N. 268 SENTENZA 19 novembre - 11 dicembre 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Procedimento civile -  Spese  processuali  -  Rifiuto  ingiustificato
  della proposta  conciliativa  o  transattiva  della  controparte  -
  Accoglimento della domanda in misura non  superiore  alla  proposta
  rifiutata - Condanna  al  pagamento  delle  spese  processuali  nel
  frattempo maturate - Ritenuta applicazione anche alle  controversie
  in materia di lavoro -  Denunciata  irragionevolezza  e  violazione
  della tutela giurisdizionale, del diritto ad agire  in  giudizio  e
  del diritto al lavoro, nonche' dei principi convenzionali  relativi
  al diritto a un equo processo, al divieto di non discriminazione, e
  al  diritto  a  un  ricorso  effettivo  -  Inammissibilita'   delle
  questioni. 
Procedimento civile -  Spese  processuali  -  Rifiuto  ingiustificato
  della  proposta  conciliativa   o   transattiva   del   giudice   -
  Accoglimento della domanda in misura non  superiore  alla  proposta
  rifiutata - Condanna  al  pagamento  delle  spese  processuali  nel
  frattempo  maturate  -  Applicazione  anche  alle  controversie  in
  materia di lavoro - Denunciata irragionevolezza e violazione  della
  tutela giurisdizionale, del diritto ad  agire  in  giudizio  e  del
  diritto al lavoro, nonche' dei principi convenzionali  relativi  al
  diritto a un equo processo, al divieto di non discriminazione, e al
  diritto a un ricorso effettivo - Non fondatezza delle questioni. 
- Codice di procedura civile, artt. 91, primo comma, secondo periodo,
  e 420, primo comma. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 24, 35 e 117,  primo  comma;  Convenzione
  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'
  fondamentali, artt. 6, 13 e  14;  Carta  dei  diritti  fondamentali
  dell'Unione europea, artt. 21 e 47. 
(GU n.51 del 16-12-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  91,  primo
comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, in  combinato
disposto con l'art. 420, primo comma, del medesimo  codice,  promosso
dalla Corte d'appello di Napoli,  sezione  lavoro,  nel  procedimento
vertente tra M. V. e  A.  D.,  con  ordinanza  del  22  luglio  2019,
iscritta al n. 205 del registro ordinanze  2019  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  47,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 18 novembre 2020  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 novembre 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22  luglio  2019,  la  Corte  d'appello  di
Napoli,  sezione  lavoro,  ha  sollevato  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice
di procedura civile, anche in  combinato  disposto  con  l'art.  420,
primo comma, cod. proc. civ. per violazione degli artt. 3, 4, 24,  35
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, nonche' agli artt.  21  e  47  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    Il Collegio rimettente riferisce che, nell'ambito di un  giudizio
promosso da un lavoratore presso  il  Tribunale  ordinario  di  Torre
Annunziata per ottenere differenze retributive, anche a fronte  della
disponibilita' espressa in sede  di  memoria  difensiva  dalla  parte
resistente,   il   giudice   formulava   all'udienza   una   proposta
conciliativa dell'importo di euro 2.500,00  con  compensazione  delle
spese, proposta che non era accettata dal ricorrente. 
    Espletata l'istruttoria, il Tribunale accoglieva la  domanda  per
la somma di euro 900,00 e condannava il lavoratore al pagamento delle
spese processuali in favore della parte  datoriale.  La  sentenza  di
primo grado era appellata anche per il mancato  riconoscimento  delle
spese, pur essendo lo stesso risultato vittorioso. 
    La   Corte   d'appello,   nel   sollevare   le    questioni    di
costituzionalita', evidenzia, in punto di rilevanza, che il vaglio di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  91,  primo  comma,   secondo
periodo, cod. proc. civ., autonomamente e in combinato  disposto  con
l'art. 420, primo comma,  cod.  proc.  civ.,  e'  pregiudiziale  alla
propria decisione sulla corretta statuizione del Tribunale in  ordine
alle spese di lite. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio  muove  dalla
considerazione per la quale il principio di  eguaglianza,  formale  e
sostanziale, di cui all'art. 3 Cost., applicato al  processo,  impone
la parita' tra le parti, che puo' essere assicurata solo mediante  la
rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto,
danno luogo ad una discriminazione. 
    In tale prospettiva, la Corte rimettente sottolinea che, in linea
con il principio di effettivita'  della  tutela  giurisdizionale,  il
legislatore  processuale  ha  da  sempre  attribuito   rilievo   alla
strutturale diseguaglianza tra le parti nel processo del  lavoro.  Di
contro, l'art. 91, primo comma, secondo  periodo,  cod.  proc.  civ.,
laddove  consente  di  condannare  alle  spese  la   parte,   sebbene
vittoriosa, che non abbia  accettato  una  proposta  conciliativa  di
importo pari  o  superiore  a  quello  riconosciuto  nella  sentenza,
finirebbe con lo stravolgere la funzione tradizionalmente svolta  dal
tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, ossia quella
di assicurare una pronta definizione delle stesse evitando  i  rischi
ed i costi del processo (o del protrarsi di esso). 
    Secondo la ricostruzione del giudice a quo, infatti,  nel  quadro
normativo delineato dall'introduzione della previsione censurata,  la
scelta di conciliare la controversia non e' piu' "libera", in  quanto
sanzionata in modo sproporzionato con un aggravio di  spese  posto  a
carico del soggetto che, seppur parzialmente, ha comunque ottenuto il
riconoscimento del diritto rivendicato e, pertanto, nel processo  del
lavoro,  della  parte  economicamente  piu'  debole  che,  di  norma,
coincide con il lavoratore ricorrente. 
    La norma censurata potrebbe, quindi, violare gli artt. 3, 4, 24 e
35 Cost., avendo introdotto un ostacolo reddituale per il diritto  di
accesso al giudice del lavoratore. 
    Tale ostacolo, espone il Collegio  rimettente,  sarebbe  vieppiu'
rilevante ove si consideri che nel processo  del  lavoro  vengono  in
rilievo diritti di rango costituzionale,  anche  interagenti  con  il
diritto alla  retribuzione,  rispondente  ad  un'esigenza  alimentare
(art. 36 Cost.). 
    Il Collegio rimettente assume che non potrebbe ritenersi  che  la
norma censurata sanzioni le sole condotte che  si  concretano  in  un
abuso del processo ad opera della parte che ha ragione, atteso che le
stesse sono gia' adeguatamente sanzionate  dall'art.  88  cod.  proc.
civ. e dalla correlata disposizione in tema di spese processuali. 
    Il giudice a quo evidenzia che la previsione censurata, anche  in
combinato disposto con l'art. 420 cod. proc. civ.,  potrebbe  inoltre
violare l'art. 117, primo comma, Cost.,  con  riferimento  a  diverse
disposizioni della CEDU, ossia: a) l'art. 6 sulle garanzie  dell'equo
processo, che comporta che la legittimita'  dei  costi  del  processo
debba essere vagliata anche in  virtu'  della  capacita'  finanziaria
dell'individuo;  b)  l'art.  14,   poiche'   viene   effettuata   una
discriminazione nel godimento dei diritti fondata sulla «ricchezza» o
su «ogni altra condizione»; c) l'art. 13,  in  quanto  l'aggravio  di
spese  determina  una  penalizzazione  economica  che   si   riflette
inevitabilmente, ostacolandolo,  anche  sul  diritto  ad  un  ricorso
effettivo dinanzi ad un giudice nazionale. 
    Lo stesso art. 117, primo comma, Cost. potrebbe  essere  violato,
secondo quanto prospettato dal giudice rimettente,  con  riguardo  ad
alcune previsioni della CDFUE e, in  particolare,  all'art.  21,  che
vieta  qualsiasi  forma  di  discriminazione,   anche   fondata   sul
patrimonio, e all'art. 47, che garantisce il diritto  ad  un  ricorso
effettivo dinanzi ad un giudice. 
    2.- Con atto depositato il 10 dicembre 2019,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso   dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,   chiedendo   la
declaratoria di inammissibilita' o comunque il rigetto per  manifesta
infondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate
dall'ordinanza di rimessione. 
    Con riferimento all'ammissibilita', la difesa dello Stato  assume
in primo luogo l'irrilevanza delle questioni nel giudizio  a  quo  in
quanto, come risulta dall'ordinanza di rimessione, la parte, in punto
di spese, ha impugnato la  sentenza  di  primo  grado  lamentando  la
violazione del principio secondo cui le spese processuali sono  poste
a  carico  della  parte  soccombente,  ipotesi  diversa   da   quella
disciplinata dall'art. 91, primo comma, secondo periodo,  cod.  proc.
civ. 
    Sotto altro profilo, l'Avvocatura deduce l'inammissibilita' delle
questioni per non avere il Collegio rimettente  indicato  le  ragioni
per le quali sarebbero stati violati alcuni tra i  parametri  evocati
(sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 33 del 2014 e n.  311
del 2013). 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea che, in  ogni
caso, le questioni sollevate non  sono  fondate  perche'  l'art.  91,
primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. rientra nell'ambito  di
quelle misure che perseguono legittime finalita'  deflattive  proprio
nella  prospettiva  di  garantire  a  tutti   un   giusto   processo,
sanzionando il rifiuto della proposta conciliativa solo ove sia privo
di  un  giustificato  motivo.  Ne',  secondo  l'Avvocatura,  potrebbe
spiegare rilevanza la diseguaglianza tra le parti  nel  processo  del
lavoro, poiche' la parita'  trova  idonea  garanzia  nei  poteri  del
giudice, oltre che nelle regole processuali tipiche del rito. 
    Infine, la difesa dello Stato ricorda che  analoga  disciplina  -
derogatoria rispetto alla regola generale della  sopportazione  delle
spese  da  parte  del  soccombente  -  e'  contemplata,  in  tema  di
mediazione, dall'art. 13 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n.  28
(Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009,  n.  69,  in
materia  di   mediazione   finalizzata   alla   conciliazione   delle
controversie civili e commerciali). 
    3.- Con memoria del 17 luglio 2020, l'Avvocatura dello  Stato  ha
ribadito  le  proprie  argomentazioni,  sottolineando  che  la  Corte
d'appello rimettente ha omesso di verificare se la parte  ricorrente,
parzialmente vittoriosa in primo grado,  avesse  rifiutato  le  somme
offerte  a  titolo  transattivo  «senza  giustificato  motivo».  Tale
omissione determinerebbe l'inammissibilita' delle questioni impedendo
la valutazione sulla rilevanza. 
    Questo   profilo   di    inammissibilita'    sarebbe    collegato
all'infondatezza delle questioni nel merito,  poiche'  la  necessaria
ricorrenza   di   un   giustificato   motivo   smentisce   la    tesi
dell'automaticita' del meccanismo previsto dal legislatore della  cui
legittimita' costituzionale dubita il giudice a quo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 22  luglio  2019,  la  Corte  d'appello  di
Napoli,  sezione  lavoro,  ha  sollevato  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice
di procedura civile, anche in  combinato  disposto  con  l'art.  420,
primo comma, cod. proc. civ. per violazione degli artt. 3, 4, 24,  35
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, nonche' agli artt.  21  e  47  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    La disposizione e' stata innanzi  tutto  censurata,  rispetto  ai
parametri evocati, poiche' si porrebbe in contrasto  con  l'esigenza,
storicamente avvertita dal legislatore, di  tutelare  il  lavoratore,
quale parte strutturalmente debole del processo, finendo cosi' con lo
snaturare le finalita' dell'istituto della conciliazione nel processo
del lavoro, quale strumento volto ad  assicurare  al  lavoratore  una
pronta tutela, evitando allo stesso i costi e i tempi di un giudizio.
La diseguaglianza economica delle parti, in  uno  con  la  disciplina
normativa  oggetto  dei   dubbi   di   legittimita'   costituzionale,
finirebbe, secondo quanto prospettato dal  Collegio  rimettente,  per
indurre  il  lavoratore  ad  accettare  una   proposta   conciliativa
incongrua al solo fine di evitare il  rischio  di  essere  condannato
alle spese. In altri termini, la scelta di conciliare la controversia
non  sarebbe,  nell'attuale  assetto  normativo,  "libera",   poiche'
sanzionata attraverso uno sproporzionato rischio di  aggravamento  di
spese nei confronti  di  chi,  seppur  parzialmente,  abbia  comunque
ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato, senza  che  possa
ipotizzarsi, a  carico  dello  stesso,  una  condotta  di  abuso  del
processo,   peraltro   gia'   adeguatamente   sanzionata   da   altre
disposizioni normative. 
    Questo ostacolo al diritto di accesso al giudice si  porrebbe  in
contrasto non solo con gli artt. 3 e 24 Cost., ma anche con le  altre
norme costituzionali che,  come  gli  artt.  4  e  35,  attribuiscono
peculiare rilevanza e tutela al lavoro. 
    Il giudice a quo ritiene che  l'art.  91,  primo  comma,  secondo
periodo, cod. proc. civ., anche in combinato disposto con l'art.  420
cod. proc. civ., inoltre violerebbe l'art. 117, primo  comma,  Cost.,
rispetto a diverse disposizioni della CEDU, ovvero: a) l'art. 6 sulle
garanzie dell'equo processo, che comporta che i  costi  del  processo
debbano essere vagliati anche in relazione alla capacita' finanziaria
dell'individuo;  b)  l'art.  14,   poiche'   viene   effettuata   una
discriminazione nel godimento dei diritti fondata sulla «ricchezza» o
su «ogni altra condizione»; c) l'art. 13,  in  quanto  l'aggravio  di
spese  determina  una  penalizzazione  economica  che   si   riflette
inevitabilmente, ostacolandolo,  anche  sul  diritto  ad  un  ricorso
effettivo dinanzi ad un giudice nazionale. 
    Lo stesso art. 117, primo comma, Cost. risulterebbe poi  violato,
secondo quanto prospettato dal giudice rimettente,  con  riguardo  ad
alcune previsioni della CDFUE e, in  particolare,  all'art.  21,  che
vieta  qualsiasi  forma  di   discriminazione   fondata   anche   sul
patrimonio, e all'art. 47, che garantisce il diritto  ad  un  ricorso
effettivo dinanzi a un giudice. 
    2.- Occorre premettere che - laddove il giudice a  quo  prospetta
le questioni di legittimita' costituzionale riferendole all'art.  91,
primo  comma,  secondo  periodo,  cod.  proc.  civ.,   sia   in   se'
considerato, sia in combinato disposto con l'art. 420,  primo  comma,
cod.  proc.  civ.  -  deve  ritenersi,  ad   un   esame   complessivo
dell'ordinanza  di  rimessione,   che   in   realta'   egli   censuri
gradatamente entrambe le predette disposizioni, nella misura  in  cui
le stesse attribuiscono al  giudice  il  potere  di  porre  le  spese
processuali a carico del lavoratore ricorrente, che  abbia  rifiutato
senza giustificato motivo una proposta conciliativa,  poi  rivelatasi
equivalente o addirittura  piu'  favorevole  rispetto  all'esito  del
giudizio. 
    In particolare - come si vedra' - l'art. 91, primo comma, secondo
periodo, cod. proc.  civ.  riguarda  l'ingiustificato  rifiuto  della
proposta transattiva della  controparte;  mentre  l'art.  420,  primo
comma,  cod.  proc.  civ.  concerne  l'ingiustificato  rifiuto  della
proposta conciliativa del giudice nel processo del lavoro. 
    In ogni caso sarebbe leso - secondo la Corte d'appello rimettente
- il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva del  lavoratore,
perche' le disposizioni censurate  lo  discriminerebbero  come  parte
debole del  rapporto  in  spregio  al  favor  del  lavoro  sul  piano
costituzionale. 
    3.- Prima di esaminare le questioni, e' opportuna  una  sintetica
ricostruzione del quadro normativo di riferimento. 
    La disposizione censurata  in  via  principale,  ossia  il  primo
comma, secondo periodo, dell'art. 91 cod. proc. civ., stabilisce  che
il  giudice  «[s]e  accoglie  la  domanda  in  misura  non  superiore
all'eventuale  proposta  conciliativa,  condanna  la  parte  che   ha
rifiutato senza giustificato motivo la proposta  al  pagamento  delle
spese del processo maturate  dopo  la  formulazione  della  proposta,
salvo quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 92». 
    Tale periodo e' stato  inserito  nell'art.  91  cod.  proc.  civ.
dall'art.  45,  comma  10,  della  legge  18  giugno  2009,   n.   69
(Disposizioni per  lo  sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la
competitivita' nonche' in materia di processo  civile),  nell'intento
di deflazionare il contenzioso giudiziario facendo leva sul principio
di autoresponsabilita' della parte nella valutazione di una  proposta
conciliativa. 
    Si tratta, quindi, di una di quelle disposizioni  introdotte  dal
legislatore nella consapevolezza,  sempre  piu'  avvertita,  che,  di
fronte ad una crescente domanda di giustizia, anche  in  ragione  del
riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non
illimitata e  che  misure  di  contenimento  del  contenzioso  civile
debbano essere messe in opera (sentenza n. 77 del 2018). 
    E' stato in particolare previsto  che  il  giudice  e'  tenuto  a
condannare  alle  spese  di  lite,  maturate   successivamente   alla
formulazione della proposta, la  parte  che,  sebbene  sia  risultata
vittoriosa all'esito del processo, abbia rifiutato senza giustificato
motivo nel corso dello stesso una proposta  conciliativa  identica  o
addirittura piu' soddisfacente rispetto alla misura  nella  quale  la
domanda della medesima parte abbia  poi  trovato  accoglimento  nella
decisione conclusiva del giudizio. In sostanza, il costo del processo
che si e' inutilmente protratto a causa  dell'ingiustificato  rifiuto
di aderire ad una proposta conciliativa seria,  al  punto  da  essere
"confermata" dalla sentenza, viene posto a  carico  della  parte  che
quella  proposta   abbia   ingiustificatamente   rifiutato,   facendo
proseguire inutilmente il processo, con i correlativi oneri a  carico
della societa'. 
    La norma censurata  -  avente  carattere  eccezionale  (Corte  di
cassazione, sezione sesta civile, sottosezione  terza,  ordinanza  22
aprile 2020, n. 8036) - da'  rilievo,  quale  legittimo  criterio  di
regolamentazione delle spese processuali, alla condotta  della  parte
che ha determinato un'inutile  prosecuzione  del  giudizio.  Cio'  e'
espressione del principio di causalita' che, a differenza  di  quello
"oggettivo"  della   soccombenza,   attribuisce   rilievo   anche   a
determinate condotte contrarie al dovere di  lealta'  e  di  probita'
(art. 88 cod. proc. civ.). 
    La valenza generale del principio victus victori,  sancito  dalla
prima parte dell'art. 91  cod.  proc.  civ.,  quale  completamento  e
misura dell'effettivita' del diritto di azione  in  giudizio  sancito
dall'art. 24 Cost.  (sentenza  n.  77  del  2018),  ha  richiesto  un
espresso intervento del legislatore per legittimare la condanna  alle
spese  della  parte  vittoriosa,  la  quale  abbia  rifiutato   senza
giustificato motivo di aderire ad una proposta conciliativa. 
    L'operativita'  di  tale  deroga  al  principio  di   soccombenza
richiede comunque che il  rifiuto  della  proposta  conciliativa  sia
privo di giustificato motivo. 
    Inoltre,  la  disposizione  censurata  fa  salva   l'applicazione
dell'art. 92, secondo  comma,  cod.  proc.  civ.,  cosi'  consentendo
all'autorita' giudiziaria, ove ricorrano i  presupposti  indicati  da
tale norma, anche a seguito di  un  recente  intervento  additivo  di
questa Corte (sentenza n. 77 del 2018), di compensare  le  spese  del
giudizio in luogo di porre integralmente le  stesse  a  carico  della
parte vittoriosa per il periodo successivo all'ingiustificato rifiuto
di una proposta conciliativa rivelatasi congrua in ragione dell'esito
del giudizio. 
    Nell'individuare, poi, la portata applicativa dell'art. 91, primo
comma, secondo periodo, cod. proc. civ., le sezioni unite della Corte
di cassazione hanno chiarito che la proposta conciliativa alla  quale
tale norma fa riferimento «e' evidentemente quella formulata  da  una
delle parti in causa, le uniche titolari di  un  potere  di  proposta
negoziale in senso proprio, su cui possa  formarsi  l'incontro  delle
volonta' con l'eventuale adesione della controparte;  il  giudice  e'
titolare, semmai, di  un  potere  di  sollecitazione  delle  parti  a
conciliarsi, formulando al limite (non gia' "proposte", bensi'  mere)
ipotesi transattive o conciliative, che le parti possono  liberamente
fare proprie o meno: solo nel caso in cui una di esse faccia  propria
l'ipotesi  suggerita  dal  giudice,  questa  diverra'  una  proposta,
suscettibile  di  dar  luogo  all'accordo  conciliativo  in  presenza
dell'accettazione di controparte» (Corte di cassazione, sezioni unite
civili, sentenza 12 settembre 2017, n. 21109). 
    In  sostanza,  la  sola  proposta  conciliativa   rilevante   per
l'applicazione della norma censurata e' quella effettuata in giudizio
dalla parte. 
    4.- Successivamente, il legislatore ha previsto  la  possibilita'
della proposta conciliativa  o  transattiva  formulata  dal  giudice,
introducendo l'art. 185-bis cod.  proc.  civ.  nella  disciplina  del
processo ordinario di cognizione. Infatti, tale norma - inserita  nel
codice di rito dall'art. 77, comma 1, lettera a),  del  decreto-legge
21  giugno  2013,  n.  69  (Disposizioni  urgenti  per  il   rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, nella legge  9  agosto
2013, n. 98 - stabilisce  che  «[i]l  giudice,  alla  prima  udienza,
ovvero sino a quando e' esaurita l'istruzione, formula alle parti ove
possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al  valore  della
controversia  e  all'esistenza  di  questioni  di  facile  e   pronta
soluzione di diritto, una proposta  transattiva  o  conciliativa.  La
proposta di conciliazione non puo' costituire motivo di ricusazione o
astensione del giudice». 
    La stessa disposizione invero non  contempla  alcuna  conseguenza
specifica per il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o
transattiva proveniente dal giudice; nondimeno, in linea  con  quanto
disposto dall'art. 420 cod. proc. civ., la costante giurisprudenza di
legittimita' riconosce che se ne potra'  tenere  conto  al  fine  del
regolamento delle spese processuali. 
    5.- La disposizione censurata in via gradata e',  per  l'appunto,
l'art. 420, primo comma, cod. proc. civ., che prevede,  nel  processo
del lavoro, una disciplina specifica quanto alla proposta transattiva
o    conciliativa    del    giudice,    fissando    le    conseguenze
dell'ingiustificato rifiuto della stessa. 
    In  particolare,   tale   norma,   inserita   a   seguito   delle
modificazioni introdotte all'art. 420 cod. proc. civ.  dall'art.  31,
comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al  Governo  in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di  congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per
l'impiego,  di  incentivi  all'occupazione,  di   apprendistato,   di
occupazione femminile, nonche' misure contro  il  lavoro  sommerso  e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro),
e poi ulteriormente modificata dall'art. 77, comma 1, lettera b), del
d.l. n. 69 del 2013,  prevede  che  «[n]ell'udienza  fissata  per  la
discussione della causa il giudice  interroga  liberamente  le  parti
presenti, tenta la conciliazione della lite e  formula  una  proposta
transattiva o conciliativa. La mancata comparizione  personale  delle
parti, o il rifiuto della proposta  transattiva  o  conciliativa  del
giudice,  senza  giustificato  motivo,  costituiscono   comportamento
valutabile dal giudice ai fini del giudizio». 
    Questa disposizione si  colloca  nell'ambito  di  un  piu'  ampio
disegno riformatore, nel  quale  il  legislatore  ha  contestualmente
eliminato l'obbligo  del  previo  tentativo  di  conciliazione  nelle
controversie di lavoro, rendendo lo stesso solo facoltativo.  Di  qui
l'esigenza di attribuire maggior "peso" alla proposta  transattiva  o
conciliativa effettuata  dall'autorita'  giudiziaria  all'udienza  di
discussione ove sia fallito il tentativo di conciliazione  svolto  in
tale sede, prevedendo conseguenze correlate al rifiuto  della  stessa
senza giustificato motivo. 
    Nel sistema cosi' riformato, all'art. 420 cod.  proc.  civ.,  per
l'ipotesi  di  proposte  transattive  o  conciliative  formulate  dal
giudice, fa da  pendant  la  previsione,  contestualmente  introdotta
dalla stessa legge n. 183 del 2010,  dell'art.  411,  secondo  comma,
cod. proc. civ., in tema di tentativo stragiudiziale di conciliazione
nelle controversie di  lavoro.  Questa  norma,  infatti,  stabilisce,
specularmente, che «[s]e non si raggiunge l'accordo tra le parti,  la
commissione di conciliazione  deve  formulare  una  proposta  per  la
bonaria  definizione  della  controversia.  Se  la  proposta  non  e'
accettata,  i  termini  di  essa  sono  riassunti  nel  verbale   con
indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle  risultanze
della proposta formulata dalla  commissione  e  non  accettata  senza
adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio». 
    Il  rifiuto  ingiustificato   della   proposta   conciliativa   o
transattiva formulata dall'autorita' giudiziaria assume rilievo nella
decisione quanto alla statuizione sulle spese processuali e non  gia'
alla valutazione del merito della  controversia,  stante  il  diritto
della parte a  vedersi  integralmente  riconosciuto,  sul  piano  del
diritto sostanziale, quanto ad essa spettante all'esito del  giudizio
(ex multis, sentenze n. 77 del 2007 e n. 190 del 1985). 
    Mentre la mancata comparizione puo' rappresentare un indice della
volonta' della parte di sottrarsi al contraddittorio  e  quindi  puo'
assurgere ad argomento di  prova  (art.  116  cod.  proc.  civ.),  il
rifiuto  della  proposta  conciliativa  o   transattiva   puo'   solo
giustificare una pronuncia sulle spese non fondata sul mero principio
della soccombenza e non anche incidere  sulla  decisione  del  merito
della lite. 
    6.- Cio' premesso, le questioni  di  legittimita'  costituzionale
che investono l'art. 91, primo comma,  secondo  periodo,  cod.  proc.
civ. sono inammissibili. 
    Questa  disposizione,  infatti,  non  trova  applicazione   nella
fattispecie  processuale  oggetto  della   cognizione   della   Corte
d'appello rimettente,  che  e'  partita  da  un  erroneo  presupposto
interpretativo. 
    Dall'ordinanza di rimessione  si  evince  con  chiarezza  che  la
proposta   conciliativa   oggetto    del    rifiuto,    asseritamente
ingiustificato, da parte del lavoratore appellante - rifiuto  che  ne
aveva determinato, nel  giudizio  di  primo  grado,  la  condanna  al
pagamento  delle  spese  processuali  -  non  era   stata   formulata
dall'altra parte, bensi' dal  giudice,  e  quindi,  come  gia'  sopra
rilevato,  non  trovava  applicazione   la   regola,   di   carattere
eccezionale, contenuta nella disposizione censurata. 
    La giurisprudenza,  come  in  precedenza  ricordato,  ha  infatti
chiarito che non si tratta della proposta  conciliativa  del  giudice
(Cass., sez. un. civ., n. 21109 del 2017). Il tenore  testuale  della
disposizione censurata, che fa riferimento all'evenienza  in  cui  la
domanda sia accolta «in misura non superiore» all'eventuale  proposta
conciliativa, mostra che e' preso in considerazione  segnatamente  il
rifiuto dell'attore e che la proposta e' quindi quella del convenuto. 
    E, anche ove il giudice rimettente avesse in ipotesi ritenuto che
la proposta fosse stata formulata, nel caso di specie, (anche)  dalla
parte  convenuta,  per  aver  quest'ultima  aderito   alla   proposta
conciliativa del giudice, potrebbe comunque  non  venire  in  rilievo
l'art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. ove ritenuto
non applicabile nel processo del lavoro. 
    Tale disposizione si risolve in una "sanzione" per la  parte  che
agisce in giudizio ed e' quindi di dubbia compatibilita'  -  cio'  di
cui non ha tenuto conto la Corte rimettente - con un  processo,  come
quello del lavoro, che si caratterizza per  una  serie  di  norme  di
favore per il lavoratore, per  lo  piu'  parte  ricorrente,  volte  a
tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il
profilo economico. Essa, infatti, elevando il rischio della lite  per
l'attore, e quindi per il lavoratore, parte ricorrente,  finirebbe  -
piuttosto che favorire quest'ultimo - per indurlo a non insistere nel
chiedere integralmente quanto  dedotto  nella  domanda  a  causa  del
rischio dei costi che sarebbe tenuto a  sopportare  qualora,  accolta
parzialmente  la  domanda,  l'esito  della  controversia  fosse  meno
favorevole (o equivalente) al contenuto  della  proposta  proveniente
dall'altra parte. 
    Comunque, nel processo del lavoro e' previsto,  per  entrambe  le
parti,  il  rifiuto  senza   giustificato   motivo   della   proposta
conciliativa proveniente dal giudice  (art.  420  cod.  proc.  civ.);
rifiuto che trova  un'autonoma  e  completa  regolamentazione,  nella
previsione, come gia' sopra evidenziato, della  possibilita'  per  il
giudice di valutarlo  ai  fini  della  regolamentazione  delle  spese
processuali. 
    7.-  Invece  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  che
investono l'art. 420, primo comma, cod. proc. civ. - pur ammissibili,
avendo il giudice rimettente motivato puntualmente la loro  rilevanza
e non manifesta infondatezza - non sono fondate. 
    Invero l'art. 420, primo comma, cod.  proc.  civ.,  a  differenza
dell'art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., consente
al giudice, ove la proposta  conciliativa  o  transattiva,  formulata
dallo stesso all'udienza di discussione, non sia stata accettata,  di
tenere conto in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai
fini della sola regolamentazione delle spese,  del  rifiuto  di  tale
proposta senza giustificato motivo. 
    Tale facolta', peraltro, non si traduce nel potere del giudice di
condannare  alle  spese  la  parte  che  sia  risultata  parzialmente
vittoriosa (pur in misura equivalente o inferiore all'importo oggetto
della proposta non accettata), essendo invalicabile,  in  difetto  di
un'espressa previsione normativa in  senso  contrario,  il  principio
generale della soccombenza (ex multis, Corte di  cassazione,  sezione
sesta civile, ordinanza 22 ottobre  2020,  n.  23044;  sezione  terza
civile,  ordinanza  24  ottobre  2018,  n.  26918),  salva  l'ipotesi
dell'abuso del processo  sub  specie  di  violazione  del  dovere  di
lealta' e di probita' (art. 88 cod. proc. civ.), che qui non viene in
rilievo. 
    Ne deriva che il potere del giudice del lavoro  di  tenere  conto
del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o  transattiva
dallo stesso formulata  all'udienza  di  discussione  ai  fini  della
statuizione sulle spese di  lite  non  si  traduce  altro  che  nella
possibilita' di compensarle legittimamente,  in  tutto  o  in  parte,
anche ove non ricorrano i presupposti di  cui  all'art.  92,  secondo
comma, cod. proc. civ. 
    Peraltro,  cio'  avviene  senza  alcuna  forma  di   automatismo,
diversamente dall'ipotesi  contemplata  dall'art.  91,  primo  comma,
secondo periodo, cod. proc. civ., in quanto il  giudice  ha  solo  la
facolta', e non gia' l'obbligo, di considerare tale condotta ai  fini
della decisione sul riparto delle spese processuali. 
    L'art. 420, primo comma, cod. proc. civ. non viola,  quindi,  gli
artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione agli
artt. 6, 13 e 14 CEDU e all'art. 47 CDFUE), in  quanto  non  pone  un
ostacolo al lavoratore, pur parte "debole" del rapporto,  all'accesso
e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale,  limitandosi
ad  ampliare  il  novero  delle  ipotesi  nelle  quali  il   giudice,
motivatamente, puo' compensare, a fronte  di  una  condotta  comunque
ingiustificata della parte, le spese di lite. 
    In effetti, come piu' volte affermato da questa Corte, sebbene il
principio victus victori, espresso dalla  prima  parte  dell'art.  91
cod. proc. civ., costituisca un completamento del diritto  di  azione
in giudizio sancito dall'art. 24 Cost., laddove evita  che  le  spese
del giudizio vengano poste a  carico  della  parte  che  ha  ragione,
tuttavia siffatto  principio,  pur  di  carattere  generale,  non  e'
assoluto ed inderogabile (sentenza n. 77 del 2018), rientrando  nella
discrezionalita'  del  legislatore  la   possibilita'   di   modulare
l'applicazione della regola generale  secondo  cui  alla  soccombenza
nella causa si accompagna la condanna al  pagamento  delle  spese  di
lite (sentenza n. 196 del 1982). 
    Ed  infatti,   proprio   nella   conformazione   degli   istituti
processuali, nella  quale  rientra  la  disciplina  delle  spese  del
processo, il legislatore gode di ampia discrezionalita', con il  solo
limite della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n.  58
e n. 47 del 2020; n. 271 e n. 97 del 2019; n. 225, n. 77 e n. 45  del
2018; ordinanza n. 3 del 2020); limite che nella fattispecie in esame
puo' dirsi rispettato. 
    8.- Ne' parimenti sono fondate le questioni  che  attengono  alla
violazione degli artt. 4, 35 e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo
rispetto all'art. 21 CDFUE, poiche' la possibilita'  del  giudice  di
vagliare in modo simmetrico la  condotta  di  entrambe  le  parti  in
causa, e non del solo lavoratore, per la statuizione sulle  spese  di
lite - in vista di un'eventuale  compensazione  e  non  gia'  di  una
condanna alle stesse esclusivamente della parte vittoriosa - rispetto
all'ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa, esclude ogni
forma di potenziale discriminazione in danno del lavoratore. 
    Invero, come di recente sottolineato da questa Corte, la qualita'
di «lavoratore» della parte che  agisce  (o  resiste),  nel  giudizio
avente ad oggetto  diritti  ed  obblighi  nascenti  dal  rapporto  di
lavoro, non costituisce, di per se' sola, ragione sufficiente  -  pur
nell'ottica della tendenziale  rimozione  degli  ostacoli  di  ordine
economico e sociale alla  tutela  giurisdizionale  (art.  3,  secondo
comma, Cost.) - per derogare  al  generale  canone  di  par  condicio
processuale espresso dal secondo comma dell'art. 111  Cost.,  e  cio'
vieppiu'  tenendo  conto  della  circostanza  che  la  situazione  di
disparita' in cui, in concreto, venga a trovarsi  la  parte  «debole»
trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo  comma
dell'art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare  «ai
non abbienti [...] i mezzi per agire e  difendersi  davanti  ad  ogni
giurisdizione» (sentenza n. 77 del 2018). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 91, primo comma, secondo periodo, del codice
di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 3,  4,  24,
35 e 117 primo comma, della Costituzione, quest'ultimo  in  relazione
agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, nonche' agli artt.  21  e  47  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dalla
Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, con l'ordinanza  indicata
in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  420,  primo  comma,   cod.   proc.   civ.,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma,
Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU,  nonche'
agli artt. 21 e 47 CDFUE, dalla Corte di appello di  Napoli,  sezione
lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2020. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                     Giovanni AMOROSO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria l'11 dicembre 2020. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA