N. 169 SENTENZA 27 maggio - 23 luglio 2021

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Responsabilita' civile - Responsabilita' dei magistrati per  i  danni
  cagionati   nell'esercizio   della   funzione   giurisdizionale   -
  Abolizione  del   c.d.   filtro   di   ammissibilita'   dell'azione
  risarcitoria   -   Denunciata   irragionevolezza,   disparita'   di
  trattamento, violazione dei principi di soggezione del giudice solo
  alla  legge,  nonche'  di  autonomia,  indipendenza,  terzieta'   e
  imparzialita'  della  magistratura,   sia   ordinaria   sia   delle
  giurisdizioni speciali - Non fondatezza delle questioni. 
- Legge 13 aprile 1988, n. 117, art.  9,  comma  1,  come  modificato
  dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18. 
- Costituzione, artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108. 
(GU n.30 del 28-7-2021 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma  1,
della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni  cagionati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie  e  responsabilita'  civile
dei magistrati), come modificato dall'art. 6, comma 1, della legge 27
febbraio 2015, n. 18 (Disciplina  della  responsabilita'  civile  dei
magistrati), promossi dal Giudice istruttore del Tribunale  ordinario
di Salerno con due ordinanze del 29 giugno  e  del  13  agosto  2020,
iscritte, rispettivamente, al n. 141 del registro ordinanze 2020 e al
n. 13  del  registro  ordinanze  2021  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 42,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2020 e n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 28  aprile  2021  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 27 maggio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con due ordinanze, di analogo  tenore,  del  29  giugno  2020
(r.o. n. 141 del 2020) e del 13 agosto 2020 (r.o. n. 13 del 2021), il
Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno  ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma,  e
108 della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  9,  comma  1,  della  legge  13  aprile   1988,   n.   117
(Risarcimento  dei  danni  cagionati  nell'esercizio  delle  funzioni
giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati), come modificato
dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina
della responsabilita' civile dei magistrati), nella parte  in  cui  -
secondo l'unica interpretazione della disposizione che il  giudice  a
quo ritiene possibile - impone «al Tribunale investito dell'azione di
risarcimento  dei  danni   nei   confronti   dello   Stato   per   la
responsabilita' dei Magistrati di trasmettere immediatamente, per  il
solo fatto della proposizione  della  domanda  giudiziale,  sempre  e
comunque, gli atti del procedimento al Procuratore Generale presso la
Corte di Cassazione, determinando cosi' l'obbligo per quest'ultimo di
esercitare, nei confronti dei Magistrati i cui atti, comportamenti  e
provvedimenti si assumono forieri di  danno,  l'azione  disciplinare,
per i fatti che hanno dato  luogo  alla  proposizione  della  domanda
risarcitoria». 
    1.1.- Il rimettente premette di essere investito,  quale  giudice
istruttore, di giudizi promossi nei  confronti  dello  Stato  per  il
risarcimento  dei  danni   provocati   da   atti,   comportamenti   e
provvedimenti di alcuni magistrati ordinari. 
    Nel corso dei procedimenti, il difensore delle parti  attrici  ha
chiesto che venga disposta la trasmissione degli atti al  Procuratore
generale presso la Corte di cassazione, ai sensi  dell'art.  9  della
legge n. 117  del  1988,  per  l'esercizio  obbligatorio  dell'azione
disciplinare nei confronti dei medesimi magistrati  relativamente  ai
fatti posti a fondamento dell'azione risarcitoria. 
    1.2.- Al riguardo, il giudice a quo rileva che l'art. 5, comma 5,
della legge n.  117  del  1988,  nella  formulazione  anteriore  alla
riforma operata con la legge n. 18 del 2015, stabiliva che  «[s]e  la
domanda  e'  dichiarata   ammissibile,   il   tribunale   ordina   la
trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare
[...]», subordinando cosi'  tale  provvedimento  al  superamento  del
cosiddetto filtro di ammissibilita'  dell'azione  di  responsabilita'
civile previsto dallo stesso art. 5 della legge n. 117 del 1988. 
    L'art. 9, comma l, della legge n. 117 del 1988 prevedeva,  a  sua
volta, che il Procuratore generale  presso  la  Corte  di  cassazione
dovesse  esercitare  l'azione   disciplinare,   nei   confronti   dei
magistrati ordinari per i fatti che hanno dato  causa  all'azione  di
risarcimento, entro due mesi dalla comunicazione  di  cui  al  citato
comma 5 dell'art. 5. 
    L'art. 3, comma 2, della legge  n.  18  del  2015  ha,  peraltro,
abrogato  integralmente  l'art.  5  della  legge  n.  117  del  1988,
eliminando   cosi'   il   filtro   di   ammissibilita'    dell'azione
risarcitoria, la quale va dunque trattata e istruita a prescindere da
qualsiasi vaglio preliminare circa  il  rispetto  dei  termini  e  la
sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge n.
117 del 1988, nonche' in ordine alla sua non manifesta infondatezza. 
    Al contempo, l'art. 6, comma 1, della legge n.  18  del  2015  ha
modificato  l'art.  9,  comma  1,  della  legge  n.  117  del   1988,
sopprimendo il riferimento al termine di due mesi dalla comunicazione
di cui all'art. 5, comma 5,  della  stessa  legge,  di  modo  che  la
disposizione attualmente recita: «[i]l procuratore generale presso la
Corte  di  cassazione  per  i  magistrati  ordinari  o  il   titolare
dell'azione disciplinare negli altri casi devono esercitare  l'azione
disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno  dato
causa all'azione di  risarcimento,  salvo  che  non  sia  stata  gia'
proposta». 
    Ad avviso del rimettente, in seguito a tali modifiche, l'art.  9,
comma 1, della legge n. 117 del 1988 sarebbe suscettibile di un'unica
interpretazione:   il    tribunale,    investito    dell'azione    di
responsabilita'  civile  per  danni  cagionati  nell'esercizio  delle
funzioni giudiziarie, sarebbe  tenuto  -  per  il  solo  fatto  della
proposizione dell'azione - a trasmettere copia degli atti al titolare
dell'azione  disciplinare,   cosi'   da   consentire   l'obbligatorio
esercizio di quest'ultima. 
    Tale  interpretazione  si  imporrebbe  anzitutto  per  il  tenore
letterale della norma, che fa riferimento  all'esercizio  dell'azione
disciplinare da parte del Procuratore generale «per i fatti che hanno
dato causa all'azione di risarcimento», e non per  la  decisione  che
definisce  il  giudizio:  dunque,  per  i  fatti  come  rappresentati
nell'atto introduttivo. 
    Militerebbero nella stessa  direzione  anche  ragioni  di  ordine
logico e sistematico, che  imporrebbero  di  valorizzare  la  portata
innovativa della  legge  n.  18  del  2015.  Al  fine  di  assicurare
l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione disciplinare per i fatti
in questione, si renderebbe  necessario  che  il  giudice  adito  con
l'azione risarcitoria trasmetta gli  atti  al  Procuratore  generale,
quale effetto automatico della mera proposizione della domanda. 
    Il momento dal quale sorge l'obbligo di trasmissione  degli  atti
non potrebbe essere individuato, d'altra parte, nella decisione sulla
domanda, ne' tanto meno nel suo  passaggio  in  giudicato,  ponendosi
simili soluzioni in contrasto con l'art. 6, comma 2, della  legge  n.
117 del 1988, secondo  cui  la  decisione  pronunciata  nel  giudizio
promosso contro lo Stato non fa stato nel procedimento disciplinare. 
    L'insorgenza dell'obbligo di trasmissione degli atti non potrebbe
neppure essere collegata alla instaurazione del giudizio  di  rivalsa
nei confronti del magistrato, da  parte  dello  Stato  condannato  al
risarcimento dei danni,  poiche'  il  legislatore  ha  scartato  tale
soluzione, che pure era stata prospettata nel  disegno  di  legge  di
iniziativa governativa A.S. n. 1626 (art. 3, comma 3). 
    1.3.- L'esito interpretativo ora esposto  genererebbe,  tuttavia,
seri  dubbi  sulla  legittimita'  costituzionale  dell'attuale  testo
dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988. 
    Le questioni sarebbero rilevanti nei giudizi a quibus - aventi ad
oggetto l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato per attivita'
riferibili a magistrati ordinari  -  in  quanto,  non  essendo  stata
ancora disposta la trasmissione degli atti  al  Procuratore  generale
presso la Corte di cassazione, il rimettente, quale «assegnatario del
procedimento», sarebbe tenuto a provvedervi. 
    Peraltro, sottolinea il giudice a quo, come  chiarito  da  questa
Corte (sono citate le sentenze n. 18 del 1989, n. 196 del 1982  e  n.
125 del 1977), debbono ritenersi  influenti  sul  giudizio  anche  le
norme che, pur non  essendo  direttamente  applicabili  nel  processo
principale, attengono allo status del giudice, alla sua composizione,
nonche', in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo
operare. 
    1.4.- Quanto, poi, alla  non  manifesta  infondatezza,  la  norma
censurata -  secondo  il  rimettente  -  si  porrebbe  in  contrasto,
anzitutto, con l'art. 3 Cost., per  contrasto  con  il  principio  di
ragionevolezza. 
    Con la sentenza n. 164 del 2017, questa  Corte  ha  ritenuto  che
l'abolizione del filtro di ammissibilita' -  in  precedenza  previsto
per evitare la proposizione di azioni risarcitorie  infondate  e  non
compromettere   la   serenita'   nell'espletamento   delle   funzioni
giudiziarie - si giustifichi nell'ottica di assicurare l'effettivita'
della tutela giurisdizionale del  cittadino,  senza  che  ne  risulti
pregiudicato l'equo contemperamento  dei  contrapposti  interessi  in
gioco (il quale e' stato realizzato dal legislatore della riforma per
altra via: mantenendo, cioe', il divieto dell'azione  diretta  contro
il  magistrato;  prevedendo,  poi,  presupposti   autonomi   e   piu'
restrittivi per l'azione di rivalsa contro il magistrato,  attivabile
solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel  giudizio  di
danno; mantenendo, infine, un limite della misura della rivalsa). 
    Tale ragionamento non sarebbe, tuttavia, estensibile  all'obbligo
di trasmissione degli  atti  per  l'esercizio  immediato  dell'azione
disciplinare, previsto - secondo il  giudice  a  quo  -  dalla  norma
denunciata. Tale azione riguarda, infatti,  il  rapporto  di  impiego
sussistente tra lo Stato  e  il  magistrato  e  la  violazione  degli
obblighi funzionali da esso scaturenti, senza alcuna incidenza  sulla
posizione del soggetto che  ha  proposto  l'azione  risarcitoria,  il
quale  non  trae  nessun  vantaggio   dall'avvio   del   procedimento
disciplinare,  ne'   tanto   meno   dall'applicazione   di   sanzioni
disciplinari al  magistrato,  di  modo  che  l'obbligo  in  questione
resterebbe privo di giustificazione. 
    L'irragionevolezza  della   norma   censurata   si   coglierebbe,
peraltro, anche sotto quattro ulteriori profili. 
    In   primo   luogo,   l'obbligo   in   discorso    modificherebbe
sensibilmente  l'assetto  della  responsabilita'   disciplinare   dei
magistrati: esito, questo, estraneo agli obiettivi della legge n.  18
del 2015, con la quale il  legislatore  intendeva  solo  regolare  in
termini piu' rigorosi  i  rapporti  risarcitori  tra  lo  Stato  e  i
cittadini,  in  modo  da  superare  i  profili  di  contrasto   della
precedente disciplina con il diritto comunitario  posti  in  evidenza
dalla Corte di giustizia dell'Unione europea. 
    Altro profilo di irragionevolezza  risiederebbe  nel  fatto  che,
cosi' come interpretato, l'art. 9, comma l, della legge  n.  117  del
1988  stabilirebbe  una  sorta  di  pregiudizialita'  dell'azione  di
responsabilita' civile rispetto a quella  disciplinare,  in  antitesi
con quanto previsto dal comma 2 dello stesso articolo, il quale,  nel
prevedere che «[g]li atti del giudizio  disciplinare  possono  essere
acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa»,
consente una qualche incidenza del giudizio disciplinare su quello di
responsabilita' civile - sia pure in sede  di  rivalsa  -  e  non  il
contrario. 
    In terzo luogo, poi, la norma  censurata  confliggerebbe  con  il
principio generale di autonomia  della  responsabilita'  disciplinare
rispetto  alla  responsabilita'  civile,  sancito  dall'art.  20  del
decreto legislativo  23  febbraio  2006,  n.  109  (Disciplina  degli
illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della
procedura  per  la  loro  applicabilita',  nonche'   modifica   della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati,  a  norma  dell'articolo  1,
comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), secondo  cui
«[l']azione disciplinare e'  promossa  indipendentemente  dall'azione
civile di risarcimento del danno [...]» (comma 1). 
    La  disposizione  colliderebbe,  infine,  con  il  principio   di
tipicita' degli illeciti disciplinari dei  magistrati,  i  quali,  ai
sensi degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006,  costituiscono
un   numerus   clausus.    L'esercizio    obbligatorio    dell'azione
disciplinare, per il semplice fatto  della  proposizione  dell'azione
risarcitoria, darebbe vita, di contro,  a  un  illecito  disciplinare
"processuale"  a  carattere  atipico,  dalla  portata  potenzialmente
illimitata, svuotando di  significato  la  tipizzazione  operata  dal
citato decreto legislativo. 
    L'art. 3 Cost. sarebbe  violato,  peraltro,  anche  sul  versante
della disparita' di trattamento. 
    Diversamente dall'art. 14 (recte: 15), comma 1, del d.lgs. n. 109
del  2006,  il  quale  esige,   per   il   promovimento   dell'azione
disciplinare da parte del Procuratore generale  presso  la  Corte  di
cassazione,  che  sia  presentata   una   «denuncia   circostanziata»
(contenente,  cioe',  «tutti  gli   elementi   costitutivi   di   una
fattispecie  disciplinare»),  la  norma   censurata   imporrebbe   di
procedere disciplinarmente per il solo fatto che  e'  stata  proposta
un'azione di risarcimento dei danni contro lo Stato, a prescindere da
qualsiasi valutazione prognostica sulla sua fondatezza. 
    1.5.- La norma censurata si porrebbe, altresi', in contrasto  con
gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma,  Cost.,  in  quanto
idonea a pregiudicare il principio di  soggezione  del  giudice  solo
alla legge e a  menomare  le  garanzie  di  autonomia,  indipendenza,
terzieta' e imparzialita' della magistratura. 
    L'obbligo in  parola  potrebbe  essere,  infatti,  sfruttato  dai
soggetti che si assumono danneggiati per influenzare le decisioni del
magistrato, turbandone la serenita'. Proponendo l'azione risarcitoria
nei  confronti  dello  Stato,  la  parte   interessata   verrebbe   a
coinvolgere automaticamente il magistrato non solo in un giudizio  di
responsabilita' civile, connesso al diritto  di  difesa  della  parte
stessa, ma anche in  un  procedimento  disciplinare,  che  espone  il
magistrato  al  rischio  di  applicazione  di  sanzioni  a  carattere
afflittivo. 
    Con la citata sentenza n. 164 del 2017, questa Corte ha  ritenuto
che la soppressione del filtro di ammissibilita' non violi i principi
di autonomia, indipendenza, terzieta' e imparzialita' del giudice, in
quanto la serenita' del giudice resta  salvaguardata  dal  fatto  che
egli non e' parte del giudizio per il risarcimento dei danni previsto
dalla legge n. 117 del 1988 (il quale si svolge tra il  soggetto  che
si asserisce danneggiato e lo Stato), nonche' dal mantenimento di una
misura massima della rivalsa.  Questi  presidi  non  operano,  pero',
rispetto all'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare, cui  la
trasmissione degli atti e' strumentale, posto che l'azione si  svolge
direttamente nei confronti del magistrato,  ne'  e'  prevista  alcuna
limitazione    delle    conseguenze     pregiudizievoli     derivanti
dall'eventuale applicazione di sanzioni disciplinari. 
    1.6.- Per le ragioni ora esposte, la norma  censurata  violerebbe
anche l'art. 108 Cost., laddove  stabilisce  che  la  legge  assicura
l'indipendenza  dei  giudici  speciali,   dato   che   l'obbligo   di
trasmissione degli atti riguarderebbe, ai sensi dell'art. 9, comma 1,
della legge n. 117 del  1988,  anche  magistrati  diversi  da  quelli
ordinari, compromettendo in tal modo la loro indipendenza,  terzieta'
e imparzialita'. 
    2.-  E'  intervenuto  in  entrambi  giudizi  il  Presidente   del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha  chiesto  che  le  questioni  siano
dichiarate inammissibili o infondate. 
    2.1.-  Ad  avviso  dell'Avvocatura  dello  Stato,  le   questioni
sarebbero  inammissibili  anzitutto  perche'  sollevate  dal  giudice
istruttore senza il vaglio del  collegio,  il  quale  avrebbe  dovuto
essere investito della decisione ai sensi dell'art. 189 del codice di
procedura civile, trattandosi di controversie attribuite al tribunale
in composizione collegiale, in virtu' dell'art. 50-bis, primo  comma,
numero 7), cod. proc. civ. 
    Le questioni sarebbero, in ogni  caso,  prive  di  rilevanza  nei
giudizi a quibus. Con  esse  il  rimettente  ha,  infatti,  censurato
l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione disciplinare  derivante,
in assunto, dalla norma denunciata: azione  rispetto  alla  quale  il
giudice a quo non ha alcuna competenza. 
    Peraltro, quando pure si accertasse  che  l'asserito  obbligo  di
esercizio dell'azione disciplinare, per il solo  fatto  dell'avvenuta
proposizione di un'azione risarcitoria, e' illegittimo, da  cio'  non
discenderebbe l'illegittimita' dell'obbligo di immediata trasmissione
degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Una
volta  rimosso,   infatti,   l'obbligo   di   esercizio   dell'azione
disciplinare, la  trasmissione  degli  atti  risulterebbe  del  tutto
innocua e inidonea a ledere i principi costituzionali richiamati  dal
rimettente. 
    Anche con  riguardo  al  petitum,  d'altro  canto,  le  questioni
presenterebbero tratti di equivocita' tali da renderle inammissibili.
Dal tenore delle ordinanze di rimessione, parrebbe, infatti, che, per
ricondurre a legittimita' costituzionale la norma censurata,  occorra
ripristinare il testo che essa aveva prima della novella del 2015, in
base al quale il titolare dell'azione disciplinare doveva esercitarla
entro due mesi dalla comunicazione di cui  al  comma  5  dell'art.  5
della legge n. 117 del 1988. Ma,  per  conseguire  questo  risultato,
occorrerebbe che fosse dichiarata illegittima anche l'abrogazione del
citato  art.  5,  disposta  dalla  stessa  legge  n.  18  del   2015:
declaratoria che il giudice a quo omette di chiedere. 
    2.2.- Nel merito, le questioni sarebbero -  secondo  l'Avvocatura
dello Stato - in ogni caso non fondate. 
    In primo luogo, riguardo all'unico tema sul quale  il  giudice  a
quo e' effettivamente chiamato a pronunciarsi -  ossia  l'obbligo  di
immediata trasmissione di copia degli atti  al  titolare  dell'azione
disciplinare - il percorso argomentativo svolto  nelle  ordinanze  di
rimessione risulterebbe errato. 
    L'abrogazione del filtro di ammissibilita' ha  portato,  infatti,
con se' l'abrogazione dell'obbligo di comunicazione  del  superamento
del "filtro", il riferimento  al  quale  e'  stato,  quindi,  espunto
dall'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988: con la conseguenza
che nessuna norma prevede oggi un obbligo di comunicazione degli atti
al Procuratore generale presso la Corte  di  cassazione,  ne',  tanto
meno, che tale obbligo debba  essere  adempiuto  in  qualche  preciso
momento processuale. 
    Un simile obbligo non potrebbe neppure essere  desunto  da  altre
norme, e in particolare dal censurato art. 9, comma 1, della legge n.
117 del 1988, il quale si  limita  attualmente  a  prevedere  che  il
Procuratore  generale  debba  esercitare  l'azione  disciplinare  nei
confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa  all'azione
di risarcimento, salvo sia  stata  gia'  proposta.  Nessun  argomento
potrebbe essere tratto, in particolare, dalla locuzione «per i  fatti
che hanno dato causa all'azione di risarcimento», la quale - anche  a
volerla intendere  come  riferita  ai  fatti  indicati  nell'atto  di
citazione - nulla dice riguardo al  momento  e  al  modo  in  cui  il
Procuratore generale debba venirne a conoscenza. 
    Se il legislatore avesse voluto imporre l'immediata  trasmissione
degli atti ai titolari dell'azione disciplinare non avrebbe  mancato,
d'altra parte, di stabilirlo espressamente, allo stesso modo  in  cui
in  precedenza  aveva  imposto  espressamente  la  trasmissione   del
provvedimento che dichiarava la domanda ammissibile. 
    Anche sul piano logico e sistematico, sarebbe  peraltro  evidente
che, se aveva un senso imporre la trasmissione del provvedimento  che
riconosceva l'ammissibilita' della domanda e far decorrere da essa il
termine per l'esercizio dell'azione disciplinare, perche' quel vaglio
attribuiva un particolare peso alla domanda in termini di fumus  boni
iuris, una volta che il vaglio preliminare e' venuto meno non avrebbe
senso un obbligo di immediata trasmissione degli atti e di  immediato
esercizio  dell'azione  disciplinare,  sulla   base   di   una   mera
prospettazione di parte. 
    2.3.- Parimente infondato si rivelerebbe l'ulteriore assunto  del
rimettente,  in  base  al  quale  i  titolari   dell'iniziativa   nel
procedimento disciplinare sarebbero  tenuti  ad  esercitare  l'azione
dopo aver ricevuto gli atti e senza alcun vaglio dei  fatti  indicati
nell'atto di citazione. 
    Se si raffronta il testo originario  della  norma  censurata  con
quello vigente, quel che si coglie e' che, mentre  in  precedenza  vi
era l'obbligo di procedere  disciplinarmente  entro  due  mesi  dalla
valutazione di ammissibilita' della domanda civile, ora -  caduto  il
vaglio di ammissibilita' -  quell'obbligo  e'  venuto  meno.  Il  che
sarebbe  del  tutto  comprensibile,  proprio  perche'  il  vaglio  di
ammissibilita' colorava di un fumus  boni  iuris  l'azione  civile  e
poteva quindi  costituire  un'idonea  base  per  l'avvio  dell'azione
disciplinare, peraltro in un contesto normativo - quello del  1988  -
nel  quale  non  vi  era  il  principio  di  tipicita'  dell'illecito
disciplinare. 
    Venuto  meno  il  vaglio  e,  con  esso,  il  termine  fisso  per
procedere, si sono riespanse in toto le  norme  generali  di  cui  al
d.lgs. n.  109  del  2006,  sulla  responsabilita'  disciplinare  dei
magistrati. Nel prevedere che il Procuratore generale presso la Corte
di cassazione debba esercitare l'azione disciplinare per i fatti  che
hanno dato causa all'azione di risarcimento, la norma  censurata  non
farebbe, in effetti, che riaffermare quanto gia' previsto  a  livello
generale dall'art. 14, comma 3, del citato  decreto  legislativo,  in
base  al  quale  «[i]l  Procuratore  generale  presso  la  Corte   di
cassazione ha l'obbligo di esercitare l'azione disciplinare». 
    Questa previsione, peraltro, ha il solo scopo di escludere che il
Procuratore generale abbia  un  potere  discrezionale:  ma  cio'  non
significa che l'azione disciplinare vada immancabilmente  esercitata,
solo  perche'   da   qualcuno   viene   rappresentato   un   illecito
disciplinare. L'esercizio dell'azione si impone solo ove un illecito,
fra quelli tipizzati  dallo  stesso  d.lgs.  n.  109  del  2006,  sia
effettivamente ravvisato: e cio' vale anche rispetto alla  previsione
dell'art. 9, comma 1, della  legge  n.  117  del  1988,  la  quale  -
contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo - non e', dunque,
in contrasto con il sistema della  responsabilita'  disciplinare  dei
magistrati. 
    D'altra parte, l'art. 15 del d.lgs. n. 109 del  2006  consente  a
chiunque  di  presentare   una   «denuncia   circostanziata»,   ossia
contenente  «tutti  gli  elementi  costitutivi  di  una   fattispecie
disciplinare». Nulla impedirebbe, pertanto, agli attori  nei  giudizi
civili trattati dal giudice a quo di presentare una  simile  denuncia
al titolare dell'azione disciplinare. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con due ordinanze di analogo tenore,  il  Giudice  istruttore
del Tribunale ordinario di Salerno dubita, in riferimento agli  artt.
3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e  108  della  Costituzione,
della legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,  della  legge
13  aprile  1988,  n.   117   (Risarcimento   dei   danni   cagionati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie  e  responsabilita'  civile
dei magistrati), come modificato dall'art. 6, comma 1, della legge 27
febbraio 2015, n. 18 (Disciplina  della  responsabilita'  civile  dei
magistrati), nella parte in cui  -  secondo  l'unica  interpretazione
della disposizione censurata che il rimettente  ritiene  possibile  -
impone al tribunale investito dell'azione  contro  lo  Stato  per  il
risarcimento dei danni conseguenti a condotte o provvedimenti  di  un
magistrato di trasmettere immediatamente, per  il  solo  fatto  della
proposizione della domanda, copia degli atti al Procuratore  generale
presso la Corte di cassazione, al fine  dell'obbligatorio  esercizio,
da parte di quest'ultimo, dell'azione disciplinare nei confronti  del
magistrato  per  i  fatti  che  hanno   dato   causa   alla   domanda
risarcitoria. 
    In tale lettura, la norma censurata violerebbe anzitutto l'art. 3
Cost.,  per  contrasto  con  il  principio  di  ragionevolezza  sotto
molteplici profili. 
    L'obbligo in questione non sarebbe, infatti, sorretto  da  alcuna
ragione   giustificatrice,   legata   all'esigenza   di    assicurare
l'effettivita' della  tutela  giurisdizionale  del  soggetto  che  si
assume  illegittimamente  danneggiato,  il  quale  non   trae   alcun
vantaggio dall'esercizio dell'azione disciplinare o dall'applicazione
di una sanzione disciplinare nei confronti del magistrato. 
    Il meccanismo denunciato modificherebbe,  inoltre,  sensibilmente
l'assetto della responsabilita' disciplinare dei magistrati, malgrado
non fosse questo l'obiettivo della legge n. 18 del 2015, con la quale
il legislatore intendeva solo regolare in  termini  piu'  rigorosi  i
rapporti risarcitori  tra  lo  Stato  e  i  cittadini;  istituirebbe,
altresi',   una   sorta   di    pregiudizialita'    dell'azione    di
responsabilita' civile rispetto a quella disciplinare,  in  contrasto
logico con quanto previsto dal comma 2  dello  stesso  art.  9  della
legge n. 117 del 1988, il quale consente una  qualche  incidenza  del
giudizio disciplinare su quello di responsabilita' civile (almeno  in
sede di rivalsa), e non viceversa; si porrebbe in contrasto,  ancora,
con i principi di autonomia  della  responsabilita'  civile  rispetto
alla responsabilita'  disciplinare  e  di  tipicita'  degli  illeciti
disciplinari dei  magistrati,  accolti  dal  decreto  legislativo  23
febbraio 2006, n. 109 (Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei
magistrati, delle relative sanzioni e della  procedura  per  la  loro
applicabilita',  nonche'  modifica  della  disciplina  in   tema   di
incompatibilita', dispensa dal servizio e  trasferimento  di  ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1,  lettera  f,  della
legge 25 luglio 2005, n. 150). 
    L'art.  3  Cost.  sarebbe  leso  anche  sotto  il  profilo  della
ingiustificata disparita' di trattamento. Diversamente dall'art.  15,
comma 1, del d.lgs. n.  109  del  2006  -  il  quale  esige,  per  il
promovimento  dell'azione  disciplinare,  che  sia   presentata   una
«denuncia  circostanziata»  -  la  norma  censurata   imporrebbe   di
procedere disciplinarmente per il solo fatto che  e'  stata  proposta
un'azione per il risarcimento di danni conseguenti  all'esercizio  di
funzioni giudiziarie: e  cio'  -  stante  l'avvenuta  abolizione  del
cosiddetto filtro di ammissibilita' della domanda - a prescindere  da
qualsiasi valutazione prognostica sulla sua fondatezza. 
    Risulterebbero violati, inoltre, gli artt. 101, secondo comma,  e
104, primo comma, Cost., in quanto l'obbligo censurato si tradurrebbe
in uno  strumento  utilizzabile  per  influenzare  le  decisioni  del
magistrato e turbarne la serenita', compromettendo cosi' il principio
di soggezione del giudice solo alla legge e le garanzie di autonomia,
indipendenza, terzieta' e imparzialita' della magistratura. 
    Per le stesse ragioni, la norma denunciata si  porrebbe,  infine,
in contrasto con l'art. 108 Cost., che garantisce l'indipendenza  dei
giudici speciali, in quanto l'obbligo in discorso riguarderebbe anche
magistrati diversi da quelli ordinari, compromettendo quindi la  loro
indipendenza, terzieta' e imparzialita'. 
    2.- Le ordinanze di  rimessione  sollevano  questioni  identiche,
sicche' i relativi giudizi vanno  riuniti  per  essere  definiti  con
unica decisione. 
    3.- Nell'affrontare il thema decidendum, occorre muovere  da  una
ricostruzione   della   genesi   dei   problemi    di    legittimita'
costituzionale sottoposti a questa Corte. 
    3.1.- Nel sistema delineato dalla  legge  n.  117  del  1988,  in
un'ottica di contemperamento dei contrapposti interessi in gioco, chi
si reputa ingiustamente danneggiato  per  effetto  di  comportamenti,
atti o provvedimenti di un magistrato, posti in  essere  con  dolo  o
colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per effetto  di
diniego di giustizia, non puo' agire per il risarcimento direttamente
nei confronti del magistrato (salvo che il fatto  costituisca  reato:
art. 13, comma 1), ma solo contro lo Stato (art.  2,  comma  1).  Ove
resti soccombente, lo Stato esercitera' a sua volta azione di rivalsa
nei confronti del magistrato (art. 7),  peraltro  con  un  limite  di
importo, pari a una frazione  (un  terzo,  oggi  la  meta')  del  suo
stipendio annuale netto al momento della proposizione  della  domanda
di risarcimento (art. 8, comma 3). 
    Nell'intento di bloccare, comunque sia,  sul  nascere  iniziative
pretestuose o maliziose, atte a turbare il sereno  svolgimento  delle
funzioni  giudiziarie,  l'art.  5  della  legge  n.  117   del   1988
assoggettava in origine la domanda risarcitoria nei  confronti  dello
Stato al cosiddetto filtro di ammissibilita'. Alla prima udienza,  il
giudice istruttore doveva rimettere,  cioe',  le  parti  al  collegio
affinche' deliberasse in camera di  consiglio,  nei  quaranta  giorni
successivi,  sull'ammissibilita'  della  domanda.  Quest'ultima   era
dichiarata inammissibile quando non risultassero rispettati i termini
e i presupposti di proponibilita' normativamente stabiliti (artt.  2,
3 e  4  della  legge  n.  117  del  1988),  ovvero  quando  apparisse
manifestamente infondata. 
    In forza del comma 5 dello stesso art. 5, ove  la  domanda  fosse
stata dichiarata viceversa ammissibile, il tribunale, nel disporre la
prosecuzione  del  processo,  avrebbe  dovuto  altresi'  ordinare  la
trasmissione  di   copia   degli   atti   ai   titolari   dell'azione
disciplinare. 
    Correlativamente, l'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del  1988
stabiliva che il Procuratore generale presso la Corte di  cassazione,
per i magistrati ordinari, o il  titolare  dell'azione  disciplinare,
negli altri casi, dovessero  «esercitare  l'azione  disciplinare  nei
confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa  all'azione
di risarcimento, salvo che non sia stata  gia'  proposta,  entro  due
mesi dalla comunicazione di  cui  al  comma  5  dell'art.  5»  (ferma
restando la facolta' del Ministro della giustizia  -  altro  titolare
dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari  -  di
esercitare l'azione stessa ai sensi  dell'art.  107,  secondo  comma,
Cost.). 
    In sintesi, dunque, se la domanda di risarcimento contro lo Stato
superava il vaglio preliminare di ammissibilita', il tribunale  adito
era  tenuto  a  trasmettere  gli   atti   ai   titolari   dell'azione
disciplinare, i quali dovevano esercitarla, per i fatti posti a  base
della domanda (salvo  quanto  previsto  riguardo  al  Ministro  della
giustizia), entro due mesi dalla trasmissione. 
    Questo meccanismo  era  calibrato  sulla  disciplina  vigente  al
momento del varo della legge n. 117 del 1988. All'epoca,  il  sistema
della responsabilita'  disciplinare  dei  magistrati  si  imperniava,
infatti,  sulla  previsione  di  un   unico   illecito   disciplinare
"atipico", descritto, cioe', con formola  estremamente  generica,  la
quale poteva prestarsi,  almeno  astrattamente,  a  ricomprendere  le
ipotesi di dolo,  colpa  grave  e  denegata  giustizia  assunte  come
generatrici di responsabilita' civile  (art.  18  del  regio  decreto
legislativo 31  maggio  1946,  n.  511,  recante  «Guarentigie  della
magistratura»). 
    Al tempo stesso, l'azione disciplinare era, per regola  generale,
facoltativa (art. 14, primo comma, numero 1,  della  legge  24  marzo
1958, n. 195, recante «Norme sulla costituzione e  sul  funzionamento
del Consiglio superiore  della  Magistratura»).  La  norma  censurata
aveva,  in  quest'ottica,  una  chiara  giustificazione:   prevedendo
l'obbligo  di  esercitare  l'azione  nel  caso  di  dichiarazione  di
ammissibilita'  della  domanda  risarcitoria,  essa  introduceva  una
deroga al principio generale. 
    3.2.- Il quadro normativo di riferimento e', pero',  radicalmente
mutato a seguito del d.lgs. n. 109 del 2006, con il  quale  e'  stata
introdotta   una   nuova   regolamentazione   della   responsabilita'
disciplinare dei magistrati, ispirata a principi esattamente  opposti
a quelli ora ricordati. 
    Sul piano sostanziale, il nuovo  sistema  si  impernia,  infatti,
sulla tipizzazione degli illeciti: le sanzioni  disciplinari  possono
essere inflitte, cioe', solo  qualora  risulti  integrata  una  delle
fattispecie analiticamente descritte negli artt. 2, 3 e 4 del  d.lgs.
n. 109 del 2006,  e  sempre  che  non  entri  in  gioco  la  clausola
limitativa di cui all'art.  3-bis,  in  base  alla  quale  l'illecito
disciplinare non e' configurabile  «quando  il  fatto  e'  di  scarsa
rilevanza». Tra le ipotesi di responsabilita' civile, delineate dalla
legge n. 117 del 1988, e le ipotesi di responsabilita'  disciplinare,
individuate dal  d.lgs.  n.  109  del  2006,  non  vi  e',  peraltro,
necessaria coincidenza: nel  senso,  in  particolare,  che  le  prime
possono non rientrare tra le seconde. 
    Al contempo, l'esercizio dell'azione disciplinare  da  parte  del
Procuratore generale presso la Corte di cassazione  e'  divenuto,  in
via generale, obbligatorio (art. 14, comma 3, del d.lgs. n.  109  del
2006). 
    Nell'intento di evitare che - a fronte  della  proliferazione  di
denunce ed esposti da parte di privati - la nuova regola  portasse  a
un sovraccarico della giustizia  disciplinare,  sono  state  peraltro
introdotte, oltre alla ricordata clausola sulla scarsa rilevanza  del
fatto (art. 3-bis del d.lgs. n.  109  del  2006),  specifiche  regole
procedurali, intese a selezionare  le  notizie  che  giustificano  il
promovimento dell'azione. 
    Si e' richiesto cosi', anzitutto,  che  il  Procuratore  generale
venga  posto  a  conoscenza  del  fatto  a  mezzo  di  una  «denuncia
circostanziata», intendendosi per tale quella che «contiene tutti gli
elementi  costitutivi  di  una  fattispecie  disciplinare»;  in  caso
contrario, essa «non costituisce  notizia  di  rilievo  disciplinare»
(art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006). 
    Si e' prefigurata,  poi,  una  fase  cosiddetta  predisciplinare,
intesa a verificare preventivamente, tramite sommarie indagini  (art.
15, comma 1, del d.lgs. n. 209 del 2006), la notizia di illecito e la
plausibilita' di una conseguente incolpazione. 
    Si e' stabilito, infine,  che  il  Procuratore  generale  proceda
all'archiviazione diretta della notizia  -  non  soggetta,  cioe',  a
controllo giurisdizionale - se la condotta  risulta  disciplinarmente
irrilevante  ai  sensi  dell'art.  3-bis,  se  la  denuncia  non   e'
circostanziata, se il fatto  non  rientra  in  alcuna  delle  ipotesi
previste dalla legge, o se dalle indagini espletate il fatto  risulta
inesistente o non commesso; cio', salvo diverso avviso  del  Ministro
della giustizia, cui il provvedimento e' comunicato (art.  16,  comma
5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006). 
    E' sorto, di conseguenza, il  problema  di  come  coniugare  tale
mutato assetto della responsabilita' disciplinare con  la  previsione
della legge sulla responsabilita' civile - quella, appunto, dell'art.
9, comma 1, della legge n.  117  del  1988  -  che  ricollegava,  con
apparente  indefettibile  automatismo,  il  promovimento  dell'azione
disciplinare  alla  dichiarazione  di  ammissibilita'  della  domanda
risarcitoria contro lo Stato. 
    3.3.-  I  problemi  di  coordinamento  tra  le   due   forme   di
responsabilita' si sono, peraltro, acuiti a seguito della  successiva
riforma della disciplina della responsabilita' civile dei  magistrati
operata dalla legge n. 18 del 2015 (che e' quella che da' adito  agli
odierni incidenti di legittimita' costituzionale): riforma  alla  cui
radice si colloca l'esigenza di rimuovere profili di contrasto  della
normativa previgente con il diritto  comunitario  posti  in  evidenza
dalla Corte di giustizia dell'Unione  europea  (Corte  di  giustizia,
grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti
del Mediterraneo spa; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre  2011,
in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana). 
    In concreto, la novella  legislativa  ha  operato  una  serie  di
interventi espansivi dell'area della responsabilita' civile che vanno
di la' da quanto strettamente necessario a tale fine, con  l'effetto,
tra  l'altro,  di  ampliare  lo  iato  tra  i  fatti  generatori   di
responsabilita' civile e le ipotesi  "tipizzate"  di  responsabilita'
disciplinare. 
    Quel che piu' conta agli odierni fini e', pero', che la legge  n.
18 del 2015, con il suo art. 3, comma 2, ha soppresso  il  filtro  di
ammissibilita'   della   domanda   risarcitoria   contro   lo   Stato
(rivelatosi,  a  giudizio  del  legislatore  della  riforma,   troppo
selettivo nell'esperienza applicativa), abrogando in  toto  l'art.  5
della legge n. 117 del  1988:  compreso,  dunque,  il  comma  5,  che
prevedeva  la  trasmissione  degli  atti  ai   titolari   dell'azione
disciplinare  nel  caso  di  dichiarazione  di  ammissibilita'  della
domanda. 
    Di riflesso, l'art. 6, comma 1, della legge n.  18  del  2015  ha
modificato  l'art.  9,  comma  1,  della  legge  n.  117  del   1988,
sopprimendo  l'inciso  -  che  definiva  il  termine  (ma  anche   il
presupposto) per l'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare  -
«entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 5». 
    Il risultato e' che la disposizione censurata recita attualmente,
in modo secco, nel suo  primo  periodo:  «[i]l  procuratore  generale
presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare
dell'azione disciplinare negli altri casi devono esercitare  l'azione
disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno  dato
causa all'azione di  risarcimento,  salvo  che  non  sia  stata  gia'
proposta». 
    4.- E' su questo quadro che si innestano gli odierni incidenti di
legittimita' costituzionale. 
    Il giudice a quo si trova investito, quale giudice istruttore, di
due cause promosse nei confronti dello Stato per il risarcimento  dei
danni derivati, in assunto, da comportamenti, atti e provvedimenti di
alcuni magistrati ordinari. In tale veste,  il  rimettente  e'  stato
sollecitato dal difensore delle parti  attrici  a  trasmettere  copia
degli atti al Procuratore generale presso  la  Corte  di  cassazione,
affinche' eserciti l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati
interessati. 
    Secondo il giudice a quo, a fronte degli interventi operati dalla
legge n. 18 del 2015, l'unica interpretazione possibile dell'art.  9,
comma 1, della  legge  n.  117  del  1988  sarebbe,  in  effetti,  la
seguente: il  tribunale  adito  con  l'azione  risarcitoria  dovrebbe
trasmettere immediatamente copia degli atti al Procuratore  generale,
il quale, a sua volta, sarebbe tenuto  -  per  il  solo  fatto  della
proposizione della  domanda  e  a  prescindere  da  ogni  valutazione
prognostica  sulla  sua   fondatezza   -   ad   esercitare   l'azione
disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti  posti  a  base
della domanda. 
    Tale interpretazione  si  giustificherebbe,  sia  per  il  tenore
letterale  della   norma,   che   prevede   l'esercizio   dell'azione
disciplinare  «per  i  fatti  che  hanno  dato  causa  all'azione  di
risarcimento»,  ossia  per  i  fatti  come  rappresentati   nell'atto
introduttivo del giudizio, e non per la decisione che  lo  definisce;
sia per ragioni di ordine logico e sistematico, che  imporrebbero  di
valorizzare la portata innovativa della legge n. 18 del 2015. Al fine
di assicurare l'obbligatorio esercizio dell'azione disciplinare per i
fatti in questione, occorrerebbe, d'altra parte, che  il  Procuratore
generale sia posto a conoscenza dei fatti stessi e,  dunque,  che  il
giudice chiamato a conoscere dell'azione risarcitoria  gli  trasmetta
gli atti quale «effetto automatico» della proposizione della domanda. 
    Siffatti esiti interpretativi genererebbero, peraltro, i dubbi di
legittimita' costituzionale sottoposti al  vaglio  di  questa  Corte,
sintetizzati al punto 1 che precede. 
    5.- Cio' chiarito, occorre prendere preliminarmente in  esame  le
plurime  eccezioni  di  inammissibilita'  formulate   dall'Avvocatura
generale dello Stato. 
    Nessuna di esse si rivela, peraltro, fondata. 
    5.1.- Non lo e', anzitutto, quella relativa al  supposto  difetto
di legittimazione del giudice a quo, derivante dal fatto che le cause
previste dalla legge n. 117 del 1988 sono devolute  al  tribunale  in
composizione collegiale (art. 50-bis,  primo  comma,  numero  7,  del
codice di procedura civile): circostanza che - a parere della  difesa
dello Stato  -  non  avrebbe  consentito  al  giudice  istruttore  di
sollevare le questioni senza il vaglio del collegio. 
    In senso contrario, va rilevato che, per costante  giurisprudenza
di questa Corte,  nei  giudizi  civili  attribuiti  al  tribunale  in
composizione collegiale, il giudice  istruttore  non  puo'  sollevare
questioni di legittimita' costituzionale delle norme da applicare per
la  definizione  della  controversia,  la   cui   identificazione   e
valutazione spetta al collegio,  ma  puo'  bene  sollevare  questioni
relative a  norme  che  egli  stesso  debba  applicare  per  adottare
provvedimenti attribuiti alla sua competenza (tra le altre,  sentenza
n. 204 del 1997 e n. 84 del 1996; ordinanze n. 266 del 2014,  n.  552
del 2000 e n. 295 del 1996). 
    La trasmissione degli atti al titolare dell'azione disciplinare -
cui l'odierno rimettente e' stato sollecitato - e' provvedimento che,
di per se', evidentemente non attiene alla  definizione  della  causa
risarcitoria promossa nei confronti dello Stato, traducendosi in  una
semplice comunicazione. E' vero che, nel sistema anteriore alla legge
n. 18 del 2015, la trasmissione doveva essere ordinata dal  collegio;
ma cio' solo perche', in quel  sistema,  essa  era  configurata  come
adempimento  "appendicolare"  alla  dichiarazione  di  ammissibilita'
della domanda risarcitoria: pronuncia, questa, demandata al collegio,
in ragione del suo carattere  decisorio  (art.  5,  comma  5,  ultimo
periodo, della legge n. 117 del 1988). 
    Non e', dunque, implausibile la tesi del rimettente,  secondo  la
quale - una volta svincolata dal vaglio di ammissibilita' e collegata
alla semplice proposizione della domanda - la  trasmissione  dovrebbe
essere disposta dal giudice istruttore, in quanto  «assegnatario  del
procedimento»: donde la sua legittimazione  a  censurare,  sul  piano
della legittimita' costituzionale, la norma dalla quale  il  relativo
obbligo deriva. Non si potrebbe, del resto, ipotizzare che il compito
in questione gravi piuttosto sul presidente del tribunale  in  virtu'
del combinato disposto degli artt. 2, comma 1,  lettera  dd),  e  14,
comma 4, del d.lgs.  n.  109  del  2006,  i  quali  pongono,  in  via
generale, a carico dei dirigenti degli uffici l'obbligo di comunicare
alla Procura generale presso  la  Corte  di  cassazione  i  fatti  di
rilievo disciplinare di cui siano venuti conoscenza. Come emerge  dal
citato  art.  2,  comma  1,  lettera  dd),  l'obbligo  del  dirigente
dell'ufficio concerne, infatti, gli illeciti  disciplinari  posti  in
essere  da  magistrati  appartenenti  all'ufficio  da  lui   diretto:
laddove, per converso, il magistrato la cui condotta  ha  dato  luogo
alla domanda risarcitoria non puo' mai prestare  servizio  presso  il
tribunale chiamato a decidere  sulla  domanda  stessa,  essendo  cio'
escluso dalla regola di competenza stabilita dall'art.  4,  comma  1,
della legge n. 117 del 1988. 
    5.2.-   Parimente   non   fondata   e'   l'ulteriore    eccezione
dell'Avvocatura  dello  Stato  di  inammissibilita'  per  difetto  di
rilevanza,  basata  sulla  considerazione  che,  con   le   questioni
sollevate,  il  rimettente  mira,  nella   sostanza,   a   contestare
l'obbligatorieta'   dell'esercizio   dell'azione   disciplinare   che
deriverebbe dalla norma denunciata: azione  rispetto  alla  quale  il
giudice a quo non ha, comunque sia, alcuna competenza. 
    Nella  prospettiva  ermeneutica  del  rimettente,  la   rimozione
dell'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare per  i  fatti  che
hanno   dato   causa   all'azione   di   risarcimento   travolgerebbe
automaticamente  anche  l'obbligo  -  ad   esso   "servente"   -   di
trasmissione degli atti al Procuratore generale, posto  altrimenti  a
carico del rimettente stesso. Di  qui,  dunque,  la  rilevanza  delle
questioni (per una ipotesi strutturalmente analoga,  sentenze  n.  96
del 2020 e n. 109 del 2017). 
    5.3.- Insussistente si palesa, infine, l'eccepita  equivocita'  e
inadeguatezza del petitum. 
    Contrariamente  a  quanto  ventila  l'Avvocatura  generale  dello
Stato,  gli  incidenti  di  legittimita'  costituzionale   non   sono
finalizzati  a  conseguire  il  ripristino  del  testo  della   norma
denunciata anteriore alla novella legislativa del 2015,  in  base  al
quale il titolare dell'azione disciplinare doveva  esercitarla  entro
due mesi dalla comunicazione di cui al  comma  5  dell'art.  5  della
legge  n.  117  del  1988  (operazione  che  richiederebbe  anche  la
declaratoria di illegittimita'  costituzionale  dell'abrogazione  del
citato art. 5, rimasta estranea al petitum). 
    Sia dal dispositivo, sia dal tenore complessivo  delle  ordinanze
di rimessione, emerge con chiarezza come il giudice a quo non intenda
affatto riesumare il vecchio istituto del  filtro  di  ammissibilita'
(la cui soppressione e' gia' stata  ritenuta  non  costituzionalmente
illegittima da questa Corte con la sentenza n. 164  del  2017).  Quel
che il rimettente chiede e' l'ablazione pura e semplice  dell'obbligo
di esercizio dell'azione disciplinare delineato dalla norma censurata
e, conseguentemente, dell'obbligo di trasmissione degli atti ad  esso
strumentale. 
    6.- Se pure, dunque, ammissibili, le questioni non sono pero' nel
merito fondate. 
    Il presupposto ermeneutico su cui  poggiano  i  quesiti  risulta,
infatti, non corretto, nella parte che rileva ai fini dello scrutinio
di legittimita' costituzionale. 
    6.1.- Pur nell'attuale assenza di una espressa indicazione in tal
senso, il rimettente ricava non implausibilmente dal  disposto  della
norma censurata l'obbligo, per il giudice  investito  dell'azione  di
risarcimento di danni cagionati da magistrati ordinari nell'esercizio
delle loro funzioni, di rimettere copia  degli  atti  al  Procuratore
generale presso la Corte di cassazione. 
    La perdurante previsione dell'obbligo  di  esercizio  dell'azione
disciplinare  per  i  fatti  che  hanno  dato  causa  all'azione   di
risarcimento presuppone, in effetti, l'esistenza di  adeguati  canali
informativi  del  titolare  dell'azione  disciplinare  riguardo  alle
vicende atte a rendere operante  l'obbligo  stesso.  La  trasmissione
degli atti  dei  giudizi  risarcitori  assicura,  per  l'appunto,  al
Procuratore generale presso la  Corte  di  cassazione  una  "finestra
conoscitiva"  -  non  lasciata  alla   sola   iniziativa,   meramente
eventuale, delle parti  interessate  -  riguardo  alle  condotte  dei
magistrati che si assumono aver prodotto danni ingiusti  con  dolo  o
colpa grave, ovvero per effetto di denegata giustizia. 
    6.2.- Il giudice a quo non puo'  essere  seguito,  per  converso,
allorche' ulteriormente suppone  -  ed  e'  questo,  in  effetti,  il
profilo su cui si focalizzano le sue censure  -  che  il  Procuratore
generale  sia   tenuto   immancabilmente   ad   esercitare   l'azione
disciplinare non appena abbia notizia della pendenza di  un  giudizio
risarcitorio. 
    Benche'   supportata,   in   apparenza,   dalla   lettera   della
disposizione censurata, tale conclusione e' da escludere  sulla  base
di un'interpretazione sistematica che tenga conto della  ratio  della
riforma di cui alla legge n. 18 del 2015. Del resto essa e'  scartata
in modo pressoche' corale dai suoi interpreti,  e  non  risponde,  in
fatto, alla  consolidata  prassi  operativa  della  Procura  generale
presso la Corte di cassazione. 
    Gia'  prima  di  tale  riforma  -  allorquando  la   disposizione
denunciata collegava l'obbligo di esercizio dell'azione  disciplinare
alla dichiarazione di ammissibilita' della domanda risarcitoria -  si
era ritenuto, in effetti, necessario coordinare tale  previsione  con
il nuovo assetto della responsabilita'  disciplinare  dei  magistrati
introdotto  dal  d.lgs.  n.  109  del  2006:  traendosi  da  cio'  la
conclusione per cui la comunicazione  dell'avvenuto  superamento  del
filtro di ammissibilita' non imponeva,  per  cio'  solo,  di  avviare
l'azione disciplinare, in difetto di una condotta classificabile  nel
catalogo degli illeciti stabilito  dal  citato  decreto  legislativo.
Cio', sia per una ragione procedurale, legata al fatto che  il  nuovo
sistema - caratterizzato in termini di regola, e  non  di  eccezione,
dalla obbligatorieta'  dell'iniziativa  del  Procuratore  generale  -
contempla appunto per questo una fase cosiddetta  predisciplinare  di
valutazione (anche con  acquisizioni  "istruttorie"  in  senso  lato)
della natura  «circostanziata»  dell'addebito  disciplinare  e  della
plausibilita' dell'incolpazione, in difetto della quale  e'  prevista
l'archiviazione diretta del caso da parte del  Procuratore  generale,
salva diversa determinazione del Ministro della giustizia  (art.  16,
comma  5-bis);  sia  per  una  ragione  sostanziale,  connessa   alla
circostanza  che   il   principio   di   legalita'   e   tassativita'
dell'illecito disciplinare, che si esprime nel catalogo chiuso  degli
artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006,  impedisce  che  si  possa
promuovere un'azione disciplinare per un fatto - quale che ne sia  la
fonte di informazione - che non vi rientra. 
    Tale indirizzo appare a  maggior  ragione  giustificato  dopo  la
caduta del filtro di ammissibilita', conseguente alla legge n. 18 del
2015. 
    Per  quanto  puo'   desumersi   dai   lavori   parlamentari,   la
soppressione, nell'art. 9, comma 1, della  legge  n.  117  del  1988,
dell'inciso «entro due mesi dalla comunicazione di  cui  al  comma  5
dell'articolo  5»  e'  stata  suggerita  da  una  mera  esigenza   di
coordinamento con l'avvenuta abrogazione dell'intero  art.  5,  senza
che essa sia stata accompagnata da alcuna  volonta'  di  innovare  al
sistema della responsabilita' disciplinare, e senza  neppure  che  il
legislatore si sia posto il problema di  coordinare,  nel  resto,  la
disciplina  dell'obbligatorieta'   dell'azione   disciplinare,   come
concepita nel 1988, con la  successiva  ridefinizione  sostanziale  e
procedurale  del  sistema  disciplinare,  realizzata  nel  2006.   La
soppressione dell'inciso trae, infatti, origine da  una  proposta  di
emendamento al disegno di legge A.S. n. 1070, presentata nella seduta
della  Commissione  giustizia  del  Senato  della  Repubblica  del  5
novembre 2014 in sede  di  coordinamento  e  approvata  senza  alcuna
discussione. 
    Nemmeno consta alcun indice di una eventuale volonta' legislativa
di  innovare  al  principio  di  autonomia  dell'azione  disciplinare
rispetto all'azione civile di danno, stabilito dall'art. 20, comma 1,
del  d.lgs.  n.  109  del  2006  (in  forza  del  quale   «[l]'azione
disciplinare e'  promossa  indipendentemente  dall'azione  civile  di
risarcimento del danno [...]»): principio che riflette le  differenze
tra le  due  forme  di  responsabilita'  (la  responsabilita'  civile
attiene ai rapporti del magistrato con le parti processuali  o  altri
soggetti a causa di eventuali errori  o  inosservanze  nell'esercizio
delle funzioni, mentre la responsabilita' disciplinare consegue  alla
violazione dei doveri funzionali del magistrato nei  confronti  dello
Stato-datore  di  lavoro),  e  che  trova  altresi'  riscontro  nella
previsione dell'art. 6, comma 2, della legge n. 117 del  1988  -  non
incisa dalla riforma del 2015 - secondo cui la decisione  pronunciata
nel giudizio risarcitorio non fa stato nel procedimento disciplinare. 
    In quest'ottica,  va  escluso  che  la  legge  di  riforma  della
responsabilita' civile dei magistrati abbia mutato,  anche  solo  pro
parte, la struttura del sistema di giustizia  disciplinare:  sicche',
in sostanza, per quanto attiene a tale sistema, e' la  legge  n.  117
del 1988 a dover essere armonizzata con l'assetto del d.lgs.  n.  109
del 2006, e non viceversa. 
    E' giocoforza, di conseguenza, concludere che i  presupposti  per
l'esercizio, sia pure obbligatorio, dell'azione disciplinare non sono
stati rivisitati dalla modifica della legge n. 117 del  1988.  Da  un
lato, dunque, il promovimento di tale azione richiede, comunque  sia,
l'acquisizione della notizia circostanziata di un fatto riconducibile
ad una delle  ipotesi  tipiche  previste  dalla  legge,  e  non  puo'
fondarsi  sulla  semplice  notizia  della  pendenza  di   una   causa
risarcitoria, la quale, di per se',  non  e'  sussumibile  in  alcuna
fattispecie;  dall'altro  lato,  ove  pure  la  domanda  risarcitoria
presenti  le  caratteristiche  di  una  «notizia  circostanziata»  di
illecito disciplinare, cio' non esclude  la  necessita'  di  svolgere
accertamenti predisciplinari, intesi a verificare che quella  notizia
abbia una qualche consistenza (e non attenga, altresi', a un fatto di
scarsa rilevanza, ai sensi dell'art. 3-bis  del  d.lgs.  n.  109  del
2006). 
    6.3.- Alla luce di quanto precede, le discrasie  della  norma  in
esame con la disciplina del d.lgs. n. 109 del  2006,  denunciate  dal
rimettente  come  lesive  dei  principi  di   ragionevolezza   e   di
eguaglianza, si palesano insussistenti; cadono, al  tempo  stesso,  i
sospetti di violazione dei principi di soggezione  del  giudice  solo
alla legge e di autonomia, indipendenza,  terzieta'  e  imparzialita'
della magistratura. 
    Una   volta   escluso   l'ipotizzato   indefettibile    esercizio
dell'azione disciplinare  per  la  mera  proposizione  della  domanda
risarcitoria - come assumono le ordinanze di rimessione in ragione di
una non corretta interpretazione della disposizione censurata e della
disciplina di riferimento - l'obbligo di trasmissione degli atti alla
Procura generale, che il rimettente plausibilmente reputa insito  nel
disposto della norma censurata, si  rivela  "innocuo"  per  i  valori
costituzionali evocati, lasciando  ferma  l'esigenza  della  verifica
circa l'effettiva ricorrenza dei presupposti per  l'esercizio  -  sia
pur obbligatorio  -  dell'azione  disciplinare,  nei  termini  dianzi
indicati. Viene meno, di conseguenza, il  timore  che  il  meccanismo
possa essere maliziosamente utilizzato  da  soggetti  interessati  al
fine di incidere sull'indipendenza e sulla serenita' di giudizio  del
magistrato. 
    7.- Sulla base delle considerazioni esposte, le  questioni  vanno
dichiarate non fondate. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art.  9,  comma  1,  della  legge  13  aprile   1988,   n.   117
(Risarcimento  dei  danni  cagionati  nell'esercizio  delle  funzioni
giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati), come modificato
dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina
della  responsabilita'  civile   dei   magistrati),   sollevate,   in
riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108
della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di
Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 maggio 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                    Filomena PERRONE, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2021. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Filomena PERRONE