N. 68 SENTENZA 28 gennaio - 16 aprile 2021

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Pronunce della Corte costituzionale - Dichiarazione di illegittimita'
  costituzionale - Efficacia retroattiva - Deroga  all'intangibilita'
  del  giudicato  penale  di  condanna  -  Estensione  alle  sanzioni
  amministrative che assumano natura sostanzialmente penale ai  sensi
  della Convenzione EDU (nel caso di specie: revoca della patente)  -
  Omessa  previsione  -  Violazione  del   principio   di   legalita'
  costituzionale della pena  -  Illegittimita'  costituzionale  della
  norma censurata, come interpretata dal diritto vivente. 
- Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, quarto comma. 
- Costituzione, artt. 3, 35, 41, 117, primo comma, e 136; Convenzione
  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
  fondamentali, artt. 6 e 7. 
(GU n.16 del 21-4-2021 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Stefano  PETITTI,  Emanuela
  NAVARRETTA, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 30,  quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul funzionamento della Corte costituzionale), promosso  dal  Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale  ordinario  di  Milano  nel
procedimento penale a carico di L. S., con ordinanza del  4  febbraio
2020, iscritta al n. 47 del  registro  ordinanze  2020  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  22,  prima   serie
speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 27 gennaio  2021  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 28 gennaio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 4 febbraio 2020, il Giudice per le indagini
preliminari del  Tribunale  ordinario  di  Milano  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 35, 41, 117, primo comma
- quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848  -,  e   136   della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  30,
quarto  comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),  «nella
parte in cui la disposizione stessa non e' applicabile alle  sanzioni
amministrative che assumano natura sostanzialmente  penale  ai  sensi
della Convenzione EDU». 
    1.1.- Il rimettente riferisce di essere chiamato  a  pronunciare,
in  funzione  di  giudice   dell'esecuzione,   sulla   richiesta   di
rideterminazione  della  pena  inflitta  al  condannato  istante  dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano
con sentenza del 20 novembre 2018, divenuta irrevocabile l'8 dicembre
2018. 
    Tale sentenza ha applicato al ricorrente, per il delitto  di  cui
all'art. 589-bis del codice penale (omicidio stradale) -  oltre  alla
pena, richiesta dalle parti e condizionalmente sospesa, di un anno  e
sei mesi di reclusione - la sanzione amministrativa accessoria  della
revoca della patente di guida, ai sensi dell'art. 222, comma  2,  del
decreto legislativo 30  aprile  1992,  n.  285  (Nuovo  codice  della
strada): revoca che, in esecuzione della statuizione  giudiziale,  e'
stata disposta dal Prefetto di Milano con successivo decreto. 
    Il condannato ha chiesto che tale  sanzione  sia  revocata  sulla
base della sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2019, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo il citato art.  222,  comma
2, cod. strada, «nella parte in cui  non  prevede  che,  in  caso  di
condanna, ovvero di applicazione della pena su richiesta delle  parti
a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale, per i reati  di
cui  agli  artt.  589-bis  (Omicidio  stradale)  e  590-bis  (Lesioni
personali stradali gravi o gravissime) del codice penale, il  giudice
possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la
sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo  periodo  dello
stesso comma 2 dell'art. 222 cod. strada allorche' non ricorra alcuna
delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo  e
terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.». 
    1.2.-  In  via  preliminare,  il  rimettente  ritiene  che  debba
riconoscersi la competenza dell'ufficio  del  GIP  del  Tribunale  di
Milano -  che  ha  emesso  la  sentenza  irrevocabile  a  carico  del
ricorrente - quale giudice dell'esecuzione, anche in  relazione  alla
revoca della sanzione amministrativa. 
    L'attribuzione al giudice penale del potere di applicare sanzioni
amministrative come conseguenza della condanna per un reato,  operata
dall'art. 222 cod.  strada,  comporta,  infatti,  che  il  successivo
provvedimento amministrativo, emesso  ai  sensi  dell'art.  224  cod.
strada, rappresenti - come rilevato anche dalla citata sentenza n. 88
del 2019 - mero recepimento della statuizione giudiziale,  senza  che
residui in capo al prefetto alcun  margine  di  discrezionalita'.  Di
conseguenza, il compito  di  vigilare  sulla  perdurante  rispondenza
della sanzione amministrativa al principio di legalita', per tutto il
corso della sua esecuzione, non potrebbe spettare se non  al  giudice
penale:  lo   stretto   nesso   di   dipendenza   del   provvedimento
amministrativo dal giudicato penale non consentirebbe la  revoca  del
primo senza la parziale caducazione del secondo. 
    La sanzione di cui si discute dovrebbe ritenersi, d'altro  canto,
ancora in corso di esecuzione, posto che  l'art.  222,  comma  3-ter,
cod. strada prevede che il destinatario del provvedimento  di  revoca
possa conseguire novamente la patente di guida solo dopo cinque  anni
dalla revoca: termine, nella specie, non ancora decorso. 
    1.3.- Cio' posto, il giudice a quo osserva come il ricorrente non
abbia indicato in modo puntuale la norma che attribuirebbe al giudice
dell'esecuzione il potere di rideterminare la sanzione amministrativa
accessoria nel caso in esame. 
    Secondo il rimettente, tale  potere  non  potrebbe  fondarsi  sul
disposto dell'art. 673 del codice di procedura penale,  che  riguarda
il caso in  cui  la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
rimuova la norma incriminatrice. Nella specie,  l'indicata  pronuncia
costituzionale ha invece  censurato  solo  l'automatismo  applicativo
della sanzione, attribuendo al giudice della cognizione, mediante una
sentenza manipolativa, una discrezionalita'  piu'  ampia  quando  non
ricorrano le circostanze aggravanti  previste  dai  commi  secondo  e
terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen. Il citato art. 673 cod.
proc. pen. prevede, d'altro canto, la revoca del giudicato e  non  la
sua modifica. 
    Le stesse sezioni unite penali della Corte  di  cassazione  hanno
escluso che il meccanismo previsto  dall'art.  673  cod.  proc.  pen.
possa essere utilizzato al fine di rideterminare la pena inflitta con
pronuncia  passata  in  giudicato,  sia  nell'ipotesi  oggetto  della
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 17 settembre 2009,
Scoppola  contro  Italia,   sia   nei   casi   di   declaratoria   di
incostituzionalita' di una circostanza  aggravante  o  della  cornice
edittale del reato (sono  citate,  rispettivamente,  le  sentenze  24
ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821, 29 maggio-14 ottobre  2014,  n.
42858, e 26 febbraio-15 settembre  2015,  n.  37107).  La  norma  che
legittima l'intervento del giudice dell'esecuzione in tali  evenienze
deve essere individuata  piuttosto  -  secondo  le  sezioni  unite  -
nell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, a tenore  del
quale,   «[q]uando   in   applicazione   della    norma    dichiarata
incostituzionale  e'  stata  pronunciata  sentenza  irrevocabile   di
condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». 
    Quest'ultima disposizione risulterebbe,  tuttavia,  inapplicabile
nel caso oggetto del giudizio a quo. 
    Come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale nella sentenza
n. 43 del 2017, il tenore letterale della norma - nella parte in  cui
fa riferimento alla «sentenza irrevocabile di  condanna»  e  ai  suoi
«effetti penali» - lascia, infatti, intendere come essa attenga  alle
sole «sanzioni formalmente  penali  e  alle  statuizioni  tipicamente
penali». 
    E' pacifico, d'altro canto, nella giurisprudenza di legittimita',
che le sanzioni amministrative accessorie, eccezionalmente  applicate
dal giudice penale a  seguito  dell'accertamento  di  un  reato,  non
costituiscano neppure effetti penali della condanna. La revoca  della
patente di guida, in particolare, non presenterebbe i  tratti  tipici
dell'effetto penale, potendo essere  applicata  indipendentemente  da
una sentenza di condanna del giudice penale (artt.  120  e  219  cod.
strada) e per fatti che non costituiscono reato. 
    1.4.- Il GIP rimettente dubita, peraltro, sotto plurimi  profili,
della legittimita' costituzionale del citato art. 30,  quarto  comma,
della legge n. 87 del 1953, «nella  parte  in  cui  non  consente  al
giudice dell'esecuzione di rideterminare una sanzione  amministrativa
accessoria - la cui applicazione  e'  demandata  al  giudice  penale,
unitamente alle sanzioni penali -  oggetto  di  una  declaratoria  di
illegittimita'  costituzionale  che  ne  abbia  mutato  di  fatto  la
disciplina». 
    Ad avviso  del  giudice  a  quo,  la  rilevanza  delle  questioni
risulterebbe  evidente,  posto  che,  allo   stato,   l'istanza   del
ricorrente dovrebbe  essere  dichiarata  inammissibile  o  infondata;
mentre, se le  questioni  fossero  accolte,  il  ricorrente  potrebbe
giovarsi   della   pronuncia   costituzionale   citata,   in   quanto
l'imputazione formulata nei suoi confronti  atteneva  a  un  omicidio
stradale non aggravato, con addebiti di colpa specifica  di  limitata
gravita' (violazione di norme sulla precedenza  e  sulla  segnaletica
stradale). Alla luce della sentenza n. 88 del 2019, la  revoca  della
patente potrebbe essere, quindi, sostituita con  la  sua  sospensione
per la durata di tre anni. 
    1.5.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
reputa erroneo il richiamo, operato dal ricorrente, al  principio  di
retroattivita' della  legge  sopravvenuta  piu'  favorevole  al  reo:
principio che trova un limite - nel caso di  modifiche  attinenti  al
trattamento sanzionatorio - proprio nel  giudicato  (art.  2,  quarto
comma, cod. pen.). 
    Nella specie, infatti, la disciplina  e'  mutata,  non  gia'  per
effetto di una successione di leggi, ma a seguito  di  un  intervento
«manipolativo» della Corte costituzionale: fenomeno ben diverso,  che
attiene alla validita' della norma. 
    Al riguardo, costituisce ormai ius receptum che l'art. 30, quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 trovi applicazione anche  a  fronte
di una  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  che  incida
esclusivamente sul trattamento sanzionatorio: e cio' - come affermato
piu' volte dalla giurisprudenza di legittimita' - per la ratio stessa
di tale disposizione,  la  quale  mira  a  «impedire  che  anche  una
sanzione penale,  per  quanto  inflitta  con  una  sentenza  divenuta
irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base  di  una  norma
dichiarata successivamente incostituzionale, perche' la conformita' a
legge della pena, in particolare di quella che incide sulla  liberta'
personale, deve essere costantemente garantita dal momento della  sua
irrogazione a quello della sua esecuzione» (Cass., sez. un., sentenza
n. 37107 del 2015, citata). 
    1.6.- La  medesima  esigenza  si  porrebbe,  peraltro,  anche  in
rapporto alle sanzioni amministrative. 
    A differenza dello ius superveniens, che  attiene  alla  «vigenza
normativa», la dichiarazione di illegittimita' costituzionale rimuove
la  norma  censurata  dall'ordinamento  in  quanto  affetta  da   una
invalidita' «genetica», legata al sistema di gerarchia  delle  fonti:
invalidita' che impone di considerarla tamquam non  fuisset,  con  il
solo limite - non del giudicato - ma di quegli effetti «gia' compiuti
e  del  tutto  consumati»,  per   loro   natura   insuscettibili   di
neutralizzazione. 
    In quest'ottica, la mancata previsione di uno strumento idoneo  a
rimuovere  i  perduranti  effetti  di  una  sanzione   amministrativa
costituzionalmente illegittima si porrebbe in  contrasto  con  l'art.
136  Cost.,  non  potendosi  considerare  il   rapporto   «esaurito»,
nonostante il giudicato, fin tanto  che  sia  in  corso  l'esecuzione
della sanzione. L'art. 30, quarto comma, della legge n. 87  del  1953
non introdurrebbe, infatti, un'eccezione al principio  enunciato  dal
citato art. 136 Cost. - in base al quale «la  norma  cessa  di  avere
efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» -
ma rappresenterebbe, anzi, «concreta applicazione della  disposizione
costituzionale, declinata  in  relazione  alle  norme  sanzionatorie,
giacche'  impedisce  l'ultrattivita'  degli  effetti  della  sanzione
oggetto della sentenza della Corte». 
    1.7.- Ne', per altro verso, sarebbe ragionevole  distinguere,  ai
fini considerati, tra sanzioni penali e sanzioni amministrative. 
    Se e' vero, infatti, che la  sanzione  penale  puo'  incidere  su
diritti fondamentali, quale, in primis, la liberta' personale,  anche
sanzioni formalmente qualificate come amministrative possono,  pero',
comprimere  diritti  di  rango  costituzionale,  quali  la   liberta'
d'impresa (art. 41 Cost.) o il diritto al lavoro (art. 35 Cost.).  Le
sanzioni penali,  d'altra  parte,  possono  incidere  sulla  liberta'
personale «solo virtualmente» (perche', di fatto, eseguite  in  forma
alternativa alla detenzione), ovvero coinvolgere interessi  di  rango
inferiore (quale,  ad  esempio,  il  patrimonio)  rispetto  a  quelli
colpiti da talune delle sanzioni amministrative. 
    Di qui, dunque, anche la violazione del principio di  eguaglianza
(art. 3 Cost.), giacche', mentre per la sanzione  penale  l'art.  30,
quarto comma, della legge n. 87 del 1953 consente di  rimuovere,  per
quanto possibile, qualsiasi discriminazione tra i soggetti condannati
prima della sentenza della Corte  costituzionale  e  quelli  «il  cui
comportamento sia ancora sub judice», altrettanto non avviene per  la
sanzione  amministrativa:  con  la  conseguenza   che   il   soggetto
condannato in via  definitiva  a  quest'ultima  dovra'  sottostare  -
eventualmente, anche  in  modo  permanente,  ove  si  tratti  di  una
sanzione sine die - alla restrizione della propria liberta',  benche'
fondata su una legge dichiarata  incostituzionale,  diversamente  dal
soggetto non ancora condannato in via definitiva,  per  il  quale  il
giudice della cognizione sara' chiamato a rimodulare la sanzione alla
luce della decisione della Corte. 
    Ne', d'altra parte, il  passaggio  in  giudicato  della  condanna
potrebbe  rappresentare   «un   discrimen   accettabile   sul   piano
costituzionale».  La  progressiva  erosione  dell'intangibilita'  del
giudicato in ambito penale e'  stata,  infatti,  determinata  proprio
dalla rilevazione che l'esigenza di certezza dei rapporti giuridici -
cui tale principio e' servente  -  non  puo'  prevalere  sui  diritti
costituzionali della persona, imponendo il loro sacrificio anche dopo
l'accertamento   dell'illegittimita'   costituzionale   della    loro
compressione. 
    1.8.- L'impossibilita' di rimuovere la sanzione amministrativa  -
pur  costituzionalmente  illegittima   -   implicherebbe,   altresi',
un'indebita limitazione dei diritti costituzionali del  ricorrente  -
impedendogli, in particolare, di svolgere la professione  di  autista
di autocarri, che esercitava all'epoca del fatto e che nel ricorso ha
dichiarato di voler riprendere - e, dunque, una violazione della  sua
liberta' di iniziativa economica e del suo diritto al  lavoro  (artt.
35 e 41 Cost.). 
    1.9.- Il rimettente denuncia,  ancora,  la  violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU. 
    La  Corte  EDU  ha,  infatti,  enucleato  una  serie  di  criteri
(carattere   di   generalita',   scopo   repressivo   o   preventivo,
afflittivita') per valutare se una determinata misura, di  la'  dalla
sua qualificazione formale nel  diritto  interno,  costituisca  nella
sostanza una pena ai sensi della Convenzione: criteri alla  luce  dei
quali sarebbe pacifico - nella giurisprudenza della stessa  Corte  di
Strasburgo - che la revoca della patente di guida o, comunque sia, la
limitazione del suo utilizzo integrino altrettante sanzioni penali. A
maggior ragione, poi, tale conclusione si imporrebbe quando la revoca
della patente sia collegata alla commissione di un reato e  applicata
all'esito di un procedimento penale. 
    Anche la sanzione in discorso rimarrebbe, pertanto, soggetta alle
garanzie  previste  dalla  Convenzione  in  materia  penale,  e,   in
particolare, al principio di legalita',  sancito  dall'art.  7  CEDU:
garanzie che - per  affermazione  della  Corte  EDU  (e'  citata,  in
specie, la sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro  Spagna)  -
si  estendono  anche  alla  fase  di  esecuzione  della  pena  e   di
determinazione della durata della sanzione. 
    D'altra parte, sebbene la  Corte  di  Strasburgo  non  abbia  mai
affermato    esplicitamente    che    l'accertamento     sopravvenuto
dell'illegittimita' della norma, sulla cui base la sanzione era stata
applicata, determini una violazione del principio di legalita',  tale
conclusione apparirebbe conseguenza ineluttabile del fatto che l'art.
7 CEDU richiede una base legale affinche'  possa  essere  pronunciata
una condanna e inflitta una  pena.  Queste  ultime  debbono  trovare,
pertanto, il loro fondamento nella legge: nozione che  -  nell'ottica
convenzionale - ricomprende sia il diritto  di  origine  legislativa,
sia  quello  di  matrice  giurisprudenziale,  e  implica   condizioni
qualitative, tra le quali soprattutto (ma  non  soltanto)  quelle  di
accessibilita' e  prevedibilita'.  Tali  condizioni  costituirebbero,
peraltro, necessariamente «un  posterius»  rispetto  a  quella  della
validita' della norma: allorche' la disposizione risulti  ab  origine
illegittima perche' arbitraria e discriminatoria - come nel  caso  in
esame - essa non potrebbe costituire una base legale idonea a fondare
l'applicazione di una sanzione sostanzialmente penale. 
    1.10.-  Sul  piano  interno,  la  norma   censurata   violerebbe,
parallelamente, anche il principio di legalita'  dei  reati  e  delle
pene espresso dall'art. 25, secondo comma, Cost., non consentendo  al
giudice dell'esecuzione di  allineare  il  contenuto  della  sanzione
inflitta all'intervento della Corte costituzionale  sulla  previsione
sanzionatoria. 
    La tutela dei diritti del cittadino, colpito da una  sanzione  in
base a una norma poi espunta dall'ordinamento perche' non conforme  a
Costituzione, non potrebbe, infatti, mutare  solo  in  considerazione
della natura formalmente penale, o  no,  della  sanzione,  risultando
ormai pacifico che alla distinzione nominalistica non  corrisponda  -
indefettibilmente - una «diversa intensita' sanzionatoria». 
    1.11.- Il giudice a quo si dichiara  consapevole  del  fatto  che
questioni analoghe a quelle  prospettate  sono  gia'  state  ritenute
infondate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43 del  2017.
Esclude, tuttavia, che  cio'  consenta  di  considerare  i  dubbi  di
costituzionalita' manifestamente infondati. 
    In primo luogo, infatti, occorrerebbe tener conto  della  diversa
natura della sanzione di cui  si  discute  nella  specie  -  atta  ad
incidere sul  diritto  al  lavoro  e  sulla  liberta'  di  iniziativa
economica  del  condannato  -  rispetto   alla   sanzione   meramente
pecuniaria che veniva  in  rilievo  nel  caso  oggetto  della  citata
sentenza della Corte. 
    Ma, soprattutto, si  dovrebbero  considerare  i  mutamenti  della
giurisprudenza  costituzionale  intervenuti  successivamente  a  tale
pronuncia. 
    Per un verso, infatti, la Corte costituzionale ha escluso, con la
sentenza n. 68 del 2017, che, per invocare una violazione della CEDU,
quale parametro interposto rispetto all'art. 117, primo comma, Cost.,
sia necessario che il caso considerato abbia formato oggetto  di  una
preventiva e puntuale decisione della Corte di Strasburgo. 
    Per altro verso, poi, con la sentenza n. 63 del  2019,  superando
precedenti  decisioni   di   segno   contrario,   la   stessa   Corte
costituzionale ha  equiparato  le  sanzioni  amministrative  di  tipo
afflittivo a quelle formalmente penali ai fini dell'applicazione  del
principio di retroattivita' della  lex  mitior:  principio  di  minor
forza rispetto a quello di legalita' costituzionale.  Nell'occasione,
la Corte ha affermato che, laddove la sanzione  amministrativa  abbia
natura punitiva, di regola non vi sara'  ragione  per  continuare  ad
applicarla, qualora il fatto sia successivamente considerato non piu'
illecito; ne' per continuare ad applicarla in una misura  considerata
ormai eccessiva (e per cio' stesso sproporzionata) rispetto al mutato
apprezzamento della gravita' dell'illecito da parte dell'ordinamento:
cio',  salvo  che   sussistano   ragioni   cogenti   di   tutela   di
controinteressi  di  rango  costituzionale,  tali  da  resistere   al
medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua  debbono
essere  in  linea  generale  valutate  le  deroghe  al  principio  di
retroattivita' in mitius. 
    Ma, se non vi e'  ragione  per  continuare  ad  applicare  ad  un
soggetto una sanzione amministrativa  che  il  legislatore  considera
ormai eccessiva, non si comprenderebbe come possa  continuare  invece
ad applicarsi una sanzione amministrativa travolta in radice  da  una
pronuncia di illegittimita' costituzionale. Diversamente che nel caso
di  successione  di   leggi   penali   meramente   modificative,   in
quest'ultima ipotesi il discrimine non potrebbe essere costituito dal
giudicato, dovendosi dare  prevalenza  -  per  quanto  detto  -  alla
legalita' costituzionale rispetto alle ragioni di certezza. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
manifestamente infondate. 
    2.1.- Ad avviso della  difesa  dell'interveniente,  le  questioni
sarebbero inammissibili in ragione dell'irreversibilita' dell'effetto
estintivo derivante dal provvedimento  prefettizio  di  revoca  della
patente di guida, adottato  dopo  il  passaggio  in  giudicato  della
sentenza di condanna. 
    Se  pure  e'  vero  che  tale  provvedimento   costituisce   atto
consequenziale  di  esecuzione  dell'ordine  giudiziale,   cio'   non
significa  che  se  ne  possa  mettere  in  discussione   l'autonomia
strutturale  e  funzionale.  E',  al  contrario,  indiscusso,   nella
giurisprudenza  di  legittimita',  che  la  sanzione   amministrativa
accessoria della revoca della patente di guida, applicata dal giudice
penale ai sensi dell'art. 222 cod. strada, si risolve e si  esaurisce
nel provvedimento ablativo del titolo  di  abilitazione  alla  guida,
mentre le disposizioni, pure  contenute  nel  citato  art.  222,  che
stabiliscono i termini per il conseguimento  di  una  nuova  patente,
riguardano la disciplina amministrativa di settore e restano estranee
alla sfera della giurisdizione penale. 
    Sarebbe, dunque, evidente che il giudice penale, cosi'  come  non
e' legittimato a  provvedere  direttamente  alla  revoca  del  titolo
abilitativo al momento dell'irrogazione della sanzione,  allo  stesso
modo non ha il potere di provocarne autonomamente  la  "reviviscenza"
intervenendo sulla statuizione accessoria  contenuta  nella  sentenza
passata in giudicato. E  cio'  soprattutto  se,  come  nella  specie,
l'intervento  e'  finalizzato  non  all'integrale   rimozione   della
sanzione amministrativa accessoria,  ma  alla  sua  sostituzione  con
altra sanzione (la sospensione della patente) che presuppone  che  il
destinatario  sia  tuttora  in  possesso  di  un  valido  titolo   di
abilitazione alla guida: non potendosi  ipotizzare  che  una  patente
revocata venga, altresi', sospesa. 
    2.2.- Nel merito - secondo l'Avvocatura generale dello Stato - le
questioni dovrebbero essere dichiarate, comunque sia,  manifestamente
infondate, in quanto del tutto analoghe a quelle gia' scrutinate  con
esito negativo dalla sentenza n. 43 del 2017. 
    Con  particolare  riferimento   alla   questione   sollevata   in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., per asserito  contrasto
con gli artt. 6 e 7 CEDU, la citata sentenza ha infatti chiarito  che
«cio' che per la  giurisprudenza  europea  ha  natura  "penale"  deve
essere assistito dalle garanzie che la stessa  ha  elaborato  per  la
"materia penale"; mentre solo cio' che e'  penale  per  l'ordinamento
nazionale  beneficia  degli  ulteriori  presidi   rinvenibili   nella
legislazione interna»; che «nella giurisprudenza della Corte  europea
non si rinviene, allo stato, alcuna affermazione che esplicitamente o
implicitamente possa avvalorare l'interpretazione dell'art.  7  della
CEDU nel  significato  elaborato  dal  giudice  rimettente,  tale  da
esigere  che   gli   Stati   aderenti   sacrifichino   il   principio
dell'intangibilita' del giudicato nel caso di sanzioni amministrative
inflitte   sulla   base   di   norme    successivamente    dichiarate
costituzionalmente illegittime»; che, pertanto, «[n]ulla impedisce al
legislatore  di  riservare  alcune  garanzie,  come  quelle  previste
dall'art. 30, quarto comma, della legge n. 87  del  1953,  al  nucleo
piu' incisivo del diritto sanzionatorio,  rappresentato  dal  diritto
penale, qualificato come tale dall'ordinamento interno». 
    Sulla base dei medesimi rilievi, la sentenza n. 43 del  2017  ha,
altresi', disatteso le censure prospettate in riferimento agli  artt.
25, secondo comma, e 3 Cost., rilevando l'erroneita' del  presupposto
- comune all'ordinanza di rimessione oggi  in  esame  -  secondo  cui
«[tutte] le garanzie previste dal diritto interno per la pena  -  tra
le quali lo stesso art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del  1953
nell'interpretazione consolidatasi  nel  diritto  vivente  -  debbano
valere anche per  le  sanzioni  amministrative,  qualora  esse  siano
qualificabili   come   sostanzialmente   penali   ai   (soli)    fini
dell'ordinamento convenzionale». 
    Con specifico riferimento alla dedotta violazione  del  principio
di eguaglianza, verrebbe, altresi', in rilievo nel caso in  esame  la
peculiare struttura del procedimento sanzionatorio  di  revoca  della
patente, la quale - oltre a costituire, per le ragioni gia' indicate,
motivo  di  inammissibilita'  delle  questioni   -   renderebbe   non
comparabili le situazioni poste a raffronto dal rimettente. 
    Per il resto, le censure di violazione degli artt. 35 e 41  Cost.
apparirebbero prive di autonomo supporto argomentativo, mentre quella
di violazione dell'art. 136 Cost. si fonderebbe sempre  sul  medesimo
erroneo presupposto che il quarto comma dell'art. 30 della  legge  n.
87 del 1953 rappresenti  «concreta  applicazione  della  disposizione
costituzionale, declinata in relazione alle norme sanzionatorie». 
    2.3.- Inconsistenti risulterebbero,  d'altra  parte,  le  ragioni
addotte dal rimettente a giustificazione della richiesta di un  nuovo
esame delle questioni. 
    Cio' sarebbe di tutta evidenza quanto alla  ritenuta  «differente
natura della sanzione che assume rilievo nel  caso  di  specie»,  dal
momento che nella sentenza n. 43 del 2017 non e' stata posta  affatto
in discussione la natura  "punitiva"  della  sanzione  amministrativa
(pecuniaria) che in quell'occasione veniva in considerazione. Non  si
comprenderebbe, pertanto, quale rilevanza possa assumere l'ipotizzata
maggiore afflittivita', rispetto a tale sanzione,  del  provvedimento
di revoca della patente. 
    Identica conclusione si imporrebbe, peraltro, anche con  riguardo
agli   asseriti   mutamenti   della   giurisprudenza   costituzionale
successivi alla citata sentenza. 
    Quanto all'affermazione della sentenza n. 68  del  2017,  secondo
cui «e'  [...]  da  respingere  l'idea  che  l'interprete  non  possa
applicare la CEDU, se non con riferimento  ai  casi  che  siano  gia'
stati  oggetto  di  puntuali  pronunce  da  parte  della   Corte   di
Strasburgo», non si tratterebbe affatto di un novum, ma - come emerge
chiaramente dalla motivazione della pronuncia - del semplice richiamo
al principio, recepito da  lungo  tempo  nella  giurisprudenza  della
Corte costituzionale, per cui primo interprete della  Convenzione  e'
il giudice nazionale. 
    Anche il riferimento del rimettente alla piu' recente sentenza n.
63 del 2019, concernente il diverso problema dell'applicabilita' alle
sanzioni amministrative del principio  di  retroattivita'  della  lex
mitior, apparirebbe «frutto di un sostanziale equivoco»,  trattandosi
di pronuncia che non coinvolge in nessun modo il tema  del  giudicato
e, dunque, il valore della certezza dei rapporti  giuridici  ad  esso
sotteso. 
    2.4.- Le censure del giudice a quo sarebbero, peraltro, infondate
anche sotto un ulteriore profilo. 
    Alla luce delle costanti indicazioni della giurisprudenza  penale
di legittimita', alla revoca della patente  di  guida  non  potrebbe,
infatti, attribuirsi natura "punitiva". Essa e' stata  concepita  dal
legislatore  piuttosto   come   una   misura   inibitoria   correlata
all'avvenuta manifestazione  di  pericolosita'  del  soggetto  autore
dell'illecito  penale,  e  dunque  essenzialmente  quale   misura   a
carattere preventivo, dato che l'inibizione alla  guida  assicura  la
collettivita'  dalla   possibile   reiterazione   del   comportamento
pericoloso. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del   Tribunale
ordinario  di  Milano  dubita   della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n.  87  (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della  Corte  costituzionale),
nella parte in cui - nello stabilire che  «[q]uando  in  applicazione
della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna,  ne  cessano  la  esecuzione  e  tutti  gli
effetti penali» - non estende tale disposizione anche alle  «sanzioni
amministrative che assumano natura sostanzialmente  penale  ai  sensi
della Convenzione EDU». 
    Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe, in parte
qua,  innanzitutto  l'art.  136  della  Costituzione,  in  quanto  il
principio,  ivi  enunciato,   secondo   cui   la   norma   dichiarata
costituzionalmente illegittima «cessa di avere efficacia  dal  giorno
successivo  alla  pubblicazione  della  decisione»,   imporrebbe   di
rimuovere tutti i perduranti effetti pregiudizievoli  della  sanzione
amministrativa applicata sulla base di una  norma  costituzionalmente
illegittima,  non  potendosi  considerare   il   rapporto   esaurito,
nonostante il giudicato, fin tanto che la sanzione sia  in  corso  di
esecuzione. 
    Sarebbe leso, altresi', l'art. 3  Cost.,  per  contrasto  con  il
principio di eguaglianza, giacche', mentre per la sanzione penale  la
norma  censurata  consente  di  eliminare,  per   quanto   possibile,
qualsiasi discriminazione tra i soggetti condannati in via definitiva
prima della sentenza della Corte  costituzionale  e  quelli  «il  cui
comportamento sia ancora sub judice», altrettanto non avviene per  la
sanzione  amministrativa:  disparita'  di  trattamento  che   sarebbe
irragionevole,  posto  che   le   sanzioni   amministrative   possono
comprimere anch'esse diritti di rango costituzionale (come  nel  caso
della revoca della patente di guida, oggetto  del  giudizio  a  quo),
mentre le sanzioni penali possono incidere sulla  liberta'  personale
in modo  solo  "virtuale"  (perche'  eseguite,  di  fatto,  in  forma
alternativa alla detenzione), ovvero coinvolgere interessi (quale  il
patrimonio) di rango inferiore a quelli colpiti  da  talune  sanzioni
amministrative. Ne', d'altra parte, per queste ultime il passaggio in
giudicato della sentenza di condanna potrebbe  costituire  un  valido
limite  all'operativita'   della   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale, non  potendo  l'esigenza  di  certezza  dei  rapporti
giuridici  prevalere,  comunque  sia,  sulla   tutela   dei   diritti
costituzionali della persona. 
    Risulterebbero vulnerati, ancora, gli artt. 35  e  41  Cost.,  in
quanto l'impossibilita' di rimuovere la sanzione amministrativa,  pur
costituzionalmente illegittima, potrebbe comportare - in  particolare
quando si tratti della revoca della patente di guida -  una  indebita
limitazione del diritto al lavoro  e  della  liberta'  di  iniziativa
economica del condannato. 
    Viene ipotizzato anche il contrasto con l'art. 117, primo  comma,
Cost., in relazione agli  artt.  6  e  7  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.  848,  in  quanto  le  sanzioni
amministrative  che  abbiano  natura  penale   agli   effetti   della
Convenzione, secondo i criteri  elaborati  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, restano soggette al principio di legalita' penale,
il quale esige che la sanzione abbia una adeguata base  legale:  base
legale che verrebbe meno nel caso di dichiarazione di  illegittimita'
costituzionale della norma sanzionatoria. 
    La norma censurata si  porrebbe  in  contrasto,  da  ultimo,  con
l'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  in  quanto  l'impossibilita'  di
rimodulare  la  sanzione  amministrativa  "sostanzialmente   penale",
inflitta sulla base di una  norma  espunta  dall'ordinamento  perche'
incostituzionale, vulnererebbe il principio di legalita' dei reati  e
delle pene. 
    2.- I quesiti sottoposti a questa Corte evocano la  tematica  dei
limiti alla cosiddetta retroattivita' delle sentenze di  accoglimento
di questioni di legittimita' costituzionale. Nella loro  analisi,  e'
indispensabile muovere da una preliminare ricognizione  del  panorama
normativo e giurisprudenziale di riferimento. 
    2.1.- L'art. 30 della legge n. 87 del 1953 enuncia, come e' noto,
due  regole  in  tema  di  effetti  nel  tempo  delle   pronunce   di
accoglimento. 
    La prima, di ordine generale, e' quella posta  dal  terzo  comma,
per cui, dal giorno successivo alla  pubblicazione  della  decisione,
«[l]e   norme   dichiarate   incostituzionali   non   possono   avere
applicazione». 
    Come questa Corte ha da tempo posto in  luce,  tale  disposizione
costituisce fedele traduzione del principio ricavabile dall'art. 136,
primo comma, Cost., letto in combinazione con l'art.  1  della  legge
costituzionale  9  febbraio  1948,  n.  1  (Norme  sui   giudizi   di
legittimita' costituzionale e  sulle  garanzie  d'indipendenza  della
Corte costituzionale): principio in base  al  quale  le  sentenze  di
accoglimento producono  i  loro  effetti  anche  sui  rapporti  sorti
precedentemente, purche', pero',  non  definitivamente  "chiusi"  sul
piano giuridico;  dunque,  con  esclusione  dei  rapporti  «esauriti»
(sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996,  n.  139  del
1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto,
quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze  n.  235
del 1989, n. 139 del 1984 e n.  127  del  1966).  Soluzione,  questa,
coerente con l'esigenza di tutela  della  certezza  delle  situazioni
giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969). 
    Il quarto comma dell'art. 30 della legge n.  87  del  1953,  oggi
censurato, pone,  tuttavia,  una  regola  specifica  e  distinta  con
riguardo  alla  materia   penale,   stabilendo   che   «[q]uando   in
applicazione  della  norma  dichiarata  incostituzionale   e'   stata
pronunciata  sentenza  irrevocabile  di  condanna,  ne   cessano   la
esecuzione e tutti gli effetti penali». 
    Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta  di
regola suggerita dalle peculiarita' della materia considerata e dalla
gravita' con cui le sanzioni penali incidono sulla liberta' personale
o su altri interessi fondamentali dell'individuo. In omaggio al favor
libertatis e al favor rei, il legislatore ha  inteso  conferire  alla
dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale   della    norma
incriminatrice effetti  analoghi  a  quelli  derivanti  dal  fenomeno
dell'abolitio criminis, di cui all'art. 2, secondo comma, del  codice
penale, ossia la retroattivita' favorevole illimitata, che implica il
travolgimento del giudicato. 
    La disposizione ha trovato eco e ulteriore sviluppo, sul versante
processuale, nell'art. 673 del codice di procedura penale  del  1988,
ove si prevede che,  nel  caso  di  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale della norma incriminatrice  -  cosi'  come  in  quello
della  sua  abrogazione  -,  il  giudice  dell'esecuzione  revoca  la
sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non e' previsto  della
legge come reato, e adotta i provvedimenti conseguenti. 
    2.2.- Per effetto di una terna di pronunce  delle  sezioni  unite
penali della Corte di cassazione (sentenze 24 ottobre  2013-7  maggio
2014, n. 18821; 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858;  26  febbraio-15
settembre 2015, n. 37107), e' venuta, peraltro, a consolidarsi, nella
giurisprudenza  di  legittimita',  una  interpretazione   ampia   (in
precedenza controversa) dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87
del  1953,  quanto  al  tipo  di   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale che infrange  il  giudicato.  Tale  attitudine  viene,
cioe', riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova, in  tutto  o
in parte, la norma incriminatrice, producendo  un'abolitio  criminis,
ma anche a quella che si limiti ad incidere (in senso mitigativo) sul
trattamento sanzionatorio (ad  esempio,  eliminando  una  circostanza
aggravante o rimodulando la cornice edittale): ipotesi nella quale il
condannato in via definitiva puo' ottenere la sostituzione della pena
inflittagli con quella conforme a Costituzione tramite  lo  strumento
dell'incidente di esecuzione, sempre che la pena stessa non sia  gia'
stata interamente eseguita. 
    Tale soluzione ermeneutica poggia sull'affermazione di  principio
per cui l'istanza di legalita' della pena «e' un tema  che,  in  fase
esecutiva,  deve  ritenersi  costantemente  sub  iudice   [...]   non
potendosi tollerare che uno  Stato  democratico  di  diritto  assista
inerte  all'esecuzione  di  pene  non  conformi  alla   [...]   Carta
fondamentale». Nel bilanciamento, tale esigenza prevale  sul  valore,
pure di rilievo costituzionale, espresso dal giudicato a presidio  di
esigenze di certezza e stabilita' dei rapporti  giuridici  (Corte  di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 18821 del 2014). 
    Nell'ipotesi considerata non  puo'  quindi  invocarsi  l'avvenuto
esaurimento del rapporto: il limite di impermeabilita' del  giudicato
alla sopravvenuta declaratoria di illegittimita' costituzionale della
norma applicata e' qui costituito  piuttosto  dalla  irreversibilita'
degli effetti del giudicato stesso, in quanto ormai "consumati", come
nel caso di condannato che abbia gia' scontato integralmente la pena.
Per contro, fin quando l'esecuzione  della  pena  e'  in  atto,  «gli
effetti della norma dichiarata  costituzionalmente  illegittima  sono
ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi»  (Corte
di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 42858 del 2014). 
    Garante della legalita'  della  pena  in  fase  esecutiva  e'  il
giudice dell'esecuzione, cui compete, se richiesto ai sensi dell'art.
666 cod. proc. pen., di ricondurre la pena inflitta nei binari  della
legittimita' costituzionale. La base normativa di tale intervento  e'
offerta appunto - secondo le sezioni unite  -  dall'art.  30,  quarto
comma, della legge n. 87  del  1953:  disposizione  alla  quale  deve
riconoscersi un perimetro operativo piu'  esteso  rispetto  a  quello
dell'art. 673 cod. proc. pen. (che, nel  prevedere  la  revoca  della
sentenza di condanna, evoca la sola  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale che rimuova il reato). Il  riferimento  generico  alla
«norma dichiarata incostituzionale», contenuto nella disposizione del
1953, si presterebbe, infatti, a richiamare  qualsiasi  tipologia  di
norma penale, comprese, quindi, quelle che incidono sull'entita'  del
trattamento sanzionatorio (Corte di cassazione, sezioni unite penali,
sentenze n. 37107 del 2015, n. 42858 del 2014 e n. 18821 del 2014). 
    Si tratta di interpretazione che questa Corte ha  avuto  modo  di
qualificare, in piu' occasioni, come «non implausibile» (sentenze  n.
43 del 2017, n. 57 del 2016 e n. 210 del 2013) e che appare, in  ogni
caso, senz'altro configurabile, allo stato  attuale,  in  termini  di
diritto vivente. 
    2.3.- Viene  pero'  oggi  in  rilievo  un  ulteriore  e  distinto
problema: l'estensione, cioe',  del  campo  applicativo  della  norma
censurata - in nome dello stesso principio - con riguardo al tipo  di
sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimita'  costituzionale
(non solo la sanzione penale, ma  anche  la  sanzione  amministrativa
qualificabile come penale ai sensi della CEDU). 
    Sul presupposto che tale ulteriore risultato non fosse  viceversa
conseguibile in via di interpretazione, questa Corte  e'  gia'  stata
chiamata in precedenza a verificare se la connessa limitazione  della
sfera di operativita' dell'art. 30, quarto comma, della legge  n.  87
del 1953 rechi un vulnus agli artt. 3,  25,  secondo  comma,  e  117,
primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU).
Cio', a  seguito  di  un  incidente  di  costituzionalita'  sollevato
nell'ambito di un giudizio di opposizione all'esecuzione di  cartelle
esattoriali  per  il  pagamento  di   una   sanzione   amministrativa
pecuniaria, applicata con sentenza irrevocabile  sulla  base  di  una
norma dichiarata poi costituzionalmente illegittima  per  eccesso  di
delega  (con  conseguente  reviviscenza  delle  piu'  miti   sanzioni
amministrative previste dalla normativa anteriore). 
    Con  la  sentenza  n.  43  del  2017  le  questioni  sono   state
dichiarate, peraltro, non fondate. 
    Questa Corte  ha  osservato  che  l'attrazione  di  una  sanzione
amministrativa nella materia penale in  virtu'  dei  "criteri  Engel"
trascina con se' tutte e soltanto le garanzie  previste  dalla  CEDU,
come  elaborate  dalla  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo:
giurisprudenza nella quale  non  si  rinviene  l'affermazione  di  un
principio analogo a  quello  affermato  dalla  norma  censurata  (che
impedisca, cioe', l'esecuzione di una sanzione sostanzialmente penale
inflitta con sentenza  irrevocabile  sulla  base  di  una  norma  poi
dichiarata incostituzionale). Il  legislatore  nazionale,  dal  canto
suo, puo'  bene  apprestare  garanzie  ulteriori  rispetto  a  quelle
previste  dalla  Convenzione,   riservandole   alle   sole   sanzioni
qualificate come penali dall'ordinamento interno. 
    E' vero - si osserva nella citata sentenza - che questa Corte  ha
«occasionalmente» riferito l'art. 25, secondo comma,  Cost.  anche  a
misure  diverse  dalle  pene  in  senso  stretto:  ma  lo  ha   fatto
limitatamente al «contenuto essenziale» del  precetto  costituzionale
(il principio di irretroattivita'  della  norma  sfavorevole)  e  «in
riferimento   a   misure   amministrative   incidenti   su   liberta'
fondamentali che coinvolgono anche i diritti politici del cittadino». 
    Si e' rilevato, infine, che per le sanzioni  penali  e'  prevista
una  fase  esecutiva,  che  -  nella  ricostruzione   operata   dalla
giurisprudenza  di  legittimita'  -  vede   attribuito   al   giudice
dell'esecuzione il ruolo di garante della legalita'  della  pena:  il
che non accadeva, invece,  per  le  sanzioni  amministrative  di  cui
allora si discuteva, la cui esecuzione obbediva  a  principi  affatto
differenti,  essendo  il  relativo  giudice  investito   della   sola
cognizione del titolo esecutivo. 
    2.4.- Il  problema  della  sorte  delle  sanzioni  amministrative
applicate  con  sentenza  irrevocabile  sulla  base  di  disposizioni
dichiarate  successivamente  incostituzionali  e'  stato   riportato,
tuttavia, all'attenzione degli interpreti dalla vicenda che  e'  alla
radice dell'odierno incidente di legittimita' costituzionale: vale  a
dire  dalla  dichiarazione  di  illegittimita'   costituzionale   del
meccanismo di applicazione automatica della  sanzione  amministrativa
accessoria della revoca della patente di guida, nei casi di  condanna
o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale e  di
lesioni personali stradali gravi  o  gravissime,  previsto  dall'art.
222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992,
n. 285 (Nuovo codice della  strada),  come  modificato  dall'art.  1,
comma 6, lettera b), numero 1), della legge  23  marzo  2016,  n.  41
(Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato  di  lesioni
personali stradali, nonche' disposizioni di coordinamento al  decreto
legislativo 30 aprile 1992, n.  285,  e  al  decreto  legislativo  28
agosto 2000, n. 274). 
    Con la sentenza n. 88 del 2019, questa Corte ha ritenuto che tale
automatismo sanzionatorio - esteso in modo indiscriminato a tutte  le
fattispecie  di  omicidio  e  lesioni  personali  stradali  (gravi  o
gravissime), ricorressero o meno le circostanze  aggravanti  previste
dagli  artt.  589-bis  e   590-bis   cod.   pen.,   che   qualificano
negativamente i fatti sul piano della colpevolezza e in rapporto alle
quali sono previste pene distinte e graduate - vulnerasse i  principi
di  uguaglianza,  ragionevolezza  e  proporzionalita'.   L'automatica
applicazione della revoca  della  patente  poteva  giustificarsi,  in
effetti, solo per le ipotesi piu' gravi e piu' severamente punite  di
cui al secondo e al terzo comma, sia dell'art. 589-bis, sia dell'art.
590-bis cod. pen. (essersi posti alla  guida  in  stato  di  ebbrezza
alcolica o sotto l'effetto  di  stupefacenti):  sotto  tale  livello,
doveva  essere  lasciata  invece  al  giudice  la   possibilita'   di
effettuare una  «valutazione  individualizzante»,  sulla  base  delle
circostanze  del  caso  concreto;  in  particolare,  nel   senso   di
consentirgli, «secondo la gravita' della  condotta  del  condannato»,
sia di disporre la  sanzione  amministrativa  della  revoca,  sia  di
applicare quella, «meno afflittiva», della sospensione della  patente
per la durata massima prevista dal secondo e dal  terzo  periodo  del
medesimo comma 2 dell'art. 222 cod. strada. 
    Il citato art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada e' stato
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella  parte  in
cui non prevede che, in caso di condanna o patteggiamento della  pena
per  i  reati  dianzi  indicati,  «il  giudice  possa  disporre,   in
alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione  della
stessa ai sensi del secondo e terzo  periodo  dello  stesso  comma  2
dell'art.  222  cod.  strada  allorche'  non  ricorra  alcuna   delle
circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e  terzo
degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.». 
    2.5.- Di seguito a cio', numerose  persone,  la  cui  patente  di
guida era stata revocata con sentenza passata in giudicato sulla base
della norma dichiarata incostituzionale  -  e,  tra  esse,  anche  il
ricorrente  nel  giudizio  a  quo  -  si  sono  rivolte  al   giudice
dell'esecuzione, chiedendogli di "rimodulare" tale sanzione alla luce
della pronuncia di questa Corte: ossia, in pratica, di sostituire  la
revoca della patente con la semplice sospensione. 
    Ad avviso dell'odierno rimettente, ove  si  facesse  applicazione
della sentenza n. 88 del 2019, il ricorrente  sarebbe  effettivamente
meritevole della sostituzione, essendo stato giudicato per  un  fatto
di omicidio  stradale  semplice,  con  addebiti  di  colpa  di  lieve
entita'. Tuttavia, l'istanza non potrebbe essere accolta,  stante  la
riferibilita' dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del  1953
alle sole sanzioni penali, in ragione del suo tenore letterale. 
    Il giudice a quo torna, di  conseguenza,  ad  interrogare  questa
Corte sulla  legittimita'  costituzionale,  in  parte  qua,  di  tale
disposizione con riguardo ad una  piu'  ampia  platea  di  parametri,
invitandola  a  rivedere  le  conclusioni  cui  era  pervenuta  nella
sentenza n. 43 del 2017, alla  luce,  sia  della  particolare  natura
della sanzione di cui si discute  nella  specie,  sia  dei  mutamenti
della giurisprudenza costituzionale intervenuti  dopo  la  precedente
pronuncia. 
    3.- Cio' posto, e salvo  quanto  si  osservera'  piu'  avanti  in
ordine alla esatta delimitazione del thema decidendum,  le  questioni
sollevate appaiono in grado di  superare  il  vaglio  preliminare  di
ammissibilita'. 
    3.1.- Risultano superabili, in particolare, i dubbi legati ad  un
eventuale difetto di competenza del giudice a quo a provvedere, quale
giudice dell'esecuzione, anche sulla richiesta di sostituzione  della
sanzione amministrativa accessoria. 
    Per costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  alla  luce  del
principio di  autonomia  del  giudizio  incidentale  di  legittimita'
costituzionale  rispetto  al  processo  principale,  il  difetto   di
competenza del giudice a quo - al pari del difetto di giurisdizione -
costituisce  causa  di  inammissibilita'  della  questione  solo   se
manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenza n. 136
del 2008; ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000). 
    Nella  specie,  il  rimettente  motiva  in  ordine  alla  propria
competenza, rilevando che, se pure la revoca della  patente  disposta
dal  giudice  penale  necessita,  per  la  sua  esecuzione,   di   un
provvedimento del prefetto (art. 224, comma  2,  cod.  strada),  tale
provvedimento rappresenta - come rilevato anche da questa Corte nella
sentenza  n.  88  del  2019  -  mero  recepimento  della  statuizione
giudiziale. Di conseguenza, il compito di vigilare  sulla  perdurante
rispondenza della sanzione amministrativa al principio di  legalita',
per tutto il corso della sua esecuzione, non potrebbe spettare se non
allo stesso giudice  penale:  lo  stretto  nesso  di  dipendenza  del
provvedimento amministrativo dal giudicato penale  non  consentirebbe
la revoca del primo senza la parziale caducazione del secondo. 
    Si  tratta  di  tesi  che,  di  la'  dai  possibili  margini   di
valutazione degli argomenti che la sostengono, appare, comunque  sia,
non   manifestamente   implausibile.    Essa    risulta,    peraltro,
implicitamente avvalorata dalle sentenze,  di  cui  presto  si  dara'
conto, con le quali la Corte di cassazione - pronunciando su  ricorsi
proposti  avverso  provvedimenti  di  giudici  dell'esecuzione  -  ha
escluso la possibilita' di modificare il  giudicato  in  applicazione
della sentenza n. 88 del 2019, ma  solo  in  ragione  della  ritenuta
estraneita'  della  sanzione  della  revoca  della  patente  al  cono
applicativo dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87  del  1953,
senza  porre  affatto  in  discussione  la  competenza  del   giudice
dell'esecuzione a pronunciare sulla relativa istanza. 
    3.2.-   L'Avvocatura   generale   dello   Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita'  delle  questioni  sotto  un   distinto   profilo,
connesso al fatto che  la  sanzione,  su  cui  si  controverte  nella
specie, non potrebbe essere ritenuta - contrariamente a quanto assume
il rimettente - ancora in corso di  esecuzione:  condizione,  questa,
indispensabile - come si e'  visto  -  affinche'  l'art.  30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 possa trovare  applicazione,  nella
lettura piu' lata patrocinata dalla giurisprudenza di legittimita'. 
    Secondo la difesa dell'interveniente, l'esecuzione della sanzione
della revoca della patente  si  risolverebbe  e  si  esaurirebbe  nel
provvedimento prefettizio di rimozione del  titolo  abilitativo  alla
guida: provvedimento che,  nella  specie,  e'  gia'  stato  adottato.
Sarebbe, dunque, impensabile che  il  giudice  dell'esecuzione  possa
sostituire la revoca della patente con la misura della sospensione  -
la quale presuppone che l'interessato sia munito di valido titolo  di
abilitazione alla guida - facendo "rivivere" un titolo  che  e'  gia'
stato ormai definitivamente rimosso. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Come correttamente osserva il giudice a quo, al provvedimento  di
revoca della patente, adottato a seguito della  condanna  penale,  si
accompagna un ulteriore effetto:  quello,  cioe',  di  precludere  il
conseguimento di una nuova patente di guida prima del decorso  di  un
determinato periodo di tempo, pari, nei casi ordinari, a cinque  anni
dalla revoca (art. 222, comma 3-ter,  primo  periodo,  cod.  strada);
termine che, nella specie, non e' ancora spirato. 
    Sul punto, non coglie nel segno l'obiezione dell'Avvocatura dello
Stato, secondo la quale le disposizioni, contenute nei commi 3-bis  e
3-ter del citato art. 222 cod. strada, che stabiliscono i termini per
il conseguimento di una nuova patente dopo la revoca,  riguardano  la
disciplina amministrativa di settore e restano  estranee  alla  sfera
della giurisdizione penale. 
    La revoca della patente e', infatti, nella sostanza, una sanzione
interdittiva della circolazione alla guida dei veicoli a motore. Essa
e' la risultante di due componenti: la perdita del titolo abilitativo
gia' posseduto (con conseguente necessita'  di  ripetere  l'esame  di
abilitazione alla guida, diversamente che nel caso della sospensione)
e l'inibizione al conseguimento di un nuovo titolo prima di un  certo
tempo. Tanto e' vero che l'art. 222, comma 2,  ultimo  periodo,  cod.
strada stabilisce espressamente che - di seguito  alla  comunicazione
della sentenza di condanna o di patteggiamento  -  il  prefetto  deve
emettere,  nei  confronti   dell'interessato,   «provvedimento   [non
soltanto] di revoca della patente [ma anche] di inibizione alla guida
sul territorio nazionale, per un periodo corrispondente a quello  per
il quale si applica la revoca della patente». 
    Questa componente inibitoria fa pienamente  parte  del  contenuto
della sanzione, rappresentandone  un  aspetto  qualificante.  Avrebbe
poco senso, infatti, revocare la patente  al  condannato,  se  questi
potesse conseguirne una nuova  subito  dopo:  col  risultato  che  la
revoca  diverrebbe,  di  fatto,  una  sanzione   piu'   lieve   della
sospensione (la quale inibisce la guida per tutta la sua durata,  pur
lasciando il condannato nella titolarita' della patente). 
    Al contrario, la sospensione e' la sanzione piu' mite,  anche  (e
soprattutto)  perche'  la  sua   durata   e'   inferiore   a   quella
dell'inibizione al conseguimento di una nuova patente dopo la revoca.
L'art. 222, comma 2, secondo e terzo periodo,  cod.  strada  prevede,
infatti, solo limiti temporali massimi  (quattro  anni  nel  caso  di
omicidio stradale, due anni nel caso di  lesioni  personali  stradali
gravi o gravissime), sotto i quali il giudice puo'  discrezionalmente
sospendere la patente anche per  periodi  di  tempo  nettamente  piu'
contenuti. 
    E' giocoforza, di conseguenza,  concludere  che,  fin  quando  e'
pendente  il  termine  per  il  conseguimento  di  un  nuovo   titolo
abilitativo, l'esecuzione della sanzione perdura. 
    4.- Occorre, pero', a questo punto,  portare  l'attenzione  sulle
premesse ermeneutiche che fondano i quesiti. 
    4.1.- Come gia' accennato, il rimettente esclude in modo motivato
che la norma censurata si presti a una  interpretazione  adeguatrice,
la quale attragga nel suo ambito applicativo sanzioni  amministrative
"sostanzialmente penali", quale, in assunto, la revoca della patente.
Il tenore letterale della norma, nella parte in  cui  fa  riferimento
alla «sentenza irrevocabile di condanna» e ai suoi «effetti  penali»,
lascerebbe, infatti, intendere come essa attenga alle sole  «sanzioni
formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali». 
    Il giudice a quo ricorda pure come l'estensibilita'  della  norma
censurata alle sanzioni  amministrative  aventi  natura  penale  agli
effetti della CEDU fosse stata affermata incidentalmente dalla quinta
sezione penale della Corte di cassazione nell'ordinanza  10  novembre
2014-15 gennaio 2015, n. 1782, senza, tuttavia,  che  tale  soluzione
venisse recepita da questa Corte nella sentenza n. 43 del 2017. 
    Cio' e' avvenuto, peraltro, in un panorama nel  quale  la  citata
pronuncia del giudice di legittimita' appariva isolata e in contrasto
con una - sia pur remota e  altrettanto  isolata  -  decisione  della
Corte di  cassazione  civile  (Corte  di  cassazione,  sezione  terza
civile, sentenza 20 gennaio 1994, n. 458). 
    4.2.- La situazione appare pero' ora mutata,  per  effetto  della
giurisprudenza formatasi proprio sullo specifico problema oggetto del
giudizio a quo:  quello,  cioe',  della  legittimazione  del  giudice
dell'esecuzione  a   modificare   la   statuizione   della   sentenza
irrevocabile di condanna relativa  alla  revoca  della  patente,  per
adeguarla alla sentenza n. 88 del 2019. 
    La  Corte  di  cassazione  si  e',  infatti,  gia'  ripetutamente
espressa al riguardo, rilevando come il  problema  si  risolva  nello
stabilire se la revoca della patente - di  la'  dalla  qualificazione
nominalistica di «sanzione amministrativa accessoria» - possa  essere
fatta rientrare, o  no,  nel  novero  degli  «effetti  penali»  della
condanna, di cui la norma censurata impone la cessazione. A tal fine,
la Corte di cassazione ha ritenuto  «utilizzabili  i  noti  parametri
Engel, tratti dalla sedimentata giurisprudenza di Strasburgo, per cui
la sanzione puo' essere  definita  penale  -  al  di  la'  del  nomen
attribuito dal legislatore interno - in rapporto all'analisi concreta
delle finalita' perseguite e del grado di  afflittivita',  nel  senso
che li' dove risulti prevalente la  finalita'  punitiva  (rispetto  a
quella preventiva) o li'  dove  risulti  particolarmente  elevato  il
grado di afflittivita', la misura in questione va attratta  nel  cono
delle garanzie penalistiche». 
    Tale affermazione, contenuta in una pronuncia di  poco  anteriore
all'ordinanza di  rimessione  (Corte  di  cassazione,  sezione  prima
penale, sentenza 14  novembre  2019-17  gennaio  2020,  n.  1804),  e
ripresa,  testualmente  o  nella  sostanza,  in   plurime   decisioni
successive (Corte di cassazione,  sezione  feriale  penale,  sentenza
20-24 agosto  2020,  n.  24023;  sezione  prima  penale,  sentenza  3
marzo-10 giugno 2020, n. 17834; sezione  prima  penale,  sentenza  20
febbraio-9 giugno 2020, n. 17508; sezione prima penale,  sentenza  20
febbraio-9  giugno  2020,  n.  17506;  sezione   prima   penale,   26
febbraio-30 aprile 2020, n. 13451), equivale al riconoscimento che la
norma  censurata  -  gia'  interpretata  in  modo   estensivo   dalla
giurisprudenza di legittimita', sulla base della ratio legis,  quanto
al  tipo  di  declaratoria  di  incostituzionalita'  che  incide  sul
giudicato - si presta a una lettura di analoga fatta anche quanto  al
novero    delle    sanzioni    attinte    dalla    declaratoria    di
incostituzionalita',  tale  da  ricomprendere,  in  particolare,   le
sanzioni amministrative con caratteristiche  punitive  al  metro  dei
"criteri europei". 
    Senonche', con specifico riguardo alla revoca della  patente,  la
Corte di cassazione ha poi risposto in senso  negativo  alla  domanda
che essa stessa si era posta: ha negato, cioe', che -  contrariamente
a quanto sostiene l'odierno rimettente  -  la  revoca  della  patente
possa ritenersi sanzione di natura sostanzialmente penale sulla  base
di quei criteri, traendo  da  cio'  la  conseguenza  che  il  giudice
dell'esecuzione  non  sarebbe  abilitato   a   sostituirla   con   la
sospensione a modifica del giudicato. 
    La  revoca  della  patente  avrebbe,   infatti,   una   finalita'
preventiva, e non gia' repressiva: costituirebbe una misura a  tutela
della sicurezza della circolazione stradale,  inibendo  la  guida  di
veicoli a motore a soggetti  che,  con  la  loro  condotta,  si  sono
dimostrati  pericolosi,  «con  estraneita'  funzionale  agli  aspetti
meramente afflittivi della pena» (Corte di cassazione, sezione  prima
penale, sentenza n. 1804 del 2020, sulla  cui  scia  tutte  le  altre
sentenze dianzi citate). 
    L'inibizione  e',  d'altra  parte,  circoscritta  ad  un   ambito
temporale limitato, decorso il quale e' possibile ottenere  un  nuovo
titolo  abilitativo  alla  guida:   onde   neppure   il   «grado   di
afflittivita'»  della  sanzione  sarebbe  tale  da  giustificare   il
superamento del dato  nominalistico  (Corte  di  cassazione,  sezione
prima penale, sentenza n. 1804 del 2020; in  senso  analogo,  sezione
prima penale, sentenza  25  settembre-22  dicembre  2020,  n.  37034;
sezione feriale penale, n. 24023  del  2020;  sezione  prima  penale,
sentenza n. 13451 del 2020). 
    In  sostanza,  dunque,  la  giurisprudenza  di   legittimita'   -
rovesciando entrambe le  premesse  interpretative  da  cui  muove  il
giudice a quo - da un lato riconosce, ormai con plurime pronunce, che
la norma censurata si presta ad essere applicata anche alle  sanzioni
amministrative "sostanzialmente penali"; ma dall'altro nega, in  modo
altrettanto costante, che la revoca della patente  abbia  una  simile
natura, e conseguentemente esclude che il giudice dell'esecuzione sia
abilitato ad effettuare l'operazione cui il  rimettente  intenderebbe
procedere nel caso di specie. 
    5.- In questo quadro, i quesiti di  costituzionalita'  vengono  a
concentrarsi  sul  trattamento  riservato  alla  specifica   sanzione
amministrativa accessoria che viene in rilievo nel  giudizio  a  quo:
sanzione  alla  quale  -  di  la'  dal  riferimento  del  dispositivo
dell'ordinanza di rimessione  all'indistinta  platea  delle  sanzioni
amministrative "convenzionalmente penali"  -  appaiono,  in  effetti,
nella sostanza riferite le censure del rimettente. 
    Nella motivazione dell'ordinanza, egli afferma, infatti, in  modo
assai piu' puntuale, di dubitare  della  legittimita'  costituzionale
della norma denunciata «nella parte in cui non  consente  al  giudice
dell'esecuzione  di   rideterminare   una   sanzione   amministrativa
accessoria - la cui applicazione  e'  demandata  al  giudice  penale,
unitamente alle sanzioni penali -  oggetto  di  una  declaratoria  di
illegittimita'  costituzionale  che  ne  abbia  mutato  di  fatto  la
disciplina». Locuzione, questa, che richiama  dappresso  la  sanzione
prevista dall'art. 222 cod. strada. 
    Alcune delle censure, d'altra parte,  appaiono  calibrate  avendo
specificamente di mira la revoca della patente. Cio'  e'  palese  con
riguardo alla denunciata violazione degli artt. 35 e 41 Cost.,  posto
che la compressione  del  diritto  al  lavoro  e  della  liberta'  di
iniziativa economica non rappresenta certamente un connotato generale
delle sanzioni  amministrative.  Ma  altrettanto  puo'  dirsi  per  i
riferimenti - operati nel formulare le censure  di  violazione  degli
artt. 3 e 136 Cost. - all'attitudine della sanzione amministrativa  a
colpire diritti fondamentali della  persona  di  rango  piu'  elevato
rispetto  ai  beni  incisi  da  talune  sanzioni  penali  (quale   il
patrimonio). 
    E' significativo, infine,  il  fatto  che  tra  gli  elementi  di
novita' che dovrebbero indurre questa Corte a rivedere  la  soluzione
adottata con la sentenza  n.  43  del  2017  il  rimettente  indichi,
anzitutto, la particolare natura della sanzione di cui si discute nel
caso di specie. 
    6.-  Cosi'  delimitato  il  thema  decidendum,  questa  Corte  e'
dell'avviso che non sia, in realta', possibile negare che  la  revoca
della patente,  disposta  dal  giudice  penale  con  la  sentenza  di
condanna o di patteggiamento della pena per i reati di cui agli artt.
589-bis e  590-bis  cod.  pen.,  abbia  connotazioni  sostanzialmente
punitive  (sia  pur  non  disgiunte  da  finalita'  di  tutela  degli
interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore,  secondo
uno   schema   tipico   delle   misure   sanzionatorie    consistenti
nell'interdizione di una determinata attivita'). 
    Viene in particolare  rilievo,  al  riguardo,  la  giurisprudenza
della Corte di Strasburgo relativa allo specifico tema. La Corte  EDU
ha preso piu' volte posizione, infatti,  sulla  natura  penale,  agli
effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione
della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte  a
seguito dell'accertamento di infrazioni  connesse  alla  circolazione
stradale. Da tali pronunce  emerge  un  orientamento  sostanzialmente
univoco, alla luce del quale - ancorche' le misure in discorso  siano
configurate  nel   diritto   interno   come   misure   amministrative
finalizzate a preservare la sicurezza stradale -  esse  si  connotano
come di natura  convenzionalmente  penale  quando  l'inibizione  alla
guida si protragga per un lasso di tempo significativo,  tanto  piu',
poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna  penale  (Corte
EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard  contro  Svizzera;  sentenza  17
febbraio 2015, Boman contro Finlandia; decisione  13  dicembre  2005,
Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso,  le  misure  stesse  ad
assumere, per il loro grado di severita',  un  carattere  punitivo  e
dissuasivo (Corte EDU, sentenza  21  settembre  2006,  Maszni  contro
Romania). 
    In quest'ottica, si e' ritenuto rientrare nella «materia  penale»
il ritiro della patente per la durata di diciotto  mesi  (Corte  EDU,
decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia):  lasso  di  tempo
ben piu' breve dei cinque anni per i quali si protrae  -  nella  piu'
favorevole delle ipotesi - la revoca della patente disposta ai  sensi
dell'art. 222 cod. strada. 
    La Corte di  Strasburgo  ha  ripetutamente  qualificato  come  di
natura penale, agli effetti  della  Convenzione,  persino  la  misura
della decurtazione dei  punti  della  patente,  in  quanto  idonea  a
determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida.
Al riguardo, i giudici europei  hanno  posto  in  evidenza  come  sia
«incontestabile che il diritto di condurre un  veicolo  a  motore  si
rivela di grande utilita' per la vita corrente e l'esercizio  di  una
attivita' professionale»:  di  modo  che,  «anche  se  la  misura  e'
considerata dal diritto interno comune come una misura amministrativa
preventiva  non  appartenente  alla  materia  penale,  e'  giocoforza
constatare il  suo  carattere  punitivo  e  dissuasivo»  (Corte  EDU,
sentenza 5 ottobre  2017,  Varadinov  contro  Bulgaria;  sentenza  23
settembre 1998,  Malige  contro  Francia;  analogamente,  sentenza  6
ottobre 2011, Wagner contro Lussemburgo). 
    Anche  guardando  il  fenomeno  in  una   prospettiva   meramente
"interna", non puo', peraltro,  disconoscersi  che  ci  si  trovi  al
cospetto di una  sanzione  dalla  carica  afflittiva  particolarmente
elevata e dalla spiccata capacita'  dissuasiva.  Non  poter  condurre
veicoli a motore per cinque anni puo' rappresentare - specie  per  un
soggetto che,  come  il  ricorrente  nel  giudizio  a  quo,  esercita
l'attivita' di autotrasportatore - una sanzione,  in  concreto,  piu'
temibile della stessa pena principale  di  un  anno  e  sei  mesi  di
reclusione, condizionalmente sospesa, che gli e' stata  inflitta  per
il reato commesso. 
    E' significativo, d'altronde, che - avendo riguardo  alla  misura
di identico contenuto prevista dal  precedente  codice  della  strada
(art. 91, settimo comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n.  393,  recante
«Testo unico delle norme sulla  circolazione  stradale»),  il  quale,
pero', si  asteneva  dal  qualificarla  come  «amministrativa»  -  le
sezioni unite della  Corte  di  cassazione  non  avessero  esitato  a
configurare la  revoca  (come  pure  la  sospensione)  della  patente
disposta  dal  giudice  penale  quale  «pena   accessoria»,   analoga
all'interdizione o sospensione dall'esercizio di una professione o di
un'arte (tipiche pene accessorie disciplinate dagli artt. 30, 31 e 35
cod. pen.), rilevando come essa, «comprimendo con  inevitabile  danno
economico la liberta' di  circolazione  -  tanto  sentita  da  questa
societa' - e reprimendo nella  maniera  piu'  acconcia  lo  scorretto
esercizio di essa», costituisse «mezzo di prevenzione speciale idoneo
ed efficace, piu' della stessa pena principale,  cui  aggiunge  forza
intimidatrice» (Corte di cassazione, sezioni unite  penali,  sentenza
19 dicembre 1990-12 febbraio 1991, n. 2246). 
    7.- In quest'ottica, si  deve  ritenere  che  l'art.  30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953  -  in  quanto  interpretato,  come
vuole la consolidata giurisprudenza di  legittimita',  nel  senso  di
escluderne l'applicabilita' in relazione alla sanzione amministrativa
considerata - venga a porsi in contrasto con l'art. 3 Cost. 
    Come gia' ricordato, nella sentenza n. 43 del 2017  questa  Corte
ha  ritenuto  che  l'inapplicabilita'  della  norma  censurata   alle
sanzioni  amministrative  "convenzionalmente  penali"  non   violasse
nemmeno tale parametro, stante la facolta' del legislatore  nazionale
di apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle prefigurate  dalla
CEDU,  riservandole  alle  sole  sanzioni  "formalmente  penali"  per
l'ordinamento  interno.  E  sebbene  -   si   era   rilevato   -   la
giurisprudenza costituzionale avesse  «occasionalmente»  esteso  alle
sanzioni amministrative l'art. 25, secondo comma, Cost., il  fenomeno
era rimasto pero' circoscritto  al  nucleo  essenziale  del  precetto
costituzionale (il divieto di retroattivita' in  malam  partem)  e  a
misure incidenti su liberta' fondamentali  che  coinvolgono  anche  i
diritti politici del cittadino.  Per  le  sanzioni  amministrative  -
diversamente che per quelle penali - non e', d'altra parte,  prevista
una fase esecutiva che  attribuisca  al  giudice  dell'esecuzione  il
ruolo di garante della legalita' della misura. 
    Successivamente alla sentenza n. 43  del  2017,  il  processo  di
assimilazione delle sanzioni amministrative "punitive" alle  sanzioni
penali, quanto a garanzie costituzionali, ha pero' conosciuto nuovi e
rilevanti sviluppi, tali da rendere non piu' attuali le  affermazioni
contenute in tale pronuncia. 
    Superando precedenti decisioni di segno contrario,  questa  Corte
ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere  punitivo  -
in quanto tali (indipendentemente, cioe',  dalla  caratura  dei  beni
incisi) - larga  parte  dello  "statuto  costituzionale"  sostanziale
delle sanzioni  penali:  sia  quello  basato  sull'art.  25  Cost.  -
irretroattivita' della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n.
223 del 2018 e n. 68 del  2017;  nonche',  a  livello  argomentativo,
sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del  2018;  ordinanza  n.  117  del
2019), determinatezza dell'illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134
del 2019 e n. 121 del 2018) - sia quello basato su altri parametri, e
in particolare sull'art. 3 Cost. - retroattivita'  della  lex  mitior
(sentenza n. 63  del  2019),  proporzionalita'  della  sanzione  alla
gravita' del fatto (sentenza n. 112 del 2019) -. 
    Di rilievo, agli odierni fini, appare soprattutto la sentenza  n.
63  del  2019,  con  cui  questa  Corte  ha  esteso   alle   sanzioni
amministrative "punitive" il principio di  retroattivita'  della  lex
mitior, ritenendo tale operazione «conforme alla logica sottesa  alla
giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla  base  dell'art.  3
Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali», la quale «"[...]
impone,  in  linea  di  massima,   di   equiparare   il   trattamento
sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che
essi siano stati commessi prima o  dopo  l'entrata  in  vigore  della
norma che ha disposto l'abolitio criminis o la modifica  mitigatrice"
(sentenza  n.  394  del  2006)"».  Laddove,  infatti,  «la   sanzione
amministrativa abbia  natura  "punitiva",  di  regola  non  vi  sara'
ragione per continuare ad applicar[la] [...], qualora  il  fatto  sia
successivamente considerato non piu' illecito; ne' per continuare  ad
applicarla in una misura considerata  ormai  eccessiva  (e  per  cio'
stesso  sproporzionata)  rispetto  al  mutato   apprezzamento   della
gravita' dell'illecito da parte dell'ordinamento. E  cio'  salvo  che
sussistano ragioni cogenti di  tutela  di  controinteressi  di  rango
costituzionale, tali da resistere al  medesimo  "vaglio  positivo  di
ragionevolezza", al  cui  metro  debbono  essere  in  linea  generale
valutate le deroghe al principio di retroattivita'  in  mitius  nella
materia penale» (sentenza n. 63 del 2019). 
    Ma, se cosi' e', a maggior ragione  va  escluso  -  come  per  le
sanzioni penali - che taluno debba continuare a scontare una sanzione
amministrativa "punitiva" inflittagli in base a una norma  dichiarata
costituzionalmente illegittima: dunque, non gia' oggetto di  semplice
"ripensamento" da parte del legislatore, ma affetta addirittura da un
vizio  genetico,  il  cui  accertamento   impone,   senza   possibili
eccezioni, di lasciare immune da sanzione, o di  sanzionare  in  modo
piu' lieve, chiunque dopo di esso commetta il medesimo fatto. 
    Al riguardo, non coglie  nel  segno  l'obiezione  dell'Avvocatura
dello Stato, secondo cui la sentenza n. 63 del 2019 non  sarebbe,  in
realta', pertinente, non essendosi in alcun modo  occupata  del  tema
del giudicato. 
    Il principio di  legalita'  costituzionale  della  pena,  cui  si
riconnette la norma oggi censurata, e'  "piu'  forte"  di  quello  di
retroattivita' in mitius, il quale, nel caso di successione di  leggi
modificative,  incontra,  di   regola,   in   base   alla   normativa
codicistica,  il  limite  della  definitivita'  della  pronuncia   di
condanna (art. 2, quarto comma, cod. pen.).  Alla  luce  del  diritto
vivente formatosi in sede di  interpretazione  dell'art.  30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 - come si e'  visto  (supra,  punto
2.2. del Considerato in diritto) - tale limite non opera  invece  nel
caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale che rimoduli il
trattamento sanzionatorio della fattispecie: l'esigenza che  la  pena
risulti conforme a  Costituzione  lungo  tutto  il  corso  della  sua
esecuzione prevale  sulle  esigenze  di  certezza  e  stabilita'  dei
rapporti giuridici, a cui presidio e' posto l'istituto del giudicato. 
    L'esito del bilanciamento tra i  contrapposti  valori  non  puo',
peraltro, ribaltarsi per le sanzioni  amministrative  a  connotazione
punitiva, particolarmente quando  si  tratti  di  sanzione  quale  la
revoca della patente di guida. 
    A  questo  proposito,  viene   in   risalto   la   piu'   recente
giurisprudenza  di  questa  Corte   sulla   cosiddetta   "successione
impropria" tra  norme  penali  e  nome  sanzionatorie  amministrative
punitive conseguente agli interventi  di  depenalizzazione.  Essa  ha
posto  adeguatamente  in  evidenza,  ai  fini  dell'operativita'  del
divieto di retroattivita' sfavorevole, come un apparato sanzionatorio
di natura formalmente amministrativa possa  risultare,  in  concreto,
piu' afflittivo rispetto all'apparato sanzionatorio  previsto  per  i
reati (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017). Se
e' vero, infatti, che la sanzione penale «si caratterizza sempre  per
la sua incidenza, attuale  o  potenziale,  sul  bene  della  liberta'
personale (la stessa pena pecuniaria potendo  essere  convertita,  in
caso di mancata esecuzione, in  sanzioni  limitative  della  liberta'
personale stessa), incidenza che e', invece, sempre  esclusa  per  la
sanzione amministrativa»; e  se  e'  vero,  altresi',  «che  la  pena
possiede  un  connotato  speciale  di  stigmatizzazione,  sul   piano
etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla  sanzione
amministrativa», nondimeno, «l'impatto della sanzione  amministrativa
sui diritti fondamentali della persona non puo' essere sottovalutato:
ed e', anzi, andato crescendo nella  legislazione  piu'  recente».  A
rendere maggiormente severo il  regime  sanzionatorio  amministrativo
puo' contribuire, d'altro canto,  anche  il  fatto  che  la  sanzione
amministrativa, diversamente dalla pena, resta sottratta  a  istituti
che  ne  evitano  la  concreta  esecuzione,  quale,  in  specie,   la
sospensione condizionale (sentenza n. 223 del 2018). 
    Con riguardo  all'ipotesi  che  qui  interessa,  non  appare,  in
effetti, costituzionalmente tollerabile  che  taluno  debba  rimanere
soggetto per cinque anni, anziche' per un periodo di tempo nettamente
minore, ad una sanzione inibitoria della guida di veicoli a motore  -
con tutte le limitazioni che cio' comporta nella vita  contemporanea,
compresa, nel caso di specie, l'impossibilita' di svolgere la propria
attivita' lavorativa - inflittagli  sulla  base  di  una  norma  che,
all'indomani del passaggio in giudicato della sentenza  di  condanna,
e' stata riconosciuta contrastante con la Costituzione. Cio',  quando
invece il condannato a una, anche modesta, pena  pecuniaria  potrebbe
giovarsi, finche' non e' eseguita, della sopravvenuta declaratoria di
illegittimita' costituzionale che ne mitighi l'importo. 
    Quanto, infine, all'argomento addotto dalla sentenza  n.  43  del
2017, afferente all'assenza, per le sanzioni amministrative,  di  una
fase esecutiva che veda il relativo giudice garante  della  legalita'
della pena, tale argomento non vale, comunque sia, nella  fattispecie
oggi in esame, una volta che si accrediti la competenza del giudice a
quo. 
    8.- L'art. 30, quarto comma, della  legge  n.  87  del  1953,  va
dichiarato,  pertanto,  costituzionalmente  illegittimo,  in   quanto
interpretato  nel  senso  che  la  disposizione  non  si  applica  in
relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca  della
patente  di  guida,  disposta  con  sentenza  irrevocabile  ai  sensi
dell'art. 222, comma 2, cod. strada. 
    Le  censure  formulate   in   rapporto   agli   altri   parametri
costituzionali restano assorbite. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  30,  quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato
nel senso che la  disposizione  non  si  applica  in  relazione  alla
sanzione amministrativa accessoria  della  revoca  della  patente  di
guida, disposta con sentenza irrevocabile  ai  sensi  dell'art.  222,
comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice
della strada). 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2021. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA