N. 55 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 giugno 2020
Ordinanza del 22 giugno 2020 della Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione Lazio sul ricorso proposto da Frascione Emidio contro Presidente del Consiglio dei ministri, Ministero dell'economia e delle finanze e Istituto nazionale previdenza sociale (Inps). Pensioni - Legge di bilancio 2019 - Trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995, i cui importi complessivamente considerati superano 100.000 euro lordi su base annua - Intervento di decurtazione percentuale, per la durata di cinque anni, dell'ammontare lordo annuo. - Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), art. 1, commi da 261 a 268.(GU n.18 del 5-5-2021 )
LA CORTE DEI CONTI Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio Il giudice monocratico cons. Antonio Di Stazio ha pronunciato la seguente ordinanza: nel giudizio iscritto al n. 76886 del registro di segreteria, sul ricorso presentato dal dott. Emidio Frascione (C.F. FRSMDE33L15G942Z), nato a Potenza il 15 luglio 1933, elettivamente domiciliato in Roma, alla via Santa Maria in Via n. 12, presso lo studio del prof. avv. Vincenzo Fortunato, che lo rappresenta e difende (indirizzo P.E.C. per le comunicazioni di rito: vincenzofortunato@ordineavvocatiroma.org - utenza telefax 06/6784911); contro: Governo della Repubblica - Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri p.t., con sede legale in Roma, Palazzo Chigi, piazza Colonna 370, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, con sede in Roma, via dei Portoghesi 12; Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro p.t., con sede legale in Roma, via XX Settembre n. 97, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, con sede in Roma, via dei Portoghesi 12; Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS), con sede legale in Roma, via Ciro il Grande 21, in persona del Presidente e legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Andrea Botta (P.E.C.: avv.andrea.botta@postacertinps.gov.it - fax 06/94527716), elettivamente domiciliato in Roma, via Cesare Beccaria 29; Letto il ricorso e gli altri di causa; Uditi, nella Camera di consiglio del 4 dicembre 2019, il prof. avv. Vincenzo Fortunato per il ricorrente, l'Avvocato dello Stato Andrea Fedeli in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell'economia e delle finanze. Svolgimento del processo 1. Con ricorso del 3 giugno 2019 parte ricorrente ha chiesto: a) l'accertamento, previa concessione di misure cautelari, del diritto al riconoscimento e all'integrale corresponsione del trattamento pensionistico, senza la decurtazione di cui all'art. 1, comma 261, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 e successive modifiche e integrazioni, con conseguente declaratoria di illegittimita' costituzionale delle trattenute operate a tal titolo sul trattamento pensionistico in godimento del ricorrente, e condanna dei soggetti resistenti alla restituzione in favore del ricorrente di quanto trattenuto a far data dall'applicazione della riduzione del trattamento pensionistico di cui all'art. 1, comma 261, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 e successive modifiche e integrazioni; b) l'accertamento, previa sospensione della trattenuta a titolo di blocco dell'adeguamento perequativo, del diritto alla corresponsione del trattamento pensionistico rivalutato senza il blocco imposto dall'art. 1, comma 260, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 e successive modifiche e integrazioni, e conseguente condanna dei soggetti resistenti alla restituzione in favore del ricorrente di quanto non corrisposto a tal titolo; c) l'annullamento o disapplicazione della circolare INPS n. 62 del 7 maggio 2019, avente per oggetto: «Riduzione dei trattamenti pensionistici di importo complessivamente superiore a 100.000 euro su base annua. Articolo 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019). Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti.». In ogni caso con vittoria di spese ed onorari di giudizio. 1.1. Con il ricorso in epigrafe il dott. Frascione, dopo aver premesso: di essere stato collocato a riposo per limiti di eta' (ex art. 16, decreto-legge n. 503/1992) dal 4 settembre 2008, con la qualifica di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato; di avere versato contributi, compresi i periodi riscattati, per cinquantuno anni e quattro mesi, come da prospetto di liquidazione INPDAP del 24 luglio 2008, versato in atti; di godere della pensione ordinaria di vecchiaia, liquidata con il sistema retributivo, per un importo lordo annuo (al netto della tredicesima) di euro 186.087,12; lamenta che il suo trattamento pensionistico e' stato pesantemente inciso dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145, che all'art. 1, commi dal 261 al 268, ha introdotto una misura di «riduzione» dei trattamenti pensionistici piu' elevati, per la durata di cinque anni a decorrere dal 1° gennaio 2019, atteso che detto trattamento risultera' decurtato di circa euro 21.700 annui, e di complessivi euro 109.000 nell'arco del previsto quinquennio di applicazione. 1.2. Assume che la predetta misura costituisce solo l'ultima (in ordine di tempo) di una serie di interventi legislativi che hanno imposto prelevi forzosi sulla categoria dei pensionati: a) il «contributo di solidarieta'» imposto dalla legge n. 488/1999 (art. 37, comma 1) per il triennio 2000-2002; b) l'analogo «contributo di solidarieta'» previsto dall'art. 3, comma 102, della legge n. 350/2003 per il triennio 2004-2006; c) il contributo di solidarieta' di cui all'art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013, per il triennio 2014-2016), parte ricorrente lamenta inoltre che la legge n. 145 del 2018 ha altresi' introdotto il parziale blocco della perequazione delle pensioni, anch'esso con aliquote crescenti, misura che segue quella gia' prevista per un biennio dall'art. 24, commi 25, lettera e), e 25-bis del decreto-legge n. 201 del 2011 e successive modifiche e integrazioni. 1.3. Assume ancora parte ricorrente che le misure previste dall'art. 1, commi 261-265, della citata legge 30 dicembre 2018, n. 145, si pongono in palese violazione dei principi sanciti dagli articoli 2, 3, 23, 36, 38, 53, 81, 97, 104 e 117 della Costituzione. In particolare, il comma 261 sarebbe illegittimo nella parte in cui prevede, per un quinquennio, aliquote crescenti di riduzione delle pensioni dirette a gestione INPS superiori a determinate soglie (e segnatamente: il 15% per la parte eccedente l'importo di 100.000 euro lordi su base annua e fino a 130.000 euro; il 25% per la parte eccedente 130.000 euro e fino a 200.000 euro; il 30% per la parte eccedente 200.000 euro e fino a 350.000 euro; il 35% per la parte eccedente 350.000 euro e fino a 500.000 euro; in ultimo, il 40% per la parte eccedente l'importo di 500.000 euro). 1.4. A sua volta, il comma 262 sarebbe costituzionalmente illegittimo laddove dispone che gli importi di cui al comma 261 sono soggetti a rivalutazione automatica secondo il meccanismo di cui all'art. 34, comma 1, della legge n. 448/1998 e successive modifiche e integrazioni. 1.5. Sarebbe altresi' illegittimo il comma 263, nella parte in cui dispone che «la riduzione di cui al comma 261 si applica in proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici, ferma la clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si applica alle pensioni interamente liquidate con metodo contributivo.». 1.6. Sarebbe, inoltre, affetto da incostituzionalita' anche il comma 265 ove si prevede l'istituzione di appositi fondi presso l'INPS e presso gli altri enti previdenziali interessati, denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato», in cui confluiscono i risparmi derivanti dall'applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263, che restano ivi accantonati. 1.7. Quanto al requisito della rilevanza della eccepita questione di costituzionalita', adduce il ricorrente di rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 1, comma 261, della legge n. 145/2018, essendo magistrato amministrativo in quiescenza, titolare di trattamento pensionistico diretto a carico dello Stato, di importo superiore alla soglia minima di applicazione della riduzione, pari ad euro 100.000 lordi annui, liquidato con sistema retributivo e di avere gia' subito le contestate decurtazioni, come da cedolini versati in atti. Cio' in considerazione del petitum, volto all'accertamento del diritto del ricorrente alla corresponsione integrale della pensione senza l'applicazione delle sopra esposte decurtazioni, al conseguente accertamento dell'illegittimita' delle somme trattenute dall'ente previdenziale a detto titolo, e alla condanna degli enti intimati alla restituzione di tali somme. 1.8. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, assume il ricorrente che la disciplina del taglio delle pensioni, come introdotta dalla normativa in discorso, contrasta con i parametri costituzionali della ragionevolezza e proporzionalita', ex articoli 2, 3, 36 e 38 della Carta costituzionale, non essendo rispettati, nella specie, i limiti che secondo costante giurisprudenza costituzionale debbono essere rispettati da previsioni - come quella in esame - che incidono su diritti acquisiti o su rapporti istituzionali consolidati, limiti che - secondo la prospettazione di parte ricorrente - operano in maniera piu' stringente per le misure che incidono sulle pensioni, stante la loro natura di retribuzione differita. In particolare: riguardo alla misura «una tantum», la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che l'intervento di riduzione del trattamento pensionistico «non puo' essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza»); riguardo al «contributo di solidarieta'», il relativo intervento normativa e' stato ritenuto legittimo solo «in ragione della sua temporaneita'» e del «suo porsi come misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta» (Corte costituzionale, sentenza n. 173 del 2016); il prelievo e' ragionevole e non infrange i principi di cui agli articoli 38 della Costituzione e 36 della Costituzione ove incide sulle pensioni entro limiti di sostenibilita', in quanto «le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalita', che e' esso stesso criterio, in se', di ragionevolezza della misura» (Corte costituzionale, sentenza n. 173 del 2016); anche laddove l'intervento di riduzione sia mosso da specifiche finalita' previdenziali, il legislatore deve rispettare i principi di ragionevolezza e proporzionalita', sicche' il prelievo "deve operare all'interno dell'ordinamento previdenziale come misura di solidarieta' «forte», mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai piu' deboli, anche in un'ottica di mutualita' intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori endogeni ed esogeni che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all'intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto puo' consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico gia' maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, n. 176 del 2016). 1.9. Secondo la prospettazione di parte ricorrente, la disciplina introdotta dalla legge n. 145 del 2018 non supera, sotto i sopra menzionati profili, lo scrutinio «stretto» di costituzionalita', per i seguenti motivi: i) il disposto taglio delle pensioni piu' alte non e' qualificato come contributo di solidarieta' ne' risponde a finalita' solidaristiche; ii) e' assente il presupposto della «temporaneita'» del sacrificio imposto ai pensionati. Invero, l'intervento normativa in esame, lungi dall'essere temporaneo e circoscritto, si connota come «ripetitivo» rispetto ad analoghe misure di prelievo forzoso dei trattamenti pensionistici gia' previste da precedenti interventi legislativi (di cui quella disposta con la citata legge n. 147/2013, ritenuta ai limiti della legittimita' costituzionale, e' solo l'ultima di una lunga serie), e precisamente: a) il «contributo di solidarieta'» introdotto dall'art. 37, comma 1, della legge n. 488 del 1999, per il triennio 2000-2002, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori al massimale annuo previsto dall'art. 2, comma 18, della legge n. 335 del 1995; b) il «contributo di solidarieta'» di cui all'art. 3, comma 102, della legge n. 350 del 2003, per il triennio 2004-2006, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, di importo complessivamente superiore a venticinque volte quello stabilito dall'art. 38, comma 1, della legge n. 448 del 2001; c) il «contributo di perequazione» di cui all'art. 18, comma 22-bis, della legge n . 350 del 2003, per il periodo 1° agosto 2011 - 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie di importo complessivamente superiore a 90.000 euro lordi annui. Misura dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione con sentenza n. 116 del 2013; d) da ultimo, il «contributo di solidarieta'» di cui all'art. 1, comma 486, della legge n . 147 del 2013, ritenuto costituzionalmente legittimo solo in quanto misura eccezionale, una tantum, e connessa a una obiettiva finalita' endo-previdenziale (la c.d. emergenza esodati). Il ricorrente, collocato a riposo nel 2008, precisa che si e' visto gia' applicare integralmente (come da cedolini in atti) il predetto contributo di solidarieta' per il triennio 2014-2016, misura che la Corte costituzionale aveva ritenuto «al limite» della costituzionalita' in quanto «misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta». 1.10. Alla luce di quanto sopra osservato, ilricorrente ritiene che la rinnovata previsione di un ulteriore intervento di riduzione forzosa dei trattamenti pensionistici in essere - peraltro per un periodo ben piu' lungo, pari ad un quinquennio - e' elemento di per se sufficiente per escludere il superamento dello scrutinio «stretto» di costituzionalita' richiesto in materia. Osserva al riguardo: che la disciplina in esame, al di la' del nomen iuris utilizzato, si pone in rapporto di sostanziale continuita' con gli interventi precedenti, sopra menzionati, poiche' impone alla pari di quelli una decurtazione dei trattamenti pensionistici in essere al superare di una determinata soglia; che la temporaneita' dei singoli prelievi previsti da ciascun intervento normativa e' solo apparente, dal momento che essi si legano l'uno all'altro in un continuum in cui soggetto e oggetto della misura e' sempre lo stesso: il pensionato e la propria pensione maturata ex lege; che, cosi' operando, il legislatore finisce per trasformare un istituto eccezionale e temporaneo in uno strumento ordinario e definitivo, in manifesta violazione dei canoni di proporzionalita', ragionevolezza e legittimo affidamento. Quanto appena osservato varrebbe senza dubbio per il ricorrente, il quale ha gia' integralmente subito, per l'intero triennio 2014-2016, la riduzione della pensione per effetto del contributo di solidarieta' di cui alla legge n. 147/2013. Ritiene ancora il ricorrente che la nuova misura esorbita, di per se', i prescritti limiti di ragionevolezza e proporzionalita' in quanto prevede la riduzione dei trattamenti pensionistici per cinque anni, e cioe' non circoscritta - anche in ragione dell'entita' della riduzione disposta - entro un arco temporale ragionevole. Da tutto cio' consegue altresi', secondo parte ricorrente, l'ingiustificata compressione del suo legittimo affidamento alla percezione del trattamento previdenziale come gia' maturato ex lege, affidamento consolidato alla luce delle ultime pronunce della Corte costituzionale in materia (in primis, sentenza n. 173 del 2016), che avevano statuito la necessita' di non ripetizione di questo tipo di interventi normativi, e comunque la perimetrabilita' degli stessi entro un arco temporale ragionevole. A suo dire, l'irragionevolezza della previsione, sotto il profilo temporale, si appalesa evidente anche in considerazione del fatto che la platea di destinatari colpiti dalla norma e' costituita da persone di eta' avanzata (come il ricorrente che ha 86 anni di eta'), rispetto alle quali la protrazione della misura per cinque anni ha la consistente prospettiva di essere perpetua o comunque di non poter essere adeguatamente ristorata in misura effettiva, in considerazione del fatto che la ristorazione integrale potrebbe avvenire in tempi di vita ancora piu' avanzati. Osserva ancora il ricorrente che, essendo il trattamento pensionistico per sua natura a tempo determinato, il prelievo forzoso della pensione per un arco temporale cosi' lungo (fino ad otto anni se ai cinque dell'ultima misura si sommano i tre di cui al precedente intervento) costituisce una misura di modifica radicale e definitiva del rapporto. Adduce parte ricorrente che non supera lo scrutinio stretto di costituzionalita' neppure la previsione delle percentuali di trattenuta del trattamento pensionistico, tutt'altro che ragionevoli e proporzionate anche se rapportate a trattamenti piu' elevati, trattandosi di aliquote - come sopra riportate - di molto superiori a quelle introdotte in passato dal legislatore con altri interventi di decurtazione delle pensioni. Infatti, le ultime tre aliquote superano di circa il doppio e il triplo l'aliquota unica prevista dal regime previgente per il medesimo range. Nel caso del ricorrente, la decurtazione - oltre a protrarsi per ben cinque anni (che si aggiungono ai tre gia' «scontati») - e' triplicata rispetto alla precedente per il primo scaglione, e duplicata rispetto al secondo. Pertanto, il trattamento pensionistico del ricorrente risultera' decurtato di circa euro 21.700 annui, e di complessivi euro 109.000 sui cinque anni in cui la misura trovera' applicazione. Adduce parte ricorrente che, in termini di proporzionalita' del prelievo, la decurtazione della pensione si traduce in un peso economico ulteriore e aggiuntivo rispetto a quello imposto dalla fiscalita' generale. E infatti, applicando la misura in esame, la riduzione media annua del reddito pensionistico oscillera' dall'1,36% per la fascia da 110mila euro e salira' al 24% per la soglia dei 500mila euro lordi. Pertanto, per i contribuenti sottoposti all'aliquota Irpef del 43%, nei prossimi cinque anni, solo per questi redditi, l'Irpef puo aumentare dal 44,3% fino al 67%. Secondo parte ricorrente, l'irragionevolezza della misura e' aggravata dal fatto che l'intervento di taglio delle pensioni in atto fa perdere l'imprescindibile nesso di sinallagmaticita' e di ragionevolezza intrinseca tra la misura e il suo fine, atteso che: non risulta finalizzato all'effettuazione di alcuna prestazione previdenziale-assistenziale puntualmente individuata; non sembra neppure volto a fronteggiare l'eventuale crisi interna al sistema previdenziale. Infatti, nel caso deciso con la richiamata pronuncia n. 173 del 2016, la Corte costituzionale aveva ritenuto giustificato, di fronte al fenomeno degli «esodati», richiedere un contributo sui trattamenti pensionistici piu' alti, a condizione, tuttavia, che le maggiori somme incassate fossero rimaste all'interno della previdenza pubblicate non utilizzate per altri fini, com'era avvenuto in passato (il riferimento e' al «contributo di perequazione» di cui all'art. 24, comma 31-bis, del decreto-legge n. 2011/2011, convertito dalla legge n. 214/2011, dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione). Il nuovo «taglio», invece, fa confluire le risorse ottenute in uno specifico fondo, destinato a contribuire in modo indistinto al finanziamento dello Stato, atteso che il comma 265 dell'art. 1, legge n. 145/2018 prevede l'istituzione, presso ciascun ente previdenziale interessato, di apposito «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato», nel quale confluiscono e «restano accantonate» le somme derivanti dall'applicazione delle decurtazioni in esame. Secondo parte ricorrente, i risparmi derivanti dall'applicazione dell'intervento contestato risultano destinati al bilancio statale a copertura delle spese generali e non gia' per realizzare finalita' endoprevidenziali, come evidenziato nell'analisi contenuta nel dossier «Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi - legge n. 145 del 2018 e decreto-legge n. 119/2018 (legge n. 138 del 2018)», redatto dal servizio bilancio del Senato e dal servizio bilancio dello Stato (gennaio 2019). Anche tale effetto evidenzierebbe ulteriormente l'incostituzionalita' della misura. Mancherebbe, altresi', secondo la prospettazione di parte ricorrente, qualsiasi logica di correlazione tra an e quantum della decurtazione (compreso il suo orizzonte temporale quinquennale) e le dinamiche finanziarie/prestazionali complessive del sistema previdenziale. Assume ancora parte ricorrente che le disposizioni in esame si appalesino costituzionalmente illegittime per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, sotto plurimi profili. Anzitutto, la legge colpisce, a parita' di trattamento pensionistico, solo alcuni soggetti appartenenti alla categoria dei pensionati, e segnatamente i percettori di trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995, e non anche i pensionati di altre gestioni previdenziali diverse dall'INPS. In secondo luogo, emergerebbe un ingiustificato squilibrio tra le pensioni di anzianita' e quelle di vecchiaia, con privilegio delle prime a svantaggio delle seconde, in quanto, pur versando nella stessa posizione professionale, chi ha scelto di andare prima in quiescenza avra' versato minori contributi (godendo di una retribuzione minore non essendo al massimo della carriera) e per un periodo lavorativo inferiore e si trovera', pertanto, a godere di un trattamento previdenziale minore. Trattamento che invece risulta non toccato (se non raggiunge i 100mila euro l'anno) o comunque toccato in misura ridotta, rispetto a quello di chi ha lavorato gli anni necessari per raggiungere la soglia della pensione di vecchiaia, il cui importo sara' maggiore, e che oggi risulta penalizzato, con evidente negazione del principio di uguaglianza. Sotto un ulteriore profilo, la violazione del principio di ragionevolezza e uguaglianza emergerebbe in considerazione della natura di retribuzione differita del trattamento pensionistico, sicche' esso, al pari del reddito derivante da altra fonte, assolve alla medesima funzione di garanzia di un determinato livello di spesa o di risparmio da parte del percettore. A tale riguardo osserva parte ricorrente che la Corte costituzionale (sentenza n. 30 del 2004) ha affermato che la pensione, al pari della retribuzione in costanza del rapporto di lavoro, deve essere proporzionata alla qualita' e quantita' del lavoro prestato e comunque idonea ad assicurare all'avente diritto un'esistenza libera e dignitosa ai sensi dell'art. 36 della Costituzione. Pertanto, le disposizioni impugnate - ad avviso di parte ricorrente - sono illegittime e irragionevoli in quanto colpiscono solo una limitata platea dei percettori di reddito, e cioe' solo i pensionati (per di piu' con le discriminazioni anzi descritte), i quali, diversamente dai soggetti in attivita' di lavoro, non hanno modo di compensare la riduzione attraverso l'interlocuzione con il datore di lavoro, ne' riescono a compensare la riduzione con ulteriori e diversi impieghi (specie nel periodo attuale, e a fronte di previsioni preclusive quale quella prevista per le PP.AA. dall'art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, conv. in legge n. 135 del 2012). Viene altresi' sottolineato che la «debolezza» della categoria dei pensionati assume ancor piu' rilevanza in considerazione del fatto che si tratta di persone di eta' avanzata, che piu' di altri hanno bisogno di mezzi a disposizione per sopperire le proprie esigenze di vita quotidiana o far fronte a spese sanitarie piu' ingenti; senza considerare che spesso il trattamento di quiescenza dei pensionati sopperisce, in un contesto di crisi occupazionale come quello attuale, a difficolta' economiche dei prossimi congiunti delle successive generazioni (figli, nipoti). In ultimo, il fatto che la riduzione in esame non si applica ai trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti (pensioni di reversibilita') metterebbe in evidenza l'intenzione del legislatore di «punire» direttamente i pensionati, sull'erroneo presupposto che la pensione non sia la proporzionata conseguenza di anni di intenso e duro lavoro, ma piuttosto un ingiusto privilegio da rimuovere. Ulteriore indice dell'irragionevolezza e della disparita' di trattamento insita nella misura all'esame viene individuata da parte ricorrente nella previsione di cui al comma 263 dell'art. 1, ove dispone che «La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo». Si assume che detta previsione sembra muovere dal presupposto che le pensioni liquidate con il sistema retributivo (o misto) beneficino di restituzioni non proporzionate ai contributi versati. Trattasi, tuttavia, di un presupposto infondato, che rende la norma viziata da irragionevolezza intrinseca, sotto vari profili. Viene osservato che ogni lavoratore - indipendentemente dalla modalita' di liquidazione della pensione - e' comunque sottoposto alla contribuzione previdenziale, e detti contributi partecipano della funzione solidaristica che connota il versamento, in quanto esso contribuisce al buon andamento della gestione previdenziale. In primo luogo, si adduce che la previsione in esame e' intrinsecamente irragionevole nel colpire unicamente i contributi versati da coloro la cui pensione sia liquidata con sistema retributivo o misto. In secondo luogo, il sistema retributivo (al pari di quello misto) non necessariamente e' meno solidaristico di quello contributivo, potendosi giungere a conclusioni diametralmente opposte a quelle fatte proprie da legislatore. Se infatti nel sistema retributivo l'anzianita' contributiva valida ai fini del calcolo della retribuzione pensionabile si arresta al quarantesimo anno di contribuzione, nel sistema contributivo, invece, la contribuzione utile ai fini del medesimo calcolo si protrae per tutta la vita lavorativa, con conseguente incremento del montante individuale ex art. 1, comma 6, della legge n. 335/1995 e successive modifiche e integrazioni. Pertanto, se in entrambi i casi il lavoratore versa contributi, nel sistema retributivo, diversamente dal contributivo, quelli versati oltre il quarantesimo armo di servizio non acquisiscono alcuna rilevanza ai fini del computo della retribuzione pensionabile, pur risolvendosi in un vantaggio per gli altri assicurati in ragione della natura solidaristica della contribuzione. Detto profilo, a giudizio dell'odierno ricorrente, acquisisce specifica rilevanza con riferimento alla sua posizione, essendo stato collocato a riposo nel 2008, con il sistema retributivo, dopo aver versato contributi per ben cinquantuno anni e quattro mesi. In tal caso, egli non hapotuto avvalersi, ai fini del trattamento pensionistico, dei contributi versati oltre il 40° anno, i quali sono comunque andati a vantaggio degli altri iscritti alla gestione previdenziale e al sistema nel suo complesso. L'irragionevolezza della norma sarebbe, secondo parte ricorrente, tanto piu' evidente nei riguardi delle pensioni liquidate con sistema misto (o «pro quota»), alle quali pure si applica la decurtazione del trattamento pensionistico in discussione, con evidente contraddittorieta' della ratio perseguita dal legislatore, dal momento che risultano sottoposti alla riduzione anche i trattamenti pensionistici (parzialmente) alimentati dalle contribuzioni versate nel corso dell'attivita' lavorativa. Tanto piu' se si considera che il superamento della soglia dei 100.000 euro lordi annui (o degli scaglioni superiori ai fini dell'applicazione delle percentuali successive) ben potrebbe essere determinato proprio dalla quota contributiva della pensione. Cio' emergerebbe chiaramente dall'esempio citato dall'INPS nella Circolare n. 62 del 2019 - di cui, ove occorra, viene chiesto l'annullamento o la disapplicazione - laddove la quota di pensione maturata in gestione separata concorre all'individuazione dell'importo lordo annuo sui cui applicare le aliquote di riduzione. Assume il ricorrente che se la ratio della previsione e' quella di un riequilibrio a carico delle pensioni con regime retributivo o misto, sul presupposto che esse beneficino di restituzioni non proporzionate ai contributi versati, essa muove da un assunto indimostrato, ed e' comunque perseguita in maniera arbitraria e irragionevolmente discriminatoria. Infatti, si osserva, sia per i trattamenti liquidati con sistema misto che con sistema integralmente retributivo (quale quello del ricorrente), la norma avrebbe dovuto prevedere, per garantire l'uguaglianza di trattamento nel perseguimento della finalita' di cui si e' detto, un meccanismo di determinazione dei contributi effettivamente versati dal lavoratore, che, se sussistenti in misura pari o superiore al trattamento liquidato con il metodo retributivo, avrebbero dovuto essere parimenti esentati dall'applicazione della decurtazione contestata. Tale meccanismo e' del tutto assente nel caso di specie. Sarebbe quindi assente la previsione di una verifica del rapporto tra contribuzione effettiva e assegno previdenziale, su cui parametrare l'applicazione della decurtazione de qua. Assume il ricorrente che, avendo versato contributi per cinquantuno anni e quattro mesi, si vedra' (nuovamente!) decurtato il proprio trattamento pensionistico (per complessivi euro 109.000 circa su cinque anni) senza alcuna valutazione della propria effettiva contribuzione. Ne' alcuna indicazione in tale senso sarebbe stata prevista dalla circolare INPS n. 62 del 7 maggio 2019, avente per oggetto: «Riduzione dei trattamenti pensionistici di importo complessivamente superiore a 100.000 euro su base annua. Articolo 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019). Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti», della quale viene chiesto, ove necessario, l'annullamento o la disapplicazione. La disciplina contestata, ad avviso di parte ricorrente, viene ad elidere completamente il rapporto «contributi versati - importo della prestazione pensionistica», determinando un'alterazione profonda ed ingiustificata della logica che regola l'intero sistema. Sotto altro profilo, viene ancora sottolineato che, essendo il sistema previdenziale improntato al finanziamento «a ripartizione», per cui la spesa pensionistica per ciascun anno e' coperta dalle entrate contributive versate nello stesso anno dai lavoratori in attivita', il trattamento pensionistico erogato al personale in quiescenza, indipendentemente dal sistema di calcolo utilizzato per la relativa liquidazione, e' finanziato dalle contribuzioni delle generazioni in attivita'. Emergerebbe quindi l'irragionevolezza della previsione anche sotto il profilo della disparita' di trattamento, sub specie di trattamento dissimile di circostanze analoghe: essendo medesima la fonte di finanziamento (la contribuzione delle generazioni inattivita') della pensione, non ha alcun senso distinguere in base al metodo di calcolo della relativa liquidazione, al fine di determinare o meno l'applicazione delle decurtazioni in discussione. 1.11. Viene altresi' eccepita l'incostituzionalita' della disciplina introdotta dalla legge n. 145/2018 per violazione del legittimo affidamento nella stabilita' del trattamento pensionistico, come maturato ex lege. Tale normativa, secondo parte ricorrente, interviene su un rapporto di durata cristallizzato, modificandone in peius una delle condizioni essenziali, cioe' il quantum, con una portata evidentemente retroattiva. Sotto tale profilo parte ricorrente osserva che, sebbene la Costituzione vieti la retroattivita' solo delle norme penali incriminatrici, secondo costante giurisprudenza costituzionale il legislatore ordinario puo' emanare norme innovative con efficacia retroattiva «purche' la retroattivita' trovi adeguata giusficazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti», atteso che il divieto di retroattivita' costituisce, sempre secondo la Corte, «un fondamentale valore di civilta' giuridica e principio generale dell'ordinamento» (ex multis, Corte costituzionale, sentenze n. 274 del 2006, n. 374 del 2002). Per superare lo scrutinio di legittimita', la legge retroattiva deve trovare «adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza», e non deve porsi "in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, quali la "tutela dell'affidamento legittimamente posto sulla certezza dell'ordinamento giuridico" e "il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento" (Corte costituzionale, sentenze n. 376 del 1995, n. 329 del 1999, n. 416 del 1999, n. 525 del 2000, n. 419 del 2000). Osserva al riguardo parte ricorrente che l'intervento del legislatore qui in esame incide negativamente sulla legittima aspettativa dei pensionati alla stabilita' del trattamento pensionistico, che si e' cristallizzato con la determinazione della pensione all'atto del collocamento a riposo. Peraltro, la Corte costituzionale ha affermato che «il diritto alla pensione costituisce una situazione soggettiva di natura patrimoniale, imprescrittibile, assistita da speciali garanzie di certezza e stabilita' e di una particolare tutela da parte dell'ordinamento (sentenza n. 116 del 2013), anche in ragione della condizione di oggettiva debolezza in cui il titolare viene a trovarsi, sia nell'ambito del rapporto obbligatorio che si instaura con l'amministrazione sia nella particolare fase della vita in cui l'uscita dall'attivita' lavorativa e l'eta' comportano un difficile adattamento al nuovo stato»; sicche' «la deterninazione definitiva del trattamento di quiescenza costituisce il momento dal quale la tutela dell'affidamento del pensionato nella stabilita' del vitalizio percepito assume prevalente rilevanza nell'ambito dei valori tutelati dall'ordinamento in subiecta materia» (sentenza n. 208 del 2014). Sotto un ulteriore, rilevante profilo, la normativa in esame viola, a giudizio del ricorrente, anche gli articoli 3 e 53 della Costituzione, atteso che, sebbene il legislatore non qualifichi espressamente la misura come fiscale, essa costituisce un prelievo di natura tributaria ai sensi dell'art. 53 della Costituzione. Si adduce, infatti, che quantunque la norma non preveda espressamente che le somme derivanti dalla riduzione dei trattamenti pensionistici elevati siano acquisite allo Stato e destinate alla fiscalita' generale, il nuovo «taglio» fa confluire le risorse ottenute in uno specifico fondo, destinato a contribuire in modo indistinto al finanziamento dello Stato, come evidenziato nel citato dossier dell'Ufficio bilancio del Senato, intitolato «Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi - legge n. 145 del 2018 e decreto-legge n. 119/2018 (legge n. 138 del 2018)». In sostanza, la possibilita' di elevare l'aliquota marginale fino all'85 per cento della retribuzione rende la misura del tutto equivalente ad una norma che introduce una nuova imposta, poiche' opera in modo del tutto analogo e fungibile rispetto all'ordinario sistema di finanziamento statale delle gestioni previdenziali (prelievo tributario e trasferimento agli enti previdenziali). Tutto cio' in palese contrasto con ogni criterio di ragionevolezza. Osserva al riguardo parte ricorrente che la giurisprudenza costituzionale, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale definitiva integri un vero e proprio tributo, interpreta la disciplina sostanziale che la prevede, verificando se sussistono i requisiti che caratterizzano la nozione unitaria di tributo, e che individua: a) nella doverosita' della prestazione, in assenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; b) nel collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione a un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis, Corte costituzionale sentenze n. 223 del 2012, n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). E' affermazione ricorrente nella giurisprudenza del giudice delle leggi quella secondo la quale un tributo consiste in un «prelievo coattivo che e' finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed e' posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacita' contributiva» (Corte costituzionale, sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l'idoneita' di tale soggetto all'obbligazione tributaria (Corte costituzionale, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964). Assume parte ricorrente che la contestata normativa presenta tutti i suddetti requisiti, poiche' prevede: a) una prestazione patrimoniale autoritativa «isolata» (perche' scollegata da rapporto sinallagmatico); b) una prestazione che grava esclusivamente su redditi derivanti da trattamento previdenziale obbligatorio, maturati a seguito di contribuzione obbligatoria in costanza di rapporto di lavoro; c) connotata - nell'arco temporale della relativa applicazione - da definitivita', cioe' della irretrattabile ablazione a vantaggio del patrimonio delle gestioni previdenziali obbligatorie. Anche volendo ammettere che le somme non vengano acquisite dallo Stato, esse andrebbero comunque a beneficio di soggetti giuridici del settore pubblico, quali debbono indubbiamente considerarsi gli enti previdenziali privatizzati. La stessa Corte costituzionale ha chiarito in piu' occasioni che «gli elementi basilari per la qualificazione di una legge come tributaria sono costituiti dalla ablazione delle somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e la loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il fabbisogno fmanziario dell'ente medesimo», come nel caso qui in esame (Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1995, n. 37 del 1997). Ancora recentemente, la Corte ha esplicitato che presupposti indefettibili della fattispecie tributaria consistono in cio', che la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese (Corte costituzionale, ordinanza n. 52 del 2018, sentenze n. 269 e n. 236 del 2017). In considerazione della natura sostanzialmente tributaria della decurtazione introdotta dalle norme contestate, si appalesa - a giudizio del ricorrente - il contrasto della stessa con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, sotto il profilo della disparita' di trattamento. Invero, la prestazione patrimoniale imposta dalla normativa in esame incide esclusivamente su una determinata categoria di cittadini, ovvero i titolari di trattamenti pensionistici erogati da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie (a gestione INPS), mentre la rimanente generalita' dei consociati di eguale capacita' contributiva non risulta soggetta ad analogo prelievo tributario, come pure non risultano toccati i pensionati delle altre gestioni previdenziali. Da cio' una chiara violazione dell'insegnamento del Giudice costituzionale secondo cui «i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell'osservano dell'art. 53 della Costituzione, il quale non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro» (Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). Osserva parte ricorrente che sebbene, in generale, la Costituzione non imponga una tassazione fiscale uniforme, con criteri identici per tutte le tipologie di imposizione tributaria, essa tuttavia richiede inderogabilmente «un indefettibile raccordo con la capacita' contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressivita'», sicche' lo scrutinio di costituzionalita' si estrinseca in un giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarieta' dell'entita' dell'imposizione (sentenza n. 111 del 1997)» (Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). Limiti di ragionevolezza che non risulterebbero rispettati nel caso di specie, atteso che il legislatore ha ritenuto di aggredire, a parita' di condizioni, solo una limitata platea di cittadini, cioe' i percettori di reddito da pensione superiore a una determinata soglia e, per di piu', i soli pensionati delle gestioni INPS, con pensione diversa da quella liquidata con il metodo contributivo. Tale illegittimita' sarebbe tanto piu' evidente in ragione del fatto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (Corte costituzionale, sentenza n. 30 del 2004), e pertanto «il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con piu' evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative gia' rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta piu' possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro» (Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). Si tratterebbe di un meccanismo che, come evidenziato in altre occasioni dalla Consulta, appare «foriero di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e piu' favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarieta' economica, anche modulando diversamente un universale intervento impositivo». Se da un lato l'eccezionalita' della situazione economica che lo Stato deve affrontare e' suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servigi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall'altro cio' non puo' e non deve determinare ancora una volta un'obliteragione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l'ordinamento costituzionale» (cosi' ancora la citata Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). Alla stregua delle suesposte articolate considerazioni, parte ricorrente insiste per la rimessione degli atti alla Corte costituzionale anche con riferimento ai parametri di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione. 1.11. Adduce altresi' parte ricorrente che la disciplina di cui ai commi 261 e seguenti dell'art. 1, legge n. 145/2018 si appalesa in contrasto con i principi in materia di proprieta', cristallizzati nell'art. 1 del 1° protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (tra cui il fondamentale principio di legalita'), nonche' con i principi di non discriminazione riconosciuti dall'art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 1.12. Parte ricorrente denuncia altresi' la violazione degli articoli 3 e 81 della Costituzione. Adduce al riguardo che l'art. 1, commi 261-268, della legge n. 145 del 2018, stabilendo in cinque anni la durata della misura, appare del tutto sganciata dal piano triennale del bilancio previsto dall'art. 21, comma 1, della legge n. 196 del 2009. 1.13. Viene, infine, denunciato il contrasto dell'art. 1, comma 260, della legge n. 145/2018 con gli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. Viene osservato al riguardo che tale disposizione, disponendo una deroga, per il triennio 2019-2021, alla disciplina generale di cui all'art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, garantisce la perequazione integrale solo ai trattamenti pensionistici di importo pari o inferiore a tre volte il trattamento minimo INPS (euro 1.539 mensili), mentre per i trattamenti di importo superiore prevede una perequazione inversamente proporzionale: si va dal 97% per i trattamenti di importo pari o inferiore a quattro volte il minimo INPS, sino al solo 40% per i trattamenti pensionistici di importo superiore a nove volte il trattamento minimo INPS (euro 4.617 mensili), quale quello dell'odierno ricorrente. Adduce ancora il ricorrente che la perequazione dei trattamenti pensionistici costituisce diretta attuazione degli articoli 36 e 38 della Costituzione, in quanto volto a garantire il mantenimento nel tempo del potere di acquisto delle pensioni e, con esso, il livello di sufficienza delle stesse (in quanto retribuzione differita). Rammenta inoltre che la Corte costituzionale ha ricondotto la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici alla necessita' di «garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguaterza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost.» e al contempo di «innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost.» (Corte costituzionale, sentenza n. 70 del 2015), a fronte della «esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuioni del servizio attivo» (Corte costituzionale, sentenze n. 316 del 2010, n. 106 del 1996, n. 173 del 1986, n. 26 del 1980). Spetta quindi al legislatore individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all'incremento del costo della vita, e il meccanismo in esame puo' essere limitato solo alle specifiche condizioni dettate dalla giurisprudenza costituzionale. In particolare, il blocco perequativo, proprio perche' e' misura eccezionale, deve essere circoscritto temporalmente (Corte costituzionale, sentenza n. 250 del 2017, che ha ritenuto costituzionalmente legittimo il blocco perequativo di cui all'art. 1, comma 25 del decreto-legge n. 201 del 2011, come modificato dalla legge n. 65 del 2015, solo in quanto circoscritto «per due soli anni», ...»). In secondo luogo, la disciplina deve essere ragionevolmente proporzionata rispetto al livello di trattamento pensionistico. In ultima analisi, secondo la prospettazione di parte ricorrente devono sussistere eccezionali esigenze di bilancio o impegni di spesa in ambito previdenziale direttamente collegati ai risparmi cosi' ottenuti (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 316 del 2010, che ha ritenuto costituzionalmente legittimo il blocco perequativo in quanto inserito per far ragionevolmente fronte a misure previdenziali previste dalla medesima legge). Ritiene il ricorrente che nessuna di tali condizioni risulta rispettata dalla normativa in esame, la quale prolunga per ulteriori tre anni il blocco perequativo precedente (integralmente applicato al ricorrente) e in considerazione del fatto che il nuovo blocco perequativo non dispiega i propri effetti limitatamente agli anni in cui e' applicato, ma anche pro futuro, in ragione del fatto che «ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, e', per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensi' sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento e' gia' stato intaccato» (Corte costituzionale, sentenza n. 70 del 2015). Ne risulta che la misura in discussione, oltre a bloccare per complessivi cinque anni il blocco perequativo, si ripercuotera' anche sui successivi, con conseguente violazione, anche sotto il profilo in esame, dei limiti di ragionevolezza affermati dalla giurisprudenza costituzionale. Anche sotto il profilo della proporzionalita', la misura in esame, secondo parte ricorrente, si rivela particolarmente incisiva sulla sua posizione, atteso che la pensione sara' rivalutata solo per il 40%. 2. L'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell'economia e delle finanze, nella memoria di costituzione del 22 novembre 2019 contesta la fondatezza delle censure di parte ricorrente e ne invoca il rigetto, con vittoria di spese e competenze di lite. Adduce in particolare che: le avversate disposizioni della legge n. 145/2018 rispettano il parametro della temporaneita' del prelievo, cosi' come delineato dalla Corte costituzionale nelle sentenze numeri 173/2016, 69/2014, 166/2012, atteso che la decurtazione del trattamento pensionistico si applica solo per cinque anni. Nega inoltre che vi sia alcuna continuita' con le diverse misure adottate in precedenza dal legislatore ne' omogeneita' di contenuti; l'intervento in esame appare giustificato dal principio di solidarieta' che informa la Carta Costituzionale nonche' dalla necessita' di riequilibrio del sistema previdenziale che di quel principio costituisce espressione, poiche' la riduzione si applica esclusivamente alle pensioni di importo elevato e unicamente sulla parte eccedente una determinata soglia; e' coerente e non irragionevole l'esclusione dal contributo di solidarieta' dei pensionati degli enti previdenziali privatizzati e dei trattamenti pensionistici dei superstiti. La Difesa erariale contesta, inoltre, la sussistenza di qualsivoglia discriminazione rispetto ai cittadini che fruiscono di redditi complessivi di uguale entita', assumendo che: il prelievo forzoso assolve ad una funzione solidaristica all'interno del sistema previdenziale; la previsione normativa dell'accantonamento (in apposito fondo) delle risorse risparmiate presso la gestione INPS supera la censura di parte ricorrente; la soglia minima di intervento e' piu' elevata rispetto alle precedenti misure restrittive ex legge n. 147/2013 ed e' stato introdotto un maggior numero di scaglioni reddituali; la decurtazione patrimoniale non e' definitiva e le risorse acquisite non sono destinate al finanziamento delle spese pubbliche: cio' e' avvalorato dalla durata quinquennale del prelievo e dall'accantonamento dei risparmi presso l'INPS; non e' conferente il raffronto di detto intervento con il reddito di cittadinanza e con la riforma pensionistica c.d. quota 100, atteso che l'apporto recato dal prelievo in esame pari a circa 416 milioni nel quinquennio-non e' confrontabile con gli oneri connessi agli altri interventi legislativi; secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, la tutela del legittimo affidamento non impedisce al legislatore di emanare norme che modificano la disciplina dei rapporti di durata in senso sfavorevole per i destinatari, purche' si tratti di disposizioni che non trasmodino in un regolamento irrazionale. Assume la difesa erariale che sono ammissibili i contributi come quello in esame purche' non siano arbitrari e non eccessivamente lesivi delle legittime aspettative del cittadino colpito; la disposizione in parola dispone la contrazione del meccanismo perequativo delle pensioni, attraverso la previsione di un numero piu' elevato di aliquote in relazione ai diversi scaglioni di reddito da un lato e di percentuali di perequazione piu' favorevoli rispetto alla disciplina vigente nel periodo 2014/2018; infine, l'eventuale pronuncia di incostituzionalita' della disposizione in esame determinerebbe oneri per la finanza pubblica, con la conseguente necessita' di reperire la relativa copertura finanziaria. 3. Si e' altresi' costituito in giudizio l'INPS, che nella memoria del 24 giugno 2019 richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 250/2017 in materia di perequazione automatica, ave viene tra l'altro affermato che «Nel valutare la compatibilita' delle misure di adeguamento delle pensioni con i vincoli posti dalla finanza pubblica, questa Corte ha sostenuto che manovre correttive attuate dal Parlamento ben possono escludere da tale adeguamento le pensioni di importo piu' elevato», ma cosi' facendo il legislatore deve soddisfare «un canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo piu' alto rispetto agli effetti dell'inflazione.». La Difesa dell'Istituto previdenziale reputa poi inammissibili ed infondate le questioni di costituzionalita' sollevate ex adverso, soprattutto con riferimento all'art. 3 della Costituzione, evidenziando l'assenza nella fattispecie di un tertium comparationis. In ordine all'art. 38 della Costituzione, la predetta Difesa richiama l'orientamento consolidato della giurisprudenza della Consulta (ex multis, sentenza n. 30 del 2004) nel senso di ritenere spettante alla discrezionalita' del legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, sulla base delle risorse finanziarie attingibili, e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona. 3.1. Sotto altro profilo si adduce l'infondatezza delle eccezioni di parte ricorrente osservando che le disposizioni censurate non realizzano alcun vulnus mentre non consentono ai ricorrenti di ottenere un sistema previdenziale piu' vantaggioso. 4. Con ordinanza n. 291/2019 questo giudice ha rigettato l'istanza cautelare di parte ricorrente per assenza del periculum in mora. 5. All'udienza di merito del 4 dicembre 2019, il difensore di parte ricorrente illustra le censure contenute nel ricorso introduttivo e nella memoria difensiva del 26 novembre 2019 ed insiste per l'accoglimento del ricorso, previa rimessione degli atti alla Corte costituzionale. L'Avvocatura dello Stato chiede il rigetto del ricorso e non si oppone alla proposizione delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate ex adverso. All'esito della discussione il giudice si e' riservata la decisione. Motivi della decisione 6. Come emerge dalla narrativa in fatto, parte ricorrente, lamentando che le norme denunciate (art. 1, commi da 261 a 268, legge n. 145/2018) hanno inciso sul trattamento pensionistico in suo godimento con due concorrenti misure: a) da un lato, con una misura «una tantum», costituita dalla decurtazione, per cinque anni a decorrere dal 1° gennaio 2019, dei trattamenti pensionistici di importo complessivamente superiore a 100.000 euro lordi su base annua [la decurtazione viene calcolata in base a cinque aliquote percentuali (15%-25%-30%-35%-40%) in relazione ad altrettanti scaglioni di reddito, a partire da euro 100.000]; b) dall'altro, con il parziale blocco della perequazione delle pensioni, che opera anch'esso con aliquote crescenti; ha chiesto che sia dichiarato il diritto alla corresponsione dell'intero trattamento di pensione, senza le decurtazioni ed il blocco della rivalutazione introdotte dall'art. 1, commi 262-268, legge 30 dicembre 2018, n. l45. A tali domande e' connessa quella di condanna dei convenuti alla restituzione di quanto trattenuto, con conseguente rivalutazione monetaria e interessi, dalla data di ciascuna trattenuta al soddisfo. 6 .1. Nell'atto introduttivo del giudizio e' stata, inoltre, prospettata l'illegittimita' costituzionale della norma de qua sotto i plurimi profili illustrati nella narrativa in fatto, che verranno qui esaminati per quanto ritenuti rilevanti e non manifestamente infondati. 7. In punto di rilevanza delle dedotte questioni di legittimita' costituzionale, va preliminarmente osservato che le pretese avanzate dalla parte ricorrente, qualora decise in conformita' alle disposizioni sopra menzionate, non potrebbero trovare accoglimento. Infatti, come puo' rilevarsi dalla strutturazione del ricorso introduttivo, appare evidente che la decisione su di esso sia indefettibilmente legata alla valutazione delle disposizioni dettate dall'art. 1, commi da 260 a 268, della legge n. 145/2018, atteso che il ricorrente appartiene al novero dei soggetti dalle stesse incisi. Invero, dagli atti di causa emerge che il trattamento pensionistico di cui il ricorrente e' titolare - in quanto di ammontare complessivamente superiore a nove volte il minimo INPS - risulta di fatto inciso sia dal parziale blocco della rivalutazione automatica per il triennio 2019/2021 (comma 260), sia dal prelievo sull'ammontare annuale lordo, previsto per il quinquennio 2019/2023. Vanno di seguito distintamente trattate le anzidette misure e i profili di illegittimita' costituzionale rilevanti ai fini della decisione della causa e non manifestamente infondati. Il parziale blocco del meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni. Supposta violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. 8. L'art. 1, comma 260, legge n. 145 del 2018 riconosce la perequazione delle pensioni in base alle seguenti aliquote decrescenti, concernenti i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a nove volte il trattamento minimo INPS: 100% (stessa misura prevista dall'art. 1, comma 483 della legge n. 147/2013 per il periodo 2014-2018) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia pari o inferiore a tre volte il trattamento minimo INPS; 97% (in luogo del precedente 95%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a tre volte e pari o inferiore a quattro volte il predetto trattamento minimo; 77% (in luogo del precedente 75%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a quattro volte e pari o inferiore a cinque volte il trattamento minimo; 52% (in luogo del precedente 50%) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a cinque volte e pari o inferiore a sei volte il trattamento minimo; 47% (in luogo del precedente 45% riferito a tutti i trattamenti con importo complessivo fino a sei volte il minimo) per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a sei volte e pari o inferiore a otto volte il trattamento minimo; 45% per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a otto volte e pari o inferiore a nove volte il trattamento minimo; 40% per i trattamenti di importo complessivo superiore a nove volte il trattamento minimo. Come esposto in narrativa, detta disposizione deroga, per il triennio 2019-2021, alla disciplina generale di cui all'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che garantisce la c.d. perequazione solo ai trattamenti pensionistici «pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS». Per tutti gli altri trattamenti la perequazione e' prevista in misura inferiore, dal 97 percento per i trattamenti pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS fino al solo 40 per cento per i trattamenti pensionistici superiori a nove volte il trattamento minimo INPS. 8.1. Assume parte ricorrente che la disciplina della perequazione dei trattamenti pensionistici debba considerarsi diretta attuazione degli articoli 36 e 38 della Costituzione poiche' mira a garantire il mantenimento nel tempo del potere di acquisto delle pensioni e, nel contempo, il livello di sufficienza della stessa, considerata dalla stessa Corte costituzionale come retribuzione differita. In effetti, nella sentenza n. 70 del 2015 il giudice delle leggi ha affermato che «la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici e' uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma della Costituzione. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 della Costituzione, principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013)». Peraltro, nella stessa pronuncia la Corte ha precisato che «fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli articoli 36 e 38 della Costituzione, con la finalita' di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Secondo la Consulta, proporzionalita' e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta», senza che cio' comporti un'automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l'ultima retribuzione, poiche' e' riservata al legislatore una sfera di discrezionalita' per l'attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell'art. 36 della Costituzione «consegue l'esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004)». 8.2. Assume ancora parte ricorrente che l'art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, nella parte in cui riconosce la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici in percentuali predeterminate, viola il dettato sancito negli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, oltre a disattendere le numerose sentenze della Corte costituzionale sul punto, ove si e' affermato che, in ossequio al principio di ragionevolezza, gli interventi che incidono negativamente sulle pensioni devono essere temporanei e di durata limitata (nella sentenza n. 173/1986 la Corte costituzionale ha ribadito che «la proporzionalita' e l'adeguatezza devono sussistere non solo al momento del collocamento a riposo ma vanno costantemente assicurati anche nel prosieguo, in relazione al mutamento del potere di acquisto della moneta»). Nel caso in esame, la pensione del ricorrente ha subito e subisce continue riduzioni a seguito degli interventi legislativi succedutisi (da ultimo decreto-legge n. 65/2015 e legge 147/2013) i quali hanno provocato e provocano l'effetto trascinamento con enorme penalizzazione negli anni successivi. 8.3. La suesposta prospettazione non puo' essere condivisa. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 70 del 2015, dopo aver elencato le misure di sospensione dell'automatismo del meccanismo perequativo delle pensioni, adottate nel tempo dal legislatore (a partire dal decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384) al fine di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa, ha richiamato la sentenza n. 316 del 2010 nella quale la Corte, nel pronunciarsi sulla conformita' ai principi costituzionali della disciplina sull'azzeramento della perequazione, disposta dall'art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, ha posto in evidenza la discrezionalita' di cui gode il legislatore, a condizione che fosse osservato il principio costituzionale di proporzionalita' e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l'azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS). Cosi' ha ritenuto non senza indirizzare un monito al legislatore affermando il principio per cui "la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalita'. Si afferma, infatti, che "... le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta". Nella citata sentenza n. 70 del 2015, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformita' ai principi costituzionali del blocco della perequazione disposto con l'art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201/2011, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale di detta disposizione, non tanto per avere sospeso la perequazione automatica, bensi' per avere totalmente bloccato per due anni (2012-2013) la rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo, riconoscendo il 100% della rivalutazione in favore delle pensioni piu' basse, bocciando in tal modo il ricorso a un sistema «secco» e non graduato di blocco della perequazione, in forza di contingenti situazioni finanziarie non specificate, ne' supportate da documentazione tecnica. Nella medesima pronuncia viene quindi ribadita dal giudice delle leggi, da un lato, la discrezionalita' del legislatore nel bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, dall'altro il limite intrinseco a tale potesta', costituito dalla necessita' di osservare la ragionevolezza e la proporzionalita' nell'adottare provvedimenti in grado di incidere sulla protezione delle esigenze minime della persona. 8.4. Nel caso di specie, la disciplina contestata dalla parte ricorrente introduce un meccanismo perequativo modulato in base ad aliquote decrescenti (dal trattamento superiore a tre volte fino a quello superiore a nove volte il trattamento minimo INPS), in larga parte piu' favorevoli per i pensionati, rispetto a quelle applicate nel periodo 2014-2018. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, sopra richiamato, la modulazione della perequazione, riservata alla discrezionalita' del legislatore, e' irragionevole - ponendosi quindi in contrasto con i principi di cui agli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione - laddove intervenga, sotto forma di blocco totale dell'indicizzazione per lunghi periodi, su trattamenti pensionistici non particolarmente elevati, quali quelli superiori al triplo del minimo INPS. 8.5. Ritiene questo giudice che la disciplina dettata dall'art. 1, comma 260, legge n. 145/2018, nel graduare il meccanismo perequativo dei trattamenti pensionistici per fasce di importo, si ispiri a criteri di progressivita' nel rispetto dei valori costituzionali di proporzionalita' ed adeguatezza dei trattamenti di quiescenza, ed e' pertanto esente da censure di incostituzionalita'. Cio' tuttavia non esclude la presenza di zone d'ombra ove si consideri che il blocco parziale del meccanismo perequativo delle pensioni piu' elevate, introdotto dalla norma all'esame per il triennio 2019-2021, finisce col saldare i propri effetti con quelli introdotti dal decreto-legge n. 65 del 2015, che, modificando l'impianto di cui all'art. 1, comma 25, del decreto-legge n. 20l del 2011 - dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 70 del 2015 - ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalita' con la sentenza n. 250 del 2017. L'eccezione di parte ricorrente e', quindi, manifestamente infondata e va rigettata. Il taglio delle pensioni piu' elevate (art. 1, comma 261 e seguenti, legge n. 145 del 2018). Profili di incostituzionalita'. 9. Il comma 261 introduce, per il quinquennio 2019-2013, il taglio dei «... trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro lordi su base annua... [ ...]», secondo aliquote crescenti per fasce di valore superiori a detto importo (15 per cento per la parte eccedente 100.000 euro fino a 130.000 euro, 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro). 9.1. Il petitum di parte ricorrente involge la disapplicazione dell'art. 1, commi dal 261 al 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 nonche' dei provvedimenti applicativi dell'INPS (circolari numeri 44 e 62 del 2019). A tale riguardo, partendo dal principio, ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui la pensione, al pari della retribuzione in costanza di rapporto di lavoro, deve essere «proporzionata alla qualita' e quantita' di lavoro prestato» e, comunque, «idonea ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, nel pieno rispetto dell'art. 36 Cost.» (sentenze n. 243 del 1993, n. 3 del 1966, n. 30 del 2004; n. 70 del 2015, n. 208 del 2014, n. 116 del 2013, n. 30 del 2004), la normativa all'esame si pone in contrasto con plurimi principi costituzionali, non rispettando i limiti e i parametri enucleati dalla Consulta in relazione ai numerosi interventi del legislatore sui trattamenti pensionistici in essere. Vengono in rilievo i seguenti fondamentali principii, che possono ritenersi oramai consolidati nella giurisprudenza costituzionale: i) principio di proporzionalita' e di adeguatezza del trattamento di pensione; ii) tutela dell'affidamento sulla stabilita' del trattamento pensionistico e suo bilanciamento con le concrete disponibilita' finanziarie e le esigenze di bilancio dello Stato; iii) funzione solidaristica (e non tributaria) del prelievo forzoso sul trattamento pensionistico; iv) ragionevolezza e temporaneita' del prelievo. Violazione del principio di adeguatezza 9.2. L'art. 38, secondo comma della Costituzione, nel proclamare il diritto dei lavoratori a che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, in caso, tra l'altro, di invalidita' e vecchiaia, fa esplicito riferimento, secondo la migliore dottrina, anche alle prestazioni previdenziali, la cui «adeguatezza» costituisce, nel contempo, valore e parametro costituzionale per valutare gli interventi del legislatore sul piano dei trattamenti pensionistici. Il concetto di adeguatezza delle prestazioni sociali viene messo a dura prova nei periodi di crisi economica - come quello attuale -, soprattutto nella vigenza del principio di parita' di bilancio, consacrato nel novellato art. 81 della Costituzione, che impone al legislatore la necessita' di operare un necessario bilanciamento, gia' di per se' di difficile attuazione, tra l'interesse generale all'equilibrio finanziario dello Stato (soprattutto alla luce degli obblighi sovranazionali di derivazione comunitaria) e il doveroso rispetto dei principi costituzionali di solidarieta' ed eguaglianza. In un siffatto contesto, la stessa Corte costituzionale, allorquando e' stata chiamata a pronunciarsi sulla conformita' ai principi costituzionali delle norme che incidono sfavorevolmente sulla disciplina dei trattamenti pensionistici in essere, ha dovuto operare una sorta di bilanciamento tra il principio di «adeguatezza» del trattamento pensionistico e l'interesse generale all'equilibrio finanziario del Paese. In tale ottica si e' affermato l'orientamento volto a riconoscere alla prestazione pensionistica il carattere di prestazione alimentare, intesa come mezzo sufficiente a far fronte alle primarie necessita' degli assistiti, mediante la corresponsione di un minimum vitale (sentenza n. 22 del 1969). Dopo di che la Corte (v. sentenze numeri 57 del 1973, 8 e 275 del 1976, 26 del 1980, 286 del 1987, 501 del 1988) e' giunta ad attribuire alla prestazione previdenziale la natura di «retribuzione differita», sotto la spinta di una attenta dottrina che afferma l'esistenza di una stretta correlazione tra la garanzia di proporzionalita' della retribuzione e l'adeguatezza della pensione, sulla base di una interpretazione sistematica, logica e funzionale, dell'art. 38, secondo comma, in combinato disposto con l'art. 36, primo comma della Costituzione. Nella sentenza n. 26 del 1980, la Corte afferma che il «trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione [ ... ], deve essere proporzionato alla quantita' ed alla qualita' del lavoro prestato, e deve in ogni caso assicurare al lavoratore medesimo ed alla sua famiglia i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita per un'esistenza libera e dignitosa: proporzionalita' ed adeguatezza, che non debbono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta». E' pur vero che il predetto principio «non comporta [ ... ] automaticamente la necessaria e integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l'ultima retribuzione», poiche' sussiste pur sempre «una sfera di discrezionalita' riservata al legislatore per l'attuazione, anche graduale, dei principi suddett» (v. Punto 4 del Considerato in diritto). Non ignora questo giudice che, sotto la spinta della crisi economica e della lievitazione del debito pubblico, i principii di proporzionalita' e di adeguatezza della prestazione pensionistica hanno subito un notevole ridimensionamento nella giurisprudenza della Consulta, che ha riconosciuto al legislatore un piu' ampio spazio di discrezionalita', sia pure nel rispetto dei limiti della ragionevolezza e della proporzionalita' delle scelte. Tuttavia, costituisce un punto fermo nella giurisprudenza costituzionale il principio secondo il quale, per quanto eventualmente giustificati da condizioni di crisi economicofinanziaria, le misure di riduzione dei trattamenti che incidono su diritti acquisiti o su rapporti giuridici consolidati non possono assumere la caratteristica della perpetuita' e debbano avere carattere rigorosamente temporaneo. Nello scrutinare le eccezioni di incostituzionalita' sollevate in ordine al «contributo di solidarieta'» introdotto dall'art. 1, comma 486, della legge n. 147 del 2013, la Corte ha affermato che per superare lo scrutinio «stretto» di costituzionalita' il prelievo forzoso sulle pensioni deve, tra l'altro, «essere comunque utilizzato come misura una tantum». In tale occasione, pur dichiarando infondata la relativa questione, la Corte costituzionale ha tra l'altro osservato che il prelievo, «in ragione della sua temporaneita', non si palesa di per se' insostenibile, pur innegabilmente comportando un sacrificio per i titolari di siffatte pensioni» e che «l'intervento legislativo di cui al denunciato comma 486, nel suo porsi come misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta, supera lo scrutinio "stretto" di costituzionalita'». Al contrario, l'intervento normativa all'esame si pone in aperto conflitto con il principio di temporaneita' del prelievo forzoso, affermato in piu' occasioni dalla Consulta (ex multis, sentenze numeri 173/2016, 69/2014, 166/2012). Esso, infatti, si presenta come «ripetitivo» di analoghe misure di prelievo forzoso dei trattamenti pensionistici introdotte da precedenti interventi legislativi, di cui quella disposta con la legge n. 147 del 2013 e' solo l'ultima in ordine di tempo. Invero, la decurtazione del trattamento pensionistico, nelle piu' svariate forme (contributo di solidarieta', blocco della perequazione automatica per le pensioni di elevato importo, ecc.), e' stata ritenuta dalla Consulta coerente con le norme costituzionali in quanto non si protragga nel tempo comprimendo in misura irragionevole il diritto alla prestazione previdenziale. 9.3. Nel caso di specie, l'ulteriore prelievo segue quasi immediatamente quelli precedenti, ponendosi con essi in rapporto di sostanziale continuita'. Di fatto, estendendo una cosi' rilevante riduzione del trattamento di pensione ad un arco temporale cosi' lungo (cinque anni, che diventano otto se si considerano gli effetti del precedente intervento di prelievo forzoso), detta misura finisce con il modificare radicalmente la causa del rapporto pensionistico, ledendo in misura irragionevole il nesso di corrispettivita' - proporzionalita' con i contributi versati dal ricorrente nel corso della sua lunga attivita' lavorativa. Se poi si considera l'eta' avanzata del pensionato (l'odierno ricorrente ha 86 anni), l'efficacia della misura finisce, di fatto, per diventare definitiva, riducendosi progressivamente con l'avanzare degli anni la possibilita' di ottenere un (sia pur parziale) ristoro delle somme sottoposte al recupero forzoso. Puo' quindi fondatamente affermarsi che, in ragione della sola apparente temporaneita' del prelievo, sono da ritenersi abbondantemente superati i limiti di ragionevolezza affermati in precedenti occasioni dalla Corte costituzionale. Violazione del principio di affidamento sulla stabilita' del trattamento pensionistico. 10. La Corte costituzionale ha piu' volte affermato che la tutela del legittimo affidamento costituisce un «principio connaturato allo Stato di diritto» (ex multis, sentenza n. 103 del 2013), a presidio delle situazioni soggettive consolidatesi sulla base di atti - provenienti da organi amministrativi, legislativi o giudiziari - che abbiano generato nei destinatari un'aspettativa qualificata di stabilita'. E' pur vero che, secondo la stessa Consulta, la tutela del legittimo affidamento circa la sostanziale stabilita' del rapporto previdenziale non impedisce al legislatore di emanare norme che modificano la disciplina dei rapporti di durata in senso sfavorevole per i destinatari, purche' si tratti di disposizioni che non trasmodino in un regolamento irrazionale. Nella sentenza n. 349 del 1985, pur riconoscendo al legislatore la potesta' di emanare disposizioni sfavorevoli nell'ambito dei rapporti di durata - aventi ad oggetto diritti soggettivi perfetti, come nel caso delle pensioni - , la Corte ha precisato tuttavia che gli interventi legislativi «non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (v. punto 5 del «Considerato in diritto»). La stessa tipologia dei contributi di solidarieta e' ammessa a condizione che gli stessi non siano arbitrari e non eccessivamente lesivi delle legittime aspettative del cittadino colpito. In altra pronuncia la Consulta ha ribadito che, se e' con sentito al legislatore di modificare (ovviamente in peius) i trattamenti pensionistici in essere, tuttavia «non puo' dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo o in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando gia' sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa» (sentenza n. 822 del 1988). In altra recentissima pronuncia (sentenza n. 108 del 2019), la Consulta ha ribadito che l'affidamento «trova copertura costituzionale nell'art. 3 della Costituzione, e' ritenuto "principio connaturato allo Stato di diritto" (sentenze n. 73 del 2017, n. 170 e n. 160 del 2013, n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010), ed e' da considerarsi ricaduta e declinazione "soggettiva" dell'indispensabile carattere di coerenza di un ordinamento giuridico, quale manifestazione del valore della certezza del diritto». 10.1. Se questi sono i limiti - come enucleati dalla Corte costituzionale - ai quali il legislatore deve attenersi nella disciplina dei rapporti di durata (tra i quali sono ovviamente compresi i rapporti previdenziali), la misura all'esame non li rispetta affatto. E' indubbio, infatti, che l'odierno ricorrente sia titolare di una posizione giuridica consolidata vantando un affidamento qualificato sulla sostanziale e non provvisoria stabilita' del trattamento pensionistico. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 89 del 2018, ha ammonito (il legislatore) che l'affidamento meritevole di tutela postula «il consolidamento, nel tempo, della situazione normativa che ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perche' protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (sentenza n. 56 del 2015)». Violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza. 11. I soggetti destinatari della misura prevista dall'art. 1, comma 261 e seguenti, legge n. 145/2018 sono i percettori di trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995. Dalla piana lettura della norma si appalesano plurime, irragionevoli discriminazioni. Sotto un primo profilo, e' evidente che la misura non colpisce indiscriminatamente tutti i soggetti percettori del medesimo livello di reddito, ma unicamente i pensionati in quanto tali. L'irragionevolezza della disciplina discende dal fatto che, a parita' di reddito, si va a colpire la categoria dei pensionati, i quali, a differenza dei soggetti ancora in attivita' lavorativa, non hanno modo di compensare la decurtazione attraverso qualche forma di interlocuzione con il datore di lavoro (che non esiste piu' se non a fini meramente fiscali) ovvero con il ricorso ad altri eventuali impieghi: si pensi al divieto per le PP.AA. di attribuire incarichi di studio o di consulenza a soggetti gia' lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza nonche' di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di Governo delle medesime amministrazioni, come espressamente dispone l'art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito dalla legge n. 135 del 2012. Cio' risulta ancor piu' evidente ove si consideri che il trattamento pensionistico e' pacificamente considerato, dalla giurisprudenza costituzionale, una forma di retribuzione differita. La Consulta ha infatti affermato in piu' occasioni che, al pari della retribuzione in costanza di rapporto di lavoro, l'entrata pensionistica deve essere «proporzionata alla qualita' e quantita' di lavoro prestato» e, comunque, «idonea ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, nel pieno rispetto dell'art. 36 Cost.» (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 30 del 2004). Risulta quindi violato il principio di parita' di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione, nonche', nel contempo, quello di capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione, non apparendo in alcun modo ragionevole assumere il reddito da pensione quale indice di capacita' contributiva maggiore di quello, di pari importo, derivante da altre fonti di reddito (lavoro, impresa, redditi di capitale ed altro). A tale riguardo la stessa Corte costituzionale ha osservato che «i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell'osservanza dell'art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro» (sentenza n. 116 del 2013). L'irragionevolezza della disciplina all'esame, alla stregua dei principii sanciti dagli articoli 3 e 53 della Costituzione, e' connaturata alla scelta del legislatore di imporre un prelievo forzoso ad una ben delimitata cerchia di soggetti (quella dei pensionati, e neppure a tutti, come si vedra'), e non a tutti i contribuenti dotati della stessa capacita' contributiva in modo da parli tutti sul medesimo piano. E' stata cioe' onerata di concorrere alla spesa pubblica (o a quella previdenziale nel suo complesso) la pensione gestita dall'INPS, anziche' scegliere di agire, con gli strumenti della fiscalita' generale, sull'intera platea dei contribuenti dotati della stessa capacita' contributiva. In cio' viene, quindi, a configurarsi un vero e proprio intento punitivo, e percio' stesso irragionevole e discriminatorio, nei confronti dei pensionati INPS, gli unici ritenuti, per ignoti e imprescrutabili motivi, meritevoli di subire uno specifico e gravoso pregiudizio. Invero, per sottrarsi ad ogni ragionevole censura di incostituzionalita', il legislatore avrebbe dovuto far concorrere alla spesa pubblica in generale, o a quella (particolare) della gestione previdenziale nel suo complesso, tutti i contribuenti percettori di redditi superiori a una certa soglia, e non soltanto i componenti della sub categoria di pensionati cui appartiene l'odierno ricorrente. In tal caso, non soltanto il sacrificio sarebbe stato (equamente) distribuito su una platea assai piu' vasta di destinatari, ma si sarebbe potuto ottenere un incremento pecuniario ben maggiore del ridotto e prevedebile risparmio di spesa derivante dal prelievo forzoso imposto su una ridotta categoria (rectius sub categoria) di contribuenti. Peraltro, trattandosi in grandissima parte di persone in eta' avanzata, molto piu' di altri soggetti i pensionati hanno notoriamente bisogno di ingenti risorse finanziarie per far fronte alle accresciute esigenze di assistenza e cura. Che si tratti di persone meritevoli di particolare protezione da parte dell'ordinamento giuridico, lo ha autorevolmente riconosciuto la stessa Corte costituzionale la quale ha affermato che «il diritto alla pensione costituisce una situazione soggettiva di natura patrimoniale, imprescrittibile, assistita da speciali garanzie di certezza e stabilita' e da una particolare tutela da parte dell'ordinamento (sentenza n. 116/2013), anche in ragione della condizione oggettiva di debolezza in cui il titolare viene a trovarsi, sia nell'ambito del rapporto obbligatorio che si instaura con l'amministrazione sia nella particolare fase della vita in cui l'uscita dall'attivita' lavorativa e l'eta' comportano un difficile adattamento al nuovo stato» (sentenza n. 208 del 2014). 11.1. Sotto altro rilevante profilo, la norma determina una irragionevole discriminazione all'interno della macro-categoria dei pensionati: sono, infatti, esclusi dalla decurtazione in parola i titolari delle pensioni erogate dalle gestioni previdenziali diverse dall'INPS, benche' di importo pari o superiore. Anche in tal caso non sono evidenti ne' comprensibili le ragioni di una siffatta discriminazione. 11.2. Non solo. La misura viene a determinare un ingiustificato squilibrio tra le pensioni di anzianita' e quelle di vecchiaia, a tutto vantaggio delle prime rispetto alle seconde. Infatti, a parita' di posizione professionale, chi ha optato per la pensione di anzianita' ha versato minori contributi a fronte di un periodo lavorativo inferiore a quello necessario per la pensione di vecchiaia, e godra' infine di un trattamento previdenziale che, se non supera la soglia di 100 mila euro l'anno, non verra' colpito affatto dalla decurtazione de qua. Inoltre, anche nel caso in cui supera detta soglia, la pensione di anzianita' subisce la medesima decurtazione della pensione di vecchiaia per la cui maturazione occorre lavorare piu' a lungo e versare contributi maggiori. Tutto cio' in dispregio del principio di parita' di trattamento a parita' di contributi versati e di proporzionalita' tra pensione e contributi. 11.3. Ulteriore profilo di irragionevolezza va individuato nella esclusione dalla misura de qua dei trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti (pensioni di reversibilita'), sebbene - in ipotesi - di ammontare superiore alla soglia minima di 100mila euro. Emerge, in tale regime di deroga, un vero e proprio intento «punitivo» del legislatore nei confronti di chi ha maturato - a fronte del versamento dei previsti contributi - il diritto alla pensione INPS, come se si trattasse di un ingiusto privilegio e non gia' di un meritato riconoscimento economico (che la stessa Corte costituzionale ha qualificato «retribuzione differita») a conclusione di un lungo percorso lavorativo. Peraltro, se cosi' fosse, non si ravvede la ratio dell'esclusione dalla decurtazione del trattamento di reversibilita' in quanto tale, che pure trae origine dal trattamento maturato in capo al pensionato. 11.4. Ulteriore profilo di irragionevolezza della disciplina va individuato nell'esclusione dalla decurtazione de qua delle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo. Il comma 263 dell'art. 1 dispone infatti che «La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo». La ratio di detta previsione sembra muovere dall'erroneo presupposto secondo cui le pensioni liquidate con il sistema retributivo (o misto), a differenza di quelle liquidate con il sistema contributivo, beneficiano di restituzioni non proporzionate ai contributi versati. Ma in tal modo si esclude assiomaticamente che il trattamento di pensione liquidato con il sistema contributivo possa raggiungere la soglia di 100 mila euro l'anno: se cio' avviene (com'e' ben possibile, ad esempio, per le pensioni dei dirigenti delle grandi aziende), non vi ravvede alcuna ragione idonea a giustificare un siffatto regime di deroga, se e' vero che qualsiasi contributo versato dal lavoratore - quale che sia la modalita' di calcolo della pensione - assolve alla funzione solidaristica tipica della gestione previdenziale. Peraltro, e' del tutto erroneo ritenere - come sembra abbia fatto il legislatore - che il sistema retributivo (o quello misto) sia necessariamente meno solidaristico di quello contributivo. Se, infatti, nel sistema retributivo l'anzianita' contributiva utile ai fini del calcolo della pensione si arresta al compimento del quarantesimo anno di attivita', gli ulteriori contributi versati dal lavoratore finiscono per avvantaggiare unicamente gli altri assicurati - in ragione della richiamata natura solidaristica della contribuzione - non assumendo alcuna rilevanza ai fini del computo della retribuzione pensionabile. E' il caso dell'odierno ricorrente il quale, avendo versato contributi per oltre cinquantuno anni, non ha potuto avvalersi, ai fini del proprio trattamento pensionistico, dei contributi versati oltre il 40° anno, essendo essi andati a vantaggio degli altri iscritti alla gestione previdenziale e al sistema nel suo complesso. L'irragionevolezza della disciplina e' ancor piu' evidente nei riguardi delle pensioni liquidate con sistema misto (o «pro quota»), essendo assoggettate alla decurtazione anche i trattamenti pensionistici (parzialmente) alimentati dalle contribuzioni versate nel corso dell'intera attivita' lavorativa. Tanto piu' se si considera che il superamento della soglia dei 100.000 euro lordi annui (o degli scaglioni superiori ai fini dell'applicazione delle percentuali successive) ben potrebbe essere determinato proprio dalla quota contributiva della pensione. 11.5. Si tratta, in tutti questi casi, di percettori di trattamento pensionistico e l'irragionevole discriminazione tra soggetti appartenenti alla medesima categoria (a parita' di livello di trattamento) viola in modo evidente il principio di eguaglianza. 11.6. Viene, altresi', ad essere reciso, con la decurtazione in parola, il nesso di correlazione tra retribuzione e pensione (data la natura di quest'ultima di «retribuzione differita») nonche' il nesso di corrispettivita' fra trattamento pensionistico e contribuzione versata, anche sotto il concorrente profilo della tutela dell'affidamento del pensionato. Si appalesa, infatti, del tutto irragionevole, oltre che discriminatoria, una disciplina che prevede un criterio di decurtazione della pensione che prescinde del tutto dalla durata del rapporto lavorativo nonche' - e cio' e' ancora piu' ingiustificato - dall'entita' dei contributi versati. In conclusione, risultano lesi i principi di ragionevolezza, di affidamento, di uguaglianza e di adeguatezza del trattamento previdenziale nonche' quello di capacita' contributiva, rivenienti dal combinato disposto di cui agli articoli 2, 3, 36, 38 e 53 della Costituzione, atteso che il prelievo di cui ai commi 261-268 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018: incide su trattamenti previdenziali consolidati, operando irragionevoli discriminazioni: tra pensionati e non, a parita' di livello di reddito; tra pensioni gestite dall'INPS e pensioni di altre gestioni previdenziali; tra pensioni dirette e pensioni di reversibilita', a parita' di trattamento economico; tra pensioni determinate con il sistema retributivo o misto (cd. pro quota) e pensioni determinate con metodo contributivo; viola il requisito della «temporaneita'» della misura, in considerazione della durata quinquennale del prelievo forzoso e della saldatura dei suoi effetti con quelli prodotti dagli analoghi provvedimenti che lo hanno di poco preceduto, senza il rispetto dei criteri di proporzionalita' e ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione (Corte costituzionale, sentenza n. 173/2016); incide in misura consistente sui trattamenti pensionistici piu' elevati, in violazione del nesso di tendenziale correlazione tra retribuzione e pensione nonche' tra contributi versati e trattamento di quiescenza; imponendo un sacrificio su una ristretta cerchia dei soggetti, si presenta come misura sostitutiva di un intervento di fiscalita' generale nei confronti di tutti i cittadini, in violazione dei parametri di legittimita' dettati dagli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione (cfr. Corte dei conti, sezione giurisdizionale Lazio, ordinanza n. 308/2019). In ultima analisi, la disciplina all'esame collide con l'insegnamento della Corte costituzionale secondo il quale «dal combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (articoli 3 e 38, Costituzione) il rispetto dei canoni costituzionali e' oggetto di uno scrutinio "stretto" di costituzionalita', che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben piu' elevato di quello che, di norma, e' affidato alla mancanza di arbitrarieta'» (sentenza n. 173 del 2016). In conclusione, non potendo essere definito nel merito, se non previa risoluzione delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale, il presente giudizio deve essere sospeso, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M. La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, in composizione monocratica di Giudice delle pensioni, visto l'art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 261-268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021», per contrasto con gli articoli 3, 23, 36, 38 e 53 della Costituzione, in relazione all'intervento di decurtazione percentuale per un quinquennio dell'ammontare lordo annuo dei trattamenti ivi previsti; Sospende il presente giudizio disponendo l'immediata trasmissione degli atti, a cura della segreteria di questa sezione, alla Corte costituzionale, unitamente alla prova delle notificazioni e comunicazioni di cui all'art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87. Dispone che a cura della segreteria la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Cosi' deciso in Roma, all'esito dell'udienza del 4 dicembre 2019 Il giudice monocratico: Di Stazio