi di violenza piu' gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia per il danno arrecato alla vittima». Con la sentenza n. 74 del 2016, che dichiarava l'illegittimita' costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 7, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata prevista dall'art. 99, quarto comma, del codice penale, la Corte rilevava che lo stesso impediva alla disposizione premiale, volta ad incentivare il ravvedimento post-delittuoso del reo, di produrre pienamente i suoi effetti e cosi ne frustrava in modo manifestamente irragionevole la ratio, perche' fa venire meno quell'incentivo sul quale lo stesso legislatore aveva fatto affidamento per stimolare l'attivita' collaborativa. Inoltre, il divieto era irragionevole perche' disconosceva la rilevanza della condotta del reo susseguente al reato, attribuendo «una rilevanza insuperabile alla precedente attivita' delittuosa del reo - quale sintomo della sua maggiore capacita' a delinquere - rispetto alla condotta di collaborazione successiva alla commissione del reato, benche' quest'ultima possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell'attuale capacita' criminale del reo e della sua complessiva personalita'». Con la sentenza n. 205 del 2017, che dichiarava l'illegittimita' costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 219, terzo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, del codice penale, la Corte richiamava le considerazioni gia' svolte nelle sentenze nn. 251 del 2012 e 105 del 2014, ritenendo che la norma conducesse a «conseguenze sanzionatorie manifestamente irragionevoli». Trattandosi di circostanza speciale, di natura oggettiva e ad effetto speciale, con una notevole divaricazione tra le cornici edittali stabilite dal legislatore per le fattispecie base e quelle stabilite per le rispettive ipotesi attenuate a norma dell'art. 219, terzo comma, il divieto comportava che «due fatti, quella di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta che ha cagionato, alla massa dei creditori, un danno patrimoniale di speciale tenuita', che lo stesso assetto legislativo riconosce diversi sul piano dell'offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, che pone il fatto alla base della responsabilita' penale». Il principio di offensivita' veniva ritenuto violato perche' gli aspetti della colpevolezza e della pericolosita' avevano assunto una rilevanza tale da renderli prevalenti rispetto al fatto oggettivo; inoltre, «rispetto a una bancarotta fraudolenta che abbia cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuita', per effetto dell'equivalenza tra la recidiva reiterata e l'attenuante in questione, l'imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall'art. 99, quarto comma, del codice penale, che, a seconda dei casi, e' della meta' o di due terzi», cosi' risultando la norma irragionevole. La Corte riteneva violato anche il principio di proporzionalita' della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione), poiche' «il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all'attenuante di cui all'art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267 del 1942 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per la bancarotta fraudolenta con «un danno patrimoniale di speciale tenuita'», determinando un trattamento sanzionatorio «palesemente sproporzionato». Infine, con la sentenza n. 73 del 2020, dichiarando l'illegittimita' del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 89 del codice penale sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, del codice penale, la Corte osservava che il principio di proporzionalita' della pena rispetto alla gravita' del reato esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo, sottolineando che «il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volonta' criminosa e dal grado del dolo o della colpa ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell'autore, rendendolo piu' o meno rimproverabile.» La Corte riteneva, quindi, che «l'inderogabile divieto di prevalenza non puo' essere ritenuto compatibile con l'esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull'effettiva personalita' del reo». In un passaggio successivo si osservava «Non osta a tale conclusione la natura di circostanza a effetto comune dell'attenuante di cui all'art. 89 del codice penale, che determina - ai sensi dell'art. 65 del codice penale - la diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere altrimenti inflitta. A prescindere dalla considerazione che l'entita' concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall'entita' della pena base - ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti piu' gravi, in vari anni di reclusione in meno -, va infatti ribadito che la circostanza attenuante in parola mira ad adeguare il quantum del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilita' soggettiva dell'agente, ed e' pertanto riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale "costituzionalmente orientato", cosi come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza che - dalla sentenza a. 364 del 1988 in poi - individua nella rimproverabilita' soggettiva un presupposto essenziale dell'imputazione del fatto al suo autore, e conseguentemente dell'applicazione della pena nei suoi confronti». 6. La rassegna appena fatta permette di cogliere affinita' e differenze tra la questione che in questa sede si solleva e le fattispecie gia' valutate dalla Corte costituzionale. In primo luogo, non emerge un problema di contraddittorieta' della disciplina con la ratio della attenuante i cui effetti vengono impediti dal divieto di prevalenza, cosi come per l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 oggetto della sentenza n. 74 del 2016; in secondo luogo, sono estranei alla presente questione i profili relativi al disvalore soggettivo della condotta, rilevanti invece per l'attenuante del vizio parziale di mente, oggetto della sentenza n. 73 del 2020, ma coinvolti anche, sotto il profilo della rilevanza della condotta post delictum, per quella di cui all'art. 73, comma 7, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 appena ricordata. 7. La questione che si solleva si affianca, piuttosto, a quelle, oggetto delle restanti sentenze, che evidenziavano che la medesima pena veniva irrogata a fatti che presentavano una gravita' oggettiva e un'offensivita' nettamente diversa, risultando, di conseguenza, il trattamento sanzionatorio irragionevole e contrario al principio di offensivita': come evidenziato dalla sentenza n. 68 del 2012, l'impossibilita' di applicazione dell'attenuante di cui all'art. 311 del codice penale alla fattispecie del sequestro di persona a scopo di estorsione comportava un trattamento sanzionatorio particolarmente severo anche per «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell'emergenza». Tuttavia, diversamente dalle ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, all'art. 648, secondo comma, del codice penale, all'art. 609-bis, terzo comma, del codice penale e all'art. 219, terzo comma, legge fallimentare, non ricorre quel profilo di manifesta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio derivante dalla notevole differenza tra i limiti edittali - massimi o minimi - previsti per la fattispecie base e per la fattispecie attenuata: quella dell'art. 311 del codice penale e' un'attenuante ad effetto comune, la cui mancata applicazione impedisce, quindi, una diminuzione della pena non superiore ad un terzo. Peraltro, come sembra ricavarsi dal passaggio in precedenza citato della sentenza n. 73 del 2020, si tratta di differenza non decisiva, poiche' «l'entita' concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall'entita' della pena base»: in effetti, nel caso in esame, essendo il limite edittale minimo previsto per il sequestro di persona a scopo di estorsione assai alto (anni venticinque di reclusione), l'impossibilita' di ridurre fino ad un terzo la pena base impedisce una diminuzione che, nel suo massimo, e' pari ad anni otto e mesi quattro di reclusione. In definitiva, attesa l'eccezionale asprezza del trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 630 del codice penale, l'impossibilita' di applicare la diminuzione prevista dall'art. 311 del codice penale in ragione del divieto di prevalenza sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, del codice penale pare integrare la violazione degli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione cosi come richiamati nelle sentenze della Corte costituzionale. 8. La questione risulta quindi, non manifestamente infondata; si tratta di questione rilevante nel presente processo in quanto decisiva per l'accoglimento dei motivi di ricorso per cassazione che censurano la misura della determinazione della pena inflitta ai tre imputati.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4, del codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante prevista dall'art. 311 del codice penale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata ai ricorrenti, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi deciso il 17 luglio 2020. Il presidente: Casa Il consigliere estensore: Rocchi