N. 97 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 maggio 2021

Ordinanza del 6 maggio 2021 del Tribunale di Ravenna nel procedimento
civile promosso da CFS Europe spa contro Patrizi Maurizio. 
 
Lavoro  e  occupazione  -  Licenziamento  per   giustificato   motivo
  oggettivo  -  Tutela  del  lavoratore  in  caso  di   licenziamento
  illegittimo per insussistenza del  fatto  posto  a  fondamento  del
  licenziamento  -  Applicazione  della   tutela   reintegratoria   -
  Condizioni - Accertamento della manifesta insussistenza  del  fatto
  posto a base del licenziamento.  
-  Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta'  e
  dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e  dell'attivita'
  sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), art.  18,
  settimo comma. 
(GU n.27 del 7-7-2021 )
 
                   TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA 
                   Sezione Civile - Settore lavoro 
 
    Il Giudice  del  Lavoro  Dario  Bernardi,  a  scioglimento  della
riserva assunta in data di oggi, pronuncia la seguente  ordinanza  di
rimessione della questione della legittimita' costituzionale dell'18,
comma L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori). 
 
                               Motivi 
 
1 - Fatto e processo a quo. 
    Con ricorso CSF Europe  S.r.l.  proponeva  opposizione  ai  sensi
dell'art. 1, comma 51 della legge n. 92/2012 avverso l'ordinanza che,
a conclusione della prima fase del c.d. rito Fornero, aveva  disposto
la reintegra di Maurizio Patrizi, licenziato tre volte  nel  giro  di
alcuni mesi, una delle quali per giustificato  motivo  oggettivo,  le
altre due per giusta causa. 
    In particolare: 
      1. Il primo e' un licenziamento per giusta causa:  procedimento
disciplinare iniziato  con  missiva  del  9  ottobre  2018,  sanzione
comminata con missiva del 22 ottobre 2018; 
      2. Il secondo  e'  un  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo: procedura iniziata con la comunicazione preliminare del 12
ottobre 2018; licenziamento comminato con  missiva  del  22  novembre
2018; 
      3. Il terzo  e'  ancora  un  licenziamento  per  giusta  causa:
procedimento disciplinare iniziato con missiva del 28  gennaio  2019;
sanzione comminata con missiva del 12 febbraio 2019. 
    In questa  sede  di  opposizione  CSF  Europe  S.r.l.  concludeva
domandando «Si chiede che l'ill.mo Tribunale - Giudice del  Lavoro  -
adito competente per la fase di opposizione ex art. 1,  commi  51°  -
57°, legge n. 92/2012, contrariis rejectis e previa ogni declaratoria
meglio  vista,  voglia,  in  riforma  della  ordinanza   opposta,   -
respingere siccome  infondate  in  fatto  e  in  diritto  le  domande
proposte nella precedente fase dal ricorrente nei confronti della CFS
Europe S.p.A. e, pertanto, rigettare il ricorso e le  domande  tutte,
anche successivamente proposte; condannare conseguentemente  il  sig.
Maurizio Patrizi alla restituzione in favore della CFS Europe  S.p.A.
della  somma  a  lui  corrisposta,  come  documentato  in  atti,   in
esecuzione della ordinanza qui opposta,  provvisoriamente  esecutiva,
ovvero per i titoli  ad  essa  conseguenti  per  un  totale  di  euro
94.495,10 (pari a un lordo di euro 128.355,00)  oltre  a  quelle  che
dovesse ulteriormente corrispondere  per  lo  stesso  titolo,  ovvero
della diversa somma e del diverso titolo che eventualmente risultera'
dovuto,  con  i  conguagli  fra  le  diverse  poste   che   dovessero
necessitare, con interessi e rivalutazione dal dovuto al  saldo;  nel
caso di accoglimento di taluna domanda dell'odierno  opposto,  voglia
comunque (salvo gravame) limitarla ai minimi indennitari». 
    CSF  Europe  S.r.l.  precisava  nell'atto  di  non  impugnare  le
statuizioni  contenute  nell'ordinanza  opposta  relativamente   alle
decisioni sui due licenziamenti per giusta causa  ritenuti  in  prime
cure illegittimi,  con  la  conseguenza  che  l'oggetto  attuale  del
giudizio rimane  esclusivamente  il  licenziamento  per  giustificato
motivo oggettivo. 
    Maurizio Patrizi si costituiva con memoria proponendo una domanda
riconvenzionale,   anche   in   punto   di   esatta    determinazione
dell'indennita'  allo  stesso  spettante  in  seguito   all'esercizio
dell'opzione in luogo della effettiva reintegra  («...condannare  CFS
al pagamento della somma di euro 8.977,50 a titolo  integrazione  per
la opzione esercitata dal sig. Patrizi alla reintegra  nel  posto  di
lavoro»). 
    La causa veniva rimessa una prima volta alla Corte costituzionale
per una questione di legittimita' in via incidentale relativa  al  7°
comma dell'art. 18, nella parte in cui tale disposizione  regolamenta
la massima tutela prevista in ipotesi  di  licenziamento  per  giusta
causa. 
    La norma  prevedeva,  infatti,  che  il  giudice  «Puo'  altresi'
applicare la predetta disciplina [ossia quella di  cui  al  4°  comma
dell'art. 18, ossia la tutela reale attenuata]  nell'ipotesi  in  cui
accerti la  manifesta  insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo». 
    La Corte costituzionale, con sentenza n. 59 del  2021  dichiarava
«l'illegittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo
periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
liberta' e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'  sindacale  e
dell'attivita'  sindacale,  nei  luoghi  di  lavoro   e   norme   sul
collocamento), come modificato dall'art. 1,  comma  42,  lettera  b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita),  nella  parte
in  cui  prevede  che  il  giudice,  quando  accerti   la   manifesta
insussistenza  del  fatto  posto  a  base   del   licenziamento   per
giustificato motivo oggettivo, «puo' altresi' applicare» - invece che
«applica altresi'» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto
comma. 
    Il fascicolo veniva riassunto dal lavoratore in  data  19  aprile
2021 e le  parti  si  ripresentavano  entrambe  all'udienza  odierna,
insistendo ciascuna per le conclusioni gia'  rassegnate  prima  della
sospensione. 
    Rivalutati gli atti di causa, alla luce delle motivazioni  svolte
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 59 del 2021, si  ritiene
sussista  ancora  un  problema  di  costituzionalita'  nel  7°  comma
dell'art. 18  (norma  da  applicare  nel  caso  di  specie),  con  la
conseguenza che deve  essere  nuovamente  sollevata  una  diversa  ed
ulteriore   (rispetto   a   quella   gia'   accolta)   questione   di
costituzionalita' in via incidentale. 
    La   stessa   attiene   alla   qualifica   di   "manifesta"   che
l'insussistenza del  fatto  di  licenziamento  per  motivo  oggettivo
connesso ad una ragione c.d. "economica" deve avere per condurre alla
reintegra. 
    Tale questione non veniva proposta con l'ordinanza precedente  (7
febbraio 2019) e, pertanto, puo' (deve, non ritenendosi la  questione
manifestamente infondata) essere sollevata in questa  ulteriore  sede
incidentale. 
2 - L'oggetto del giudizio di costituzionalita': la norma. 
    L'oggetto dell'ordinanza  di  rimessione  e'  l'attuale  versione
dell'art. 18, 7° comma, legge n. 300/1970. 
    La norma prevede che il giudice  «applica  altresi'  la  predetta
disciplina [ossia quella di cui al 4° comma dell'art.  18,  ossia  la
tutela reale attenuata] nell'ipotesi  in  cui  accerti  la  manifesta
insussistenza  del  fatto  posto  a  base   del   licenziamento   per
giustificato motivo oggettivo. Nelle altre ipotesi in cui accerta che
non ricorrono  gli  estremi  del  predetto  giustificato  motivo,  il
giudice applica la disciplina di cui al quinto comma». 
3 - I parametri. 
    Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in  contrasto  con
alcuni parametri  costituzionali.  In  particolare  si  tratta  delle
seguenti disposizioni: 
      art. 3, 1° comma Cost.; 
      articoli 1, 4, 35 Cost.; 
      art. 3, 2° comma Cost.; 
      art. 24 Cost. 
4 - La questione. 
    Si dubita della  legittimita'  costituzionale  dell'art.  18,  7°
comma, legge n. 300/1970 laddove prevede che, in ipotesi  in  cui  il
giudice accerti l'insussistenza di un fatto posto a fondamento di  un
licenziamento per G.M.O. "economico", non debba sempre  applicare  la
tutela reintegratoria (come fa quando  accerta  l'inesistenza  di  un
fatto  soggettivo  di  licenziamento,  ma   anche   in   materia   di
licenziamenti collettivi), dovendo ulteriormente andare a distinguere
l'ipotesi in cui l'insussistenza in  questione  e'  manifesta  (nella
quale  -  ora  -  deve  applicare  la  tutela  in  forma  specifica),
dall'ipotesi in cui l'insussistenza e' "non manifesta",  nella  quale
applica solo la tutela monetaria del 5° comma, senza reintegra. 
    La  questione  si  pone  con   riferimento   a   numerose   norme
costituzionali. 
    Il fulcro della questione ruota  attorno  all'art.  3,  1°  comma
della Costituzione, sotto vari  profili,  dal  mancato  rispetto  del
principio di uguaglianza (rispetto a due diverse ipotesi omogenee  in
cui il legislatore ha previsto la reintegra), al  cattivo  uso  della
discrezionalita'  normativa,  che  si  risolve  nel  conio   di   una
disciplina  irragionevole,  fondata  su  un   criterio   illogico   e
indeterminato, passando per la violazione del diritto di  azione  del
lavoratore, giungendosi sino all'ingiusto  bilanciamento  dei  valori
costituzionali  in  materia  e  alla  violazione  del   precetto   di
uguaglianza sostanziale di cui al 2° comma dell'art. 3. 
    Verranno individuati una serie di vizi  e  di  problematiche  che
scaturiscono dalla particella normativa "manifesta" contenuta nel  7°
comma dell'art. 18. 
    Le stesse sono invero numerose, ma soprattutto sono  strettamente
connesse tra loro, posto che l'inserimento di un elemento estraneo ad
una determinata tradizione giuridica in un corpo normativo  complesso
quale e' il diritto dei licenziamenti e' stato in grado di  apportare
una pluralita' di situazioni di aporia normativa, cosi'  determinando
nello stesso momento una serie di lesioni  ad  una  molteplicita'  di
valori e garanzie costituzionali. 
5 - Rilevanza della questione. 
    La questione e' rilevante in quanto la norma censurata  viene  in
diretta ed immediata applicazione nel caso di specie,  posto  che  il
giudizio a qua verte su un licenziamento per G.M.O. in  relazione  al
quale deve svolgersi (nella seconda fase del c.d.  rito  Fornero)  un
nuovo giudizio circa la  sussistenza  o  meno  del  fatto  di  G.M.O.
economico. 
    Valutazione  che,  tuttavia,  secondo  la  normativa  cosi'  come
applicata dal diritto vivente, non sarebbe sufficiente (in ipotesi di
accertata insussistenza del fatto) per concludere il giudizio con  la
reintegra (domanda principale del lavoratore),  essendo  chiamato  il
giudice ulteriormente a discernere quello che, in  tesi,  si  ritiene
essere l'indiscernibile. 
    La data di assunzione del ricorrente (anno 2001, anteriore  al  7
marzo 2015)  e  i  requisiti  dimensionali  dell'impresa  (con  circa
cinquanta dipendenti in media) importano l'applicazione dell'art. 18,
legge n. 300/1970 (che, infatti, non e' in contestazione tra le parti
e non e' stata oggetto di specifico motivo di opposizione). 
    Va, inoltre, evidenziato che, nel caso di specie, il  lavoratore,
all'esito della prima fase per lui vittoriosa del giudizio  ex  legge
n. 92/2012, art. 1, commi 47 ss., avendo egli ottenuto la  reintegra,
ha  esercitato  il  diritto  di  optare  per  l'indennizzo  monetario
(quindici mensilita'), trasformando la reintegra in  un  risarcimento
del danno. 
    Non si puo' qui ritenere che l'esercizio di tale  opzione  valga,
in senso contrario, a privare di rilevanza la questione nel  giudizio
a quo, posto che, comunque, anche la scelta tra l'applicazione  della
tutela del 5° e quella del 4° comma "indennitarizzata"  dalla  scelta
del lavoratore, conduce a conseguenze diverse  in  punto  di  quantum
risarcitorio e, dunque, conserva, comunque, una specifica e  decisiva
rilevanza. 
    Infatti, solo applicando il 4° comma  al  risarcimento  ordinario
andrebbe aggiunto  il  quid  pluris  di  risarcimento  proprio  della
monetizzazione della reintegra, altrimenti non spettante nell'ipotesi
del 5° comma. 
    Evidentemente, nemmeno  puo'  rilevare  in  senso  ostativo  alla
rilevanza della questione la circostanza che la tutela del  4°  comma
sia stata gia' concessa all'esito della prima fase, posto che l'esito
della fase che si conclude  con  sentenza  del  Tribunale  puo'  bene
essere di segno  opposto  rispetto  a  quella  che  si  conclude  con
ordinanza, potendo tale giudizio avere la stessa estensione oggettiva
del giudizio  di  prime  cure  ed  essendo  nello  stesso,  pertanto,
pienamente (ed anzi doverosamente) riesaminabile la  questione  della
scelta dell'applicazione del 4° o del 5° comma ai sensi del comma  7,
dell'art. 18. 
    Come  visto,  CFS  Europe  S.r.l.  ha  impugnato  la  statuizione
relativa al licenziamento per G.M.O., che residua quale  oggetto  del
giudizio a quo. 
    Nel ricorso in opposizione si mette grande enfasi difensiva sulla
graduazione  delle  tutele  in  caso   di   licenziamento   economico
illegittimo,   puntandosi    apertamente    sull'insussistenza    del
presupposto della "manifesta" insussistenza,  al  fine  di  escludere
"perlomeno" la tutela reintegratoria (pag. 34 del ricorso: «A maggior
ragione, dunque, questo dovra' valere nel caso in esame in  cui,  ben
diversamente dal contesto della sentenza commentata, il licenziamento
per g.m.o. intimato  da  CFS  al  Patrizi  e'  risultata  fondato  su
argomenti solidi e reali in cui il minimo che si possa  dire  e'  che
debba esserne esclusa la "manifesta insussistenza»"). 
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale,   pertanto,   e'
sicuramente rilevante nel giudizio a quo. 
    Sulla rilevanza della  questione,  infine,  non  puo'  che  farsi
riferimento  alle  argomentazioni  (nel   senso   dell'ammissibilita'
dell'incidente) di Corte costituzionale  sentenza  n.  59/2021,  resa
sempre in relazione allo stesso giudizio a quo. 
6 - L'impossibilita' di una interpretazione adeguatrice. 
    La norma di legge (7° comma) e' chiara e  inequivoca  sul  punto,
prevedendo espressamente la necessita' per il giudice di  compiere  -
ai fini della pronuncia della  tutela  reintegratoria  -una  verifica
ulteriore rispetto a quella di  insussistenza  del  fatto  di  G.M.O.
economico, ossia la verifica che tale insussistenza e' "manifesta". 
    Deve muoversi dalla premessa che il legislatore ha voluto  creare
(si tratta della peculiarita' della riforma dell'art. 18 di cui  alla
legge n. 92/2012) una serie di diversi rimedi per  diversi  vizi  del
licenziamento, prevedendo  varie  e  diversificate  tutele,  talvolta
reintegratorie,  talvolta  risarcitorie  e,   tra   queste,   diverse
graduazioni dell'entita' del risarcimento del danno. 
    E nel fare questo ha espressamente differenziato la tutela per il
G.M.O.  economico  da  quella  per  il   licenziamento   per   motivo
soggettivo. 
    Prevedendo, oltre  alla  abrogata  (in  quanto  incostituzionale)
"facolta'" meramente potestativa di reintegra, un ulteriore elemento,
pure esso essenzialmente potestativo (seppure declinato su  un  piano
apparentemente probatorio), rappresentato  dalla  necessita'  che  il
"fatto" risulti (secondo la valutazione del singolo giudice del  caso
concreto) non solo inesistente, ma anche "manifestamente" tale. 
    A  fronte  di  questo  dato  letterale  insopprimibile,  la  sola
interpretazione adeguatrice sarebbe una  interpretazione  chiaramente
abrogatrice di un  chiaro  precetto  normativo,  opzione  ermeneutica
incompatibile   con   il   modello   accentrato   di   verifica    di
costituzionalita' di cui alla suprema Carta. 
    La Corte di cassazione  ha  forgiato  una  interpretazione  della
norma de qua nel 2016 e da allora non la ha piu' abbandonata. 
    Nella lettura della  S.C.  tale  interpretazione  ha  un  duplice
portato. 
    La  prima  e'  quella  di  richiedere  un  "facile"  accertamento
dell'inesistenza del fatto per accedere alla reintegra. 
    La seconda e'  quella  che  realizza  uno  "spacchettamento"  del
"fatto" di giustificato motivo oggettivo, di guisa tale da  escludere
elementi di esso dal nucleo essenziale dello stesso la  cui  mancanza
sola e' suscettibile di determinarne la "manifesta" insussistenza. 
    Circa tale ultimo aspetto si veda la pronuncia n. 14021/2016 (che
cassava la sentenza d'appello), nella quale la S.C. motivava che  «Si
controverte  di  licenziamento  intimato  in  data  2  ottobre   2012
sottoposto alla disciplina di  "Tutela  del  lavoratore  in  caso  di
licenziamento illegittimo" prevista dall'art. 18 della legge  n.  300
del 1970 nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012». 
    Come  noto  tale  legge,  graduando  le   tutele   in   caso   di
licenziamento illegittimo, ha previsto - per quanto qui  interessa  -
al quarto comma del  novellato  art.  18  una  tutela  reintegratoria
definita "attenuata" (per distinguerla da quella piu' incisiva di cui
al  primo  comma),  in  base  alla  quale  il  giudice   annulla   il
licenziamento e condanna il datare di lavoro alla reintegrazione  del
lavoratore ed al pagamento di una indennita' risarcitoria  dl  giorno
del licenziamento sino a  quello  dell'effettiva  reintegrazione,  in
misura comunque non superiore a dodici mensilita';  al  quinto  comma
dello stesso articolo  e'  prevista,  invece,  una  tutela  meramente
indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto  di
lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il  datore
al  pagamento  di   una   indennita'   risarcitoria   onnicomprensiva
determinata tra un minimo  di  dodici  mensilita'  e  un  massimo  di
ventiquattro,  tenuto  conto  di  vari  parametri   contenuti   nella
disposizione medesima. 
    La linea di confine tra le due tutele in  caso  di  licenziamento
per  giustificato  motivo  oggettivo  illegittimo  e'  disegnata  dal
settimo comma dell'art. 18 novellato secondo la seguente formulazione
testuale per cui il giudice: «Puo'  altresi'  applicare  la  predetta
disciplina (ndr. quella di cui al quarto comma) nell'ipotesi  in  cui
accerti la  manifesta  insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre  ipotesi
in  cui  accerta  che  non  ricorrono  gli   estremi   del   predetto
giustificato motivo, il giudice  applica  la  disciplina  di  cui  al
quinto comma». 
    Da  piu'  parti  e'  stata  segnalata  l'incertezza  di   portata
applicativa cui puo' dar luogo la norma  citata  che  ricollega  alla
nozione di «manifesta  insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del
licenziamento  per   giustificato   motivo   oggettivo»   conseguenze
rilevanti  quali  il   riconoscimento   di   una   tutela   di   tipo
reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica. 
    Poiche' il giudice "puo'" attribuire la cd. tutela reintegratoria
attenuata tra tutte le "ipotesi in cui accerta che non ricorrono  gli
estremi" del giustificato motivo oggettivo esclusivamente nel caso in
cui il 'fatto posto a base del licenziamento" non solo non  sussista,
ma anche a condizione che detta "insussistenza" sia "manifesta",  non
pare dubitabile che l'intenzione del legislatore, pur  tradottasi  in
un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del
rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla
regola  della  tutela  indennitaria  in  materia   di   licenziamento
individuale per motivi economici. Cio' posto il Collegio  reputa  che
nella specie la Corte  di  Appello  abbia  erroneamente  sussunto  la
fattispecie concreta di  un  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo,  ritenuto  illegittimo  per  violazione  dei  criteri   di
correttezza e buona fede  nella  scelta  del  lavoratore,  nell'alveo
delle ipotesi residuali che per  legge  possono  dare  ingresso  alla
tutela reintegratoria. 
    Infatti  in   tal   caso   non   possono   dirsi   manifestamente
insussistenti  le   «ragioni   inerenti   all'attivita'   produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento  di  essa»,
di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, che hanno  determinato
la societa' a ridurre il personale sopprimendo un posto di lavoro tra
gli autisti;  anzi,  posta  come  effettiva  tale  esigenza,  poiche'
tuttavia essa riguardava posizioni lavorative omogenee  e  fungibili,
la societa' non ha rispettato, nell'individuazione del Mura  tra  gli
altri, il canone che le era imposto dall'art. 1175 del codice civile,
per cui tale ipotesi e' riconducibile  non  a  quella  peculiare  che
postala un connotato di particolare evidenza  nell'insussistenza  del
fatto posto a fondamento del recesso,  bensi'  a  quella  di  portata
generale per la quale e' sufficiente che «non ricorrano  gli  estremi
del  predetto  giustificato  motivo»   oggettivo,   con   conseguente
applicazione  della  tutela  indennitaria  di  cui  al  quinto  comma
dell'art. 18 modificato. 
    Ne'  appare  percorribile  la  strada  di   una   interpretazione
estensiva della disposizione contenuta nell'art. 5,  comma  3,  della
legge n. 223 del 1991, cosi' come sostituito dall'art. 1,  comma  46,
della legge n. 92 del 2012,  che  prevede  la  tutela  reintegratoria
attenuata in caso di violazione dei criteri di scelta nelle procedure
di licenziamento  collettivo.  Come  innanzi  chiarito,  infatti,  il
riferimento della  giurisprudenza  ai  criteri  legali  di  selezione
previsti dall'art. 5 della legge  n.  223  del  1991  serve  solo  ad
offrire uno standard idoneo  a  rispettare  l'art.  1175  del  codice
civile nel caso di  recesso  per  giustificato  motivo  oggettivo  di
personale  in  condizione  di  fungibilita'  di  mansioni,   ma   non
rappresenta direttamente la fonte  di  disciplina  del  licenziamento
individuale plurimo, per cui ad esso non  e'  applicabile  l'apparato
sanzionatorio stabilito per i licenziamenti collettivi». 
    Orientamento, come si vedra' nella parte dedicata all'analisi del
criterio in questione, confermato a piu' riprese dalle sentenze della
S.C. 
    Come gia' sopra accennato, sotto la prospettiva piu' propriamente
probatoria,   la   S.C.    richiede    un    "facile"    accertamento
dell'inesistenza del fatto per accedere alla reintegra (e in caso  di
mancato raggiungimento di tale requisito,  la  domanda  di  reintegra
viene respinta, nonostante  la  prova  raggiunta  -  anche  declinata
secondo il mancato  assolvimento  dell'onere  della  prova  datoriale
circa  la  sussistenza  del  fatto  oggettivo  di   licenziamento   -
dell'inesistenza del fatto). 
    Infatti: 
      «In caso di licenziamento per sopravvenuta  inidoneita'  fisica
del lavoratore, il tema della ricollocazione del prestatore in ambito
aziendale rientra nel cd. obbligo di  "repêchage",  la  cui  verifica
incide sul requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto a
base del licenziamento", previsto dall'art. 18,  comma  7,  st.  lav.
novellato, da intendere come una evidente e  facilmente  verificabile
assenza dei presupposti legittimanti il recesso, che ne  consenta  di
apprezzare la  chiara  pretestuosita',  con  accertamento  di  merito
incensurabile, in  quanto  tale,  in  sede  di  legittimita'.  (Nella
specie, la S.C. ha ritenuto immune  da  censure  la  decisione  della
Corte territoriale di riconoscere la tutela reintegratoria  attenuata
in un caso in cui il lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo, aveva
accettato di svolgere le mansioni inferiori  assegnategli,  sia  pure
contestando l'inquadramento applicato)» (Cass. n. 298937/2019); 
      «6. Cio' posto, si osserva che l'indagine, che deve compiere il
giudice del merito al fine di stabilire se una  data  fattispecie  di
licenziamento  per  giustificato  motivo   oggettivo   sia   o   meno
caratterizzata dalla "manifesta insussistenza del fatto", si  compone
di   due   momenti   concettualmente    distinti    ma    coesistenti
nell'unitarieta' dell'accertamento giudiziale: nel senso che, con  il
primo di essi, che attiene  alla  struttura  tipica  della  specifica
fattispecie espulsiva, il giudice e' chiamato ad accertare il "fatto"
del  licenziamento  in  ciascuno  degli  elementi  che  concorrono  a
delinearlo, e pertanto, a procedere ad un'opera di ricognizione tanto
della effettiva sussistenza di  un  processo  di  riorganizzazione  o
riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del nesso  di
causalita' fra tale processo e la perdita  del  posto  di  lavoro  ed
inoltre dell'impossibilita' per il datore di lavoro di ricollocare il
proprio dipendente nell'impresa riorganizzata e ristrutturata  (Cass.
n. 24882/2017 e numerose conformi); con il  secondo,  il  giudice  e'
chiamato  ad  una  penetrante  analisi  e  valutazione  di  tutte  le
circostanze del caso concreto,  quale  unico  mezzo  per  determinare
l'eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo  esame  all'area
di  una  insussistenza  che  deve  porsi  come  "manifesta"  e  cioe'
contraddistinta da tratti  che  ne  segnalano,  in  modo  palese,  la
peculiare difformita' rispetto alla mera assenza dei presupposti  del
licenziamento» (Cass. n. 7167/2019); 
      «L'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo  oggettivo
insussistente trova infatti inquadramento, rispetto  ai  rapporti  di
lavoro cui trova applicazione il vigente testo dell'art. 18, legge n.
300/1970, in  due  diverse  fattispecie.  Esse  sono  caratterizzate,
l'una, dalla semplice non  ricorrenza  degli  «estremi  del  predetto
giustificato  motivo  obiettivo»   e,   l'altra,   dalla   «manifesta
insussistenza del fatto posto  a  base  del  licenziamento»,  che  ha
l'effetto, ove ricorrente, di rimettere al giudice  la  decisione  in
ordine all'applicazione della tutela reintegratoria di  cui  all'art.
18, comma  4  cit.,  sulla  base  di  una  valutazione  discrezionale
(«puo'») da svolgere (Cass. 2 maggio 2018, n.  10435)  in  forza  dei
principi generali  in  tema  di  tutela  in  forma  specifica  e  non
eccessiva onerosita' della stessa (art. 2058 del  codice  civile)  ed
applicandosi altrimenti, pur nel  palesarsi  del  vizio  di  maggiore
gravita', la sola tutela indennitaria di cui al comma 5. Il  predetto
quadro normativo e' stato del tutto ignorato dalla Corte d'Appello  e
da cio' deriva l'accoglimento dei motivi ora in esame, con rimessione
al giudice del rinvio della corrispondente valutazione differenziale.
Tale valutazione, completandosi il ragionamento sopra svolto,  dovra'
peraltro muovere dalla ragione di  illegittimita'  del  licenziamento
consistente nell'insussistenza  dei  motivi  addotti  con  l'atto  di
recesso, in quanto come si  e'  detto  giuridicamente  prevalente  ed
assorbente, mentre ogni ulteriore profilo  fattuale  non  potra'  che
rilevare quale mero elemento  di  contesto,  al  fine  di  verificare
complessivamente, con accertamento demandato al giudice  del  merito,
se ricorrano i presupposti di  «evidente  e  facilmente  verificabile
assenza  dei  presupposti  giustificativi  del  licenziamento»  e  di
«chiara pretestuosita' del recesso» (cosi' sempre  Cass.  10435/2018)
che  consentano   eventualmente   di   addivenire,   subordinatamente
all'ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla  non  eccessiva
onerosita'  del  rimedio,   alla   tutela   (anche)   reintegratoria;
applicandosi altrimenti la sola tutela risarcitoria di cui al comma 5
del citato art.  18»  (Cass.  n.  2930/2019  che  cassa  la  sentenza
d'appello); 
      «I  licenziamenti,  secondo  la   Corte   distrettuale,   erano
piuttosto illegittimi, in difetto di prova  della  sussistenza  della
ragione posta a  base  degli  stessi  (id  est:  l'impossibilita'  di
reperire  alcuna  missione  lavorativa  compatibile  con  il  livello
professionale); in proposito, i giudici di merito osservavano come la
societa' avesse proceduto  ad  assunzioni  a  termine  per  ricoprire
posizioni  lavorative,  astrattamente  compatibili  con  quelle   dei
lavoratori  espulsi,   delle   quali   non   aveva   offerto   valida
giustificazione;  per  effetto  di  tale   accertamento,   conseguiva
l'applicazione della disciplina di cui al comma 5 dell'art. 18  cit.,
dovendosi escludere la «manifesta infondatezza»  del  fatto  posto  a
base  del  licenziamento,  in  assenza  di  una  prova  positiva   di
insussistenza del giustificato motivo oggettivo... Il secondo  motivo
e' infondato. 
    La Corte di Appello ha correttamente applicato l'art. 18, commi 5
e 7, della legge n.  300  del  1970,  secondo  l'interpretazione  che
questa Corte ha, di recente, offerto. Con la pronuncia n.  10435  del
2018 e' stato chiarito che «In tema di licenziamento per giustificato
motivo  oggettivo,  la  verifica  del  requisito   della   «manifesta
insussistenza del fatto posto  a  base  del  licenziamento»  previsto
dall'art. 18, comma 7, st. lav., come novellato dalla legge n. 92 del
2012, concerne entrambi i presupposti di legittimita' del recesso  e,
quindi,   sia   le   ragioni   inerenti   all'attivita'   produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia
l'impossibilita'  di   ricollocare   altrove   il   lavoratore   (cd.
«repechage»); fermo l'onere della  prova  che  grava  sul  datore  di
lavoro ai  sensi  dell'art.  5  della  legge  n.  604  del  1966,  la
«manifesta insussistenza» va riferita ad una evidente,  e  facilmente
verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti  presupposti,
che consenta di apprezzare la chiara pretestuosita' del recesso»  Per
quanto piu' di rilievo  nella  fattispecie  di  causa,  la  Corte  ha
ritenuto applicabile  il  regime  indennitario  in  presenza  di  una
«insufficienza probatoria» concernente l'adempimento dell'obbligo  di
repechage (cfr. in motivazione, Cass. n. 10435 cit., paragrafo 8).  A
detti principi, cui occorre assicurare continuita', si e' attenuta la
Corte di appello. I giudici di merito hanno ritenuto non raggiunta la
prova della sussistenza della ragione organizzativa posta a base  del
licenziamento e dunque del presupposto  che,  unitamente  all'obbligo
del   repechage,   integra   il   giustificato    motivo    oggettivo
(impossibilita' di  inviare  in  missione  i  lavoratori);  la  Corte
territoriale ha osservato  che,  dalle  risultanze  istruttorie,  era
emersa,  nell'arco  temporale  rilevante  ai  fini   di   causa,   la
stipulazione di plurimi contratti a termine per posizioni lavorative,
astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi,  di  cui
il datore di lavoro non  aveva  offerto  valida  giustificazione;  al
contempo, ha considerato, anche, «la mancanza di (un) interesse della
parte datoriale a mantenere in disponibilita' i  lavoratori  (per  un
lungo)  periodo  invece  che  collocarli  presso  gli  utilizzatori»,
pervenendo ad un giudizio conclusivo di insufficienza probatoria.  In
assenza della prova (positiva e/o negativa) del fatto controverso, la
Corte di Appello ha applicato la regola di giudizio basata sull'onere
della prova, individuando come  soccombente,  ai  sensi  dell'art.  5
della legge n. 604 del 1966, il datore di lavoro; ha,  coerentemente,
ritenuto  illegittimo  il  recesso   ma,   sul   piano   del   regime
sanzionatorio, ha applicato la  tutela  risarcitoria,  escludendo  la
«manifesta insussistenza» del fatto posto a base  del  licenziamento»
(Cass. n. 181/2019). 
      «Deve  infatti  rilevarsi  che   la   sentenza   impugnata   ha
erroneamente,   automaticamente   e   con   motivazione   apodittica,
equiparato la ritenuta  carenza  di  prova  in  ordine  alle  ragioni
oggettive  poste  a  base  del   licenziamento   con   la   manifesta
insussistenza delle stesse, in contrasto con la lettera della legge e
la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex aliis, Cass. n. 10435\18,
Cass. n. 17528\17, Cass. n.  14021\16)  che  ha  evidenziato  che  la
verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto
a base del licenziamento", di cui al comma 7 dell'art.  18,  concerne
entrambi i presupposti di legittimita' del recesso  per  giustificato
motivo oggettivo e, quindi, sia  le  ragioni  inerenti  all'attivita'
produttiva, l'organizzazione del lavoro e il  regolare  funzionamento
di essa, sia l'impossibilita' di ricollocare altrove  il  lavoratore.
La "manifesta insussistenza", in  particolare,  va  riferita  ad  una
chiara, evidente e facilmente  verificabile  (sul  piano  probatorio)
assenza  dei  suddetti  presupposti,  mentre  la  sentenza  impugnata
difetta di una adeguata indagine al riguardo»  (Cass.  n.  16702/2018
che cassa la sentenza d'appello); 
      «Questa Corte ha gia' osservato che la "manifesta insussistenza
del fatto posto a base del licenziamento", di cui all'art. 18,  comma
7 st. lav. come modificato dalla legge n. 92 del 2012 art.  1,  comma
42, e' da intendersi come chiara, evidente e facilmente  verificabile
assenza dei presupposti di legittimita' del  recesso,  cui  non  puo'
essere equiparata una prova meramente insufficiente,  ovvero,  e'  il
caso  si  precisarlo,  l'ipotesi  in   cui   tale   requisito   possa
semplicemente evincersi da altri elementi di per se' opinabili o  non
univoci, come nel caso di specie il ricorso ad ore di  straordinario,
normalmente legato ad esigenze contingenti (e dalla Corte  di  merito
accertate, peraltro,  come  riferibili  al  monte  ore  di  due  soli
lavoratori), cfr. Cass. n. 16702/18, Cass. n. 181/19» (6083/2021). 
    Dunque, la norma viene  costantemente  interpretata  dal  diritto
vivente come esistente e come avente un  contenuto  determinato  (che
sara'  analizzato  nell'esposizione  dei  singoli  ritenuti  vizi  di
costituzionalita'), che  si  ritiene  incompatibile  con  i  principi
costituzionali piu' sopra enunciati. 
7 - La non manifesta infondatezza della questione. 
    Occorre premettere il ragionamento di partenza per ogni questione
relativa  al  sindacato  sulle  tecniche  di  tutela   disposte   dal
legislatore  contro   i   licenziamenti   illegittimi,   cosi'   come
sintetizzato nella motivazione di Corte Cost. n. 59/2021, ossia: 
      «8. - Sul diritto al lavoro (art.  4,  primo  comma,  Cost.)  e
sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35
Cost.), questa Corte ha fondato, gia' in epoca risalente,  l'esigenza
di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le
fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965,  punto  4  del
Considerato in diritto). 
    L'attuazione del diritto «a  non  essere  estromesso  dal  lavoro
ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto  9
del Considerato in diritto) e' stata ricondotta,  anche  di  recente,
nell'alveo delle valutazioni discrezionali  del  legislatore,  quanto
alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza  n.  194  del
2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione  della
diversa  gravita'  dei  vizi  e  di  altri  elementi   oggettivamente
apprezzabili come, per esempio, le  dimensioni  dell'impresa.  Si  e'
anche  rimarcato  che  la  reintegrazione  non  rappresenta  «l'unico
possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali  (sentenza
n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto). 
    In un assetto integrato di tutele, in cui  alla  Costituzione  si
affiancano le fonti  sovranazionali  (art.  24  della  Carta  sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio  1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999,  n.  30)  e
dell'Unione europea (art. 30 della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea - CDFUE -, proclamata a Nizza il 7 dicembre  2000
e adattata a Strasburgo il 12  dicembre  2007),  «molteplici  possono
essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per  il
lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza  n.  254
del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto). 
    Nell'apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona  del
lavoratore, il legislatore, pur nell'ampio margine  di  apprezzamento
che gli compete, e' vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza
e di ragionevolezza». 
    Tali principi -  uguaglianza  e  ragionevolezza  -  ma  non  solo
questi, si ritiene siano stati violati dal legislatore del  2012  con
l'introduzione del criterio della "manifesta" insussistenza. 
    In particolare, Corte cost. n. 51/2021 (chiamata  a  pronunciarsi
sulla sola questione della discrezionalita' giudiziale - "puo'" -  di
disporre del rimedio in forma specifica nel  licenziamento  economico
in caso di insussistenza del fatto) ha individuato, quale primo vizio
censurato, una illegittima differenza di disciplina, a fronte di  una
parita'  di  vizio  ("insussistenza  del   fatto"),   rispetto   alla
disciplina  della  reintegra   obbligatoria   prevista   nel   motivo
soggettivo. 
    Secondo la Corte «In un sistema che, per consapevole  scelta  del
legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell'insussistenza
del fatto e a questo presupposto collega l'applicazione della  tutela
reintegratoria, si rivela  disarmonico  e  lesivo  del  principio  di
eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione
per i soli licenziamenti economici, a  fronte  di  una  inconsistenza
manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di  un  vizio
di  piu'  accentuata  gravita'  rispetto  all'insussistenza  pura   e
semplice del fatto. 
    Le peculiarita' delle fattispecie di licenziamento, che  evocano,
nella  giusta  causa  e  nel  giustificato  motivo   soggettivo,   la
violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel
giustificato  motivo  oggettivo,  scelte  tecniche  e   organizzative
dell'imprenditore, non legittimano una diversificazione  quanto  alla
obbligatorieta' o facoltativita' della reintegrazione, una volta  che
si reputi l'insussistenza del  fatto  meritevole  del  rimedio  della
reintegrazione e che, per il  licenziamento  economico,  si  richieda
finanche il piu' pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta». 
    Tale parificazione circa l'obbligatorieta' del rimedio  (il  puo'
applicare diventa applica), mantenendo  la  norma  invariata  per  il
resto, si ritiene non sia stata determinata dalla circostanza che nel
motivo economico vige la regola della "manifesta"  insussistenza  del
fatto,   quanto   piuttosto   dalla    mancata    impugnazione,    in
quell'occasione, anche di tale  particella  normativa  da  parte  del
giudice a quo. 
    Dunque,  la  parificazione  e'  stata  parziale   ed   e'   stata
riconosciuta "nonostante" la previsione (che  rimane  quale  elemento
distintivo) del presupposto della manifesta infondatezza del fatto. 
    Si ritiene che le  ragioni  del  ragionamento  egualitario  della
Consulta  debbano  trovare  applicazione  anche   circa   l'ulteriore
elemento  discriminante  il  regime  di  tutele   del   licenziamento
soggettivo rispetto al licenziamento per motivo economico. 
    Oltre a quelle ragioni di uguaglianza, poi, ve ne sono altre. 
    Di  seguito  si   tentera'   di   illustrarle   singolarmente   e
compiutamente. 
1° Vizio: Contrasto con art. 3, 1°  comma  Cost.  per  ingiustificata
disparita' di trattamento tra l'ipotesi del licenziamento per  motivo
soggettivo e quella del G.M.O. economico. 
    Tertium comparationis: 
      art. 18, 4° comma Statuto dei lavoratori, ossia  la  disciplina
prevista per il licenziamento per giusta causa. 
    Ai sensi del 4° comma dell'art. 18: «Il giudice, nelle ipotesi in
cui accerta che non ricorrono gli  estremi  del  giustificato  motivo
soggettivo o della giusta causa addotti dal  datore  di  lavoro,  per
insussistenza del fatto contestato ovvero perche'  il  fatto  rientra
tra le condotte punibili con una  sanzione  conservativa  sulla  base
delle  previsioni  dei  contratti  collettivi   ovvero   dei   codici
disciplinari applicabili, annulla  il  licenziamento  e  condanna  il
datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro  di  cui  al
primo comma e al pagamento di un'indennita' risarcitoria  commisurata
all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
sino  a  quello  dell'effettiva  reintegrazione,  dedotto  quanto  il
lavoratore  ha  percepito,  nel  periodo  di  estromissione,  per  lo
svolgimento di altre attivita'  lavorative,  nonche'  quanto  avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una  nuova
occupazione. In ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria  non
puo' essere superiore a dodici mensilita' della retribuzione  globale
di fatto. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', al  versamento
dei  contributi  previdenziali  e  assistenziali   dal   giorno   dei
licenziamento  fino  a   quello   della   effettiva   reintegrazione,
maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione  di
sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al
differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe
stata  maturata  nel  rapporto  di  lavoro  risolto  dall'illegittimo
licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello
svolgimento di altre  attivita'  lavorative.  In  quest'ultimo  caso,
qualora i contributi afferiscano  ad  altra  gestione  previdenziale,
essi   sono   imputati   d'ufficio   alla   gestione   corrispondente
all'attivita'  lavorativa  svolta  dal  dipendente  licenziato,   con
addebito  dei  relativi  costi  al  datore  di  lavoro.   A   seguito
dell'ordine di reintegrazione,  il  rapporto  di  lavoro  si  intende
risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro  trenta
giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in  cui  abbia
richiesto l'indennita' sostitutiva della reintegrazione nel posto  di
lavoro ai sensi del terzo comma». 
    Tale disposizione va,  dunque,  confrontata  con  quella  qui  in
esame, ai sensi della quale il giudice "applica altresi' la  predetta
disciplina [ossia quella di cui al 4° comma dell'art.  18,  ossia  la
tutela reale attenuata] nell'ipotesi  in  cui  accerti  la  manifesta
insussistenza  del  fatto  posto  a  base   del   licenziamento   per
giustificato motivo oggettivo». 
    Il   confronto   permette   di   evidenziare    un    trattamento
irragionevolmente discriminatorio tra situazioni del tutto  omogenee,
per lo meno sotto  i  profili  rilevanti  ai  fini  della  tutela  da
assegnare loro. 
    Le due fattispecie qui in confronto  (4°  e  7°  comma  art.  18)
riguardano in entrambi i  casi  fattispecie  estintive  per  volonta'
datoriale. 
    Si  tratta  di  due   regimi   sanzionatori   entrambi   relativi
all'ipotesi di accertamento in giudizio  dell'inesistenza  del  fatto
posto a fondamento del licenziamento (e, dunque,  il  massimo  vizio,
nullita' in disparte). 
    Dunque, due fattispecie di licenziamento  in  ordine  alle  quali
(viene accertato da parte del giudice che ne) manca il fondamento, la
ragione giustificativa, in modo pieno e netto, secondo  le  ordinarie
regole civilistiche (e lavoristiche) in materia di onere della  prova
(che grava sulla parte che sostiene l'esistenza di  un  fatto)  e  di
metro di valutazione della stessa  (preponderanza  probatoria,  ossia
c.d. «piu' probabile che non»). 
    Tuttavia, mentre nella giusta causa cio' e' sufficiente  (secondo
il 4° comma dell'art. 18) per la declaratoria di  annullamento  e  la
reintegrazione, nel giustificato motivo oggettivo  economico  (grazie
al 7° comma dell'art. 18) non e' cosi'. 
    Occorre, come indicato dalla  S.C.,  procedere  ad  un  ulteriore
scrutinio, al fine di verificare che  tale  insussistenza  sia  anche
manifesta, per (potere, ora) dovere procedere alla  reintegra.  E  in
caso di mancato raggiungimento del convincimento del giudice circa la
"manifesta" insussistenza, la soccombenza sulla domanda di  reintegra
andra' in capo al lavoratore. 
    Cosi facendo la disposizione introduce (ai fini dell'accoglimento
della tutela  in  forma  specifica)  un  duplice  effetto  eccentrico
rispetto alle regole generali: altera  il  metro  di  giudizio  e  di
valutazione delle prove che il giudice deve applicare (in luogo della
preponderanza probatoria si richiede una "manifesta" infondatezza)  e
allo stesso tempo inverte anche  l'onere  della  prova  (ponendolo  a
carico del lavoratore) circa i fatti che devono  essere  provati  per
accedere alla reintegra. 
    Come detto, se il metro di convincimento  "aggravato"  non  viene
raggiunto soccombe sul punto (reintegra) il lavoratore, a carico  del
quale, quindi, e' indubbio che l'art. 18, 7° comma addossi  un  onere
della prova sul punto. 
    Cio' va a distinguere profondamente la  disciplina  della  tutela
nei licenziamenti per motivo soggettivo da quella  dei  licenziamenti
per G.M.O. economico. 
    L'effetto   pratico   e'   molto   semplice:    il    legislatore
(nell'interpretazione data dal diritto vivente) ha creato una zona in
cui, ex post rispetto al fatto, pur essendo quest'ultimo ritenuto dal
giudice inesistente, non spetta la tutela reale e, dunque,  una  zona
in cui ad un accertamento positivo e completo - secondo, come  detto,
il  criterio  civilistico  della  preponderanza   probatoria   -   di
infondatezza del licenziamento per non essere sussistente il  "fatto"
fondante lo stesso, non consegue tuttavia la reintegra. 
    Con onere della prova di questo quid pluris (per giunta su di  un
fatto negativo nonche'  certamente  non  prossimo  alla  persona  del
lavoratore)  in  capo  al  licenziato  (che   deve   dunque   provare
"positivamente"  che  il  fatto   -   gia'   ritenuto   dal   giudice
insussistente  -  e'  manifestamente  inesistente  per  ottenere   la
reintegra). 
    Non e' dato, per quanto lo si cerchi, comprendere  il  fondamento
logico-giuridico di tale diverso  trattamento  (oltre  che,  come  si
dira' subito oltre, del criterio in se'). 
    Il fondamento non e' nella graduazione delle tutele  in  funzione
della "gravita'" del  vizio  (architrave  concettuale  della  riforma
prima del 2012, poi del 2015), posto che la violazione qui e'  sempre
la stessa, ossia  la  processualmente  accertata  "insussistenza  del
fatto" e che il vizio  e'  quello  massimo,  escluse  le  ipotesi  di
nullita'. 
    Il fondamento non pare ravvisarsi nell'art. 41, 1°  comma  Cost.,
gia' garantito (nel bilanciamento con i  diritti  del  lavoratore  ex
articoli 1, 4, 35 e 41, 2° comma  Cost.)  dall'ordinario  assetto  in
materia di recesso. 
    Infatti, 
    Il giudice, all'esito del consueto e collaudato giudizio di fatto
(deciso con il metro della preponderanza probatoria)  e  di  diritto,
non  si  puo'  certamente  pronunciare  sul   merito   delle   scelte
imprenditoriali  (in  tema  di  "clausole  generali"  in  materia  di
"recesso",   infatti,   «il   controllo   giudiziale   e'    limitato
esclusivamente, in conformita' ai principi generali dell'ordinamento,
all'accertamento del presupposto di legittimita' e  non  puo'  essere
esteso  al  sindacato   di   merito   sulle   valutazioni   tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore  di  lavoro  o  al
committente»: art. 30, 1° comma, legge n.  183/2010),  e  questo  con
verifica in tutti e tre i  (a  questo  riguardo)  gradi  di  giudizio
(posto che «L'inosservanza delle disposizioni di  cui  al  precedente
periodo,  in  materia  di  limiti  al  sindacato  di   merito   sulle
valutazioni tecniche, organizzative e  produttive  che  competono  al
datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione  per  violazione
di norme di diritto»: art. 1, comma 43, legge n. 92/2012 che aggiunge
un periodo all'art. 30, comma 1, legge n. 183/2010); 
    Il giudice nemmeno puo' valutare le  ragioni  ultime  che  stanno
dietro le scelte organizzative  dell'impresa  e  che  conducono  alla
soppressione di un determinato posto di  lavoro  (anche  qui  diritto
vivente a partire da Cass. n. 25201/2016: «Ai fini della legittimita'
del licenziamento  individuale  per  giustificato  motivo  oggettivo,
l'andamento  economico  negativo  dell'azienda  non  costituisce   un
presupposto fattuale che il datore di  lavoro  debba  necessariamente
provare, essendo sufficiente che le  ragioni  inerenti  all'attivita'
produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle  dirette
ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un  incremento  della
redditivita',  determinino  un   effettivo   mutamento   dell'assetto
organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata  posizione
lavorativa; ove, pero', il recesso sia motivato dall'esigenza di  far
fronte a situazioni economiche sfavorevoli o  a  spese  di  carattere
straordinario,  ed  in  giudizio  se   ne   accerti,   in   concreto,
l'inesistenza, il  licenziamento  risultera'  ingiustificato  per  la
mancanza di veridicita' e la pretestuosita' della causale addotta»); 
    Il giudice (ai fini della reintegra)  deve  lasciare  inoltre  in
disparte ogni valutazione in termini di  proporzione  o  sproporzione
del licenziamento rispetto al "fatto" (questo limitatamente ai motivi
soggettivi che, come si vedra' subito oltre, non sono  gli  unici  in
cui rilevano gli aspetti della soggettivita' e piu' in generale della
personalita' del lavoratore). 
    L'effetto  pratico  di  tale  disposizione  e'  quello  di  porre
concreti ostacoli processuali alla reintegra, sulla base non gia'  di
un criterio oggettivo, ma in via casuale,  conferendo  insondabili  e
insindacabili poteri discrezionali (qui mascherati da criterio pseudo
probatorio) al giudice chiamato a valutare il caso concreto. 
    Uno  di  tali   ostacoli   era   rappresentato   dalla   facolta'
discrezionale che aveva il giudice  di  potere  decidere  -  anche  a
fronte di un fatto di G.M.O.  insussistente  ed  anzi  addirittura  a
fronte della dimostrazione della manifesta insussistenza dello stesso
- di non reintegrare il lavoratore, facolta'  che  e'  stata  espunta
dall'ordinamento da  Corte  costituzionale  n.  59/2021.  L'aggettivo
"manifesta" si  muove  sullo  stesso  piano,  ossia  rimette  ad  una
valutazione soggettiva totalmente discrezionale (questa  volta,  come
detto,  dietro  una  maschera  pseudo  probatoria),   individuale   e
irripetibile del singolo giudice di merito una ulteriore barriera, un
ulteriore ostacolo alla reintegra, una volta che gia' il  giudice  ha
accertato che il fatto non sussiste e che, dunque, dovrebbe procedere
alla reintegra (come fa con i motivi soggettivi inesistenti). 
    Pseudo probatorio perche' l'aggettivo "manifesta" non  da'  alcun
riferimento concreto e specifico, alcun  metro  di  giudizio,  alcuna
misura,  lasciando  una  discrezionalita'  integrale   (che   e'   un
disvalore,  a  differenza  della  discrezionalita'   che   si   muove
all'interno di confini ragionevolmente  delimitati  dal  legislatore,
che  e'  al  contrario  il  valore  aggiunto   della   giurisdizione)
scollegata da una regola probatoria predeterminata. 
    Questo  perche'  -  proseguendosi  nella  metafora  impiegata  da
dottrina e giurisprudenza a tini descrittivi del criterio in esame  -
cio' che e' "torto marcio" per un determinato interprete, magari  per
un altro e' solo un "torto maturo" o addirittura  un  "torto  acerbo"
(ma attenzione: sempre di torto si tratta). 
    Tutto cio', come  detto,  a  dimostrazione  dell'inesistenza  del
fatto gia' raggiunta  secondo  le  ordinarie  regole  probatorie  che
valgono nel diritto civile e nel  lavoro  in  tutti  gli  altri  casi
(insussistenza non manifesta del fatto  che  qui  conduce  alla  sola
tutela indennitaria). 
    Non puo' valere  in  senso  contrario  osservare  che  la  tutela
reintegratoria non e' una strada obbligata per il legislatore, che e'
una scelta rimessa alla discrezionalita'  (peraltro  come  detto  non
illimitata) di quest'ultimo e non gia' impostagli dalla Carta. 
    Qui, infatti, la scelta e' stata fatta ed  e'  per  la  reintegra
(Corte Cost. n. 59/2021: «... Tali elementi comuni  alle  fattispecie
di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati  dallo
stesso  legislatore  nella  previsione   di   una   identica   tutela
reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile  la
configurazione  di  un  rimedio  meramente  facoltativo  per  i  soli
licenziamenti economici»). 
    Non si tratta di rivendicare una tutela in forma specifica in una
ipotesi  esclusa  dal  legislatore  (p.e.  datori  sottosoglia,  p.e.
ipotesi di recessi ancora ad nutum). 
    Si tratta solo di rimuovere da una ipotesi in cui la reintegra e'
gia' stata ritenuta la forma di tutela ordinaria  (insussistenza  del
fatto, tanto nel  licenziamento  per  motivo  soggettivo,  quanto  in
quello oggettivo) un requisito ulteriore che appare  illegittimo  per
una pluralita' di motivi. 
    Dunque, alla reintegra si frappone, nel caso di G.M.O.,  solo  un
ostacolo  discriminatorio  rispetto  alla  giusta   causa,   con   l'
introduzione di un meccanismo pseudo probatorio che, peraltro e  come
si  vedra'  subito  oltre,  integra  una  disciplina  irrazionale   e
intrinsecamente illogica. 
    Dunque, da questo punto  di  vista,  si  ha  una  ingiustificata,
irrazionale ed illegittima differenziazione tra l'ipotesi  dei  fatti
soggettivi e quella del G.M.O. economico. 
    Nemmeno basta ad evitare il confronto (e dunque ad escludere  che
all'omogeneita' delle fattispecie debba conseguire omogeneita'  delle
tutele) tra motivo soggettivo e motivo  economico  sostenere  che  si
tratta di due motivi di recesso strutturalmente diversi. 
    Questo e' sicuramente vero - oltre  che  nella  astratta  lettera
della legge -  di  fronte  a  due  motivi  di  recesso  positivamente
accertati come sussistenti  all'esito  di  un  completo  procedimento
giurisdizionale: in tale caso correttamente gli stessi producono  gli
effetti giuridici che l'ordinamento riconnette loro (p.e.  la  giusta
causa esclude l'obbligo di preavviso). 
    Ma a fronte dell'inesistenza  accertata  ad  opera  del  giudice,
distinguere ancora tra motivo soggettivo ed oggettivo, soprattutto al
fine di differenziarne le tutele (e in specie la reintegra),  risulta
ingiustificato e discriminatorio. 
    Sarebbe come volere sostenere  che,  nonostante  un  accertamento
giudiziale  dell'inesistenza  di  una  ipotesi  di  giusta  causa   -
sussistendo al contrario un giustificato motivo soggettivo - comunque
non  spetti  l'indennita'  di  mancato  preavviso,  solo  perche'  la
qualificazione datoriale  di  irrogazione  era  quella  della  giusta
causa. 
    Cio' equivarrebbe a individuare  un'area  di  intangibilita',  ad
opera della cognizione  e  decisione  del  giudice,  della  qualifica
giuridica di un atto negoziale privato, che pure si accerti essere in
contrasto con il dato reale. 
    Se i "fatti" - siano essi giuste cause o G.M.O. - non sussistono,
la tutela deve essere la stessa, attribuendosi altrimenti  al  datore
di lavoro la insindacabile facolta', nel momento  in  cui  decide  su
quali  fatti  basare  l'atto  espulsivo,  ma  soprattutto   su   come
qualificare gli stessi, di condizionare, anche  ex  post,  la  tutela
spettante al lavoratore. 
    Tra l'altro, molto spesso, nella pratica i  fatti  soggettivi  ed
oggettivi sono tutt'altro che cosi' nettamente separati. 
    Ad anzi gli aspetti soggettivi  rilevano  anche  nell'ambito  dei
"fatti" di G.M.O., cosi come gli aspetti organizzativi rilevano anche
in tema di giusta causa. 
    A tale ultimo  riguardo  si  consideri,  infatti,  come  anche  i
profili soggettivi  del  licenziamento  riguardano  la  funzionalita'
dell'organizzazione, in relazione alle conseguenze dell'inadempimento
del lavoratore sul suo regolare andamento: il datore di  lavoro  puo'
bene decidere di perdonare fatti che potrebbero integrare una  giusta
causa di licenziamento avendo  riguardo  sia  a  prognosi  di  futuro
adempimento da parte del lavoratore, sia a prevalenti  e  contingenti
necessita' organizzative (p.e. insostituibilita' di un lavoratore  in
un determinato momento in una determinata organizzazione). 
    Circa il rilievo di elementi  soggettivi  (che  afferiscono  alla
persona del lavoratore, alla sua professionalita', alla sua  umanita'
complessiva) nella vicenda estintiva per ragioni  organizzative,  una
chiara  percezione  di  cio'  la  si  puo'  avere  nelle  ipotesi  di
violazione delle regole della buona fede nella scelta dei  lavoratori
da licenziare in ipotesi  di  posizioni  fungibili  (che  infatti  e'
l'ipotesi che ha dato luogo  a  Cass.  n.  14021/2016),  nelle  quali
emergono congeniti elementi di preferenza soggettiva  del  datare  di
lavoro per  certi  lavoratori  e,  di  contro,  elementi  di  sfavore
soggettivo verso altri. 
    Qui,  come  si  vedra'  nel  paragrafo  seguente,  la   S.C.   ha
ripetutamente (diritto vivente) escluso che la  sola  violazione  dei
criteri di scelta importi manifesta insussistenza del fatto,  andando
a regolare diversamente motivi soggettivi e motivi oggettivi  proprio
laddove gli stessi si avvicinano piu' che mai, fondandosi in entrambi
i casi il  licenziamento  illegittimo  su  di  una  omogenea  se  non
identica valutazione datoriale circa la persona del licenziato. 
    Per una ulteriore  dimostrazione  di  tale  spesso  inestricabile
connessione (ovviamente in presenza di licenziamenti patologici,  che
sono quelli che qui interessano), si consideri quanto  esposto  dalla
stessa difesa di parte datrice nel caso di specie: «Il fatto  che  si
fratti di g.m.o. per  "motivi  economici"  ha  pesanti  ripercussioni
anche sul  tentativo  di  repechage  atteso  che,  evidentemente,  il
semplice  spostamento  o  la  lievissima  riduzione  di   un   costo,
contrasterebbero comunque con la finalita' stessa della risoluzione e
con il conseguimento del  risultato  atteso.  Cio'  non  di  meno  il
problema e' stato affrontato ma si e' subito arenato di  fronte  alla
irreversibile caducazione dell'elemento  fiduciario  determinata  dal
progressivo emergere di comportamenti per i quali  il  ricorrente  e'
stato sottoposto a ben due procedimenti disciplinari. 
    A ben vedere, si tratta di vicenda in cui gli elementi  oggettivo
e soggettivo presentano un singolare intreccio, cosi' che  concorrono
alla valutazione finale anche elementi quali il contegno  tenuto  nel
corso  del  procedimento  e  tutto  cio'  che  possa  comportare  una
definitiva caducazione  dell'elemento  fiduciario,  con  prognosi  di
irrecuperabilita' del rapporto. 
    In sostanza, non potra' certo chiedersi a chiunque di "continuare
a fidarsi" di chi si e' dimostrato gravemente  deficitario»  (ricorso
in opposizione, pagina 12). 
    In   conclusione,   si   ritiene   discriminatoria,   oltre   che
irragionevole  e  illogica,  una  disciplina  che  conferisce  valore
discriminante in punto alla tutela ad una qualificazione  formale  di
un fatto data da una delle parti in  causa,  allorquando  il  giudice
abbia comunque accertato l'infondatezza del fatto in questione. 
2° Vizio: Contrasto con art. 3, 1°  comma  Cost.  per  ingiustificata
disparita' di trattamento tra l'ipotesi del licenziamento individuale
e quella del licenziamento collettivo, in relazione  alla  violazione
dei criteri di scelta. 
    Tertium comparationis: 
      art. 1, comma 46, legge n. 92/2012. 
    A parita' di licenziamento, a parita' di insussistenza del fatto,
a parita' di violazione - il mancato rispetto dei criteri  di  scelta
dei lavoratori da licenziare - la  disciplina  positiva  in  tema  di
licenziamenti individuali per motivo  economico  (ed  in  particolare
l'art. 18, 7°  comma  Statuto  dei  lavoratori  mediante  l'aggettivo
"manifesta")  discrimina  la  tutela,  distinguendola  da  quella  in
materia di licenziamenti collettivi. 
    Per questi ultimi, infatti, anche  il  legislatore  del  2012  ha
confermato la massima sanzione, la stabilita' reale,  allorquando  ha
riscritto il 3° comma dell'art. 5 della legge n. 223/1991  prevedendo
al riguardo che «In caso di violazione dei criteri di scelta previsti
dal comma 1 si applica il regime di cui al quarto comma del  medesimo
art. 18» (art. 1, comma 46, legge n. 92/2012). 
    L'art. 5, comma 1 prevede che «L'individuazione dei lavoratori da
licenziare    deve    avvenire    in    relazione    alle    esigenze
tecnico-produttive, ed organizzative  del  complesso  aziendale,  nel
rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i
sindacati di cui all'art. 4, comma 2, ovvero in  mancanza  di  questi
contratti nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro:  a)
carichi di famiglia; b) anzianita'; c) esigenze tecnico produttive ed
organizzative». 
    Come e' noto, nell'ambito dei licenziamenti  individuali  non  vi
sono regole tipizzate da parte del legislatore in materia di  criteri
di scelta dei lavoratori da licenziare. 
    La S.C. e' tuttavia ferma nel  ritenere  che  possano  di  regola
essere utilizzati i criteri di cui alla legge n. 223/1991, sulla base
di una interpretazione in buona  fede  del  contratto  («In  tema  di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell'art. 3
della legge n. 604 del 1966, se il  motivo  consiste  nella  generica
esigenza di riduzione di personale omogeneo e  fungibile,  la  scelta
del dipendente (o dei dipendenti) da  licenziare  per  il  datore  di
lavoro non e' totalmente libera ma comunque limitata, oltre  che  dal
divieto di  atti  discriminatori,  dalle  regole  di  correttezza  ex
articoli 1175 e 1375 del codice civile, potendo farsi riferimento,  a
tal fine, ai criteri di cui all'art. 5 della legge n. 223  del  1991,
quali standard particolarmente  idonei  a  consentire  al  datore  di
lavoro di esercitare il suo potere selettivo  coerentemente  con  gli
interessi del lavoratore e con quello aziendale» (per tutte Cass.  n.
16856/2020). 
    E' evidente, dunque, che in tema di licenziamenti individuali non
si tratta di  una  interpretazione  diretta  e  ineludibile  di  tali
criteri,  che  pero'  nella  maggior  parte  delle  ipotesi  pratiche
(ricavabili dalla giurisprudenza edita,  anche  di  Cassazione)  sono
effettivamente quelli che trovano specifica applicazione. 
    In tema di licenziamento individuale, al  contrario,  l'aggettivo
"manifestamente"  ha  condotto  al  risultato  interpretativo   ormai
consolidato nel diritto vivente, di  escludere  la  tutela  in  forma
specifica per la violazione dei criteri di scelta. 
    Non solo la capostipite Cass. n. 14021/2016, ma anche le pronunce
successive (Cass. n. 19732/2018; Cass. n. 1508/2021). 
    Cio' rende, a parere dello scrivente, evidente una disparita'  di
trattamento tra il  licenziamento  individuale  ed  il  licenziamento
collettivo. 
    Cio'  non  solo  quando  in  concreto  il  giudice  applica   nel
licenziamento individuale i  criteri  di  cui  all'art.  5  legge  n.
223/1991. 
    Ma anche quando dovesse applicare altri criteri. 
    Nel primo caso la ingiustizia della distinzione sarebbe solo piu'
eclatante, avendo ad oggetto due fattispecie in cui ricorrono  sempre
una ipotesi estintiva per volonta' datoriale del rapporto di  lavoro,
con identico vizio e identica tipologia di violazione (anche sotto il
profilo degli stessi criteri di scelta violati). 
    Ma  anche  nel  secondo  caso  la  differenza  ingiustificata  di
trattamento non puo' sfuggire, posto che viene in applicazione ad una
comune ipotesi di estinzione del  rapporto  di  lavoro  per  volonta'
datoriale, uno stesso vizio (insussistenza del G.M.O.), oltre che  la
stessa  tipologia  astratta  di  violazione  (criteri   di   scelta),
cambiando solo la disciplina dei singoli criteri  utilizzati  per  la
scelta. 
    Tale   distinzione   di   trattamento   si   ritiene   priva   di
giustificazione, essendo le due ipotesi  sul  punto  molto  piu'  che
omogenee. 
    Questo, peraltro, a  conferma  dell'insuperabilita'  del  diritto
vivente,  posto  che  nel  precedente  del  2016  la  disparita'   di
trattamento in questione veniva espressamente analizzata (e superata)
dalla S.C., la quale  riteneva  che  non  fosse  «...percorribile  la
strada di una interpretazione estensiva della disposizione  contenuta
nell'art. 5, comma 3,  della  legge  n.  223  del  1991,  cosi'  come
sostituito dall'art. 1, cc. 46, della  legge  n.  92  del  2012,  che
prevede la tutela reintegratoria attenuata in caso di violazione  dei
criteri di scelta nelle procedure di licenziamento  collettivo.  Come
innanzi chiarito, infatti, il  riferimento  della  giurisprudenza  ai
criteri legali di selezione previsti dall'art. 5 della legge  n.  223
del 1991 serve solo ad  offrire  uno  standard  idoneo  a  rispettare
l'art. 1175 del codice civile nel caso di  recesso  per  giustificato
motivo oggettivo  di  personale  in  condizione  di  fungibilita'  di
mansioni, ma non rappresenta direttamente la fonte di disciplina  del
licenziamento individuale plurimo, per cui ad esso non e' applicabile
l'apparato sanzionatorio stabilito per i licenziamenti collettivi». 
3° Vizio: Illogicita'  e  indeterminatezza  del  criterio  probatorio
della «manifesta insussistenza». 
    La nozione di «manifesta insussistenza» del fatto appare  mutuata
dalla  disciplina  positiva  del  procedimento  davanti  alla   Corte
costituzionale ed in particolare dalle regole in tema di questioni di
legittimita' costituzionale in via incidentale,  laddove  si  prevede
che «L'autorita'  giurisdizionale,  qualora  il  giudizio  non  possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione  della  questione
di  legittimita'  costituzionale  o  non  ritenga  che  la  questione
sollevata sia  manifestamente  infondata,  emette  ordinanza  con  la
quale, riferiti i termini ed  i  motivi  della  istanza  con  cui  fu
sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione  degli  atti
alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso» (art.  23,
legge n. 87/1953). 
    A livello processuale  civile,  poi,  vi  sono  varie  norme  che
utilizzano tale nozione: 
      art. 360-bis del codice di procedura  civile:  «Il  ricorso  e'
inammissibile: ... 2) quando e' manifestamente infondata  la  censura
relativa  alla  violazione  dei  principi   regolatori   del   giusto
processo»; 
      art. 367 del codice  di  procedura  civile:  («sospensione  del
processo di merito»): «Una copia del ricorso per cassazione  proposto
a  norma  dell'art.  41,  primo  comma,  e'   depositata,   dopo   la
notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti
a cui pende la causa, il quale sospende il processo  se  non  ritiene
l'istanza  manifestamente  inammissibile  o  la  contestazione  della
giurisdizione manifestamente infondata....»; 
      art. 375 del codice di  procedura  civile:  «La  Corte,  sia  a
sezioni unite che a sezione  semplice,  pronuncia  con  ordinanza  in
camera di consiglio quando riconosce di dovere: ... 5)  accogliere  o
rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per
manifesta fondatezza o infondatezza»; 
      art. 398  del  codice  di  procedura  civile:  (in  materia  di
revocazione): «La proposizione  della  revocazione  non  sospende  il
termine per proporre il ricorso  per  cassazione  o  il  procedimento
relativo.  Tuttavia  il  giudice  davanti  a  cui  e'   proposta   la
revocazione, su istanza di parte, puo'  sospendere  l'uno  o  l'altro
fino alla comunicazione della sentenza che  abbia  pronunciato  sulla
revocazione,  qualora  ritenga  non   manifestamente   infondata   la
revocazione proposta». 
    Circa la  previsione  relativa  alle  questioni  di  legittimita'
costituzionale, va subito rimarcata la profonda  differenza  rispetto
all'impiego che del criterio  della  "manifesta"  infondatezza  viene
fatto nell'art. 18. 
    In  relazione   all'art.   23,   legge   n.   87/1953   l'impiego
dell'aggettivo    manifesta,     infatti,     (1)     e'     relativo
all'interpretazione del diritto e non al giudizio di  fatto  (per  il
quale  l'aspetto  dirimente  e'  racchiuso  nella   rilevanza   della
questione nel giudizio a quo), (2) e' una regola processuale  (3)  e'
l'unico metro di giudizio presente  nel  meccanismo  e  (4)  discende
inevitabilmente    dalla    strutturazione    del     giudizio     di
costituzionalita' come accentrato (manifestamente infondata,  dunque,
e non semplicemente infondata, per non sostituire il singolo  giudice
in una valutazione - che e' quella  sull'infondatezza  -  che  spetta
solo alla Consulta). 
    Il punto 3 merita  un  paio  di  righe  in  piu',  in  quanto  la
valutazione  di  "manifesta"  infondatezza  della  questione,   nella
valutazione del rimettente, e' l'unica che tale giudice e' chiamato a
compiere (e, dunque, non vi  e'  una  soglia  inferiore  di  semplice
infondatezza i cui confini vanno ricostruiti). 
    La valutazione della fondatezza  o  dell'infondatezza  e'  invece
integralmente  compiuta  dalla  Corte,  ossia  da  un  altro   organo
giurisdizionale. 
    Per la Corte, poi, la decisione  tra  infondatezza  "semplice"  o
"manifesta" ha rilievo solo procedurale  (trattazione  in  camera  di
consiglio o in pubblica udienza: art. 26, legge  n.  87/1953)  e  non
incide sulla sostanza (merito) della decisione. 
    Del tutto diverso l'utilizzo nell'art. 18, in cui il criterio  di
giudizio e' (1) riferito al giudizio di fatto, (2)  opera  in  ambito
sostanziale, (3) coesiste nella valutazione dello stesso giudice  con
l'altro metro di giudizio dell'infondatezza "semplice" o ordinaria  e
(4) non ha una specifica ratio logica o un fondamento filosofico  che
ne   supportino   l'esistenza   (posto   che   gia'    l'infondatezza
processualmente accertata esprime gia'  tutto  il  massimo  disvalore
della fattispecie rimediale, per la quale ad un determinato  vizio  -
insussistenza del fatto - viene ricondotta una determinata  tutela  -
la reintegra). 
    Si tratta, dunque, nella norma lavoristica, di una estrapolazione
della sola veste nominale di tale  criterio,  con  effetti  giuridici
tuttavia  completamente  diversi  da  quelli   della   normativa   di
provenienza, senza considerare le criticita' che  l'innesto  di  tale
meccanismo vanno ad introdurre sulla  una  disciplina  sostanziale  e
processuale   preesistente,   sui    principi    della    logica    e
sull'ordinamento giuridico (anche dal punto di vista  costituzionale)
nel suo complesso. 
    Ancora, a livello processuale  ed  in  particolare  nel  giudizio
davanti alla Corte di cassazione, tale criterio  e'  impiegato  quale
discrimine nella scelta tra l'utilizzo della trattazione ordinaria  e
l'utilizzo della procedura semplificata (camera di consiglio). 
    Il criterio, inoltre, e' impiegato da parte del giudice in alcune
scelte che la normativa di rito gli rimette circa la  sospensione  di
processi ^ di termini processuali. 
    E'  evidente,  dunque,  che  si  tratta  di   aspetti   meramente
processuali e mai sostanziali. Ed anzi, di meccanismi che  non  vanno
mai a pregiudicare il merito di una decisione. 
    Va inoltre osservato come alcun  utilizzo  di  tale  criterio  e'
presente nella parte del codice di rito (ma  anche  nella  parte  del
codice civile) deputata ai mezzi di prova. 
    Dal 2012  nella  disciplina  sostanziale  del  licenziamento  per
giustificato  motivo  oggettivo,  fa  irruzione  il  criterio   della
«manifesta  insussistenza»  del  fatto,  criterio  che   addossa   al
lavoratore un onere che lo stesso mai ha avuto  prima  e  che  e'  in
grado di influire sulla tutela a quest'ultimo spettante, pur a fronte
di un "fatto" di G.M.O. che si e' gia' dimostrato insussistente. 
    Si ritiene che l'utilizzo  in  ambito  sostanziale  di  una  tale
terminologia - prelevata appunto dai meandri processuali nella  quale
la stessa era a  ragione  utilizzata  per  regolare  snodi  meramente
procedurali - introduca (oltre che quella  ingiustificata  e  duplice
discriminazione sopra  evidenziata)  una  rarissima  (se  non  unica)
eccentricita'  nella  normativa  sostanziale,  eccentricita'  che  si
caratterizza per essere illogica e irragionevole. 
    Nell'ambito sostanziale, infatti, a tale criterio il  legislatore
del  2012  ha  attribuito  una  funzione  discretiva   della   tutela
applicabile in concreto al lavoratore. 
    Una rilevanza, dunque, di merito, di  disciplina,  di  diritti  e
tutele e non un rilievo meramente processuale. 
    Una rilevanza, inoltre, definitiva. 
    Il criterio delineato dal legislatore e precisato dalla S.C.  che
ne ha dato la versione del "diritto vivente"  risulta  -  a  sommesso
parere di chi scrive - intrinsecamente illogico. 
    Come detto il  criterio  in  questione,  in  ambito  sostanziale,
rappresenta  una  eccentricita'  assoluta  in  materia  di  negozi  o
rapporti contrattuali. 
    Ossia, quando il legislatore vuole  stabilire  una  disciplina  e
prevedere una tutela, soprattutto rimediale a fronte di inadempimenti
o vizi contrattuali, non ancora ad  una  valutazione  di  "manifesta"
violazione o  di  "manifesto"  vizio  la  scelta  circa  gli  effetti
giuridici da applicare alla vicenda sostanziale,  distinguendoli  per
giunta dagli effetti rimediali applicabili in presenza di un vizio  o
di un comportamento comunque sussistente ma non manifesto. 
    Puo' essere utile al riguardo pensare di applicare  tale  tecnica
legislativa ad un qualunque altro ambito giuridico civile:  si  pensi
ad un  giudizio  in  materia  testamentaria,  nel  quale  vi  sia  un
testamento olografo contestato che, se ritenuto dal giudice  apocrifo
condurrebbe ad  una  qualche  tutela  risarcitoria,  ma  se  ritenuto
"molto" apocrifo condurrebbe alla tutela  "reale";  si  pensi  ad  un
inadempimento contrattuale, pure basato su  una  analoga  regola:  se
inadempimento   "semplice"   spetta   solo   un   risarcimento,    se
inadempimento "marcio" azione di esatto adempimento e  cosi  via;  si
pensi ad un qualunque ambito rimediale in materia  contrattuale,  con
azioni di nullita', annullamento, rescissione, non fondate  su  fatti
semplicemente da accertare, ma con graduazioni di tutele a seconda di
accertamenti semplici e di accertamenti "manifesti". 
    I risultati bizzarri e imponderabili che  ne  deriverebbero  sono
facili  per  tutti  da  immaginare.  Ed  il  perche'  le   discipline
sostanziali  (salvo  l'anomalia  del  2012)   non   utilizzino   tale
meccanismo e' facile da intuire. 
    Si   tratta   di   un   criterio   totalmente    impalpabile    e
conseguentemente non e' possibile rimettere le sorti di  una  vicenda
giuridica (e delle  parti  che  vi  stanno  dietro)  alle  incertezze
applicative dei singoli giudizi in  cui  lo  stesso  dovrebbe  essere
applicato  (la  stessa  Corte  Cost.  n.  59/2021  ha   al   riguardo
evidenziato come per tale «evidenza  conclamata  del  vizio  ...  non
sempre e'  agevole  distinguere  rispetto  a  una  insussistenza  non
altrimenti qualificata...»). 
    Neppure risponde  ad  una  qualunque  logica  (anche  filosofica)
possibile ricondurre in ambito civilistico diverse sorti decisorie  a
seconda che la fondatezza di una domanda (che passa ovviamente per  i
fatti su cui la stessa si fonda) sia "normale" o "manifesta". 
    Anche nel diritto del lavoro sostanziale di fonte  normativa  non
e' dato rinvenire a  livello  positivo  un  altro  utilizzo  di  tale
criterio. 
    Il criterio in questione, come prima accennato,  viene  applicato
dalla giurisprudenza ormai  consolidata  e  insuperabile  della  S.C.
secondo due direttrici. 
    La  prima  e'  quella  di  richiedere  un  "facile"  accertamento
dell'inesistenza del fatto per accedere alla reintegra. 
    La seconda e' quella che si puo' definire dello "spacchettamento"
del "fatto" di  giustificato  motivo  oggettivo,  di  guisa  tale  da
escludere elementi di esso dal nucleo essenziale dello stesso la  cui
mancanza  sola  e'  suscettibile  di   determinare   la   "manifesta"
insussistenza del fatto. 
    Circa il primo aspetto, anche nelle definizioni date  dalla  S.C.
di tale criterio emerge una problematicita' definitoria. 
    Esse, da  un  lato,  risultano  tautologiche  (nel  tentativo  di
spiegare con sinonimi il concetto di insussistenza manifesta), mentre
dall'altro e' evidente che dalle stesse non si possa  ricavare  alcun
preciso e concreto metro di giudizio idoneo a quantificare in cosa di
preciso (ossia in  quale  percentuale  esatto  di  convincimento)  si
realizzi tale "manifesta" insussistenza. 
    Si  tenga  presente  al  riguardo  che  il  limite  inferiore  di
applicazione di quest'ultimo criterio e' rappresentato  dalla  regola
generale   della   preponderanza   probatoria,    che    caratterizza
l'insussistenza "semplice". 
    La stessa si  realizza  andando  oltre  il  50%  dell'equivalenza
probatoria tra esistenza e inesistenza del fatto stesso. 
    Dove, invece,  si  debba  collocare  l'insussistenza  "manifesta"
(oltre  come  detto  l'insussistenza  semplice)  non   e'   possibile
comprenderlo. 
    Puo' prendersi in esame Cass.  n.  7167/2019,  secondo  la  quale
"manifesta" significa "contraddistinta da tratti che ne segnalano, in
modo palese, la peculiare difformita' rispetto alla mera assenza  dei
presupposti del licenziamento". 
    Si tratta della motivazione  del  provvedimento  e  non  e'  dato
capire come tale  formula  (qui  la  "peculiare  difformita'")  possa
andare applicata senza incorrere in arbitrii di solta. 
    Se si trattasse di una fattispecie incriminatrice si direbbe  che
difetta di tassativita'. 
    Ma anche al di fuori del  diritto  penale,  ragioni  di  certezza
giuridica  e  di  uniformita'  di  trattamento  sostanziale  di  casi
analoghi  se  non  identici,  spingono  a  considerare  illogica  una
disciplina  che  pone  nelle  mani  dell'interprete  (e  senza  alcun
criterio  applicativo  logico)  la  scelta  totalmente  discrezionale
(seppure celata dietro un criterio pseudo  probatorio)  delle  tutele
spettanti ad una parte contrattuale di fronte all'inadempimento della
controparte. 
    Si veda al riguardo - per evidenziare l'incertezza  ma  anche  la
totale discrezionalita'  che  comporta  l'applicazione  del  criterio
coniato nel 2012 - la fattispecie decisa da Cass. n. 181/2019. 
    In quel caso - come si evince  dalla  descrizione  fattane  dalla
S.C.  -  «I  licenziamenti,  secondo  la  Corte  distrettuale,  erano
piuttosto illegittimi, in difetto di prova  della  sussistenza  della
ragione posta a  base  degli  stessi  (id  est:  l'impossibilita'  di
reperire  alcuna  missione  lavorativa  compatibile  con  il  livello
professionale); in proposito, i giudici di merito osservavano come la
societa' avesse proceduto  ad  assunzioni  a  termine  per  ricoprire
posizioni  lavorative,  astrattamente  compatibili  con  quelle   dei
lavoratori  espulsi,   delle   quali   non   aveva   offerto   valida
giustificazione;  per  effetto  di  tale   accertamento,   conseguiva
l'applicazione della disciplina di cui al comma 5 dell'art. 18  cit.,
dovendosi escludere la «manifesta infondatezza»  del  fatto  posto  a
base  del  licenziamento,  in  assenza  di  una  prova  positiva   di
insussistenza del giustificato motivo oggettivo». 
    Il  ragionamento  della  S.C.  a   conferma   della   correttezza
dell'operato della Corte distrettuale e' che  «I  giudici  di  merito
hanno ritenuto non raggiunta la prova della sussistenza della ragione
organizzativa posta a base del licenziamento e dunque del presupposto
che, unitamente all'obbligo del repechage,  integra  il  giustificato
motivo  oggettivo  (impossibilita'   di   inviare   in   missione   i
lavoratori); la Corte territoriale ha osservato che, dalle risultanze
istruttorie, era emersa, nell'arco temporale  rilevante  ai  fini  di
causa, la stipulazione di plurimi contratti a termine  per  posizioni
lavorative,  astrattamente  compatibili  con  quelle  dei  lavoratori
espulsi, di  cui  il  datare  di  lavoro  non  aveva  offerto  valida
giustificazione; al contempo, ha considerato, anche, «la mancanza  di
(un) interesse della parte datoriale a mantenere in disponibilita'  i
lavoratori (per un lungo) periodo invece che  collocarli  presso  gli
utilizzatori», pervenendo ad un giudizio conclusivo di  insufficienza
probatoria». 
    Dunque,  pur  in  presenza  -  scrive  la  S.C.  -  del   mancato
raggiungimento della prova della ragione organizzativa posta  a  base
del licenziamento (elemento che gia' potrebbe importare per  qualcuno
manifesta insussistenza), nonostante nell'arco temporale rilevante ai
fini di causa  l'azienda  avesse  assunto  (in  modo  plurimo)  altri
lavoratori  a  termine   per   posizioni   lavorative   astrattamente
compatibili con quelle dei lavoratori espulsi (elemento che  potrebbe
rafforzare in qualcuno  l'idea  che  l'insussistenza  e'  manifesta),
viene  ritenuto  (peraltro  sulla  base  di   un   elemento   nemmeno
perfettamente chiaro nella descrizione fattispecie concreta,  seppure
assolutamente decisivo) che manchi  l'evidenza  piena,  la  peculiare
difformita', la  facile  verificabilita',  il  pretesto,  considerato
elemento indispensabile per accedere alla reintegra. 
    Orbene, si  ritiene  che  tale  decisum  rappresenti  un  esempio
lampante dell'assoluta controvertibilita' del criterio in questione e
della sostanziale discrezionalita' assoluta che incontra  il  giudice
nella scelta o meno di concedere la stabilita' reale. 
    Si veda ancora Cass. n. 2930/2019 (e  successive  conformi),  che
parla(no) di una «evidente  e  facilmente  verificabile  assenza  dei
presupposti  giustificativi   del   licenziamento»   e   di   «chiara
pretestuosita' del recesso» (cosi' sempre Cass. 10435/2018)». 
    Al riguardo, non e' chiaro perche' - nell'ambito di decisioni  di
merito definitive e non di provvedimenti cautelari -  la  valutazione
della prova dovrebbe fare riferimento a facili verifiche. 
    Anzi di norma nei giudizi accade esattamente il contrario,  posto
che e'  proprio  attraverso  difficili  e  complesse  verifiche,  sia
documentali, sia testimoniali - con molti testimoni  e  quasi  sempre
con deposizioni in contrasto l'una con l'altra - spesso con ordini di
produzioni documentali (quasi sempre il libro  unico  del  lavoro)  e
talvolta  anche   con   l'ausilio   di   consulenze   tecniche,   che
ordinariamente e' possibile giungere ad un  risultato  persuasivo  da
parte del giudice. 
    Probabilmente, la sola sussistenza di elementi o mezzi  di  prova
di segno contrastante tra loro (p.e. testimonianze in  contrasto  tra
loro) potrebbe (il condizionale  e'  d'obbligo  essendo  il  criterio
indeterminato) essere ritenuto indice della mancanza della  manifesta
insussistenza. E che dire dell'uso delle presunzioni semplici:  anche
le stesse potrebbero (idem come sopra) essere ritenute  incompatibili
con il metro della facile verificabilita'. 
    E che dire di accertamenti ontologicamente complessi  e,  dunque,
fisiologicamente   forieri   di   difficili   verifiche:   si   pensi
all'allegazione da parte del lavoratore  di  fatti  relativi  ad  una
fattispecie di codatorialita' ad opera di una pluralita'  di  imprese
che si assumo facenti parte di un unitario centro di imputazione  (si
tratta di accertamenti estremamente  difficoltosi  e  complessi,  che
richiedono quasi sempre  l'escussione  di  numerosi  testimoni  e  un
rilevante  vaglio   documentale,   nonche'   l'utilizzo   di   regole
presuntive). 
    Una tale tipologia di accertamento (funzionale tra  l'altro  alla
richiesta di un piu'  ampio  repechage  all'interno  del  complessivo
organico codatoriale) potrebbe risultare addirittura ab  origine  non
connotata  dalla  "facile"  verifica  della  "peculiare  difformita'"
rispetto al modello legale di G.M.O. 
    Proprio per gestire la complessita' del giudizio di fatto  e  per
avvicinare il decisum il piu' possibile alla verita', e' prevista  la
regola del libero convincimento del giudice. 
    Proposito che, peraltro, nel  rito  del  lavoro  e'  ancora  piu'
pregnante, posti i poteri istruttori assegnati al  giudice  dall'art.
421 del codice di procedura civile ed in particolare «l'ammissione di
ogni mezzo di prova, anche fuori  dei  limiti  stabiliti  dal  codice
civile...»  (tra  cui  anche  «la  comparizione,   per   interrogarle
liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che  siano
incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246 o a cui sia vietato  a
norma dell'art. 247») e cio' per superare (art. 3, 2° comma Cost.) la
naturale asimmetria di posizioni di partenza tra  le  due  parti  del
conflitto lavorativo (le direttrici  ispiratrici  della  riforma  del
1973 del rito del lavoro sono principalmente state la  velocizzazione
del giudizio ed il tentativo di  ridurre  al  minimo  lo  scarto  tra
verita' processuale e verita' materiale, entrambe  costituzionalmente
ispirate dalla regola della ricerca dell'uguaglianza sostanziale). 
    Ebbene, negli  accertamenti  di  fatto  in  tema  di  G.M.O.  che
normalmente occupano i ruoli dei giudici del  lavoro,  molto  spesso,
solo all'esito di una ampia istruttoria,  spesso  molto  complessa  e
sicuramente  non  "facile"  (nemmeno  dal  punto   di   vista   della
valutazione delle prove e, dunque, dell'accertamento),  quasi  sempre
caratterizzata da elementi probatori in  contrasto  tra  loro  e  con
l'uso  di  presunzioni  semplici,  e'  possibile  comprendere  se  un
determinato "fatto" di G.M.O. economico sussiste o non sussiste. 
    Tuttavia, cio' potrebbe (anche qui il condizionale e'  d'obbligo)
non rispettare il criterio della "facilita'" e, dunque, pur a  fronte
della prova dell'insussistenza  fatto,  non  spetterebbe  la  massima
sanzione. 
    Ma perche' una situazione di accertamento "non facile", a livello
di tutela per il lavoratore, dovrebbe essere trattata diversamente da
quella di un accertamento "facile",  ossia  con  la  minore  garanzia
rappresentata dal risarcimento del danno, in luogo della reintegra ? 
    La  "pretestuosita'",  poi,   sembra   introdurre   un   giudizio
finalistico proprio  di  altri  scenari  e  discipline  (v.  p.e.  il
licenziamento discriminatorio ed il licenziamento ritorsivo, che sono
comunque gia' regolati specificamente dalla normativa in  tema,  alla
quale, peraltro, sempre il 7° comma dell'art. 18 opera un -  parziale
- riferimento: «Qualora, nel corso del  giudizio,  sulla  base  della
domanda  formulata   dal   lavoratore,   il   licenziamento   risulti
determinato  da  ragioni  discriminatorie  o  disciplinari,   trovano
applicazione le relative tutele previste dal presente  articolo»)  ed
appare un concetto inconferente (oltre che inserito  preaeter  legem)
laddove si debba semplicemente accertare  che  un  determinato  fatto
sussista o meno. 
    Circa il secondo aspetto (prima  definito  "spacchettamento),  va
richiamato quando sopra evidenziato nella parte  di  trattazione  del
vizio discriminatorio tra licenziamenti collettivi e individuali. 
    Come detto Cass. n. 14021/2016 (nonche' le  successive  conformi)
ritiene che in caso di violazione dei criteri di scelta il fatto  non
possa essere manifestamente insussistente. 
    Questa   conclusione   sarebbe   appagante   per    le    scienze
dell'organizzazione aziendale, posto che  li'  l'interesse  esclusivo
sarebbe quello di  verificare  le  scelte  organizzative  e,  dunque,
considerare esclusivamente la prospettiva  dell'impresa,  prospettiva
nella quale non vi e' troppo interesse per le sorti di chi  perde  il
posto all'esito dei processi organizzativi e riorganizzativi. 
    Dal punto di vista del singolo licenziamento e del lavoratore che
ne e' attinto (e, dunque, del diritto del lavoro), tuttavia,  non  e'
esattamente la stessa cosa perdere o conservare il posto perche' sono
stati violati o rispettati i criteri di scelta. 
    Anzi, questa e' una fase assolutamente delicata e primaria  nella
procedura di licenziamento, fase nella quale  spesso  puo'  annidarsi
una scelta in mala fede da parte del datare di lavoro. 
    Proprio qui poi, come detto,  si  concentrano  gli  aspetti  piu'
soggettivi - innegabili - della vicenda risolutiva oggettiva. 
    Elementi che  avvicinano  anche  a  livello  astratto  il  motivo
soggettivo a quello oggettivo. 
    Ma proprio nella fase di maggior contiguita'  circa  gli  aspetti
soggettivi delle vicende estintive che vanno sotto il nome di  motivi
soggettivi  e  motivi  oggettivi,  legislatore  e   diritto   vivente
impongono una disciplina nettamente diversa. 
    E, come  gia'  evidenziato,  cio'  rappresenta  -  oltre  che  un
ingiustificato trattamento diversificato - un elemento di illogicita'
e irrazionalita' del criterio in questione. 
    Che dire poi del difetto di causalita' nel  G.M.O.:  forse  anche
tale elemento  potrebbe  (secondo  una  interpretazione  non  vietata
evidentemente dalla norma, ancorche' ad  oggi  non  ancora  adottata,
anche se la fattispecie decisa da  Cass.  n.  181/2019  pare  andarci
molto vicina) essere letto in modi alquanti  differenti:  per  alcuni
potrebbe rendere il fatto di G.M.O. non manifestamente  insussistente
(il fatto organizzativo,  in  fondo,  rimane),  per  altri  il  fatto
potrebbe essere manifestamente insussistente. 
    Si consideri, ancora, il  decisum  di  Cass.  n.  6083/2021:  «la
"manifesta insussistenza del fatto posto a base  del  licenziamento",
di cui all'art. 18, comma 7, st. lav. come  modificato  dall'art.  1,
comma 42, della legge n. 92 del 2012, e' da intendersi  come  chiara,
evidente  e  facilmente  verificabile  assenza  dei  presupposti   di
legittimita' del recesso, cui non puo' essere  equiparata  una  prova
meramente insufficiente, ovvero, e' il caso si precisarlo,  l'ipotesi
in cui tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi
di per se' opinabili o non  univoci,  come  nel  caso  di  specie  il
ricorso ad ore  di  straordinario,  normalmente  legato  ad  esigenze
contingenti (e  dalla  Corte  di  merito  accertate,  peraltro,  come
riferibili al monte ore  di  due  soli  lavoratori),  cfr.  Cass.  n.
16702/18, Cass. n. 181/19»). 
    Tale motivazione, pur sostenendo  di  fare  applicazione  del  7°
comma dell'art. 18,  pare  applicare  correttamente  le  ordinarie  e
consolidate regole in tema di presunzioni semplici che, gia'  secondo
la lettera dell'art. 2729 del codice civile, escludono che il giudice
possa ammettere presunzioni se non  "gravi,  precise  e  concordanti"
(«...laddove: la "precisione" va riferita al fatto noto (indizio) che
costituisce il punto di partenza dell'inferenza e  postula  che  esso
non sia vago, ma  ben  determinato  nella  sua  realta'  storica;  la
"gravita'" va ricollegata al grado di probabilita' della  sussistenza
del fatto ignoto che, sulla base della regola d'esperienza  adottata,
e' possibile desumere da quello noto; la "concordanza"  richiede  che
il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralita'  di  indizi
gravi e precisi, univocamente convergenti nella  dimostrazione  della
sua sussistenza, dovendosi tuttavia precisare, al riguardo, che  tale
ultimo requisito e'  prescritto  esclusivamente  nell'ipotesi  di  un
eventuale, ma non necessario, concorso di piu' elementi  presuntivi»:
Cass. n. 2482/2019). 
    Ovviamente,  l'escludere  la  rilevanza  presuntiva  di  elementi
"opinabili o non univoci" non fa altro  che  applicare  correttamente
l'art. 2729 del codice civile (l'opinabilita' va contro la precisione
e la non univocita' va contro la gravita'). 
    In questo caso, quindi, la "manifesta infondatezza"  puo'  essere
letta come "semplice infondatezza" (cio' che, peraltro, consegnerebbe
una interpretatio abrogans della norma, esclusa comunque dal  diritto
vivente), a conferma  dell'incertezza  applicativa  del  criterio  in
questione  (incertezza  che  incide  anche  e  proprio  sulla  soglia
delimitativa  verso   il   basso,   rappresentata   dalla   "semplice
insussistenza"). 
    Cio' tuttavia dipende dal dato normativo,  che  non  permette  di
avere un criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti,  spingendo  la
giurisprudenza di legittimita' a farsi in parte qua legislatore  (per
tentare di colmare le lacune normative) e rendendo poi il giudice  di
merito eccessivo arbitro del fatto  ("cattiva"  discrezionalita',  in
quanto priva di criteri e riferimenti applicativi e,  dunque,  contro
l'art. 3, 1° comma Cost.). 
    In definitiva, il  criterio  della  manifesta  insussistenza  del
fatto e' indeterminato, non permette  di  essere  distinto  verso  il
confine  interiore  rispetto  alla  insussistenza   "semplice",   non
permette una omogeneita' di applicazione tra casi  analoghi,  non  si
comprende cosa significhi esattamente  ed  anzi,  inteso  secondo  il
diritto vivente, appare  illogico  e  non  in  linea  con  la  logica
probatoria propria sia del processo civile che di quello del lavoro. 
    Si tratta -  a  modestissimo  avviso  di  chi  scrive  -  seppure
declinata sotto l'aspetto processuale e dell'onere  della  prova,  di
una  analoga  valutazione  rispetto  a  quella  gia'  compiuta  dalla
Consulta quando ha  abrogato  il  "puo'"  reintegrare  del  7°  comma
dell'art.  18,  sotto  il  profilo  della  indeterminatezza   («Nella
fattispecie  sottoposta  all'odierno  scrutinio,  la  diversa  tutela
applicabile - che ha implicazioni notevoli - discende  invece  da  un
criterio giurisprudenziale che, per  un  verso,  e'  indeterminato  e
improprio e,  per  altro  verso,  privo  di  ogni  attinenza  con  il
disvalore del licenziamento»: Corte Cost. n. 59/2021). 
    Il  disvalore  del  licenziamento,   perfettamente   scandagliato
attraverso le regole che valgono per tutti gli altri processi  civili
e del lavoro, non puo' certamente dirsi correlato con (o  corroborato
da)  una  valutazione  "palese"  o   "facilmente"   verificabile   di
infondatezza (per insussistenza manifesta del fatto). 
    Altrimenti vorrebbe dire che tutti gli altri giudici  civili,  ma
anche del lavoro (quando non decidono  impugnative  di  licenziamenti
per motivi economici) applicano  (anche  in  fattispecie  che  vedono
coinvolti interessi rilevanti, sia economici, che personali) regole e
criteri probatori insufficienti in quanto non permettono di  decidere
adeguatamente circa le situazioni fattuali loro sottoposte. 
4° Vizio: Irrazionalita' della  disciplina:  l'inversione  dell'onere
della prova.  
    Secondo la regola generale di cui all'art. 2697 del codice civile
«Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti  che
ne costituiscono il fondamento». 
    Tale regola, nell'ambito della disciplina dei  licenziamenti,  e'
stata  specificata  (per  lo  piu'  la  si  ritiene  una   disciplina
confermativa del disposto generale dell'art. 2697 del codice  civile)
nell'art. 5, legge n. 604/1966 secondo il quale «L'onere della  prova
della sussistenza della giusta causa o  del  giustificato  motivo  di
licenziamento  spetta  al  datore  di  lavoro»  (art.  5,  legge   n.
604/1966). 
    Tale  disciplina  in  tema  di  onere  della  prova  e'   giunta,
nell'odierno assetto giurisprudenziale, a porre a carico  del  datore
di lavoro tutti gli oneri probatori in tema di esistenza del fatto di
licenziamento, sia con riguardo all'esistenza o  meno  della  ragione
giustificatrice,  sia  con  riferimento  alla  tipologia  di   tutela
applicabile. 
    Infatti, spetta al datore di lavoro, tra l'altro,  l'onere  della
prova: 
      della giusta causa e del giustificato motivo; 
      nel giustificato motivo oggettivo di tutti gli  elementi  della
fattispecie: 
        modifica organizzativa e ragioni della stessa; 
        nesso  di  causalita'  con  la  soppressione  del   posto   i
licenziamento; 
        buona fede nella scelta del lavoratore da espellere  (criteri
di scelta); 
        corretto tentativo di ripescaggio; 
        numero dei dipendenti dell'impresa. 
    Tale portato discende  dall'applicazione  della  regola  generale
dell'art. 2697 del  codice  civile  e  della  specificazione  di  cui
all'art. 5 (anche specificate  dal  criterio  della  vicinanza  della
prova). Infatti, il datore di lavoro  che  decide  di  esercitare  il
potere di porre fine ad un rapporto di lavoro a tempo  indeterminato,
deve dimostrare il fondamento del corretto esercizio di tale  potere,
al fine di resistere all'impugnativa del lavoratore o, il che  e'  lo
stesso, quale fatto impeditivo della domanda  di  tutela  avverso  il
licenziamento proposta da quest'ultimo. 
    Cio' che sarebbe lo stesso laddove il datore di lavoro proponesse
domanda   di   accertamento   positivo   della    legittimita'    del
licenziamento, non  potendo  evidentemente  l'allocazione  dell'onere
della prova in relazione alla  vicenda  sostanziale  variare  con  il
variare di chi propone la domanda. 
    Si tratta, dunque ed evidentemente, di fatti costitutivi  per  il
datare di lavoro. 
    La regola del 7° comma introduce nella sostanza - oltre alla gia'
sopra esaminata variazione in  aggravamento  del  metro  di  giudizio
delle prove - una inversione dell'onere della  prova  in  materia  di
giudizi di licenziamenti. 
    La giurisprudenza  della  S.C.,  come  visto,  e'  chiarissima  e
irremovibile sul  punto:  l'insufficienza  probatoria  sull'aggettivo
"manifesta" nuoce  al  lavoratore,  che  si  vedra'  conseguentemente
respinta la domanda di reintegra. 
    Si  parla  addirittura  di  "insufficienza  di  prove"   evocando
concetti propri di altre branche processuali. 
    Dunque,   l'onere   della   prova   della   natura    "manifesta"
dell'insussistenza del fatto grava indiscutibilmente sul  lavoratore,
ossia sul soggetto che contesta l'esistenza del fatto costitutivo del
potere della controparte. 
    Si pongono qui due problematiche. 
    La prima e' che introdurre una inversione dell'onere della  prova
in ipotesi di prova gia' raggiunta circa l'inesistenza del  fatto  da
provare (infondatezza "semplice") rappresenta un nonsenso e,  dunque,
integra una disciplina  intrinsecamente  irragionevole  (art.  3,  1°
comma Cost.). 
    La seconda e' che  tale  inversione  appare  illegittima  laddove
sposta la prova di un  fatto  manifestamente  costitutivo  sull'altra
parte, ossia su quella che ne  contesta  l'esistenza  e  gli  effetti
giuridici conseguenti. 
    Circa il primo aspetto, va ricordato che l'onere della  prova  e'
la regola giuridica che presidia il giudizio di fatto e  in  base  al
quale vengono allocate sulle parti le conseguenze della  mancanza  di
prova dei fatti rilevanti per la norma sostanziale in base alla quale
occorre decidere un giudizio. 
    Si tratta di stabilire, in ipotesi in cui  un  determinato  fatto
rilevante non venga provato,  chi  ne  debba  subire  le  conseguenze
negative (ossia il rigetto della domanda che  vede  quel  fatto  come
fondamento della stessa). 
    Nel nostro ordinamento, come visto, vi e' una regola generale che
e' quella dell'art. 2697 del codice civile. Tuttavia, tale regola  (e
piu' in generale tutte le regole in materia di onere della prova)  ha
un fondamento, una necessita', nella risposta  pratica  alla  domanda
sulla sorte del giudizio allorquando la prova di un determinato fatto
e' mancata. 
    Non ha, invece, alcun  senso  a  fronte  di  una  prova  piena  e
positiva (che secondo il resto dell'ordinamento giuridico civile  si'
ha quando la parte  onerata  di  determinati  fatti  non  ne  da'  la
relativa dimostrazione, con valutazione giudiziale secondo  il  metro
della preponderanza probatoria) di un fatto. 
    Prova positiva e piena che, nei casi qui  in  esame,  vi  sarebbe
secondo  le  regole  generali  civilistiche  e  lavoristiche   appena
esaminate, allorquando non vi sia stata la dimostrazione da parte del
datore di lavoro che sussistono i fatti fondanti l'esercizio concreto
del potere di licenziamento. 
    Nel caso di specie, tuttavia, l'assetto che risulta  dal  diritto
vivente e' in senso contrario. 
    Non  basta  al  lavoratore  per  ottenere  la  tutela   richiesta
(reintegra) che manchi la prova della fondatezza del licenziamento. 
    Occorre una prova positiva  di  un  quid  pluris,  il  cui  onere
(invertito) grava quindi sul lavoratore. 
    Ma tale inversione, come detto, non ha  alcun  senso  e  ratio  a
fronte  dell'accertamento  positivo  e  pieno  (nei   termini   sopra
esaminati) che il  licenziamento  e'  ingiustificato  (innanzi  tutto
perche' il datore non ne ha dimostrato il fondamento). 
    Detto altrimenti, provato civilisticamente che  il  licenziamento
e' infondato, non ha alcuna logica e razionalita' dire al lavoratore:
«adesso  prova  tu  che  il  licenziamento  e'  piu'  che  infondato,
altrimenti non ti reintegro». 
    Si tratta, dunque, di un errato uso  della  discrezionalita'  del
legislatore e comunque di una regola illogica e irrazionale. 
    E che  resta  illogica  e  irrazionale  anche  ove  si  spostasse
l'attenzione sulla tipologia di tutela, piuttosto che  sull'esercizio
del potere. 
    Innanzi tutto perche' anche qui non  risponde  ad  alcuna  logica
distinguere gli  oneri  della  prova  non  in  base  alla  situazione
sostanziale sottostante (fatti costitutivi del licenziamento), bensi'
in base alla tutela richiedibile ed erogabile. 
    E non a  caso  siamo  in  presenza  di  un  unicum  nel  panorama
giuridico sostanziale. 
    In secondo luogo l'illogicita' sta nel  prevedere  che  le  gravi
conseguenze in  tema  di  tutele  sopra  evidenziate  siano  ancorate
all'adozione di un criterio evanescente, soggettivo e impalpabile. 
    Se ha una ratio giustificativa  la  graduazione  delle  tutele  a
seconda dei vizi, non ha invece una ratio  logicamente  apprezzabile,
ne' risulta razionale, una distinzione delle  tutele  fondata  su  un
grado piu' o meno  elevato  di  convincimento  circa  una  situazione
fattuale gia' ritenuta comunque provata (ed infondata) dal giudice. 
    Un ulteriore aspetto di criticita' riguarda la  possibilita'  del
legislatore  di  onerare  della  prova  di   un   fatto   costitutivo
dell'esercizio di un potere  la  parte  che  ne  subisce  e  contesta
l'esercizio. 
    Il legislatore e' cioe' totalmente libero di invertire gli  oneri
della prova favorendo determinate parti  («istituzionali  convenuti»)
di una determinata tipologia di giudizi a discapito di altre ? A tale
domanda la risposta si ritiene debba essere negativa. 
    Come  statuito  in  fattispecie  analoga  (seppure   in   diversa
materia), ossia nella quale il legislatore aveva invertito  un  onere
probatorio nell'ambito di un giudizio civile,  al  fine  di  favorire
irragionevolmente una della parti "istituzionalmente"  in  causa,  la
Corte costituzionale ha dichiarato la violazione  dell'art.  3  Cost.
per essere tale inversione irragionevole. 
    In motivazione, infatti, si legge che «3.1. -  L'azione  generale
di ripetizione d'indebito, di cui all'art. 2033 del codice civile, si
fonda sui soli presupposti,  di  carattere  oggettivo,  rappresentati
dall'avvenuto pagamento e dalla mancanza di causa. 
    Anche in materia tributaria vale il principio della ripetibilita'
dell'indebito,  ma  il   diritto   alla   ripetizione   puo'   essere
legittimamente limitato o escluso dal legislatore, al fine di evitare
un  ingiustificato  arricchimento  del  solvens,  allorche'  il  peso
economico dell'imposta  sia  stato  da  questi  trasferito  su  altri
soggetti, e cio' sia nel caso in cui tale trasferimento sia  previsto
da norme di legge, sia quando esso avvenga mediante un meccanismo  di
traslazione puramente economica. inglobando l'ammontare  dell'imposta
nel prezzo di vendita dei  beni  prodotti  o  dei  servizi  resi  dal
soggetto che abbia eseguito la prestazione tributaria non dovuta. 
    La traslazione  dell'imposta,  in  quanto  fatto  impeditivo  del
diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in  via  di
eccezione dall'accipiens (art. 2697 del codice civile). 
    La norma impugnata,  invece,  onerando  il  solvens  della  prova
(negativa) della mancata  traslazione  dell'imposta  ha  operato  una
inversione legale dell'onere della prova lesiva del  generale  canone
di ragionevolezza garantito dall'art. 3 della Costituzione. 
    Tale inversione rinviene, infatti, nella specie, la  sua  ragione
nell'intento di attribuire all'amministrazione finanziaria  convenuta
con l'azione di ripetizione una posizione di  particolare  privilegio
in sede  probatoria.  Privilegio  del  tutto  ingiustificato  ove  si
consideri che l'amministrazione e' l'accipiens di  un  pagamento  non
dovuto che in quanto  tale  dovrebbe  essere,  in  base  ai  principi
generali, restituito. 
    E, d'altro canto, la pur contestata ricorrenza, nella  normalita'
delle ipotesi, del fenomeno  della  traslazione  non  potrebbe  certo
giustificare  la  suddetta  inversione,  ma,  semmai,   valere   come
argomento di prova utilizzabile, in giudizio, dall'accipiens. 
    Il vulnus al principio di ragionevolezza che  si  viene  cosi'  a
determinare  comporta  l'illegittimita'  costituzionale  della  norma
impugnata,  nella  parte  in  cui  pone  a  carico   dell'attore   in
ripetizione l'onere di provare la  mancata  traslazione  dell'imposta
invece di prevedere che la  domanda  debba  essere  respinta  qualora
l'amministrazione convenuta provi che il peso economico  dell'imposta
e' stato trasferito dal solvens su altri soggetti». 
    Anche in relazione all'art. 18, 7° comma, legge n.  300/1970  non
si comprende la ragionevolezza di andare a  porre  tale  onere  della
prova in capo al lavoratore, posto che come sopra evidenziato,  tutti
gli  oneri  della  prova  in  materia  di  esistenza  dei  fatti  che
giustificano il licenziamento gravano (ex art. 2697 del codice civile
ed ex art. 5, legge n. 604/1966) sul datore di lavoro, posto  che  si
tratta di fatti costitutivi di un potere dallo stesso esercitato, che
si tratterebbe per il lavoratore della prova di un fatto  negativo  e
che  i  fatti  in  questione  rientrano  pienamente  nella  sfera  di
disponibilita' anche probatoria del datore di lavoro (principio della
vicinanza della  prova:  Cass.  SS.UU.  n.  13533/2001  e  successive
pronunce conformi). 
    Infatti, visto che  il  datare  di  lavoro  e'  l'unico  completo
dominus del giustificato motivo oggettivo, avendo ideato e realizzato
la modifica organizzativa, avendola poi messa in atto, avendo  scelto
il lavoratore da licenziare, avendo tentato  il  ripescaggio,  avendo
scritto la lettera di licenziamento, non si comprende come lo  stesso
potrebbe mai non essere in grado - se non per sua causa o per vicende
processuali allo stesso comunque  riferibili  in  forza  del  mandato
difensivo  -  di  provare  compiutamente  le  proprie   ragioni,   se
sussistenti, ne' si comprende  il  motivo  per  cui  dovrebbe  essere
esentato (per un qualunque effetto di legge) da tale onere. 
    Il datore di  lavoro  ha  pieno  e  completo  accesso  (essendone
proprietario) a tutte le scritture  contabili,  al  libro  unico  del
lavoro, ai contratti attivi e  passivi,  ai  nominativi  di  tutti  i
fornitori e dei  clienti,  nonche'  di  tutti  i  propri  lavoratori;
conosce l'esatta consistenza della propria azienda, forma e stato  di
tutte le strutture e di tutti i macchinari,  di  tutti  gli  appalti,
l'organigramma complessivo  e  quello  di  tutte  le  singole  unita'
produttive: puo' quindi  produrre  in  giudizio  tutti  gli  elementi
documentali necessari a dimostrare la  fondatezza  del  licenziamento
economico e puo' chiedere che vengano escussi  come  testimoni  tutti
coloro che possono confermare i suoi assunti. 
    Non vi e' alcun motivo (o ragione logica), quindi, di sgravare lo
stesso - ai fini della reintegra - dall'onere  della  prova  che  gli
competerebbe ordinariamente, mettendo in capo al  lavoratore  l'onere
di dimostrare circostanze alle quali lo  stesso  e'  estraneo  e  per
giunta coniando un onere della prova relativo ad  un  fatto  negativo
(circostanza quest'ultima non decisiva ma comunque rilevante)  e  dai
contorni indefiniti. 
    Lontananza  dai  fatti  che  e'  gia'  valsa  ad   orientare   la
giurisprudenza di legittimita' in  tema  di  onere  della  prova  nel
repechage,  con  il  superamento  dell'orientamento  che  in  passato
onerava il lavoratore dell'onere di allegazione di alcune circostanze
"a carico", quali p.e.  l'esistenza  di  posizioni  lavorative  nelle
quali il lavoratore avrebbe potuto  fruttuosamente  essere  impiegato
dal  datare  per  evitare  il  licenziamento  (per  tutte  v.   Cass.
12794/2018, dalla quale si evince che le allegazioni  del  lavoratore
hanno il contenuto di un'eccezione e sono necessarie solo  quando  il
datore ha superato positivamente il proprio onere probatorio: In tema
di licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo,  sebbene  non
sussista un onere del lavoratore di  indicare  quali  siano  i  posti
disponibili in azienda ai fini del  "repêchage",  gravando  la  prova
della impossibilita' di ricollocamento  sul  datare  di  lavoro,  una
volta  accertata,  anche  attraverso  presunzioni  gravi,  precise  e
concordanti, tale impossibilita',  la  mancanza  di  allegazioni  del
lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa  disponibile
vale a corroborare il descritto quadro probatorio»). 
    In conclusione, la scelta del legislatore del  2012,  laddove  ha
invertito - ai fini della sola reintegra  peraltro  -  l'onere  della
prova in tema  di  prova  del  fatto  posto  a  base  del  G.M.O.  e'
irragionevole. 
    Non si vede come mai il  lavoratore  potrebbe  (oltre  che,  come
detto, perche' dovrebbe) dimostrare fatti organizzativi  negativi  (e
che  gli  sono  fisiologicamente  estranei)  secondo  un   metro   di
valutazione "aggravato", laddove il datore non abbia  saputo  fornire
prova positiva degli stessi. 
5° Vizio: Illegittimo  bilanciamento  tra  valori  costituzionali  in
materia. 
    Si tratta della problematica di maggiore delicatezza, posto  che,
come detto, il legislatore ha discrezionalita' in materia  e  che  il
sindacato costituzionale all'operato dello stesso e' possibile  entro
i ristretti limiti della violazione dei principi di eguaglianza e  di
ragionevolezza.  Dunque,  sia  considerando  questo  vizio  quale  un
difetto autonomo e aggiuntivo rispetto agli altri,  sia  considerando
lo stesso come  una  manifestazione  plastica  della  violazione  dei
canoni di eguaglianza e di ragionevolezza,  si  andranno  ad  esporre
alcuni vulnus a tali principi  che  si  riflettono  con  immediatezza
sulla serie di norme costituzionali che garantiscono il lavoro. 
    A completamento  del  ragionamento  sin  qui  svolto  va  infatti
ulteriormente censurato come il  bilanciamento  dei  valori  e  degli
interessi  (lavoro  e  impresa)  rappresentato   dalla   "mediazione"
contenuta nel 7° comma dell'art. 18 qui in esame, sia esso stesso  in
contrasto con gli articoli 1, 4 e 35 della  Costituzione,  risultando
marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del  datore
di lavoro e,  di  contro,  ingiustificatamente  penalizzante  per  il
lavoratore. 
    E questo in violazione in particolare dei principi costituzionali
appena citati. 
    Come gia' sopra esposto, la complessiva  struttura  e  fondamenta
della nuova versione dell'art. 18 rappresentano  gia'  una  ulteriore
mediazione tra i diritti del lavoratore e del datare di lavoro. 
    In particolare si  considerino  la  limitazione  della  reintegra
all'ipotesi   di   insussistenza   del   fatto,    (conseguentemente)
l'esclusione della sproporzione dall'area della reintegra (per motivi
soggettivi), la tutela meramente risarcitoria (di  importo  inferiore
alle altre ipotesi) per una rilevante serie di ipotesi,  tra  cui  in
particolare i vizi meramente formali. 
    Il limite ulteriore rappresentato dalla necessita' che il fatto a
base del G.M.O. non sia solo insussistente, ma lo sia  manifestamente
(con tutto il portato in  termini  di  incertezza,  indeterminatezza,
soggettivismo  che  ne  conseguono),   rappresenta   un   illegittimo
bilanciamento tra i valori in gioco delle due parti del rapporto. 
    Discrimina ipotesi se non  essenzialmente  identiche,  ampiamente
omogenee (manifesta  insussistenza  nel  licenziamento  soggettivo  e
oggettivo,  nel  licenziamento  individuale   e   collettivo)   senza
aggiungere un elemento razionale  e  verificabile  a  tutela  di  una
particolare e garantita necessita'  imprenditoriale  (se  non  quella
spicciola di escludere, in alcuni casi concreti  e  casualmente,  una
reintegra altrimenti dovuta). 
    Del tutto irragionevole e sbilanciata risulta poi  la  scelta  di
invertire l'onere della prova ponendo in capo al lavoratore un  onere
positivo  di  dimostrazione   della   sussistenza   della   manifesta
infondatezza. 
    Qui, senza alcuna necessita' probatoria specifica, quasi  secondo
un logica uguale ma contraria a  quella  postulata  dall'art.  3,  2°
comma, la parte forte  del  rapporto  e  nella  piena  condizione  di
accesso  a  tutti  i  fatti  ed  elementi  della  fattispecie,  viene
esonerata da parte del proprio connaturato  ed  ordinario  (2697  del
codice civile e  art.  5,  legge  n.  604/1966)  onere  della  prova,
mettendo la legge a carico della parte debole del rapporto  la  prova
di circostanze dai contorni indefiniti, negative  ed  a  quest'ultima
estranee. 
    Se la scelta dei legislatore di creare un sistema di  graduazione
delle tutele in funzione della  graduazione  del  vizio  deve  essere
rispettata - ragione per cui la reintegra deve spettare  per  i  vizi
massimi e piu' gravi dei licenziamenti -,  ne  vanno  tratte,  pero',
tutte le conseguenze che logicamente ne discendono: in presenza di un
vizio massimo quale l'insussistenza del fatto, la tutela deve  essere
quella massima, ossia la garanzia del posto di lavoro, analogamente a
quanto avviene (pure qui frutto del bilanciamento degli  interessi  e
dei valori costituzionali in campo) in tema di motivi soggettivi e di
licenziamenti collettivi (Corte cost. n. 59/2021: 
    «L'insussistenza del fatto, pur con  le  diverse  gradazioni  che
presenta  nelle  singole  fattispecie  di  licenziamento,  denota  il
contrasto   piu'   stridente   con   il   principio   di   necessaria
giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha
enucleato sulla base degli articoli 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41  del
2003, punto 2.1. del Considerato in diritto»). 
    La garanzia per  le  scelte  imprenditoriali  legittime  -  sopra
soglia - e' gia' assicurata dalla verifica ad opera del giudice  (con
il doppio grado di merito ed  anzi  con  anche  un  terzo  grado  sul
rispetto  delle  prerogative  delle  scelte  imprenditoriali)   della
necessita'  che  il  fatto  posto  a  fondamento  del   licenziamento
effettivamente sussista, senza alcuna necessita' di filtri o ostacoli
ulteriori per il riconoscimento al lavoratore  -  ove  il  fatto  non
sussista - della reintegra nel posto di lavoro. 
    Si ritiene essere invece incompatibile con il bilanciamento fatto
dal  legislatore  (vizio  massimo,  tutela  massima),  la  scelta  di
subordinare la reintegra in ipotesi di G.M.O. economico insussistente
ad ulteriori, vaghi e discrezionali elementi che nulla aggiungono ne'
al disvalore della fattispecie estintiva (il vizio e'  sempre  quello
massimo), ne' in funzione della tutela della liberta'  di  iniziativa
economica  privata  (il  fatto  di  G.M.O.  e'  gia'  accertato  come
insussistente). 
6° Vizio: Violazione del secondo comma dell'art. 3 Cost. 
    «E' compito della Repubblica rimuovere  gli  ostacoli  di  ordine
economico  e  sociale,  che,  limitando  di  fatto  la   liberta'   e
l'eguaglianza dei cittadini,  impediscono  il  pieno  sviluppo  della
persona umana e l'effettiva  partecipazione  di  tutti  i  lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 
    Si ha al riguardo motivo di ritenere che l'art. 3, 2° comma  osti
ad una disciplina normativa  che  realizzi  l'effetto  (non  gia'  di
rimuovere, bensi') di amplificare tali ostacoli, con  la  conseguente
limitazione di liberta' e di eguaglianza del lavoratore. 
    Nel  caso  di  specie,  gli  ostacoli  economici  e  sociali  che
distinguono datore di lavoro sopra  soglia  e  lavoratore,  limitando
l'eguaglianza e la liberta'  del  secondo  (tanto  che  in  corso  di
rapporto per la Corte costituzionale - nn. 63/1966,  174/1972,  oltre
alle sei sentenze del 1979 - e per la giurisprudenza di  legittimita'
- per tutte n. 7640/2012 - non decorre nemmeno  la  prescrizione,  in
assenza di garanzia - la reintegra - di  stabilita'),  non  solo  non
sono  eliminati,  bensi'  sono  stati  dal  legislatore   rinforzati,
esaltati, con legge n. 92/2012, laddove  ha  introdotto  il  criterio
della manifesta insussistenza del fatto nell'art. 18, 7° comma. 
    Tale particella normativa ha un effetto contrario al principio di
uguaglianza sostanziale, nella misura in cui scarica  sul  lavoratore
licenziato un onere della prova che dovrebbe  essere  del  datore  di
lavoro (e lo sarebbe per le  regole  generali  sia  civilistiche  che
lavoristiche). 
    Ha ancora  un  effetto  contrario  al  principio  di  uguaglianza
sostanziale laddove (sempre a  differenza  degli  altri  settori  del
diritto civile e del lavoro) subordina la tutela reintegratoria  (che
al contrario si muove  sulla  linea  dell'art.  3,  2°  comma  Cost.,
unitamente  agli  articoli  1,  4,  35  e  42,  2°   comma)   ad   un
"aggravamento" probatorio, che non ha eguali in  capo  sostanziale  e
che viene posto a carico del solo lavoratore. 
    Lavoratore chiamato a provare  un  fatto  dai  contorni  incerti,
negativo  e  che   gli   e'   fisiologicamente   estraneo   (e   che,
semplicemente, si limita a subire). 
    Tale particella normativa ha ancora un siffatto effetto contrario
al principio di uguaglianza sostanziale,  nell'interpretazione  della
norma  secondo  il  diritto  vivente,   perche'   introduce   criteri
limitativi dei diritti del lavoratore che operano in modo  arbitrario
e casuale. 
    In particolare, la liberta' del lavoratore  risulta  notevolmente
limitata dall'essere il diritto alla reintegra (previsto dall'O.G. in
relazione alle ipotesi - sia di licenziamenti motivi  soggettivi  che
oggettivi  -  di  fatti  insussistenti)  limitato  non   gia'   entro
determinati confini di fattispecie (p.e. la graduazione delle  tutele
in funzione della graduazione  del  disvalore  dei  vizi  dell'atto),
bensi'  sulla  base  di  un  indeterminato  criterio  di  valutazione
discrezionale della  prova  suscettibile  di  esatta  definizione  (e
comprensione) solo ex post ed all'esito del singolo giudizio. 
    E  con  valutazione,  come  detto,  non  replicabile  perche'  il
criterio e' totalmente discrezionale e soggettivo. 
    Perche', come detto, cio' che puo' essere il "torto  marcio"  per
un giudice, magari non lo e' per un  altro  magistrato  (ma  comunque
sempre a parita' di fatto comunque "semplicemente" insussistente). 
    Cio'  impedisce  al  lavoratore  ex  ante  di   potere   decidere
scientemente e, quindi, liberamente  dei  propri  diritti,  gia'  fin
dalla scelta se impugnare o meno il licenziamento (perche'  rilevanti
sono gli effetti della stabilita' reale per la vita del  lavoratore),
sino a che  punto  gli  sia  conveniente  iniziare  e  proseguire  il
giudizio o piuttosto  addivenire  ad  una  conciliazione,  nonche'  -
infine ma non per ultimo - su quali  basi  oggettive  determinare  il
contenuto della propria richiesta transattiva e, infine,  conciliarsi
con la controparte. 
    Tutte  incertezze  queste  che  derivano  da  un   criterio   non
definitorio    di    una    fattispecie    rimediale     (determinato
vizio-determinata tutela), bensi' pseudo probatorio (forse un  domani
il  singolo  fatto  concreto  potrebbe  essere  ritenuto  di   facile
accertamento nella sua  "peculiare  difformita'  rispetto  alla  mera
assenza dei presupposti del licenziamento", forse no), incertezze che
tuttavia  incidono  in  maniera  rilevantissima  sulla  liberta'   di
determinazione del lavoratore in relazione alla tutela di un  diritto
oggetto di rilievo e tutela costituzionale. 
    Va qui naturalmente richiamato tutto quanto esposto in  relazione
agli altri dedotti vizi e che concorre a dare corpo  alla  violazione
dell'art. 3, 2° comma. 
    In particolare  a  tutte  le  problematiche  emerse  in  tema  di
uguaglianza e di violazione della stessa ( ...  «limitando  di  fatto
... l'eguaglianza dei cittadini...»). 
    Va conclusivamente  osservato  che  la  particella  normativa  in
contestazione si  muove  su  una  direttrice  diametralmente  opposta
rispetto a quanto imposto dall'art. 3, 2° comma, mirando in  concreto
a pregiudicare la situazione giuridica del lavoratore di fronte ad un
atto di licenziamento economico in ordine  al  quale  il  giudice  ha
ritenuto  l'insussistenza  del  fatto  posto  alla   base   dell'atto
espulsivo, anche e semplicemente per non averlo il datore dimostrato. 
7° Vizio: Il diritto di agire in giudizio. 
    Come gia' sopra accennato, vi sono forti attriti  tra  la  regola
della   manifesta   insussistenza   del   fatto   ed    il    diritto
costituzionalmente tutelato di agire in giudizio a difesa dei  propri
diritti. Oltre a quanto sino a questo punto gia'  evidenziato  (e  in
relazione al quale va riferito anche il qui prospettato contrasto con
l'art. 24 Cost.), devono ora mettersi in  luce  ulteriori  aporie  ed
elementi di contrasto. 
    Il piu' evidente e' quello per cui  una  tutela  sostanziale  non
puo' dipendere dal grado di "semplicita'" di una causa, per cui se un
accertamento e' facile l'ordinamento appronta una determinata tutela,
mentre se l'accertamento  e'  difficile,  viene  erogata  una  tutela
diversa e inferiore. 
    Va inoltre  rilevato  come  il  meccanismo  qui  censurato  renda
eccessivamente difficoltoso l'esercizio del diritto  del  lavoratore,
alla  luce  dell'inversione  dell'onere  della  prova   operata   dal
legislatore in relazione a fatti  che  esulano  dalla  disponibilita'
fisiologica dello stesso: se il datore di lavoro (dominus del  fatto)
non e' risuscito a dimostrare la fondatezza del proprio licenziamento
economico in tutti gli elementi che ne costituiscono il "fatto" (cio'
che,  in  assenza   dell'aggettivo   "manifesta"   condurrebbe   alla
reintegra), come si puo' pensare che  il  lavoratore  (a  tali  fatti
estraneo) sia in grado di dimostrare la manifesta  insussistenza  del
fatto in questione ? 
    Inoltre, il criterio  della  manifesta  insussistenza  del  fatto
compromette (rendendo eccessivamente difficoltoso l'esercizio del suo
diritto) l'esatta possibilita' di  valutare  ex  ante  da  parte  del
lavoratore le proprie chance di successo (e, dunque, di  determinarsi
sul se e come fare valere i propri diritti  in  giudizio)  e  cio'  a
causa di un meccanismo privo di criteri applicativi  oggettivi  e  il
cui funzionamento processuale necessariamente ex post (perche'  prima
della fine della causa non e' dato sapere in quali casi spettera'  la
reintegra e in quali no, a parita' di  insussistenza  "semplice"  del
fatto) va ad incidere sulla regola sostanziale. 
    Cartina al  tornasole  del  rigetto  da  parte  del  sistema  del
trapianto del criterio della manifesta insussistenza  lo  si  ha  poi
analizzando le  correlazioni  tra  lo  stesso  e  la  disciplina  dei
procedimenti cautelari. 
    Questi ultimi ed in particolare il sequestro conservativo  ed  il
provvedimento   d'urgenza   non   sono    preclusi    ontologicamente
dall'applicazione del rito di cui all'art.  1,  commi  47  ss.  della
legge n. 92/2012. 
    Tuttavia i procedimenti  cautelari  sono  regolati  dalla  regola
probatoria  del  fumus  boni  iuris,  che  pacificamente  indica   la
verosimiglianza del diritto che si fara' valere (per i  provvedimenti
anticipatori anche in via eventuale) in sede di merito. 
    Ma tale criterio appare inconciliabile con quello della manifesta
infondatezza (la "verisimiglianza manifesta" risulta un ossimoro). 
    Conseguentemente,    gli    strumenti     cautelari     sarebbero
essenzialmente preclusi nella materia in questione. 
    Cio'  che  rappresenta  una   ulteriore   lesione   del   diritto
all'azione, oltre che dell'art. 3, 1° comma Cost. 
8 - Conclusioni. 
    Alla luce  di  tutto  quanto  argomentato  sinora,  la  questione
prospettata con  la  presente  ordinanza  appare  non  manifestamente
infondata. 
    Concludendo, si domanda alla Corte costituzionale  l'eliminazione
della particella "manifesta" contenuta nell'art. 18, 7° comma,  legge
n. 300/1970, cosi come risultante dalla modifica ad opera della legge
n. 92/2012, con la conseguente spettanza della tutela  reintegratoria
in ipotesi di insussistenza del fatto di G.M.O. economico. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il Tribunale di Ravenna, ritenuta la questione  rilevante  e  non
manifestamente infondata dispone, ai sensi e per gli effetti  di  cui
all'art. 23 della  legge  n.  87/1953,  la  trasmissione  degli  atti
(comprese le comunicazioni e le notificazioni di  cui  alla  presente
ordinanza)  del  presente  procedimento  alla  Corte   costituzionale
affinche' valuti se sia costituzionalmente legittimo, con riferimento
agli articoli 1, 3, I° e II° comma, 4, 24, 35, Cost., l'art.  18,  7°
comma legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che, in  caso  di
insussistenza del fatto, per disporre la reintegra  occorra  un  quid
pluris   rappresentato   dalla   dimostrazione   della    «manifesta»
insussistenza del fatto stesso; 
    ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    dispone, altresi', che la presente ordinanza sia  comunicata  con
immediatezza ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; 
    dispone la sospensione del presente giudizio sino alla  decisione
della Corte costituzionale. 
      Ravenna, 6 maggio 2021 
 
                        Il Giudice: Bernardi