N. 56 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 gennaio 2021

Ordinanza   del  7  gennaio   2021   della   Commissione   tributaria
provinciale  di  Catania  sul  ricorso  proposto  da  Lupica   Rinato
Sebastiano contro Agenzia Riscossione Sicilia S.p.a. . 
 
Contenzioso tributario - Commissioni tributarie -  Trattazione  della
  controversia in camera  di  consiglio  -  Discussione  in  pubblica
  udienza subordinata al deposito di apposita istanza di  almeno  una
  delle parti - Deposito di memorie. 
-  Legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le  basi
  imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attivita'
  di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei
  beni immobili delle imprese, nonche' per riformare il contenzioso e
  per la  definizione  agevolata  dei  rapporti  tributari  pendenti;
  delega  al  Presidente  della  Repubblica  per  la  concessione  di
  amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di  assistenza
  fiscale e del conto fiscale), art. 30  [,  comma  1],  lettera  g),
  numero  1);  decreto  legislativo  31   dicembre   1992,   n.   546
  (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al
  Governo contenuta nell'art. 30 della legge  30  dicembre  1991,  n.
  413), artt. 32, comma 3, e 33. 
(GU n.19 del 12-5-2021 )
 
           LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI CATANIA 
                             XII sezione 
 
    composta dai signori: 
        dott. Salvatore Costa, Presidente, relatore estensore; 
        dott. Natale Distefano, giudice; 
        dott. Francesco Silipo, giudice; 
    ha emesso la seguente ordinanza  nel  procedimento  n.  2256/2017
R.G.R. instaurato su ricorso proposto da  Lupica  Rinato  Sebastiano,
nato a Bronte il 28 ottobre 1960, avverso la cartella di pagamento n.
29320160003608711, contro Riscossione Sicilia S.p.a. 
    La controversia e' stata trattata in Camera di consiglio ai sensi
dell'art. 33, comma 1, decreto legislativo n.  546/1992,  non  avendo
nessuna delle parti chiesto la discussione in pubblica udienza. 
    Ritiene il Collegio che la norma di cui sopra  sia  in  contrasto
con gli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione per i  motivi  che
seguono. 
1. La normativa previgente e la sentenza della  Corte  costituzionale
del 16 febbraio 1989, n. 50. 
    Il decreto del Presidente della Repubblica 26  ottobre  1972,  n.
636  (Revisione  della   disciplina   del   contenzioso   tributario)
prevedeva:  all'art.  20  (Udienza  e  decisione),  come   modificato
dall'art. 12 decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 1981,
n. 739, che «All'udienza il relatore espone i fatti  e  le  questioni
della controversia in presenza delle parti,  indi  il  Presidente  le
ammette alla discussione... La decisione e'  adottata  in  Camera  di
consiglio subito dopo la discussione ...»; all'art. 39, comma  1  che
«al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in
quanto compatibili con le norme del presente decreto  e  delle  leggi
che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel  Libro  l
del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a
67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97  e
dell'art. 128» (che cosi' recita: «l'udienza in  cui  si  discute  la
causa e' pubblica a pena di nullita', ma il  giudice  che  la  dirige
puo' disporre che si svolga a porte chiuse se  ricorrono  ragioni  di
sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume»). 
    La Corte costituzionale con sentenza del 16 febbraio 1989, n. 50,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 8 del  22  febbraio  1989,  ha
dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 39, comma  1  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 636/1972 «nella parte in  cui  esclude
l'applicabilita'  dell'art.  128  del  codice  di  procedura   civile
(pubblicita' delle udienze) ai giudizi che si svolgono  dinanzi  alle
Commissioni tributarie di primo e di secondo grado  a  decorrere  dal
giorno successivo alla pubblicazione della  sentenza  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, ferma restando la validita' di tutti  gli
atti anteriormente compiuti». 
    Rileva la Corte che gia' da tempo aveva  affermato  (sentenza  n.
287/1974) «il carattere di organo giurisdizionale  delle  commissioni
tributarie   per   struttura,   funzioni    e    finalita'    e    la
giurisdizionalita' del procedimento che  si  svolge  di  fronte  alle
stesse, specie a seguito della riforma del contenzioso tributario  di
cui alla legge 9 ottobre 1971, n. 825 ed al  decreto  del  Presidente
della Repubblica 26 ottobre 1972, n.  636»;  e  che  era  seguita  la
sentenza n. 212 del 1986, che aveva ritenuto «l'applicabilita'  anche
ai giudizi innanzi  le  commissioni  tributarie  della  regola  della
pubblicita' delle udienze»,  «espressione  di  civilta'  giuridica...
prevista in vari atti  internazionali  (Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950: art. 6 e ratificata con  legge  n.
848 del 1955; Patto internazionale di New York  relativo  ai  diritti
civili e politici: art. 14, adottato il 16 dicembre 1966 e ratificato
con legge n. 881 del 1977; protocolli sullo Statuto  della  Corte  di
giustizia annessi ai Trattati CECA, CEE ed  EURATOM:  articoli  28  e
29)». 
    Osserva poi la Corte che  alla  regola  della  pubblicita'  delle
udienze «si da' ampio spazio negli ordinamenti democratici,  fondati,
come il nostro, sulla sovranita' popolare» e che gia' nella  sentenza
n. 12 del  1971  era  stato  espresso  il  principio  che,  «trovando
l'amministrazione  della  giustizia   fondamento   nella   sovranita'
popolare, in base  al  precetto  dell'art.  101,  primo  comma  della
Costituzione, doveva ritenersi implicita nei principi  costituzionali
che disciplinano l'esercizio della giurisdizione la  regola  generale
della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari,  la  quale,  peraltro,
puo' subire eccezioni  in  riferimento  a  determinati  procedimenti,
quando abbiano obiettiva e razionale giustificazione»; e conclude che
«per i procedimenti tributari l'eccezione non puo' ritenersi sorretta
da  siffatte  giustificazioni:  anzi,  in  base  all'art.  53   della
Costituzione, l'imposizione tributaria e' soggetta  al  canone  della
trasparenza, i  cui  effetti  riguardano  anche  la  generalita'  dei
cittadini, nonche' ai principi di universalita' ed eguaglianza,  onde
la posizione del contribuente non e' esclusivamente personale  e  non
e' tutelabile con il segreto». La generale conoscenza, peraltro «puo'
giovare alla concreta attuazione del sistema tributario e concorre  a
ridurre il numero degli inadempimenti e degli evasori in genere». 
    Osserva ancora la Corte che  «(essendos)i  conclusa  l'evoluzione
legislativa e consolidatasi l'opinione  dottrinale  e  l'orientamento
giurisprudenziale circa il  carattere  giurisdizionale  dei  processi
tributari, ricondotti nell'alveo della giurisdizione, onde  adeguarli
al  precetto  costituzionale  dell'art.  101,   primo   comma   della
Costituzione», era divenuta  improcrastinabile  «la  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale dell'art. 39, comma 1 del  decreto  del
Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636, nella  parte  in
cui esclude l'applicabilita' dell'art. 128 del  codice  di  procedura
civile  (principio  della  pubblicita'  delle  udienze)  ai   giudizi
tributari di 1° e di 2° grado». 
    La legge 22  maggio  1989,  n.  198,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale del 30 maggio 1989, in  conformita'  alla  decisione  della
Corte  costituzionale  ha  disposto  che  «le  udienze  dinanzi  alle
commissioni tributarie sono pubbliche.  Per  la  loro  disciplina  si
applicano gli articoli 127, 128, 129, 130  del  codice  di  procedura
civile. Nel primo comma dell'art. 39 del decreto del Presidente della
Repubblica 26 ottobre 1992, n. 636 le parole "e dell'art.  128"  sono
soppresse...». 
2.  La  normativa  vigente  e  la  violazione  dell'art.  101   della
Costituzione. 
    Il quadro normativo cambia con la legge delega  del  30  dicembre
1991, n. 413 - che all'art. 30, lettera g) n. 1, tra i  principi  che
il Governo della Repubblica delegato ad  emanare  i  decreti  avrebbe
dovuto osservare, indica  quello  dell'adeguamento  delle  norme  del
processo tributario alle norme del processo civile ed in  particolare
quello «(del)la trattazione della controversia in Camera di consiglio
in  mancanza  di  tempestiva  richiesta  espressa   dell'udienza   di
trattazione» - e col decreto legislativo 31  dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell'art. 30 dicembre 1991, n. 413) - che  all'art.
33, comma 1 dispone che «la controversia e'  trattata  in  camera  di
consiglio salvo che almeno una  delle  parti  non  abbia  chiesto  la
discussione in pubblica udienza, prevista dall'art. 34, con  apposita
istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre  parti
costituite entro il termine dell'art. 32, comma 2». 
    La successione delle leggi nel tempo e' dunque  la  seguente:  la
norma di cui al combinato disposto degli articoli 20 e 39,  comma  1,
decreto del Presidente della  Repubblica  n.  636/1972  prevedeva  la
discussione in Camera di consiglio, escludendo  l'art.  39,  comma  1
l'art. 128 del codice di  procedura  civile,  e  quindi  la  pubblica
udienza. A seguito della sentenza che dichiara  l'incostituzionalita'
dell'art. 39, comma 1, decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
636/1972 nella  parte  in  cui  esclude  l'art.  128  del  codice  di
procedura civile,  la  norma  di  cui  al  combinato  disposto  degli
articoli 20 e 39, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n.
636/1972,  conforme  alla  Costituzione,  prevede  che:  «All'udienza
(pubblica ex art. 128  c.p.c.)  il  relatore  espone  i  fatti  e  le
questioni  della  controversia  in  presenza  delle  parti,  indi  il
Presidente  le  ammette  alla  discussione».   L'art.   34,   decreto
legislativo   n.   546/1992   riproduce   esattamente    quest'ultima
(«All'udienza pubblica il relatore espone al Collegio i  fatti  e  le
questioni della controversia e quindi il Presidente ammette le  parti
presenti  alla  discussione»),  ma  l'art.  33  subordina   l'udienza
pubblica alla richiesta delle parti -  in  mancanza  della  quale  e'
prevista la trattazione in Camera  di  consiglio  senza  la  presenza
delle parti («Il relatore espone al collegio, senza la presenza delle
parti, i fatti e le  questioni  della  controversia»)  -  allo  scopo
evidente di rendere piu' rapida la  trattazione  dei  ricorsi  (scopo
peraltro raggiunto solo in minima parte se la percentuale intorno  al
90% circa di richieste di  trattazione  in  pubblica  udienza  presso
questa  Commissione  tributaria   dovesse   rispecchiare   la   media
nazionale). 
    Si pone pertanto la questione della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 33, che subordina la pubblica udienza ai casi di  richiesta
di  almeno  una  delle  parti  e  prevede  come  regime  normale   la
trattazione in Camera di consiglio senza  la  presenza  delle  parti,
limitando cosi il contraddittorio al deposito di memorie entro  dieci
giorni dall'udienza  ed  escludendo  la  discussione,  gia'  prevista
dall'art. 20, decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972. 
    E' stato osservato  al  riguardo  che  la  sentenza  della  Corte
costituzionale, con riferimento al  contenzioso  tributario,  enuncia
due principi che non sono stati osservati dal legislatore  delegante:
«il primo secondo  cui  la  pubblicita'  delle  udienze  puo'  subire
eccezioni in relazione. a particolari  procedimenti,  quando  abbiano
dette eccezioni obiettiva e razionale giustificazione. Il secondo  e'
che la posizione del contribuente non e' esclusivamente  personale  e
non e' tutelabile con il segreto».  Ne  consegue  che  la  disciplina
finisce per considerare come «obiettiva e razionale  giustificazione»
dell'eccezione alla pubblica udienza - e quindi del rito  camerale  -
la volonta' delle parti  che  la  pubblica  udienza  non  richiedono;
«volonta' che  il  giudice  delle  leggi  esclude  che  possa  essere
tutelata al fine dell'esclusione della  pubblicita'  delle  udienze»,
non essendo la posizione del contribuente  esclusivamente  personale.
Pertanto, «una volta che  -  per  la  tutela  della  generalita'  dei
cittadini - e' stata negata la legittimita' di un potere  dispositivo
delle parti in ordine alla scelta del rito,  che  ha  riflessi  sulla
pubblicita' delle  udienze,  appare  evidente  la  contrarieta'  alla
costituzione di una  scelta  interamente  affidata  alla  valutazione
discrezionale  delle  parti».  (A.   Finocchiaro,   M.   Finocchiaro,
Commentario al nuovo contenzioso tributario,  Giuffre',  1996,  pagg.
552 e segg.). 
    Le superiori argomentazioni appaiono  condivisibili,  poiche'  la
pubblicita' delle udienze tutela l'interesse pubblico  di  consentire
ai cittadini, e quindi  al  popolo,  di  conoscere  dei  procedimenti
giudiziari; interesse pubblico di rilevanza costituzionale, in quanto
diretta  espressione  del  principio  di  cui  all'art.   101   della
Costituzione, essendo la giustizia amministrata in nome  del  popolo.
Ne consegue che detto interesse deve essere  garantito  per  tutti  i
processi tributari e non puo' essere posto in  bilanciamento  con  un
interesse non di rilevanza costituzionale (di economia processuale) -
perseguito con la trattazione dei ricorsi in Camera  di  consiglio  -
subordinando la discussione in  pubblica  udienza  al  diritto  delle
parti di richiederla, diritto il cui esercizio e' facoltativo. 
    La norma del processo tributario sulla pubblicita' delle  udienze
non puo' quindi essere adeguata, ai sensi  dell'art.  1,  lettera  g)
della legge delega, alla norma di cui  all'art.  275  del  codice  di
procedura civile (che a seguito della modifica con legge 26  novembre
1990, n. 353 - successiva alla sentenza della Corte costituzionale  -
prevede la discussione in pubblica udienza su richiesta di una parte)
poiche', come si e' visto,  la  posizione  del  contribuente  non  e'
esclusivamente personale, a differenza  di  quella  delle  parti  nel
processo civile, che sono portatrici di interessi individuali. 
    In conclusione la parziale, e non  integrale,  attuazione  di  un
principio costituzionale - ove non sia  posto  in  bilanciamento  con
altro  pure  di  rilevanza  costituzionale  -  non  elimina  la   sua
violazione, anzi costituisce violazione, come nel caso della norma di
cui  all'art.  33,  decreto  legislativo  n.  546/1992,  che  limita,
subordinandola alla volonta' delle parti, l'applicazione della  norma
di cui all'art. 34 del decreto legislativo citato; disposizione  che,
come si e' visto, attua  il  principio  di  cui  all'art.  101  della
Costituzione 
... dell'art. 111 della Costituzione 
    Peraltro, in un processo caratterizzato  dalla  presenza  di  una
parte portatrice di un interesse pubblico, si pone il problema  della
rilevanza ex  art.  111  della  Costituzione  della  completezza  del
contraddittorio, da realizzare  con  la  previsione  dell'udienza  di
discussione non subordinata alla richiesta di cui all'art. 33,  comma
1,  decreto  legislativo  n.  546/1992   dell'ufficio   ministeriale,
dell'ente locale o del concessionario del servizio di riscossione, se
non avanzata dal ricorrente. La richiesta della pubblica  udienza  e'
infatti un diritto,  che  e'  facolta'  della  parte  esercitare;  la
funzione  del  pubblico  ufficio,  che  ha  lo  scopo  di  perseguire
l'interesse pubblico, e' un potere-dovere che e' obbligo  esercitare.
Pertanto, a fronte della presentazione di un ricorso che, se accolto,
porta all'annullamento dell'atto, il pubblico  ufficio  non  potrebbe
rimettersi alla decisione del  giudice,  ma  deve  rivalutare  l'atto
impugnato  alla  luce  del  ricorso  e  provvedere   all'annullamento
d'ufficio  o  alla  revoca,  oppure   difenderne   in   giudizio   la
legittimita'. 
    Non a caso la circolare del Ministero delle finanze del 23 aprile
1996, n. 98/E  in  relazione  all'art.  23  ritiene  «necessario  che
l'ufficio si costituisca in giudizio in quanto portatore di  concreti
interessi erariali in contestazione, percio'  meritevoli  della  piu'
ampia tutela in sede giurisdizionale, a meno che non ritenga di dover
procedere (in  applicazione  di  un  generale  principio  di  diritto
amministrativo fatto proprio  dall'art.  68,  comma  ,1  decreto  del
Presidente della Repubblica  n.  287/1992)  all'annullamento  o  alla
revoca dell'atto impugnato ritenuto illegittimo o infondato»;  ed  in
relazione all'art. 33 raccomanda agli uffici resistenti «di  avanzare
comunque l'istanza di trattazione in pubblica udienza in presenza  di
opposti  indirizzi  giurisprudenziali  su  presupposti  di  fatto   o
questioni di diritto,  quando  le  controversie  siano  di  rilevante
interesse  economico  (...)  o   quando   riguardino   societa'   con
personalita' giuridica». 
    La disponibilita' del diritto e' dunque il principio  su  cui  si
fonda  la  facolta'   della   parte   privata   di   non   resistere,
disponibilita' che non si ha da parte della pubblica  amministrazione
alla quale sono affidati dalla legge pubblici interessi. 
    In quest'ottica, emergono dubbi  di  costituzionalita'  dell'art.
33, decreto legislativo n. 546/1992, nella  parte  in  cui  subordina
alle richieste di parte la discussione,  in  relazione  all'art.  111
della Costituzione. Se infatti, come osserva la sentenza della Corte,
i processi tributari erano gia'  stati  ricondotti  nell'alveo  della
giurisdizione e vieppiu'  lo  sono  stati  con  i  decreti  delegati,
garantendo cosi' la parita' delle parti davanti ad un  giudice  terzo
ed  imparziale  in  attuazione  del  comma  2  dell'art.  111   della
Costituzione, la riflessione deve orientarsi su un altro aspetto  del
principio del giusto processo, regolato dalla legge; legge  che  deve
tener conto dell'indisponibilita' degli interessi  pubblici,  la  cui
tutela in sede giurisdizionale dovrebbe escludere  una  decisione  in
sede  amministrativa  di  rinuncia  all'attivita'  processuale,   sia
completa, sia parziale in quanto limitata  al  deposito  di  memorie.
Risponde infatti alla logica del giusto processo la piu' ampia tutela
in  sede  giurisdizionale,  data  dalla  discussione  (nel   processo
tributario in pubblica udienza), sia per le  parti  private  che  per
quelle pubbliche, anche se per la disponibilita' del diritto le prime
possono legittimamente rinunciarvi. 
    Oltre questo profilo soggettivo (la tutela  delle  parti),  nella
logica  del  giusto  processo  e'  altresi'  ravvisabile  un  profilo
oggettivo, in quanto la partecipazione delle parti  e  la  dialettica
che ne deriva caratterizzano la giurisdizione e sono fondamentali per
l'attuazione della legge  da  parte  di  un  giudice  terzo.  Di  qui
l'esigenza che sia prevista la piu' ampia partecipazione delle  parti
ai  fini  dell'integrale  attuazione  del  principio  costituzionale,
essendo l'attivita' delle parti connaturata  al  processo  e  potendo
solo la disponibilita' del  diritto,  come  appena  sopra  osservato,
consentire alle parti private di rimettersi in tutto o in parte  alla
decisione del giudice. 
... e 136 della Costituzione 
    Ritiene  ancora  il  Collegio  che   se   e'   stata   dichiarata
incostituzionale la norma di cui all'art. 39, comma  1,  decreto  del
Presidente   della   Repubblica   n.   636/1972    che,    escludendo
l'applicabilita' dell'art. 128 codice di procedura civile («l'udienza
in cui si discute la causa e' pubblica a  pena  di  nullita',  ma  il
giudice che la dirige puo' disporre che si svolga a porte  chiuse  se
ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico  o  di
buon costume») ha escluso l'udienza pubblica, ne consegue che, per  i
motivi  di  seguito  esposti,  e'  incostituzionale  per   violazione
dell'art. 136 della Costituzione anche l'art. 33, comma 1 del decreto
legislativo 31 dicembre 1992, che prevede la trattazione della  causa
in Camera di consiglio (se  non  richiesta  da  una  delle  parti  la
pubblica udienza) in attuazione dell'art. 30, lettera g), n. 1  della
legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413. 
    Con riferimento alla violazione del giudicato costituzionale,  la
sentenza n. 57/2019 della  Corte  costituzionale  al  paragrafo  10.1
rileva  che  «sin  da  epoca  ormai  risalente,   la   giurisprudenza
costituzionale non ha mancato di sottolineare il rigoroso significato
della norma contenuta nell'art. 136 della Costituzione: su di essa  -
si e' detto - "poggia il contenuto pratico di tutto il sistema  delle
garanzie costituzionali, in quanto  ...  toglie  immediatamente  ogni
efficacia alla norma illegittima, senza possibilita' di  compressioni
o incrinature nella sua rigida applicazione (sentenza n. 73 del 1963,
richiamata dalla sentenza n.  169  del  2015).  Quanto  all'esclusiva
preclusione  del  giudicato,  la  giurisprudenza  costituzionale   ha
affermato che essa opera nei confronti  del  legislatore  e  riguarda
ogni disposizione che intenda "mantenere in piedi o ... ripristinare,
sia  pure  indirettamente,  ...  gli  effetti  di  quella   struttura
normativa che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimita'
costituzionale" (sentenza n. 72 del 2013), ovvero  che  ripristini  o
preservi l'efficacia di una norma  gia'  dichiarata  incostituzionale
(sentenza n. 350 del 2010 e n. 5 del 2017). Si e' anche precisato che
il  giudicato  costituzionale  e'  violato  "non   solo   quando   il
legislatore emana una norma che costituisca 'una  mera  riproduzione'
(sentenze n. 73 del 2013 e 245 del  2012)  di  quella  gia'  ritenuta
lesiva della Costituzione, ma anche se la nuova  disciplina  mira  'a
perseguire  o   raggiungere',   'anche   se   indirettamente'   esiti
corrispondenti (sentenze n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922  del
1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966", sentenza n. 5 del 2017.». 
    Alla luce del superiori principi la norma  di  cui  all'art.  33,
decreto legislativo n. 546/1992 viene a costituire piu' di  una  mera
riproduzione di  quella  gia'  ritenuta  lesiva  della  Costituzione,
poiche' esclude la stessa udienza con riferimento ai processi in  cui
le  parti  la  pubblica  udienza  prevista  dall'art.  34  non  hanno
richiesto. Di qui la violazione del giudicato costituzionale. 
    La cessazione di  efficacia  della  norma  di  cui  all'art.  33,
decreto legislativo n. 546/1992 avrebbe come effetto  l'estensione  a
tutti i processi tributari di quella di cui all'art. 34, norma,  come
si e' visto, conforme all'art.  101  della  Costituzione,  in  quanto
identica a quella di cui al combinato disposto degli  articoli  20  e
39, comma 1, decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.  636/1972
(come modificata a seguito della sentenza n. 50/1989 della Corte). 
    La questione di costituzionalita' dell'art. 30, lettera g), n. 1,
legge delega del 30 dicembre 1991, n. 413 e degli articoli 32,  commi
3 e 33 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 in  relazione
agli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione,  rilevante  per  non
avere almeno una delle parti richiesto  la  discussione  in  pubblica
udienza; appare per i superiori motivi non manifestamente infondata. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 30, lettera g), n. 1, legge  delega  del  30
dicembre 1991, n. 413 e degli articoli 32, commi 3 e 33  del  decreto
legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 in relazione agli articoli  101,
111 e 136 della Costituzione. 
    Dispone la sospensione del giudizio  e  l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che a cura dalla  segreteria  la  presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e  alle  parti  e
comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Catania, 2 ottobre 2020 
 
                        Il Presidente: Costa