N. 56 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 gennaio 2021
Ordinanza del 7 gennaio 2021 della Commissione tributaria provinciale di Catania sul ricorso proposto da Lupica Rinato Sebastiano contro Agenzia Riscossione Sicilia S.p.a. . Contenzioso tributario - Commissioni tributarie - Trattazione della controversia in camera di consiglio - Discussione in pubblica udienza subordinata al deposito di apposita istanza di almeno una delle parti - Deposito di memorie. - Legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attivita' di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonche' per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), art. 30 [, comma 1], lettera g), numero 1); decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), artt. 32, comma 3, e 33.(GU n.19 del 12-5-2021 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI CATANIA XII sezione composta dai signori: dott. Salvatore Costa, Presidente, relatore estensore; dott. Natale Distefano, giudice; dott. Francesco Silipo, giudice; ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento n. 2256/2017 R.G.R. instaurato su ricorso proposto da Lupica Rinato Sebastiano, nato a Bronte il 28 ottobre 1960, avverso la cartella di pagamento n. 29320160003608711, contro Riscossione Sicilia S.p.a. La controversia e' stata trattata in Camera di consiglio ai sensi dell'art. 33, comma 1, decreto legislativo n. 546/1992, non avendo nessuna delle parti chiesto la discussione in pubblica udienza. Ritiene il Collegio che la norma di cui sopra sia in contrasto con gli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione per i motivi che seguono. 1. La normativa previgente e la sentenza della Corte costituzionale del 16 febbraio 1989, n. 50. Il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario) prevedeva: all'art. 20 (Udienza e decisione), come modificato dall'art. 12 decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 1981, n. 739, che «All'udienza il relatore espone i fatti e le questioni della controversia in presenza delle parti, indi il Presidente le ammette alla discussione... La decisione e' adottata in Camera di consiglio subito dopo la discussione ...»; all'art. 39, comma 1 che «al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel Libro l del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a 67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97 e dell'art. 128» (che cosi' recita: «l'udienza in cui si discute la causa e' pubblica a pena di nullita', ma il giudice che la dirige puo' disporre che si svolga a porte chiuse se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume»). La Corte costituzionale con sentenza del 16 febbraio 1989, n. 50, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 8 del 22 febbraio 1989, ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 39, comma 1 decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 «nella parte in cui esclude l'applicabilita' dell'art. 128 del codice di procedura civile (pubblicita' delle udienze) ai giudizi che si svolgono dinanzi alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ferma restando la validita' di tutti gli atti anteriormente compiuti». Rileva la Corte che gia' da tempo aveva affermato (sentenza n. 287/1974) «il carattere di organo giurisdizionale delle commissioni tributarie per struttura, funzioni e finalita' e la giurisdizionalita' del procedimento che si svolge di fronte alle stesse, specie a seguito della riforma del contenzioso tributario di cui alla legge 9 ottobre 1971, n. 825 ed al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636»; e che era seguita la sentenza n. 212 del 1986, che aveva ritenuto «l'applicabilita' anche ai giudizi innanzi le commissioni tributarie della regola della pubblicita' delle udienze», «espressione di civilta' giuridica... prevista in vari atti internazionali (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950: art. 6 e ratificata con legge n. 848 del 1955; Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici: art. 14, adottato il 16 dicembre 1966 e ratificato con legge n. 881 del 1977; protocolli sullo Statuto della Corte di giustizia annessi ai Trattati CECA, CEE ed EURATOM: articoli 28 e 29)». Osserva poi la Corte che alla regola della pubblicita' delle udienze «si da' ampio spazio negli ordinamenti democratici, fondati, come il nostro, sulla sovranita' popolare» e che gia' nella sentenza n. 12 del 1971 era stato espresso il principio che, «trovando l'amministrazione della giustizia fondamento nella sovranita' popolare, in base al precetto dell'art. 101, primo comma della Costituzione, doveva ritenersi implicita nei principi costituzionali che disciplinano l'esercizio della giurisdizione la regola generale della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, la quale, peraltro, puo' subire eccezioni in riferimento a determinati procedimenti, quando abbiano obiettiva e razionale giustificazione»; e conclude che «per i procedimenti tributari l'eccezione non puo' ritenersi sorretta da siffatte giustificazioni: anzi, in base all'art. 53 della Costituzione, l'imposizione tributaria e' soggetta al canone della trasparenza, i cui effetti riguardano anche la generalita' dei cittadini, nonche' ai principi di universalita' ed eguaglianza, onde la posizione del contribuente non e' esclusivamente personale e non e' tutelabile con il segreto». La generale conoscenza, peraltro «puo' giovare alla concreta attuazione del sistema tributario e concorre a ridurre il numero degli inadempimenti e degli evasori in genere». Osserva ancora la Corte che «(essendos)i conclusa l'evoluzione legislativa e consolidatasi l'opinione dottrinale e l'orientamento giurisprudenziale circa il carattere giurisdizionale dei processi tributari, ricondotti nell'alveo della giurisdizione, onde adeguarli al precetto costituzionale dell'art. 101, primo comma della Costituzione», era divenuta improcrastinabile «la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 39, comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui esclude l'applicabilita' dell'art. 128 del codice di procedura civile (principio della pubblicita' delle udienze) ai giudizi tributari di 1° e di 2° grado». La legge 22 maggio 1989, n. 198, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 maggio 1989, in conformita' alla decisione della Corte costituzionale ha disposto che «le udienze dinanzi alle commissioni tributarie sono pubbliche. Per la loro disciplina si applicano gli articoli 127, 128, 129, 130 del codice di procedura civile. Nel primo comma dell'art. 39 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1992, n. 636 le parole "e dell'art. 128" sono soppresse...». 2. La normativa vigente e la violazione dell'art. 101 della Costituzione. Il quadro normativo cambia con la legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 - che all'art. 30, lettera g) n. 1, tra i principi che il Governo della Repubblica delegato ad emanare i decreti avrebbe dovuto osservare, indica quello dell'adeguamento delle norme del processo tributario alle norme del processo civile ed in particolare quello «(del)la trattazione della controversia in Camera di consiglio in mancanza di tempestiva richiesta espressa dell'udienza di trattazione» - e col decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 dicembre 1991, n. 413) - che all'art. 33, comma 1 dispone che «la controversia e' trattata in camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza, prevista dall'art. 34, con apposita istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite entro il termine dell'art. 32, comma 2». La successione delle leggi nel tempo e' dunque la seguente: la norma di cui al combinato disposto degli articoli 20 e 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 prevedeva la discussione in Camera di consiglio, escludendo l'art. 39, comma 1 l'art. 128 del codice di procedura civile, e quindi la pubblica udienza. A seguito della sentenza che dichiara l'incostituzionalita' dell'art. 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 nella parte in cui esclude l'art. 128 del codice di procedura civile, la norma di cui al combinato disposto degli articoli 20 e 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972, conforme alla Costituzione, prevede che: «All'udienza (pubblica ex art. 128 c.p.c.) il relatore espone i fatti e le questioni della controversia in presenza delle parti, indi il Presidente le ammette alla discussione». L'art. 34, decreto legislativo n. 546/1992 riproduce esattamente quest'ultima («All'udienza pubblica il relatore espone al Collegio i fatti e le questioni della controversia e quindi il Presidente ammette le parti presenti alla discussione»), ma l'art. 33 subordina l'udienza pubblica alla richiesta delle parti - in mancanza della quale e' prevista la trattazione in Camera di consiglio senza la presenza delle parti («Il relatore espone al collegio, senza la presenza delle parti, i fatti e le questioni della controversia») - allo scopo evidente di rendere piu' rapida la trattazione dei ricorsi (scopo peraltro raggiunto solo in minima parte se la percentuale intorno al 90% circa di richieste di trattazione in pubblica udienza presso questa Commissione tributaria dovesse rispecchiare la media nazionale). Si pone pertanto la questione della legittimita' costituzionale dell'art. 33, che subordina la pubblica udienza ai casi di richiesta di almeno una delle parti e prevede come regime normale la trattazione in Camera di consiglio senza la presenza delle parti, limitando cosi il contraddittorio al deposito di memorie entro dieci giorni dall'udienza ed escludendo la discussione, gia' prevista dall'art. 20, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972. E' stato osservato al riguardo che la sentenza della Corte costituzionale, con riferimento al contenzioso tributario, enuncia due principi che non sono stati osservati dal legislatore delegante: «il primo secondo cui la pubblicita' delle udienze puo' subire eccezioni in relazione. a particolari procedimenti, quando abbiano dette eccezioni obiettiva e razionale giustificazione. Il secondo e' che la posizione del contribuente non e' esclusivamente personale e non e' tutelabile con il segreto». Ne consegue che la disciplina finisce per considerare come «obiettiva e razionale giustificazione» dell'eccezione alla pubblica udienza - e quindi del rito camerale - la volonta' delle parti che la pubblica udienza non richiedono; «volonta' che il giudice delle leggi esclude che possa essere tutelata al fine dell'esclusione della pubblicita' delle udienze», non essendo la posizione del contribuente esclusivamente personale. Pertanto, «una volta che - per la tutela della generalita' dei cittadini - e' stata negata la legittimita' di un potere dispositivo delle parti in ordine alla scelta del rito, che ha riflessi sulla pubblicita' delle udienze, appare evidente la contrarieta' alla costituzione di una scelta interamente affidata alla valutazione discrezionale delle parti». (A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Giuffre', 1996, pagg. 552 e segg.). Le superiori argomentazioni appaiono condivisibili, poiche' la pubblicita' delle udienze tutela l'interesse pubblico di consentire ai cittadini, e quindi al popolo, di conoscere dei procedimenti giudiziari; interesse pubblico di rilevanza costituzionale, in quanto diretta espressione del principio di cui all'art. 101 della Costituzione, essendo la giustizia amministrata in nome del popolo. Ne consegue che detto interesse deve essere garantito per tutti i processi tributari e non puo' essere posto in bilanciamento con un interesse non di rilevanza costituzionale (di economia processuale) - perseguito con la trattazione dei ricorsi in Camera di consiglio - subordinando la discussione in pubblica udienza al diritto delle parti di richiederla, diritto il cui esercizio e' facoltativo. La norma del processo tributario sulla pubblicita' delle udienze non puo' quindi essere adeguata, ai sensi dell'art. 1, lettera g) della legge delega, alla norma di cui all'art. 275 del codice di procedura civile (che a seguito della modifica con legge 26 novembre 1990, n. 353 - successiva alla sentenza della Corte costituzionale - prevede la discussione in pubblica udienza su richiesta di una parte) poiche', come si e' visto, la posizione del contribuente non e' esclusivamente personale, a differenza di quella delle parti nel processo civile, che sono portatrici di interessi individuali. In conclusione la parziale, e non integrale, attuazione di un principio costituzionale - ove non sia posto in bilanciamento con altro pure di rilevanza costituzionale - non elimina la sua violazione, anzi costituisce violazione, come nel caso della norma di cui all'art. 33, decreto legislativo n. 546/1992, che limita, subordinandola alla volonta' delle parti, l'applicazione della norma di cui all'art. 34 del decreto legislativo citato; disposizione che, come si e' visto, attua il principio di cui all'art. 101 della Costituzione ... dell'art. 111 della Costituzione Peraltro, in un processo caratterizzato dalla presenza di una parte portatrice di un interesse pubblico, si pone il problema della rilevanza ex art. 111 della Costituzione della completezza del contraddittorio, da realizzare con la previsione dell'udienza di discussione non subordinata alla richiesta di cui all'art. 33, comma 1, decreto legislativo n. 546/1992 dell'ufficio ministeriale, dell'ente locale o del concessionario del servizio di riscossione, se non avanzata dal ricorrente. La richiesta della pubblica udienza e' infatti un diritto, che e' facolta' della parte esercitare; la funzione del pubblico ufficio, che ha lo scopo di perseguire l'interesse pubblico, e' un potere-dovere che e' obbligo esercitare. Pertanto, a fronte della presentazione di un ricorso che, se accolto, porta all'annullamento dell'atto, il pubblico ufficio non potrebbe rimettersi alla decisione del giudice, ma deve rivalutare l'atto impugnato alla luce del ricorso e provvedere all'annullamento d'ufficio o alla revoca, oppure difenderne in giudizio la legittimita'. Non a caso la circolare del Ministero delle finanze del 23 aprile 1996, n. 98/E in relazione all'art. 23 ritiene «necessario che l'ufficio si costituisca in giudizio in quanto portatore di concreti interessi erariali in contestazione, percio' meritevoli della piu' ampia tutela in sede giurisdizionale, a meno che non ritenga di dover procedere (in applicazione di un generale principio di diritto amministrativo fatto proprio dall'art. 68, comma ,1 decreto del Presidente della Repubblica n. 287/1992) all'annullamento o alla revoca dell'atto impugnato ritenuto illegittimo o infondato»; ed in relazione all'art. 33 raccomanda agli uffici resistenti «di avanzare comunque l'istanza di trattazione in pubblica udienza in presenza di opposti indirizzi giurisprudenziali su presupposti di fatto o questioni di diritto, quando le controversie siano di rilevante interesse economico (...) o quando riguardino societa' con personalita' giuridica». La disponibilita' del diritto e' dunque il principio su cui si fonda la facolta' della parte privata di non resistere, disponibilita' che non si ha da parte della pubblica amministrazione alla quale sono affidati dalla legge pubblici interessi. In quest'ottica, emergono dubbi di costituzionalita' dell'art. 33, decreto legislativo n. 546/1992, nella parte in cui subordina alle richieste di parte la discussione, in relazione all'art. 111 della Costituzione. Se infatti, come osserva la sentenza della Corte, i processi tributari erano gia' stati ricondotti nell'alveo della giurisdizione e vieppiu' lo sono stati con i decreti delegati, garantendo cosi' la parita' delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale in attuazione del comma 2 dell'art. 111 della Costituzione, la riflessione deve orientarsi su un altro aspetto del principio del giusto processo, regolato dalla legge; legge che deve tener conto dell'indisponibilita' degli interessi pubblici, la cui tutela in sede giurisdizionale dovrebbe escludere una decisione in sede amministrativa di rinuncia all'attivita' processuale, sia completa, sia parziale in quanto limitata al deposito di memorie. Risponde infatti alla logica del giusto processo la piu' ampia tutela in sede giurisdizionale, data dalla discussione (nel processo tributario in pubblica udienza), sia per le parti private che per quelle pubbliche, anche se per la disponibilita' del diritto le prime possono legittimamente rinunciarvi. Oltre questo profilo soggettivo (la tutela delle parti), nella logica del giusto processo e' altresi' ravvisabile un profilo oggettivo, in quanto la partecipazione delle parti e la dialettica che ne deriva caratterizzano la giurisdizione e sono fondamentali per l'attuazione della legge da parte di un giudice terzo. Di qui l'esigenza che sia prevista la piu' ampia partecipazione delle parti ai fini dell'integrale attuazione del principio costituzionale, essendo l'attivita' delle parti connaturata al processo e potendo solo la disponibilita' del diritto, come appena sopra osservato, consentire alle parti private di rimettersi in tutto o in parte alla decisione del giudice. ... e 136 della Costituzione Ritiene ancora il Collegio che se e' stata dichiarata incostituzionale la norma di cui all'art. 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 che, escludendo l'applicabilita' dell'art. 128 codice di procedura civile («l'udienza in cui si discute la causa e' pubblica a pena di nullita', ma il giudice che la dirige puo' disporre che si svolga a porte chiuse se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume») ha escluso l'udienza pubblica, ne consegue che, per i motivi di seguito esposti, e' incostituzionale per violazione dell'art. 136 della Costituzione anche l'art. 33, comma 1 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, che prevede la trattazione della causa in Camera di consiglio (se non richiesta da una delle parti la pubblica udienza) in attuazione dell'art. 30, lettera g), n. 1 della legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413. Con riferimento alla violazione del giudicato costituzionale, la sentenza n. 57/2019 della Corte costituzionale al paragrafo 10.1 rileva che «sin da epoca ormai risalente, la giurisprudenza costituzionale non ha mancato di sottolineare il rigoroso significato della norma contenuta nell'art. 136 della Costituzione: su di essa - si e' detto - "poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto ... toglie immediatamente ogni efficacia alla norma illegittima, senza possibilita' di compressioni o incrinature nella sua rigida applicazione (sentenza n. 73 del 1963, richiamata dalla sentenza n. 169 del 2015). Quanto all'esclusiva preclusione del giudicato, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che essa opera nei confronti del legislatore e riguarda ogni disposizione che intenda "mantenere in piedi o ... ripristinare, sia pure indirettamente, ... gli effetti di quella struttura normativa che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimita' costituzionale" (sentenza n. 72 del 2013), ovvero che ripristini o preservi l'efficacia di una norma gia' dichiarata incostituzionale (sentenza n. 350 del 2010 e n. 5 del 2017). Si e' anche precisato che il giudicato costituzionale e' violato "non solo quando il legislatore emana una norma che costituisca 'una mera riproduzione' (sentenze n. 73 del 2013 e 245 del 2012) di quella gia' ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche se la nuova disciplina mira 'a perseguire o raggiungere', 'anche se indirettamente' esiti corrispondenti (sentenze n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966", sentenza n. 5 del 2017.». Alla luce del superiori principi la norma di cui all'art. 33, decreto legislativo n. 546/1992 viene a costituire piu' di una mera riproduzione di quella gia' ritenuta lesiva della Costituzione, poiche' esclude la stessa udienza con riferimento ai processi in cui le parti la pubblica udienza prevista dall'art. 34 non hanno richiesto. Di qui la violazione del giudicato costituzionale. La cessazione di efficacia della norma di cui all'art. 33, decreto legislativo n. 546/1992 avrebbe come effetto l'estensione a tutti i processi tributari di quella di cui all'art. 34, norma, come si e' visto, conforme all'art. 101 della Costituzione, in quanto identica a quella di cui al combinato disposto degli articoli 20 e 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 (come modificata a seguito della sentenza n. 50/1989 della Corte). La questione di costituzionalita' dell'art. 30, lettera g), n. 1, legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 e degli articoli 32, commi 3 e 33 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 in relazione agli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione, rilevante per non avere almeno una delle parti richiesto la discussione in pubblica udienza; appare per i superiori motivi non manifestamente infondata.
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, lettera g), n. 1, legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 e degli articoli 32, commi 3 e 33 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 in relazione agli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione. Dispone la sospensione del giudizio e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura dalla segreteria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e alle parti e comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento. Catania, 2 ottobre 2020 Il Presidente: Costa