N. 173 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 marzo 2020
Ordinanza dell'11 marzo 2020 della Corte d'appello di Napoli nel procedimento civile promosso da Ametrano Salvatore contro Ministero della giustizia. Processo penale - Equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo - Processi di durata non eccedente, al 31 ottobre 2016, i termini ragionevoli di durata previsti dall'art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 e processi non ancora assunti in decisione alla stessa data - Rimedi preventivi - Deposito, da parte dell'imputato e delle altre parti del processo penale, di un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima del decorso dei termini ragionevoli di durata - Inammissibilita' della domanda di equa riparazione nel caso di mancato esperimento dei rimedi preventivi. - Legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), artt. 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della medesima legge.(GU n.50 del 9-12-2020 )
LA CORTE D'APPELLO DI NAPOLI 7ª Sezione Civile Nella persona del consigliere dott. Danilo Chieca, magistrato designato ai sensi dell'art. 3, comma 4, legge n. 89/2001; Letto il ricorso ex art. 3, comma 1, legge citata, proposto in data 6 febbraio 2020 da Salvatore Ametrano, nato a Boscoreale il 9 settembre 1957, ivi residente alla via Cangiani n. 23/A (c.f.: MTR SVT 57P09 B076E), rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Lauretta, giusta procura ad litem in calce al ricorso, contro il Ministero della giustizia, con sede in Roma alla via Arenula n. 70 (c.f.: 80184430587), in persona del Ministro pro tempore; Rileva: Il ricorrente Salvatore Ametrano ha chiesto la liquidazione di un indennizzo ex legge n. 89/2001 (c.d. Legge Pinto) per il danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto a causa dell'irragionevole durata di un processo penale tuttora pendente a suo carico, in grado d'appello, dinanzi a questa Corte (come si evince dall'allegata certificazione rilasciata in data 6 febbraio 2020 dalla competente cancelleria), nel quale e' gia' maturato un ritardo tale da legittimare la proposizione della domanda. In detto processo - la cui durata al 31 ottobre 2016 non eccedeva i termini ragionevoli stabiliti dall'art. 2, comma 2-bis, legge citata, come si avra' modo di chiarire infra - non risulta presentata dall'imputato l'istanza di accelerazione prevista come rimedio preventivo dall'art. 1-ter, comma 2, della stessa legge, aggiunto dall'art. 1, comma 777, lettera a), legge n. 208/2015, in vigore dal 1° gennaio 2016. Una siffatta omissione dovrebbe condurre al diniego del diritto all'indennizzo e alla declaratoria di inammissibilita' dell'istanza, in virtu' di quanto disposto dagli articoli 1-bis, comma 2, 2, comma 1, e 6, comma 2-bis, legge n. 89/2001 - come rispettivamente introdotto e sostituito dall'art. 1, comma 777, lettere a) e b), legge n. 208/2015 -, i quali cosi' recitano: «Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'art. 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione»; «E' inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo di cui all'articolo 1-ter»; «Nei processi la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all'art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data, non si applica il comma 1 dell'art. 2». Questo giudice, tuttavia, dubita della legittimita' costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, legge n. 89/2001, in relazione agli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della stessa legge, innanzi citati. Per tale ragione, con la presente ordinanza solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, invocando l'intervento del giudice delle leggi. A supporto del manifestato dubbio di costituzionalita' svolge i seguenti rilievi, nel rispetto delle prescrizioni dettate dai primi tre commi dell'art. 23, legge n. 87/1953. 1. Ammissibilita' della questione Prima ancora di procedere all'esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, e' doveroso evidenziare che non sembra potersi dubitare della promovibilita' di un incidente di costituzionalita' nell'ambito della fase sommaria del procedimento di equa riparazione, il quale, a seguito della riforma introdotta dal decreto-legge n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134/2012, risulta attualmente strutturato sulla falsariga di quello monitorio disciplinato dal codice di procedura civile. Gia' in passato, infatti, la Consulta ha ritenuto ammissibile la questione di legittimita' costituzionale sollevata in sede di procedimento per l'emanazione di un decreto ingiuntivo, rilevando trattarsi pur sempre di un giudizio (ancorche' in fase sommaria), la cui esistenza costituisce, a norma dell'art. 23, legge n. 87/1953, l'unico presupposto oggettivo di legittimazione per dare origine all'incidente di costituzionalita' (cfr., in tal senso, Corte costituzionale n. 128/2008). 2. Disposizioni della Costituzione che si assumono violate Tanto premesso, gli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, legge n. 89/2001 - in combinato disposto con gli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della stessa legge, nel testo, applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a), b) e m), legge n. 208/2015 -, sono sospettati di incostituzionalita' per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), costituenti le norme interposte invocate ad integrazione dell'indicato parametro costituzionale. Si riporta, qui di seguito, il testo delle disposizioni che si assumono violate: art. 117, comma 1, della Costituzione: «La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»; art. 6, paragrafo 1, della CEDU: «Ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta (...)»; art. 13 della CEDU: «Ogni persona i cui diritti e le cui liberta' riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali». 3. Rilevanza della questione La prospettata questione di legittimita' costituzionale appare rilevante per la definizione del presente procedimento, ove si consideri che: il giudizio penale presupposto, tuttora pendente in grado di appello dinanzi a questa Corte, ha gia' raggiunto una durata complessivamente superiore al termine ragionevole di cinque anni previsto dall'art. 2, comma 2-bis, legge n. 89/2001 - tre anni per il primo grado e due anni per il secondo grado -, essendosi protratto per cinque anni, dieci mesi e dodici giorni fino alla data di deposito del ricorso (6 febbraio 2020), al netto del lasso di tempo intercorso tra il giorno in cui e' iniziato a decorrere il termine per proporre l'impugnazione avverso la sentenza di primo grado e la proposizione della stessa, secondo quanto previsto dall'art. 2, comma 2-quater, legge citata; non vi sono stati, nel corso dello stesso, eventuali periodi di sospensione da scomputare ai sensi dell'art. 2, comma 2-quater teste' citato; per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 88/2018, la domanda di equa riparazione deve ritenersi proponibile anche in pendenza del procedimento presupposto, una volta maturato il ritardo rilevante ai fini della legge Pinto; nel nostro caso, il ritardo gia' accumulatosi sino alla data di proposizione del ricorso ex art. 3, comma 1, legge n. 89/2001 - da determinare sulla scorta di una valutazione sintetica e complessiva del processo presupposto nella sua unitaria articolazione (cfr., ex multis, Cass. n. 19938/2016, Cass. n. 19854/2015 e Cass. n. 14786/2013) - risulta pari a dieci mesi e dodici giorni, e pertanto eccede il periodo minimo di sei mesi riconosciuto indennizzabile dall'art. 2-bis, comma 1, legge citata; per costante orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, consolidatosi come diritto vivente, posto che il danno non patrimoniale e' conseguenza normale, ancorche' non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 6 CEDU, una volta accertata e determinata l'entita' della detta violazione, il giudice deve ritenere sussistente il pregiudizio, a meno che ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che inducano ad escluderne l'esistenza (cfr., ex multis, Cass. n. 26497/2019, Cass. n. 24696/2011 e Cass. n. 8630/2010); nella fattispecie in esame, non ricorre alcuna delle ipotesi di esclusione del diritto all'indennizzo o di presunta insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo contemplate dall'art. 2, commi 2-quinquies, 2-sexies e 2-septies, legge n. 89/2001; in particolare, avuto riguardo alle situazioni che possono interessare l'imputato in un processo penale, va notato che: a) l'Ametrano non risulta aver in alcun modo abusato dei poteri processuali attribuitigli dalla legge, allo scopo di determinare un'ingiustificata dilazione dei tempi del giudizio; b) non e' stata pronunciata nei suoi confronti dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato; c) il sunnominato non e' rimasto contumace, ne' in primo, ne' in secondo grado; d) per effetto dell'irragionevole durata del processo egli non ha conseguito vantaggi patrimoniali eguali o maggiori rispetto alla misura dell'indennizzo altrimenti dovutogli; e) deve escludersi l'«irrisorieta' della pretesa o del valore della causa», giacche, per un verso, la violazione del termine ragionevole, per il momento, gia' eccede di oltre quattro mesi la durata minima del ritardo ritenuta indennizzabile dalla legge (sei mesi), per altro verso, non puo' ritenersi esigua la posta in gioco nel processo presupposto, ne' tantomeno trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi, atteso che il giudizio di primo grado si e' concluso con la condanna dell'imputato alla pena di quattro mesi di reclusione e di cinquecento euro di multa e che il giudizio d'appello non e' stato ancora celebrato (cfr., sull'argomento, Cass. n. 26497/2019 e Cass. n. 633/2014, nonche', con specifico riferimento al processo penale, Cass. n. 26630/2016 [ord.], in cui trovasi affermato che, persino dopo l'assoluzione dell'imputato in primo grado, «il protrarsi del processo in grado di appello, a seguito dell'impugnazione da parte di costui, non consente di affermare che il giudizio... rivesta ormai un carattere bagatellare o che la posta in gioco sia del tutto irrilevante, tale da far perdere all'imputato ogni concreto interesse»); nemmeno si ravvisano altre peculiari circostanze che possano indurre a ritenere insussistente, nello specifico caso che ci occupa, il danno non patrimoniale normalmente risentito da qualsiasi persona a causa dell'irragionevole durata di un processo che la riguarda; in definitiva, appaiono sussistenti i requisiti di fondatezza della domanda avanzata dal ricorrente, quantomeno per la parte relativa al danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo; sennonche', a norma dell'art. 1-bis, comma 2, legge n. 89/2001, introdotto dall'art. 1, comma 777, lettera a), legge n. 208/2015, il diritto ad una equa riparazione puo' essere riconosciuto soltanto in favore di chi, «pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'art. 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo»; inoltre, ai sensi dell'art. 2, comma 1, legge n. 89/2001, come sostituito dall'art. 1, comma 777, lettera b), legge n. 208/2015, «e' inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo di cui all'articolo 1-ter»; in base al secondo comma dell'art. 1-ter, legge citata, richiamato dagli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della stessa legge, il rimedio preventivo esperibile dall'imputato e dalle altre parti del processo penale consiste nel deposito di un'istanza di accelerazione, da effettuarsi personalmente o a mezzo di procuratore speciale almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli di cui al successivo art. 2, comma 2-bis; l'odierno ricorrente non si e' curato di depositare, nei modi e nei termini previsti, alcuna istanza acceleratoria; ne' tanto hanno provveduto le altre parti del processo penale presupposto; al 31 ottobre 2016 la durata del suddetto processo non ancora eccedeva i termini ragionevoli innanzi indicati, in quanto il giudizio di primo grado si era prolungato per due anni, cinque mesi e diciassette giorni - dal 26 marzo 2014 (allorche' l'Ametrano, come da lui stesso indicato in ricorso, acquisi' conoscenza del procedimento pendente a suo carico, ricevendo la notificazione del decreto penale di condanna n. 1292/2013 del 21 ottobre 2013, emesso nei suoi confronti dal G.I.P. del Tribunale di Torre Annunziata, su richiesta del pubblico ministero, per il reato di cui agli articoli 570, comma 2, n. 2, codice penale, 12-sexies, comma 1, legge n. 898/1970 e 3 legge n. 54/2006: cfr. art. 2, comma 2-bis, legge n. 89/2001, nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 184/2015) al 12 settembre 2016 (data di deposito della sentenza di condanna n. 2783/2016 pronunciata dal Tribunale di Torre Annunziata), mentre quello di secondo grado si era protratto fino ad allora per un mese e quindici giorni (assumendo come dies a quo la data del 16 settembre 2016, in cui il difensore dell'imputato deposito' l'atto di appello presso la cancelleria del Tribunale oplontino), senza essere stato assunto in decisione; conseguentemente, non puo' ritenersi operante, nel caso di specie, la norma transitoria contenuta nell'art. 6, comma 2-bis, legge citata, in forza della quale la disposizione recata dal precedente art. 2, comma 1, non si applica «nei processi la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all'art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data»; anzi, proprio da tale norma si ricava, indirettamente, che l'inciso «pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'art. 1-ter», inserito nell'art. 1-bis, comma 2, della legge Pinto, e cosi' pure la sanzione di inammissibilita' della domanda di equa riparazione comminata dall'art. 2, comma 1, della stessa legge in caso di mancato esperimento dei rimedi preventivi di cui all'art. 1-ter, si riferiscono ai soli processi la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli e che non ancora siano stati assunti in decisione alla stessa data, come, per l'appunto, quello che ci occupa. Alla stregua delle esposte considerazioni, appare, quindi, evidente come il presente procedimento non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della legge Pinto, in combinato disposto con gli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della stessa legge, giacche l'applicazione delle predette norme imporrebbe a questo giudice di negare il diritto ad una equa riparazione fatto valere dal ricorrente e di dichiarare inammissibile la domanda dallo stesso proposta; domanda che andrebbe, invece, accolta, con conseguente riconoscimento del vantato diritto, ove il manifestato dubbio di costituzionalita' fosse ritenuto fondato dalla Consulta. 4. Non manifesta infondatezza della questione Riguardo, poi, al presupposto della non manifesta infondatezza della questione, va osservato che, nel quadro normativo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 208/2015, l'art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), legge n. 89/2001 (inserito dall'art. 55, comma 1, lettera a), n. 2), decreto-legge n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134/2012) gia' negava il diritto ad una equa riparazione all'imputato che non avesse «depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di cui all'art. 2-bis». Detta norma e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 169/2019, per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e 13 CEDU. In tale pronuncia, ribadendo le considerazioni svolte nella precedente sentenza n. 34/2019 - con la quale era stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art 54, comma 2, decreto-legge n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133/2008, come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'allegato 4 al decreto legislativo n. 104/2010 e dall'art. 1, comma 3, decreto legislativo n. 195/2011, nella parte in cui escludeva la proponibilita' della domanda di equo indennizzo per l'eccessiva durata del giudizio amministrativo, se non fosse stata presentata l'istanza di prelievo di cui all'art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo -, il giudice delle leggi ha rilevato, per quanto qui particolarmente interessa: che, per costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (e in particolare alla luce delle sentenze 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, e 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, nonche' della sentenza della Grande camera 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), «i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma solo se "effettivi" e, cioe', solo se e nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente; alternativamente alla durata ragionevole del processo, il rimedio interno deve comunque allora garantire l'adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale»»; che l'istanza di accelerazione da presentare nel processo penale presupposto, ai sensi del predetto art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), legge n. 89/2001, «non diversamente dall'istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce... un adempimento necessario, ma una mera facolta' dell'imputato, e non ha - cio' che e' comunque di per se' decisivo - efficacia effettivamente acceleratoria del processo, atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, puo' comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilita' del ricorrente»; che «la mancata presentazione dell'istanza di accelerazione nel processo presupposto puo' eventualmente assumere rilievo (come indice di sopravvenuta carenza o non serieta' dell'interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del quantum dell'indennizzo ex legge n. 89 del 2001, ma non puo' condizionare la stessa proponibilita' della correlativa domanda, senza con cio' venire in contrasto con l'esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell'art. 117, primo comma, della Costituzione». Ora, proprio le surriportate argomentazioni fanno dubitare della legittimita' costituzionale degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, legge n. 89/2001, entrambi in relazione all'art. 1-ter, comma 2, della stessa legge - nel testo risultante a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a) e b), legge n. 208/2015 -, applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame, tuttora ravvisandosi il contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, che ha gia' indotto la Corte costituzionale, con le citate sentenze numeri 34/2019 e 169/2019, a dichiarare costituzionalmente illegittimo dapprima l'art. 54, comma 2, decreto-legge n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133/2008 (come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'allegato 4 al decreto legislativo n. 104/2010 e dall'art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 195/2011), e poi l'art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), legge n. 89/2001 (inserito dall'art. 55, comma 1, lettera a, n. 2, decreto-legge n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134/2012). Invero, nel perdurante difetto della previsione legislativa di specifici strumenti, anche di tipo ordinamentale, volti a garantire che al deposito dell'istanza di accelerazione di cui all'art. 1-ter, comma 2, legge citata, ad opera dell'imputato o di una delle altre parti del giudizio penale, corrisponda effettivamente una diversa considerazione della vicenda processuale, tale da assicurarne, almeno tendenzialmente, la definizione entro il termine ragionevole fissato dall'art. 2, comma 2-bis, della stessa legge, le norme in discorso finiscono per risolversi - al pari delle analoghe disposizioni gia' colpite da dichiarazione di incostituzionalita' - nell'imposizione di un inutile adempimento formale con effetto di mera «prenotazione della decisione» (la quale puo' comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio) e di pura e semplice manifestazione di un interesse gia' altrimenti presente nel processo e avente copertura costituzionale (ex art. 111, comma 2, della Costituzione). Deve, allora, ritenersi che nell'attuale contesto normativo l'istanza di accelerazione del processo penale continui a non rappresentare un rimedio preventivo effettivamente sollecitatorio, nei termini precisati dalla giurisprudenza della Corte EDU richiamata nelle summenzionate sentenze della Corte costituzionale numeri 34/2019 e 169/2019, tanto piu' ove si consideri che, a mente dell'art. 1-ter, comma 7, legge n. 89/2001, anche in caso di esperimento dei rimedi contemplati dallo stesso articolo, «restano ferme le disposizioni che determinano l'ordine di priorita' nella trattazione dei procedimenti». E' pur vero che l'art. 1-ter, comma 2, legge n. 89/2001, disponendo che l'istanza di accelerazione venga presentata dall'imputato e dalle altre parti del processo penale con anticipo di almeno sei mesi rispetto alla scadenza dei termini fissati dall'art. 2, comma 2-bis, pone a carico degli stessi un onere di diligenza piu' incisivo di quello prescritto (peraltro nei confronti del solo imputato) dalla previgente previsione di cui all'art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), legge citata, poi dichiarata incostituzionale, la quale, invece, stabiliva che il deposito di tale istanza dovesse essere effettuato dopo il gia' avvenuto superamento dei predetti termini (precisamente nei trenta giorni successivi). Cio' non toglie, pero', che il rimedio in parola, sebbene attualmente prefigurato come «preventivo», non possa essere ancora oggi ritenuto «effettivo», ai sensi dell'art. 13 della CEDU, in quanto, anche a seguito della novella ex legge n. 208/2015, il sistema giuridico nazionale continua a non prevedere alcuna condizione tesa a garantire il sollecito esame e il positivo riscontro dell'istanza di accelerazione, ne' tantomeno a predisporre idonee misure finalizzate a velocizzare la decisione da parte del giudice al quale una siffatta istanza sia stata tempestivamente rivolta. Peraltro, gli insuperabili limiti letterali degli articoli 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, legge citata, non lasciano spazio a possibili interpretazioni convenzionalmente orientate, che non si traducano nella sostanziale disapplicazione delle norme sospettate di illegittimita' costituzionale (cfr., sull'argomento, Corte costituzionale n. 109/2017: «Nell'attivita' interpretativa che gli spetta ai sensi dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della CEDU e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti decisioni di quest'ultima. In tale attivita' egli incontra, tuttavia, il limite costituito dalla presenza di una legislazione interna di contenuto contrario alla CEDU: in un caso del genere - verificata l'impraticabilita' di una interpretazione in senso convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma interna, ne' farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione e, pertanto, con l'art. 117, primo comma, della Costituzione - deve sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma interna, per violazione di tale parametro costituzionale»; id., ex plurimis, Corte costituzionale n. 150/2015, Corte costituzionale n. 264/2012, Corte costituzionale n. 113/2011, Corte costituzionale n. 93/2010 e Corte costituzionale n. 311/2009; vedasi pure Corte costituzionale n. 349/2007, secondo cui «il giudice comune ha l'obbligo di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme»). Non rimane, quindi, che investire della questione la Corte costituzionale. A mente dell'art. 23, comma 2, legge n. 87/1953, va disposta l'immediata trasmissione degli atti alla detta Corte, con contestuale declaratoria di sospensione del presente procedimento. La cancelleria curera' gli adempimenti di cui all'ultimo comma dello stesso articolo, come precisati in dispositivo.
P. Q. M. 1) Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli articoli 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge n. 848/1955, la questione di legittimita' costituzionale: 1.1) dell'art. 1-bis, comma 2, in relazione agli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, legge n. 89/2001 (c.d. legge Pinto) - nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a) e m), legge n. 208/2015 -, nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto ad una equa riparazione in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata di un processo penale la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall'art. 2, comma 2-bis, e che non ancora sia stato assunto in decisione alla stessa data, all'esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini; 1.2) dell'art. 2, comma 1, in relazione agli articoli 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, legge n. 89/2001 (c.d. legge Pinto) - nel testo risultante a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a), b) e m), legge n. 208/2015 -, nella parte in cui, con riferimento ai processi penali la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall'art. 2, comma 2-bis, e a quelli non ancora assunti in decisione alla stessa data, sancisce l'inammissibilita' della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito il rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini; 2) Sospende il presente procedimento; 3) Dispone che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento; 4) Ordina l'immediata trasmissione degli atti - comprensivi della documentazione comprovante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni - alla Corte costituzionale. Napoli, 7 marzo 2020 Il Magistrato designato: Chieca