N. 158 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 settembre 2020

Ordinanza  dell'8  settembre  2020  della  Corte  di  cassazione  nel
procedimento penale a carico di B. G., B. S. e S. S.. 
 
Reati e pene - Concorso di  circostanze  aggravanti  e  attenuanti  -
  Divieto di prevalenza  della  circostanza  attenuante  della  lieve
  entita' del fatto prevista dall'art.  311  del  codice  penale  (in
  relazione al reato di sequestro a scopo di estorsione ex  art.  630
  del codice penale) sulla recidiva reiterata. 
- Codice penale, art. 69, quarto comma. 
(GU n.47 del 18-11-2020 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Prima Sezione Penale 
 
    Composta da: 
      Filippo Casa - Presidente - Ord. n. sez. 340/2020; 
      Domenico Fiordalisi - UP - 17 luglio 2020; 
      Luigi Fabrizio Mancuso - R.G.N. 19800/2020; 
      Giacomo Rocchi - Relatore; 
      Francesco Aliffi. 
    Ha pronunciato la seguente Ordinanza sui ricorsi proposti da: 
      B. G.; 
      B. S.; 
      S. S.; 
    avverso la sentenza dell'8 marzo 2019 della Corte Assise  appello
di Bari; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal Consigliere Giacomo Rocchi; 
    Udito il Pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore
Luca Tampieri che ha concluso come indicato nel prosieguo; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.  Nel  presente  processo,  relativo  ad  un'associazione   per
delinquere armata finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ex
art. 74, decreto del Presidente della Repubblica n. 309  del  1990  e
nel quale sono stati  addebitati  a  numerosi  imputati  innumerevoli
episodi di acquisto, detenzione e cessione di sostanze  stupefacenti,
detenzione e porto di  armi  nonche'  violazioni  delle  norme  sulle
misure  di  prevenzione  personale,  e'  stato  contestato  a  cinque
imputati - B. G., B. V., B. S /. S. S.  classe  S.  S.  classe  -  il
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 del
codice penale, con l'aggravante di cui all'art. 112, comma 1,  n.  1)
del codice penale per essere i concorrenti in numero di  cinque.  Gli
imputati  sono  stati  condannati  in   primo   grado   dal   Giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari  e  in  appello  dalla
Corte di assise di appello di Bari. La loro responsabilita' non e' in
discussione  e  i  motivi  di  ricorso   per   cassazione   attengono
esclusivamente alla determinazione della pena. 
    Contrariamente a quanto valutato dal giudice di primo  grado,  la
Corte di assise di appello, in ragione di quanto reso possibile dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012, ha riconosciuto a
favore degli imputati l'attenuante di cui  all'art.  311  del  codice
penale, ritenendo il fatto di lieve entita':  si  trattava,  infatti,
del sequestro operato per poche ore nei confronti  di  un  associato,
che si era impossessato di un'arma appartenente al  sodalizio  e  non
aveva versato il ricavato della vendita di una piccola  quantita'  di
stupefacente affidatagli, al fine di costringerlo a versare la  somma
di euro 1.400 e a restituire la pistola. 
    Nella determinazione della pena nei confronti dei cinque imputati
la  Corte  territoriale  ha  diversificato   le   posizioni;   mentre
l'attenuante predetta e' stata  ritenuta  prevalente  sull'aggravante
del numero di persone per B. V. e S. S. classe, ai quali non e' stata
contestata la recidiva, con conseguente rilevante  diminuzione  della
pena complessiva rispetto a quella inflitta in primo  grado,  per  B.
G., B. S. e S.  S.  classe,  in  ragione  della  contestazione  della
recidiva ai sensi dell'art. 99, comma 4 del  codice  penale  e  della
valutazione della sua operativita', la diminuente e'  stata  ritenuta
equivalente all'aggravante contestata e alla recidiva stessa, con  la
conseguente conferma della pena finale di anni  venti  di  reclusione
inflitta dal  giudice  di  primo  grado:  la  Corte  territoriale  ha
adottato come pena base per il  calcolo  della  pena  complessiva  il
minimo edittale previsto dall'art. 630  del  codice  penale  di  anni
venticinque di reclusione, l'ha aumentata per la continuazione con  i
numerosi e gravi reati contestati ai tre imputati a pena superiore ad
anni trenta di reclusione, ha applicato il criterio moderatore di cui
all'art. 78 del codice penale, determinando la pena in anni trenta di
reclusione  e,  infine,  l'ha  ridotta  di  un  terzo  per  il   rito
abbreviato. 
    2.  A  sostegno  della  decisione,  la  Corte   territoriale   ha
correttamente richiamato il divieto di prevalenza  delle  circostanze
attenuanti stabilito dall'art. 69, comma 4, del codice penale per  il
caso di applicazione della recidiva di cui all'art. 99, comma 4,  del
codice penale. 
    Non convincono, d'altro canto, le argomentazioni svolte  dai  tre
ricorrenti secondo cui l'attenuante di cui all'art.  311  del  codice
penale avrebbe natura di  «diminuente  speciale»  e  dovrebbe  essere
sottratta al bilanciamento delle circostanze  o  che  sostengono  che
l'aggravante del numero delle persone  non  poteva  essere  applicata
poiche' il Giudice di primo grado non l'aveva presa in considerazione
nel calcolo della pena,  pur  non  escludendola:  da  una  parte,  il
bilanciamento tra le circostanze non puo' essere escluso  per  quanto
disposto dall'art. 69, comma 4 del codice penale, salvo i casi in cui
il legislatore lo prevede espressamente; dall'altra, l'applicabilita'
o meno dell'aggravante del numero di persone ex art. 112, comma 1, n.
1 del codice penale e' questione irrilevante in quanto, in  forza  di
quanto previsto dallo stesso art. 69, comma 4, del codice penale,  il
bilanciamento tra recidiva ex art. 99, comma 4 del  codice  penale  e
attenuante di cui all'art. 311 del codice penale  non  puo'  in  ogni
caso risolversi nella prevalenza della circostanza attenuante. 
    3. Sembra  a  questa  Corte  inevitabile  fare  riferimento  alle
sentenze della Corte costituzionale emesse con  riferimento  all'art.
69, comma 4, del codice penale, come  sostituito  dall'art.  3  della
legge 5 dicembre 2005, n. 251, e con  riferimento  all'applicabilita'
al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ex art.  630
del codice penale dell'attenuante di  cui  all'art.  311  del  codice
penale 
    In effetti, la sentenza n. 68 del 2012 dava atto della  «risposta
sanzionatoria di eccezionale asprezza» fornita dal legislatore  negli
anni 1978 e 1980 al fenomeno dei sequestri  di  persona  a  scopo  di
estorsione  e  del  successivo  emergere  di  «episodi   marcatamente
dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto
a quelli avuti di mira  dal  legislatore  dell'emergenza».  La  Corte
ribadiva  che  la  commisurazione   delle   sanzioni   per   ciascuna
fattispecie astratta di reato e' materia affidata al legislatore,  in
quanto  involge  apprezzamenti  tipicamente  politici,  limitando  la
sindacabilita' ai casi  di  manifesta  irragionevolezza  o  arbitrio;
riteneva che il sequestro di persona  a  scopo  di  terrorismo  e  di
eversione fosse strettamente affine ed omogeneo rispetto al sequestro
estorsivo   sotto   diversi   profili;   valutava,    quindi,    come
manifestamente  irrazionale,  e  dunque  lesiva  dell'art.  3   della
Costituzione, la mancata previsione,  in  rapporto  al  sequestro  di
persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve
entita'; sottolineava che la funzione di tale attenuante e' quella di
«mitigare  ...  una  risposta  punitiva  improntata  ad   eccezionale
asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace  di
adattamento alla varieta' delle situazioni concrete riconducibili  al
modello legale»; ne deduceva la concorrente violazione dell'art.  27,
comma  terzo  della  Costituzione  «nel  suo  valore   fondante,   in
combinazione con  l'art.  3  della  Costituzione,  del  principio  di
proporzionalita' della pena  al  fatto  concretamente  commesso,  sul
rilievo che  una  pena  palesemente  sproporzionata  -  e,  dunque  -
inevitabilmente avvertita come ingiusta dal  condannato  -  vanifica,
gia' a livello di comminatoria  legislativa  astratta,  la  finalita'
rieducativa». 
    Tale pronuncia rileva perche', in forza del divieto di prevalenza
delle attenuanti sulla recidiva  ex  art.  99,  comma  4  del  codice
penale, la pena per un episodio che il giudice del merito ha ritenuto
motivatamente di lieve entita', resta di «eccezionale asprezza». 
    4.  Le  sentenze   della   Corte   costituzionale   di   parziale
illegittimita'  dell'art.  69,  comma  4,  del  codice  penale,  come
sostituito  dall'art.  3  della  legge  5  dicembre  2005,  n.   251,
richiamano i principi gia' enunciati nella pronuncia appena evocata. 
    Nel  dichiarare  illegittimo  il  divieto  di  prevalenza   della
circostanza attenuante di cui  all'art.  73,  comma  5,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, sulla  recidiva  di  cui
all'art. 99, comma 4, del codice penale, la sentenza n. 251 del  2012
rimarcava che "due fatti, quelli previsti  dal  primo  e  dal  quinto
comma dell'art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce  come
profondamente diversi sul piano dell'offesa, vengono ricondotti  alla
medesima cornice edittale, e cio'  «determina  un  contrasto  tra  la
disciplina censurata e l'art. 25, secondo comma, della  Costituzione,
che pone il fatto alla base della responsabilita'  penale»  (sentenza
n. 249 del 2010). 
    La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e
della pericolosita', ed  e'  da  ritenere  che  questi,  pur  essendo
pertinenti  al  reato,  non  possano  assumere,   nel   processo   di
individualizzazione  della  pena,  una  rilevanza  tale  da  renderli
comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio
di offensivita'  e'  chiamato  ad  operare  non  solo  rispetto  alla
fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto  a  tutti  gli
istituti che incidono sulla individualizzazione della  pena  e  sulla
sua  determinazione  finale.  Se  cosi'  non  fosse,   la   rilevanza
dell'offensivita'   della   fattispecie   base   potrebbe   risultare
«neutralizzata» da un processo di individualizzazione prevalentemente
orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita'." 
    La  Corte  ravvisava  anche  la  violazione  del   principio   di
uguaglianza e del principio di proporzionalita' della pena (art.  27,
terzo comma, della Costituzione): la deroga «a un principio  generale
che governa la complessa attivita' commisurativa della pena da  parte
del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con
quelli mediante i quali essa, secondo  un  processo  finalisticamente
indirizzato dall'art. 27, terzo comma,  della  Costituzione,  diviene
adeguata al caso di specie anche per  mezzo  dell'applicazione  delle
circostanze»  (sentenza  n.  183  del  2011)  impediva,  infatti,  il
necessario adeguamento della pena attribuendo alla risposta  punitiva
"i connotati di «una  pena  palesemente  sproporzionata»  e,  dunque,
«inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n.
68 del 2012)". Di conseguenza, la norma era da ritenere in  contrasto
anche con la finalita'  rieducativa  della  pena,  "che  implica  «un
costante "principio di proporzione" tra qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra» (sentenza  n.  341  del
1994)". 
    5. Anche le successive decisioni ribadivano i medesimi principi. 
    Con la sentenza n. 105 del 2014, nel  dichiarare  illegittimo  il
divieto di prevalenza della circostanza attenuante  di  cui  all'art.
648, secondo comma, del codice penale, sulla recidiva di cui all'art.
99,  quarto  comma  del  codice  penale,  la  Corte  ne  valutava  le
conseguenze come «manifestamente irragionevoli»,  per  l'annullamento
delle differenze tra le due diverse cornici  edittali  delineate  dal
primo e dal secondo comma dell'art.  648  del  codice  penale,  avuto
riguardo soprattutto ai livelli minimi edittali. 
    Di conseguenza "due  fatti,  quelli  previsti  dal  primo  e  dal
secondo comma dell'art. 648 del codice penale, che lo stesso  assetto
legislativo  riconosce   come   profondamente   diversi   sul   piano
dell'offesa,  vengono  ricondotti  alla  medesima  cornice  edittale,
determinando  la  violazione  dell'art.  25,  secondo  comma,   della
Costituzione, «che pone il  fatto  alla  base  della  responsabilita'
penale» (sentenze n. 251 del 2012 e n. 249 del 2010)". 
    Anche in questo caso venivano ritenuti violati  il  principio  di
uguaglianza e  quello  di  proporzionalita'  della  pena:  il  primo,
«perche' il recidivo reiterato autore di una ricettazione di  normale
o  anche  di  rilevante  gravita',  da  punire,  in  presenza   delle
attenuanti generiche, con il minimo  edittale  della  pena  stabilita
dall'art. 648, primo comma, del codice penale, riceverebbe lo  stesso
trattamento sanzionatorio - quest'ultimo irragionevolmente  severo  -
spettante al recidivo  reiterato,  cui  pure  siano  riconosciute  le
attenuanti generiche, ma autore di un fatto di particolare tenuita'»;
il secondo, in quanto «il divieto legislativo  di  soccombenza  della
recidiva reiterata rispetto  all'attenuante  dell'art.  648,  secondo
comma, del codice penale, impedisce il  necessario  adeguamento,  che
dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena stabilita  dal
legislatore per il fatto di particolare tenuita'»; cosicche' la norma
censurata doveva  ritenersi  in  contrasto  anche  con  la  finalita'
rieducativa della  pena,  «che  implica  un  costante  'principio  di
proporzione' tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
offesa, dall'altra (sentenza n. 341 del 1994)». 
    Con la sentenza n. 106 del 2014, che dichiarava  l'illegittimita'
del  divieto  di  prevalenza  della  circostanza  attenuante  di  cui
all'art. 609-bis, terzo comma, del codice penale, sulla  recidiva  di
cui all'art. 99, quarto comma del codice penale,  la  Corte  riteneva
che lo stesso impedisse  «il  necessario  adeguamento,  che  dovrebbe
avvenire appunto attraverso l'applicazione della pena  stabilita  dal
legislatore  per  il  caso  di  minore  gravita'»,  attribuendo  alla
risposta   punitiva   "i   connotati   di   «una   pena   palesemente
sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita  come  ingiusta
dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012)"; conclusione  "resa  ancor
piu' evidente dalla notevole  divaricazione  delle  cornici  edittali
stabilite dal legislatore per la fattispecie base, prevista dal primo
comma  dell'art.  609-bis   del   codice   penale,   e   per   quella
circostanziata, prevista dal  terzo  comma  del  medesimo  articolo".
Veniva  ritenuta  fondata  la  censura  relativa  al   principio   di
uguaglianza, perche' «fatti anche  di  minima  entita'  vengono,  per
effetto  del  divieto  in  questione,  ad  essere   irragionevolmente
sanzionati con la stessa pena, prevista  dal  primo  comma  dell'art.
609-bis del codice penale, per le ipotesi  di  violenza  piu'  gravi,
vale a dire  per  condotte  che,  pur  aggredendo  il  medesimo  bene
giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia  per
il danno arrecato alla vittima». 
    Con la sentenza n. 74 del 2016, che  dichiarava  l'illegittimita'
costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante
di cui all'art. 73, comma 7, decreto del Presidente della  Repubblica
n. 309 del 1990  sulla  recidiva  reiterata  prevista  dall'art.  99,
quarto comma, del codice penale, la  Corte  rilevava  che  lo  stesso
impediva  alla  disposizione  premiale,  volta  ad   incentivare   il
ravvedimento post-delittuoso del reo, di produrre pienamente  i  suoi
effetti e cosi ne frustrava in modo manifestamente  irragionevole  la
ratio, perche' fa venire meno quell'incentivo  sul  quale  lo  stesso
legislatore  aveva  fatto  affidamento  per   stimolare   l'attivita'
collaborativa.  Inoltre,  il  divieto   era   irragionevole   perche'
disconosceva la rilevanza  della  condotta  del  reo  susseguente  al
reato,  attribuendo  «una  rilevanza  insuperabile  alla   precedente
attivita' delittuosa del reo  -  quale  sintomo  della  sua  maggiore
capacita' a delinquere - rispetto  alla  condotta  di  collaborazione
successiva alla commissione del  reato,  benche'  quest'ultima  possa
essere  in  concreto  ugualmente,  o   addirittura   prevalentemente,
indicativa dell'attuale capacita'  criminale  del  reo  e  della  sua
complessiva personalita'». 
    Con la sentenza n. 205 del 2017, che dichiarava  l'illegittimita'
costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante
di cui all'art. 219, terzo comma, R.D. 16 marzo 1942, n.  267  (legge
fallimentare) sulla recidiva di cui all'art. 99,  quarto  comma,  del
codice penale, la Corte  richiamava  le  considerazioni  gia'  svolte
nelle sentenze nn. 251 del 2012 e 105  del  2014,  ritenendo  che  la
norma  conducesse   a   «conseguenze   sanzionatorie   manifestamente
irragionevoli». 
    Trattandosi di circostanza speciale, di  natura  oggettiva  e  ad
effetto speciale, con  una  notevole  divaricazione  tra  le  cornici
edittali stabilite dal legislatore per le fattispecie base  e  quelle
stabilite per le rispettive ipotesi attenuate a norma dell'art.  219,
terzo  comma,  il  divieto  comportava  che  «due  fatti,  quella  di
bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta che ha cagionato,  alla
massa dei creditori, un danno patrimoniale di speciale tenuita',  che
lo  stesso  assetto   legislativo   riconosce   diversi   sul   piano
dell'offesa,  vengono  ricondotti  alla  medesima  cornice  edittale,
determinando  la  violazione  dell'art.  25,  secondo  comma,   della
Costituzione, che pone  il  fatto  alla  base  della  responsabilita'
penale». 
    Il principio di offensivita' veniva ritenuto violato perche'  gli
aspetti della colpevolezza e della pericolosita' avevano assunto  una
rilevanza tale da renderli prevalenti rispetto  al  fatto  oggettivo;
inoltre, «rispetto a una bancarotta fraudolenta che  abbia  cagionato
un   danno   patrimoniale   di   speciale   tenuita',   per   effetto
dell'equivalenza  tra  la  recidiva  reiterata  e   l'attenuante   in
questione, l'imputato viene  di  fatto  a  subire  un  aumento  assai
superiore a  quello  specificamente  previsto  dall'art.  99,  quarto
comma, del codice penale, che, a seconda dei casi, e' della  meta'  o
di due terzi», cosi' risultando la norma irragionevole. 
    La Corte riteneva violato anche il principio di  proporzionalita'
della pena (art. 27, terzo comma, della  Costituzione),  poiche'  «il
divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata  rispetto
all'attenuante di cui all'art. 219, terzo comma, del r.d. n. 267  del
1942 impedisce  il  necessario  adeguamento,  che  dovrebbe  avvenire
attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per la
bancarotta  fraudolenta  con  «un  danno  patrimoniale  di   speciale
tenuita'», determinando  un  trattamento  sanzionatorio  «palesemente
sproporzionato». 
    Infine,  con  la   sentenza   n.   73   del   2020,   dichiarando
l'illegittimita'  del  divieto  di   prevalenza   della   circostanza
attenuante di cui all'art. 89 del codice penale sulla recidiva di cui
all'art. 99, quarto comma, del codice penale, la Corte osservava  che
il principio di proporzionalita' della pena  rispetto  alla  gravita'
del reato esige  in  via  generale  che  la  pena  sia  adeguatamente
calibrata non solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di
reato per gli interessi protetti, ma anche  al  disvalore  soggettivo
espresso  dal  fatto  medesimo,  sottolineando  che  «il  quantum  di
disvalore soggettivo dipende in maniera  determinante  non  solo  dal
contenuto della volonta' criminosa e dal grado del dolo o della colpa
ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno  influito  sul
processo  motivazionale   dell'autore,   rendendolo   piu'   o   meno
rimproverabile.»  La  Corte  riteneva,  quindi,  che  «l'inderogabile
divieto di  prevalenza  non  puo'  essere  ritenuto  compatibile  con
l'esigenza, di rango costituzionale, di determinazione  di  una  pena
proporzionata e calibrata sull'effettiva personalita' del reo». 
    In  un  passaggio  successivo  si  osservava  «Non  osta  a  tale
conclusione la natura di circostanza a effetto comune dell'attenuante
di cui all'art. 89 del  codice  penale,  che  determina  -  ai  sensi
dell'art. 65 del codice penale - la diminuzione fino a un terzo della
pena che dovrebbe essere altrimenti  inflitta.  A  prescindere  dalla
considerazione che  l'entita'  concreta  della  diminuzione  di  pena
dipende ovviamente dall'entita' della pena base -  ben  potendo  tale
diminuzione tradursi, rispetto ai delitti piu' gravi, in vari anni di
reclusione  in  meno  -,  va  infatti  ribadito  che  la  circostanza
attenuante in parola mira ad  adeguare  il  quantum  del  trattamento
sanzionatorio alla significativa  riduzione  della  rimproverabilita'
soggettiva dell'agente, ed e' pertanto riconducibile a  un  connotato
di sistema di un diritto penale "costituzionalmente orientato",  cosi
come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza
che - dalla sentenza a.  364  del  1988  in  poi  -  individua  nella
rimproverabilita'    soggettiva     un     presupposto     essenziale
dell'imputazione  del  fatto  al  suo  autore,   e   conseguentemente
dell'applicazione della pena nei suoi confronti». 
    6. La rassegna appena fatta  permette  di  cogliere  affinita'  e
differenze tra la questione che  in  questa  sede  si  solleva  e  le
fattispecie gia' valutate dalla Corte costituzionale. 
    In primo luogo, non  emerge  un  problema  di  contraddittorieta'
della disciplina con la ratio della attenuante i cui effetti  vengono
impediti dal divieto di prevalenza, cosi come per l'attenuante di cui
all'art. 73, comma 7, decreto del Presidente della Repubblica n.  309
del 1990 oggetto della sentenza n. 74 del  2016;  in  secondo  luogo,
sono estranei alla presente questione i profili relativi al disvalore
soggettivo della condotta,  rilevanti  invece  per  l'attenuante  del
vizio parziale di mente, oggetto della sentenza n. 73  del  2020,  ma
coinvolti anche, sotto il profilo della rilevanza della condotta post
delictum, per quella  di  cui  all'art.  73,  comma  7,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 appena ricordata. 
    7. La questione che si solleva si affianca, piuttosto, a  quelle,
oggetto delle restanti sentenze, che evidenziavano  che  la  medesima
pena veniva irrogata a fatti che presentavano una gravita'  oggettiva
e un'offensivita' nettamente diversa, risultando, di conseguenza,  il
trattamento sanzionatorio irragionevole e contrario al  principio  di
offensivita':  come  evidenziato  dalla  sentenza  n.  68  del  2012,
l'impossibilita' di applicazione dell'attenuante di cui all'art.  311
del codice penale alla fattispecie del sequestro di persona  a  scopo
di estorsione comportava un trattamento sanzionatorio particolarmente
severo  anche  per  «episodi  marcatamente   dissimili,   sul   piano
criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a  quelli  avuti  di
mira dal legislatore dell'emergenza». 
    Tuttavia, diversamente dalle ipotesi di cui all'art. 73, comma 5,
decreto del Presidente della Repubblica n.  309  del  1990,  all'art.
648, secondo comma, del codice penale, all'art. 609-bis, terzo comma,
del codice penale e all'art. 219, terzo  comma,  legge  fallimentare,
non  ricorre  quel  profilo   di   manifesta   irragionevolezza   del
trattamento sanzionatorio derivante dalla notevole differenza  tra  i
limiti edittali - massimi o minimi - previsti per la fattispecie base
e per la fattispecie  attenuata:  quella  dell'art.  311  del  codice
penale  e'  un'attenuante  ad  effetto   comune,   la   cui   mancata
applicazione  impedisce,  quindi,  una  diminuzione  della  pena  non
superiore ad un terzo. Peraltro, come sembra ricavarsi dal  passaggio
in precedenza citato della sentenza n. 73  del  2020,  si  tratta  di
differenza  non   decisiva,   poiche'   «l'entita'   concreta   della
diminuzione di pena dipende ovviamente dall'entita' della pena base»:
in effetti, nel caso in esame,  essendo  il  limite  edittale  minimo
previsto per il sequestro di persona a scopo di estorsione assai alto
(anni venticinque di reclusione), l'impossibilita' di ridurre fino ad
un terzo la pena base impedisce una diminuzione che, nel suo massimo,
e' pari ad anni otto e mesi quattro di reclusione. 
    In definitiva,  attesa  l'eccezionale  asprezza  del  trattamento
sanzionatorio   previsto   dall'art.   630   del    codice    penale,
l'impossibilita' di applicare la diminuzione prevista  dall'art.  311
del codice penale in ragione del divieto di prevalenza sulla recidiva
di cui all'art. 99, quarto comma, del codice penale pare integrare la
violazione degli artt. 3,  25  e  27  della  Costituzione  cosi  come
richiamati nelle sentenze della Corte costituzionale. 
    8. La questione risulta quindi, non manifestamente infondata;  si
tratta  di  questione  rilevante  nel  presente  processo  in  quanto
decisiva per l'accoglimento dei motivi di ricorso per cassazione  che
censurano la misura della determinazione della pena inflitta  ai  tre
imputati. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4, del codice  penale
nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza
attenuante prevista dall'art. 311 del codice penale,  in  riferimento
agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso. 
    Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata ai ricorrenti, al Procuratore generale presso la Corte  di
cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata
ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Cosi deciso il 17 luglio 2020. 
 
                         Il presidente: Casa 
 
 
                  Il consigliere estensore: Rocchi