N. 113 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 gennaio 2021

Ordinanza  del  Tribunale  di  Bergamo  del  29  gennaio   2021   nel
procedimento civile promosso da C. C. J. c/ INPS - Istituto nazionale
di previdenza sociale e Comune di Bergamo. 
 
Assistenza e solidarieta' sociale - Straniero - Reddito di inclusione
  (ReI) - Requisiti di residenza e di soggiorno -  Previsione  per  i
  richiedenti, cittadini di paesi terzi, del possesso del permesso di
  soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. 
- Decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.  147  (Disposizioni  per
  l'introduzione di una misura nazionale di contrasto alla poverta'),
  art. 3, comma 1, lettera a), numero 1). 
(GU n.34 del 25-8-2021 )
 
                   TRIBUNALE ORDINARIO DI BERGAMO 
                           Sezione Lavoro 
 
    Ordinanza ex art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87 
    Il Giudice del lavoro di  Bergamo,  dott.ssa  Monica  Bertoncini,
nella causa iscritta al n. 107/19 R.G., sul ricorso depositato il  18
gennaio 2019 nella controversia promossa da C C J ,  rappresentata  e
difesa dagli avv.ti A. Guariso del foro di Milano  e  I.  Traina  del
foro  di  Bergamo,  in  virtu'  di  mandato   allegato   al   ricorso
introduttivo  del  giudizio  ricorrente  contro  Comune  di  Bergamo,
rappresentato e difeso dagli avv.ti V. Gritti e S.  Mangili  come  da
procura  allegata  alla  memoria  difensiva  convenuto  contro  Inps,
rappresentato e  difeso  dagli  avv.  A.  Imparato  come  da  procura
allegata alla memoria di costituzione 
 
                              convenuto 
 
    Il giudice, sciogliendo la riserva  assunta  all'udienza  del  19
gennaio 2021, sul ricorso promosso ai  sensi  dell'art.  28,  decreto
legislativo n. 150/11, osserva quanto segue: 
      la ricorrente, cittadina boliviana soggiornante in  Italia  dal
2010, il 6 marzo 2018 ha presentato domanda cartacea  finalizzata  ad
ottenere il reddito di inclusione. 
    Tale domanda e' stata respinta dal Comune di Bergamo, non essendo
stata inoltrata con modalita' telematiche,  nonche'  per  il  mancato
possesso del permesso di lungo periodo. 
    La C C ha chiarito di non essere stata in grado di presentare  la
domanda telematicamente, in quanto il sistema non  le  consentiva  di
procedere se non  dichiarando  (falsamente)  di  essere  titolare  di
permesso di lungo periodo. 
    La ricorrente, nel riferire di essere  in  possesso  di  tutti  i
requisiti previsti dal decreto legislativo n. 147/17 per  beneficiare
del reddito  di  inclusione,  ad  eccezione  del  permesso  di  lungo
periodo, eccepiva  in  questa  sede  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 3, decreto legislativo n. 147/17 nella parte in cui prevede
che i cittadini di nazionalita' extra UE debbano essere titolari, per
l'accesso al beneficio, di un permesso di soggiorno di lungo periodo. 
    Il Comune di Bergamo, costituitosi in giudizio, nel ribadire  che
la domanda era stata respinta in quanto non  presentata  mediante  lo
sportello web, nonche' per il mancato  possesso  di  un  permesso  di
soggiorno di lungo  periodo,  contestava  la  riconducibilita'  della
prestazione alla Direttiva 2011/18, in quanto la finalita' (contrasto
alla  poverta')  della  norma   incriminata   non   sarebbe   inclusa
nell'elenco dei rischi di cui all'art. 3 del Regolamento n. 883/04. 
    Secondo  il  Comune,  pure  la  discrezionalita'   con   cui   la
provvidenza viene attribuita, conservata e revocata,  osterebbe  alla
sua riconduzione nell'alveo delle prestazioni  di  sicurezza  sociale
definite dalla giurisprudenza della CGUE. 
    L'INPS,  costituitosi  a  sua  volta  in  giudizio,   dopo   aver
preliminarmente eccepito l'inammissibilita' del  ricorso,  negava  la
sussistenza della dedotta illegittimita' costituzionale della norma. 
    In proposito, l'Inps, nel chiarire come il reddito di  inclusione
sia «misura unica a livello nazionale di contrasto alla  poverta'  ed
all'esclusione sociale», ricordava  come  la  direttiva  2011/98  non
fosse  stata  recepita  dall'ordinamento   italiano   e   non   fosse
applicabile, in quanto non munita del carattere di auto-esecutivita'. 
    L'Inps escludeva comunque che  il  reddito  di  inclusione  fosse
riconducibile nell'alveo dell'art. 12 della  Direttiva  2011/98,  non
appartenendo all'elenco dei rischi dell'art. 3  del  regolamento  CEE
833/04, anche in considerazione del fatto che il  suo  riconoscimento
presentava elementi di discrezionalita',  essendo  condizionato  alla
sottoscrizione di un progetto personalizzato, secondo  la  previsione
dell'art. 6, decreto legislativo n. 147/17 definito a  seguito  della
valutazione  multidimensionale  del  bisogno  e  che  doveva   essere
sottoscritto da tutti i componenti del nucleo familiare. 
 
                  Tutto cio' premesso, si osserva: 
 
    Va innanzi tutto ritenuta  ammissibile  l'azione  proposta  dalla
ricorrente, dovendosi sul punto evidenziare che si tratta  di  azione
contro la discriminazione e non di azione in  materia  previdenziale,
con  conseguente  inapplicabilita'  della  disciplina  di  cui   agli
articoli 409 e 442 e seguenti del codice di procedura civile. 
    La domanda della sig.ra C C ha ad  oggetto  l'accertamento  della
discriminazione, la sua cessazione, la  rimozione  degli  effetti  e,
quale conseguenza di cio', l'erogazione della prestazione, che quindi
rappresenta lo strumento di rimozione degli  effetti  della  condotta
ritenuta discriminatoria, per cui correttamente e' stato attivato  il
procedimento di cui all'art. 28, decreto legislativo n. 150/11 e  non
l'ordinaria azione di cui agli articoli 409  e  442  e  seguenti  del
codice di procedura civile. 
    Sul punto vi e' ampia  giurisprudenza  di  merito,  concorde  nel
ritenere che quando l'azione esercitata ha ad  oggetto  una  condotta
asseritamente discriminatoria e  non  la  concessione  diretta  della
prestazione (sebbene questa sia comunque richiesta sotto  il  profilo
della  eliminazione  degli  effetti  pregiudizievoli  della  condotta
discriminatoria), non si verte nell'ambito di ricorso giurisdizionale
avverso provvedimento di rigetto  di  prestazioni  previdenziali,  ma
nell'ambito di un'azione del  tutto  diversa,  che  non  soggiace  ad
alcuna preventiva domanda  amministrativa  nei  confronti  dell'Inps,
convenuto in giudizio solo quale  ente  tenuto  all'erogazione  della
prestazione,  una  volta  riconosciuta  la  discriminatorieta'  della
condotta (v., tra le molte, Corte App. Brescia, sent. 442/17). 
    Non osta, poi, all'ammissibilita' del ricorso il  fatto  che  sia
stata data applicazione ad una norma di diritto positivo in quanto la
nozione di discriminazione accolta dalla normativa  europea  e  dalla
legislazione nazionale e' di tipo oggettivo e ha riguardo all'effetto
pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi,
atto, patto o comportamento, indipendentemente  dalla  motivazione  e
dall'intenzione di chi li pone in essere. 
    Per la soluzione della controversia e' dirimente la questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lett. a)  punto  1)
decreto legislativo n. 147/17 (vigente  al  momento  della  richiesta
della  prestazione)  nella  parte  in  cui   limita   soggettivamente
l'accesso al reddito di inclusione, ai cittadini dell'Unione  o  loro
familiare  titolare  del  diritto  di  soggiorno  o  del  diritto  di
soggiorno permanente, ovvero ai cittadini di paesi terzi in  possesso
del permesso di soggiorno  UE  per  soggiornanti  di  lungo  periodo,
escludendo gli stranieri in possesso di  permesso  di  soggiorno  per
motivi di lavoro (o per altri motivi). 
    La domanda di concessione del  reddito  di  inclusione  e'  stata
presentata dalla C il 6 marzo 2018, quando la disposizione  censurata
era pienamente vigente, ragion per cui raccoglimento del  ricorso  le
darebbe diritto a percepire la prestazione dal primo mese  successivo
a quello di  presentazione  della  domanda  (secondo  quanto  avviene
normalmente per le prestazioni assistenziali) sino a tutto  il  marzo
2019, considerato che il reddito di inclusione e'  stato  abrogato  a
decorrere dal 1° aprile 2019  per  effetto  dell'art.  11,  comma  1,
decreto-legge n.  4/19  che  lo  ha  sostituito  con  il  reddito  di
cittadinanza. 
    L'art. 13, comma l, decreto-legge n.  4/19,  che  ha  dettato  le
disposizioni transitorie e di armonizzazione tra  la  vecchina  e  la
nuova prestazione, ha previsto che dal 1° marzo 2019  il  reddito  di
inclusione non  poteva  piu'  essere  richiesto  e  a  decorrere  dal
successivo  mese  di  aprile  non  era  piu'  ne'  riconosciuto,  ne'
rinnovato, mentre per  coloro  ai  quali  il  beneficio  fosse  stato
riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019,  il  beneficio
avrebbe continuato ad  essere  erogato  per  la  durata  inizialmente
prevista, fatta salva la possibilita' di presentare  domanda  per  il
reddito di cittadinanza. 
    Di conseguenza, ribadendo che la domanda della C e' del  6  marzo
2018 mentre il rigetto del Comune di Bergamo e' del 21 marzo 2018, e'
evidente che la  verifica  della  legittimita'  costituzionale  della
disposizione censurata  deve  essere  effettuata  avuto  riguardo  al
momento in cui la prestazione e' stata richiesta e negata  dall'ente,
poiche',   come   noto,   l'accoglimento   dell'azione    giudiziaria
comporterebbe il riconoscimento della prestazione  «ora  per  allora»
(ovvero dall'aprile 2018) e sino al momento in cui  questa  e'  stata
abrogata ovvero sino a tutto il marzo 2019. 
    Di conseguenza, in applicazione di tale  principio  e  di  quello
dettato  dall'art.  13,  comma   1,   decreto-legge   n.   4/19,   il
riconoscimento della prestazione «ora per allora» (ovvero a decorrere
dall'aprile 2018) comporterebbe il pagamento dei retei non  percepiti
da tale data sino al marzo 2019 (non  risultando  che  la  ricorrente
abbia presentato domanda di reddito di cittadinanza). 
    Peraltro,  nell'ambito  del   presente   giudizio   e'   pacifica
l'applicabilita' della disposizione censurata, tant'e' che negli atti
di causa, ne' il Comune di Bergamo, ne' l'Inps hanno  mai  richiamato
la disciplina transitoria di cui all'art. 13, decreto-legge n.  4/19,
benche' questa fosse gia' in vigore al momento della costituzione  in
giudizio delle amministrazioni. 
    Queste ultime, nel costituirsi in giudizio, hanno solo negato che
la C possegga tutti i requisiti per il riconoscimento del reddito  di
inclusione (in quanto  priva  del  permesso  di  soggiorno  di  lungo
periodo), ma mai hanno sostenuto che la successiva abrogazione  della
prestazione potrebbe determinare il rigetto della sua domanda. 
    In altri termini, le difese svolte nel presente giudizio  rendono
manifesto quanto gia' sopra chiarito, ovvero che la dichiarazione  di
illegittimita'   costituzionale   della    norma    condurrebbe    al
riconoscimento della prestazione a favore della ricorrente  (entro  i
limiti temporali individuati dal legislatore). 
    Del resto, si tratta di principi  gia'  affermati  dalla  Suprema
Corte con riferimento a situazioni assimilabili. 
    Ad esempio, riguardo al decreto-legge n. 113/18 che  ha  abrogato
la protezione umanitaria e il  relativo  permesso  di  soggiorno,  la
cassazione civile,  con  la  sentenza  n.  4890/19  ha  stabilito  il
principio di diritto secondo cui la novella «non  trova  applicazione
in relazione  alle  domande  di  riconoscimento  di  un  permesso  di
soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in  vigore
(5 ottobre 2018) della nuova legge» (cass. civ., sez. I., 4890/19). 
    Tant'e' che qualora venga accerta la sussistenza dei  presupposti
per il permesso umanitario sulla base delle  norme  abrogate,  «fara'
seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno
contrassegnato  dalla  dicitura  "casi  speciali"  e  soggetto   alla
disciplina e all'efficacia temporale prevista dall'art. 1,  comma  9,
di detto decreto legge», cosi' esplicitando  in  maniera  chiarissima
che la sussistenza dei requisiti del diritto azionato in base ad  una
norma successivamente abrogata deve essere effettuata con riferimento
alla normativa vigente al momento della domanda (quindi  prima  della
sua successiva eliminazione dall'ordinamento). 
    Del resto, dal tenore degli articoli 11 e  13,  decreto-legge  n.
4/19  si  evince  chiaramente  che  l'abrogazione  del   reddito   di
inclusione non e' stata disposta con efficacia retroattiva, ma solo a
decorrere dal 1° aprile 2019, secondo  la  previsione  dell'art.  11,
decreto-legge n. 4/19. 
    Coerentemente, l'art. 13, primo comma, decreto-legge n.  4/19  ha
esplicitato che a decorrere dal 1° marzo 2019 il beneficio non poteva
piu' essere richiesto, ma veniva fatto salvo quello che  fosse  stato
riconosciuto  in  data  anteriore  all'aprile   2019,   che   avrebbe
continuato «ad essere erogato per la  durata  inizialmente  prevista,
fatta salva la possibilita' di presentare domanda per il  reddito  di
cittadinanza». 
    Per quanto attiene  invece  alla  rilevanza  della  questione  di
costituzionalita', occorre chiarire come  non  siano  in  discussione
tutti  gli  altri  requisiti  per  l'accesso  al  beneficio,  essendo
controverso solo l'aspetto  inerente  all'estensione  soggettiva  del
beneficio medesimo, posto che la ricorrente, non cittadina  italiana,
ne' comunitaria, e' priva di permesso di soggiorno di lunga durata. 
    La C , al momento della domanda, risultava residente  in  Italia,
in via continuativa, da almeno due anni e sussistevano, altresi',  il
requisito di cui all'art. 3, comma 1, lett. b),  decreto  legislativo
n.  147/17,  relativo  alla  condizione  economica  del  richiedente,
nonche' quello  di  cui  all'art.  2,  comma  1,  lett.  a),  decreto
legislativo n. 147/17 essendovi nel nucleo familiare un componente di
eta' minore di anni 18 (tutte circostanze documentate e comunque  non
contestate dalle parti convenute). 
    Ne' rileva il fatto che la domanda sia stata presentata in  forma
cartacea, anziche' telematicamente, trattandosi solo di irregolarita'
formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non
incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto. 
    L'art. 2, comma 2, decreto legislativo  n.  147/17  definisce  il
«ReI» come «una misura  a  carattere  universale,  condizionata  alla
prova dei mezzi  e  all'adesione  a  un  progetto  personalizzato  di
attivazione  e  di  inclusione  sociale  e   lavorativa   finalizzato
all'affrancamento dalla condizione  di  poverta'»  e  la  «poverta'»,
nella definizione offerta dall'art. 1, comma  1,  lett.  a),  decreto
legislativo n. 147/17, e' quella «condizione del nucleo familiare  la
cui situazione economica non permette  di  disporre  dell'insieme  di
beni e servizi necessari a condurre un  livello  di  vita  dignitoso,
come definita, ai soli fini dell'accesso al  reddito  di  inclusione,
all'articolo 3». 
    Il richiamato articolo  3,  decreto  legislativo  n.  147/17,  in
ordine  alla  condizione  economica  necessaria  per   l'accesso   al
beneficio, prevede che il  nucleo  familiare  del  richiedente  debba
«essere in possesso congiuntamente di: 1)  un  valore  dell'ISEE,  in
corso di validita',  non  superiore  ad  euro  6.000;  2)  un  valore
dell'ISRE non superiore ad euro 3.000; 3) un  valore  del  patrimonio
immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad  euro
20.000; 4) un valore del patrimonio mobiliare, non superiore  ad  una
soglia di euro 6.000, accresciuta di euro 2.000 per  ogni  componente
il nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo  di  euro
10.000; 5) un valore non superiore alle soglie di cui ai numeri l e 2
relativamente  all'ISEE  e  all'ISRE  riferiti  ad   una   situazione
economica aggiornata nei casi e secondo  le  modalita'  di  cui  agli
articoli 10 e 11; c) con riferimento al godimento di beni durevoli  e
ad altri indicatori del tenore di  vita,  il  nucleo  familiare  deve
trovarsi  congiuntamente  nelle  seguenti   condizioni:   1)   nessun
componente  intestatario  a   qualunque   titolo   o   avente   piena
disponibilita' di autoveicoli, ovvero  motoveicoli  immatricolati  la
prima volta nei ventiquattro mesi  antecedenti  la  richiesta,  fatti
salvi gli autoveicoli  e  i  motoveicoli  per  cui  e'  prevista  una
agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilita' ai sensi
della  disciplina  vigente;  2)  nessun  componente  intestatario   a
qualunque titolo o avente piena disponibilita' di navi e imbarcazioni
da diporto di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 18
luglio 2005, n. 171». 
    La condizione di poverta' e  di  bisogno  economico  deve  essere
integrata dalla sussistenza  di  un  altro  requisito,  rappresentato
dalla presenza, nel nucleo familiare, di almeno  una  delle  seguenti
condizioni: «a) presenza di un componente di eta' minore di anni  18;
b) presenza di una  persona  con  disabilita'  e  di  almeno  un  suo
genitore ovvero di un suo tutore; c) presenza di una donna  in  stato
di gravidanza accertata. La documentazione medica attestante lo stato
di gravidanza e la data presunta  del  parto  e'  rilasciata  da  una
struttura pubblica e allegata alla richiesta del beneficio, che  puo'
essere presentata non prima di quattro mesi dalla data  presunta  del
parto; d) presenza di almeno un lavoratore di eta' pari o superiore a
55 anni, che si trovi in stato di disoccupazione» (art. 3,  comma  2,
decreto legislativo n. 147/17). 
    In tema di diritti essenziali, la Corte  costituzionale  ha  gia'
avuto  modo  di  chiarire  che   la   valutazione   in   termini   di
«essenzialita'» della prestazione deve essere effettuata  «alla  luce
della configurazione normativa e della funzione sociale»  che  questa
e' chiamata a svolgere nel sistema, verificando se «integri o meno un
rimedio  destinato  a  consentire  il  concreto  soddisfacimento  dei
"bisogni primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della  persona
umana, che e' compito della Repubblica  promuovere  e  salvaguardare;
rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perche' garanzia
per  la  stessa  sopravvivenza  del  soggetto.  D'altra   parte,   la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha  sottolineato  come,  "in
uno Stato democratico moderno, molti individui,  per  tutta  o  parte
della loro vita, non possono assicurare  il  loro  sostentamento  che
grazie a delle prestazioni di sicurezza  o  di  previdenza  sociale".
Sicche', "da parte di numerosi ordinamenti giuridici nazionali  viene
riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa sicurezza
e prevedono, dunque,  il  versamento  automatico  di  prestazioni,  a
condizione che siano  soddisfatti  i  presupposti  stabiliti  per  il
riconoscimento dei diritti in questione" (la  gia'  citata  decisione
sulla ricevibilita del 6 luglio 2005, Staic  ed  altri  contro  Regno
Unito). Ove, pertanto, si versi in tema di  provvidenza  destinata  a
far fronte al "sostentamento" della persona, qualsiasi discrimine tra
cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio  dello
Stato, fondato su  requisiti  diversi  dalle  condizioni  soggettive,
finirebbe  per  risultare  in  contrasto  con  il  principio  sancito
dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo,  avuto
riguardo alla relativa lettura che, come si e'  detto,  e'  stata  in
piu' circostanze offerta  dalla  Corte  di  Strasburgo.»  (cosi',  in
motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010). 
    Non  v'e'  dubbio  che  il  reddito  di  inclusione,  in   quanto
«finalizzato all'affrancamento dalla condizione  di  poverta'»  debba
essere iscritto  tra  i  diritti  essenziali  nei  limiti  e  per  le
finalita', appunto essenziali, che la Corte  costituzionale  -  anche
alla luce degli enunciati della Corte di Strasburgo  -  «ha  additato
come  parametro  di  ineludibile  uguaglianza  di   trattamento   tra
cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio  dello
Stato» (cosi', in motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010). 
    A cio' non e' ostativo il fatto che non si tratti di  prestazione
di invalidita', in quanto  il  nucleo  dei  diritti  essenziali  deve
essere  certamente  delineato  con  riguardo  all'attuale  e   mutato
contesto economico/sociale, tale, come sopra evidenziato, da  indurre
il  legislatore  ad  introdurre  prestazioni  nuove,  finalizzate   a
fronteggiare la situazione di vera e propria  poverta'  che  colpisce
numerosi nuclei familiari. 
    Per  tali   ragioni,   come   correttamente   evidenziato   dalla
ricorrente, il diritto ad un'esistenza libera  e  dignitosa  e'  oggi
precondizione del lavoro e non viceversa, per cui in quest'ottica  si
deve oggi procedere ad una lettura coordinata degli articoli 2,  3  e
38 Costituzione. 
    Nell'odierno sistema economico/sociale il lavoro,  molto  spesso,
non e' piu' sufficiente ad  assicurare  agli  individui  un'esistenza
libera e dignitosa e per tale ragione lo Stato interviene  sempre  di
piu' con misure di sostegno e supporto. 
    Gia' nella  decisione  n,  40/2013  la  Corte  costituzionale  ha
ribadito, sulla scorta di  precedenti  pronunce,  che  nel  caso  «di
provvidenze destinate al sostentamento  della  persona  nonche'  alla
salvaguardia di  condizioni  di  vita  accettabili  per  il  contesto
familiare (...) - qualsiasi  discrimina  fra  cittadini  e  stranieri
legalmente  soggiornanti  nel  territorio  dello  Stato,  fondato  su
requisiti diversi da quelli previsti per la generalita' dei soggetti,
finisce  per  risultare  in  contrasto  con  il  principio   di   non
discriminazione di cui all'art. 14 della CEDO,  avuto  riguardo  alla
interpretazione rigorosa che di tale norma  e'  stata  offerta  dalla
giurisprudenza della Corte europea». 
    Infine, che la condizione di «poverta'»  impedisca  il  godimento
dei diritti essenziali e' un dato di fatto, tant'e'  che,  pur  nella
novita' delle previsioni di cui al decreto legislativo n. 147/17,  in
molteplici disposizioni,  tanto  costituzionali,  quanto  legislative
affiora il concetto di poverta' economica come elemento  ostativo  al
godimento  di  diritti  fondamentali,  e  che  lo  Stato   cerca   di
contrastare,  attraverso  il   principio   di   solidarieta',   anche
economica, di cui all'art. 2 Costituzione. 
    E' stato correttamente osservato in  dottrina  come  la  poverta'
economica compaia in molteplici previsioni costituzionali, primo  fra
tutti l'art. 3, comma 2, Costituzione,  che  identifica  anche  negli
ostacoli «di ordine economico» le barriere da rimuovere. 
    Ai «non abbienti» l'art. 24, comma 3, Costituzione assicura, «con
appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi in giudizio». 
    La formazione della  famiglia  e  l'adempimento  dei  conseguenti
compiti sono agevolati, secondo l'art. 31, primo comma,  Costituzione
«con misure economiche e altre provvidenze», mentre  «cure  gratuite»
sono  garantite  «agli  indigenti»   dall'art.   32,   primo   comma,
Costituzione. 
    L'inabilita' al lavoro, tale da  impedire  il  conseguimento  dei
mezzi necessari per vivere, determina, in  base  all'art.  38,  primo
comma, Costituzione il  «diritto  al  mantenimento  e  all'assistenza
sociale»  e  «mezzi  adeguati  alle  loro  esigenze  di  vita»   sono
assicurati dal secondo comma del medesimo  art.  38  Costituzione  ai
lavoratori colpiti da infortuni, malattia, invalidita',  vecchiaia  e
disoccupazione involontaria. 
    La Costituzione e' quindi intrisa di disposizioni che si  pongono
l'obiettivo di  contrastare  la  poverta'  economica,  ovvero  quella
condizione  di  assenza  dei  mezzi  finanziari  tale   da   impedire
l'esercizio dei diritti fondamentali e di  godere,  conseguentemente,
di una esistenza libera e dignitosa. 
    In base  a  queste  considerazioni  non  puo'  dubitarsi  che  la
prestazione    di    cui,    trattasi,    in    quanto    finalizzata
«all'affrancamento dalla condizione di poverta'» abbia come obiettivo
quello di assicurare a determinati nuclei  familiari  quell'esistenza
libera e dignitosa che tutti, in uno  Stato  democratico,  dovrebbero
avere, per cui certamente si tratta di prestazione interna al  nucleo
dei  bisogni  essenziali  che,  in  quanto  tale,  non  puo'   subire
limitazioni (tant'e' che il ReI, secondo  il  comma  13  dell'art.  2
decreto legislativo n. 147/17 costituiva  «livello  essenziale  delle
prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma,  lettera  m),
della Costituzione, nel limite delle risorse  disponibili  nel  Fondo
Poverta'»). 
    Pertanto,  qualora  lo  Stato  decida  di   erogare   determinate
prestazioni  riconducibili  nell'ambito  della  «essenzialita'»,   la
scelta legislativa  di  introdurre  particolari  limitazioni  per  il
godimento di tali diritti fondamentali  della  persona,  riconosciuti
invece  ai  cittadini  dell'Unione,  e'  soggetta  ad  un  vaglio  di
legittimita'   costituzionale   (cosi',   in    motivazione,    Corte
costituzionale sent. 187/2010 nel richiamare la sua sentenza  n.  306
del 2008). 
    Di conseguenza, per le  suesposte  argomentazioni  la  previsione
dell'art. 3, decreto  legislativo  n.  147/17,  nella  parte  in  cui
prevede,  per  l'accesso  al  ReI  (reddito  di  inclusione),  che  i
cittadini di nazionalita' extra UE  debbano  essere  titolari  di  un
permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli  stranieri  in
possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o  per  altri
motivi), si pone in contrasto con i principi di cui agli articoli  2,
3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonche' con l'art. 14 della CEDU. 
    In ogni caso, quandanche si trattasse di prestazione  esterna  al
nucleo  dei  bisogni  essenziali,  la  limitazione  contenuta   nella
disposizione censurata sarebbe comunque irragionevole e quindi ancora
una volta in contrasto con l'art. 3 Costituzione. 
    Infatti, se  e'  vero  che  il  legislatore  puo'  legittimamente
decidere di circoscrivere la platea dei  beneficiari  di  determinate
prestazioni  sociali,  l'eventuale  limitazione  «deve   pur   sempre
rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3  Costituzione»  e
«tale principio puo' ritenersi rispettato  solo  qualora  esista  una
"causa normativa" della differenziazione, che  sia  "giustificata  da
una ragionevole correlazione tra la condizione a cui  e'  subordinata
l'attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti  che  ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la  ratio"  (sentenza
n. 107 del 2018). Una simile  ragionevole  causa  normativa  puo'  in
astratto consistere nella richiesta di  un  titolo  che  dimostri  il
carattere non episodico  o  di  breve  durata  della  permanenza  sul
territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro,  occorre  pur
sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la  richiesta  e
le situazioni di bisogno o  di  disagio,  in  vista  delle  quali  le
singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133  del  2013)»
(cosi', in motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018). 
    Con la citata sentenza, la Corte costituzionale, con  riferimento
ad una  prestazione  diretta  a  soddisfare  il  soddisfacimento  dei
bisogni abitativi primari di una persona che versasse  in  condizione
di poverta', ha ritenuto irragionevole il  discrimina  rappresentato,
per gli stranieri, dalla lunga protrazione nel  tempo  del  richiesto
radicamento territoriale  (sentenza  n.  133  del  2013)  (cosi',  in
motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018). 
    Nella  situazione  in  esame,  la  norma  gia'  contempla(va)  il
requisito del radicamento, essendo richiesto dall'art.  3,  comma  1,
lett. a) n. 2, decreto legislativo n. 147/17 l'essere  «residente  in
Italia, in via  continuativa,  da  almeno  due  anni  al  momento  di
presentazione della domanda»,  per  cui  l'esclusione  dei  cittadini
extracomunitari sprovvisti del permesso di  lungo  soggiorno  va,  di
fatto, a penalizzare  proprio  i  nuclei  familiari  piu'  bisognosi,
tradendo l'intento dichiarato dal legislatore. 
    Infatti, molto spesso, i cittadini extracomunitari non riescono a
richiedere il permesso di lungo soggiorno, in quanto titolari  di  un
reddito  inferiore  a  quello  (pur  basso)  prescritto  a  tal  fine
dall'art.  9  T.U.  immigrazione  (che  deve  essere  non   inferiore
all'assegno sociale, nel 2018, pari ad euro 5.824,00). 
    Quindi, assai di frequente i cittadini extracomunitari sprovvisti
del permesso di soggiorno di lungo periodo sono piu'  poveri  e  piu'
bisognosi di quelli che ne sono provvisti, ma  nonostante  cio'  sono
stati  esclusi  dalla  possibilita'  di  accedere   ad   una   misura
dichiaratamente    finalizzata     all'inserimento     sociale     ed
all'affrancamento dalla poverta'. Nella presente situazione  valgono,
a maggior ragione, le argomentazioni  gia'  recentemente  evidenziate
dalla Corte di cassazione con l'ordinanza di rimessione  n.  16164/19
relativa all'art. l, comma 125, legge n. 190/14 con  cui  sono  stati
irragionevolmente esclusi dal beneficio i nati o gli adottati tra  il
1° gennaio  2015  ed  il  31  dicembre  2017  da  genitori  cittadini
extracomunitari che  fruiscono  di  redditi  non  superiori  ad  euro
7.000,00 o ad euro 25.000,00 legalmente residenti in Italia  in  base
ad idoneo permesso di soggiorno e lavoro, ma sprovvisti del  permesso
di lungo soggiornanti. 
    Nella fattispecie in esame la disparita' di trattamento e  quindi
l'irragionevolezza della norma e' ancor piu' evidente laddove,  oltre
a richiedersi il  requisito  del  radicamento  nello  Stato  Italiano
attraverso  i  due  anni  di  residenza  continuativa,   si   ritiene
necessario, per i cittadini extracomunitari,  il  permesso  di  lungo
soggiorno, cosi' escludendo tutti coloro  che  ne  siano  sprovvisti,
spesso per ragioni di reddito, benche'  residenti  legittimamente  da
molti anni nel territorio italiano. 
    Neppure la disposizione oggetto di censura nel presente giudizio,
al pari di quella vagliata dalla Corte di cassazione, si raccorda con
la previsione dell'art. 42 decreto  legislativo  n.  286/98  che,  in
materia di assistenza  sociale,  riconosce  la  generale  parita'  di
trattamento  tra  i  cittadini  italiani  e  quelli   extracomunitari
titolari di permesso di soggiorno e lavoro validi per almeno un anno. 
    Come  gia'  rilevato,  si  tratta,  pure  in  tal  caso,  di  una
disciplina contrastante con il principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Costituzione, essendo  stato  introdotto  un  elemento  di
distinzione  arbitrario,  nella  mancanza   di   alcuna   ragionevole
correlazione tra la  residenza  protratta  per  il  tempo  necessario
all'ottenimento del permesso di lungo soggiorno e  la  situazione  di
disagio economico  che  il  legislatore  ha  posto  alla  base  della
provvidenza. 
    Ne' si comprende  la  ragione  per  cui  il  legislatore  non  ha
ritenuto  sufficiente,  quale  elemento  indicativo  di  uno  stabile
radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa
biennale, pretendendo il permesso di lungo soggiorno. 
    Anche il reddito di inclusione era un  beneficio  assai  limitato
nel tempo, diretto  a  fronteggiare  una  situazione  contingente  di
bisogno, nell'ottica di un reinserimento  economico/sociale,  tant'e'
che era «riconosciuto per un periodo  continuativo  non  superiore  a
diciotto mesi», non poteva essere rinnovato se non  trascorsi  almeno
sei mesi da quando ne era cessato il godimento ed in caso di  rinnovo
la durata era fissata, in sede di prima applicazione, per un  periodo
non superiore a dodici mesi (art. 4, comma 5, decreto legislativo  n.
147/17). 
    Ne', come evidenziato dalla Corte di cassazione  con  l'ordinanza
n. 16164/19, rilevano in questa sede le argomentazioni  svolte  dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 2019  con  riferimento
all'assegno sociale, trattandosi di una misura differente, rivolta  a
chi ha compiuto 65 anni di eta'  e  che  persegue  finalita'  diverse
dalla prestazione in esame che afferisce, come osservato,  a  bisogni
primari ed essenziali della persona. 
    La disposizione si pone quindi in contrasto, oltre che con l'art.
3 Costituzione, con gli articoli 20, 21, 33 e 34 CDFUE che  enunciano
il principio di uguaglianza e di  non  discriminazione,  garantiscono
«la protezione  della  famiglia  sul  piano  giuridico,  economico  e
sociale» (art. 33, 1° comma,  CDFUE)  e  «il  diritto  all'assistenza
sociale e all'assistenza abitativa  volte  a  garantire  un'esistenza
dignitosa a tutti coloro che non dispongano di  risorse  sufficienti,
secondo  le  modalita'  stabilite  dal  diritto  comunitario   e   le
legislazioni», cio' «al fine di lottare contro l'esclusione sociale e
la poverta'» (art. 34, comma 3, CDFUE). 
    A nulla rileva, inoltre,  il  fatto  che  la  legge  richieda  un
progetto personalizzato,  poiche'  questo  si  colloca  in  una  fase
successiva alla sussistenza di tutti i requisiti preliminari, tra cui
rientra l'aspetto relativo alla platea dei beneficiari. 
    Deve  infine  escludersi  che  la  prestazione  in  esame  ricada
nell'ambito di operativita' della direttiva 2011/18,  non  rientrando
nell'elenco dei rischi di cui all'art. 3 del Regolamento n. 883/04. 
    Il regolamento  si  applica  infatti  a  «tutte  le  legislazioni
relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti: 
      a) le prestazioni di malattia; 
      b) le prestazioni di maternita' e di paternita' assimilate; 
      c) le prestazioni d'invalidita'; 
      d) le prestazioni di vecchiaia; 
      e) le prestazioni per i superstiti; 
      f)  le  prestazioni  per  infortunio  sul  lavoro  e   malattie
professionali; 
      g) gli assegni in caso di morte; 
      h) le prestazioni di disoccupazione; 
      i) le prestazioni di pensionamento anticipato; 
      j) le prestazioni familiari (art. 3, comma 1,  regolamento  CEE
883/04). 
    Secondo l'art.  1,  lett.  z)  del  Regolamento  per  prestazioni
familiari si intendono «tutte le prestazioni in natura  o  in  denaro
destinate a compensare  i  carichi  familiari,  ad  esclusione  degli
anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita
o di adozione menzionati nell'allegato I». 
    La finalita' della prestazione in esame, diversamente  da  altre,
non pare quella di compensare i carichi  familiari,  poiche'  il  suo
riconoscimento  non  e'  subordinato  alla  sussistenza   di   nucleo
familiare numericamente consistente, ma alla situazione  di  poverta'
del nucleo familiare, che puo' essere semplicemente composto anche da
solo due persone, come nel caso  dell'art.  3,  comma  2,  lett.  c),
decreto legislativo n. 147/17 (che richiede la presenza di  due  sole
persone, una delle quali in stato di gravidanza accertata). 
    Cio' che si comprende da una disamina  complessiva  del  disposto
normativo  e'  che  il  reddito  di  inclusione  aveva  la  chiara  e
dichiarata finalita' di aiutare nuclei  familiari  in  situazione  di
poverta' ed  in  cui  questa  situazione  di  poverta'  economica  si
accompagnava ad una situazione di  particolare  svantaggio  derivante
dalla presenza, nel  nucleo  familiare,  di  soggetti  deboli  e  non
lavorativamente attivi,  come  figli  minori,  donne  in  gravidanza,
disabili o disoccupati. 
    Non si tratta pero' di  una  misura  di  sostegno  finalizzata  a
compensare carichi familiari, ma a sollevare dallo stato  di  bisogno
nuclei familiari anche piccoli,  affrancandoli  dalla  condizione  di
poverta' attraverso  l'erogazione  di  un  sussidio  economico  e  la
predisposizione di un «progetto personalizzato di  attivazione  e  di
inclusione sociale e lavorativa»,  da  qui  l'inapplicabilita'  della
direttiva 2011/98. 
    In ogni caso, quand'anche la direttiva 2011/98 fosse applicabile,
cio' non impedirebbe un vaglio di legittimita' della disposizione per
le  motivazioni  gia'  esposte  dalla  Corte  di  cassazione  con  la
richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono qui richiamate. 
    Si rende quindi  necessario  investire  la  Corte  costituzionale
della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma  1,
lett. a), n. 1), decreto legislativo n. 147/17  nella  parte  in  cui
prevede, per l'accesso al ReI (reddito di inclusione) che i cittadini
di nazionalita' extra UE debbano essere titolari di  un  permesso  di
soggiorno di  lungo  periodo,  escludendo  gli  stranieri  legalmente
soggiornanti poiche' in possesso di permesso di soggiorno per  motivi
di  lavoro  (o  per  altri  motivi),  norma  che,  in  virtu'   delle
considerazioni sopra esposte, e' rilevante nell'ambito  del  giudizio
instaurato dalla ricorrente. 
    Inoltre la questione non appare manifestamente  infondata,  posto
che  la  norma  introduce   una   ingiustificata   ed   irragionevole
discriminazione a sfavore dei cittadini di paesi terzi legittimamente
soggiornanti nel territorio dello Stato Italiano, ma  sprovvisti  del
permesso di lungo soggiorno, in violazione degli art. 2, 3,  31,  38,
117 della Costituzione, dell'art. 14 CEDU e degli articoli 20, 21, 33
e 34 CDFUE. 
    Per  completezza,  infine,  con  riferimento   all'eccezione   di
inammissibilita'  della  questione  sollevata  dall'Avvocatura  dello
Stato nel giudizio  di  fronte  alla  Corte  costituzionale,  occorre
ricordare che non sarebbe la prima volta in  cui  la  Corte  dichiara
l'illegittimita' costituzionale di  una  disposizione  nazionale  per
aver     subordinato     l'erogazione     di     una      prestazione
previdenziale/assistenziale a favore di uno straniero al possesso, da
parte del medesimo straniero, del  permesso  di  soggiorno  di  lungo
periodo (v. Corte costituzionale 306/08  in  tema  di  indennita'  di
accompagnamento;  sent.  187/10  in  tema  di  assegno   mensile   di
invalidita'; sent. 329/11 in tema di indennita' di frequenza). 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il Tribunale di Bergamo,  in  funzione  di  giudice  del  lavoro,
sospende il giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla  Corte
costituzionale, ordinando che, a cura della cancelleria,  l'ordinanza
di rimessione alla Corte costituzionale sia notificata alle parti  in
causa, al Presidente del Consiglio  dei  ministri  ed  ai  presidenti
delle due Camere del Parlamento. 
      Bergamo, 29 gennaio 2021 
 
                  Il giudice del lavoro: Bertoncini