N. 119 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 maggio 2021
Ordinanza del 5 maggio 2021 del Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Santoro Sergio contro Presidenza del Consiglio dei ministri e altri. Impiego pubblico - Fissazione di un limite massimo (c.d. tetto retributivo), pari alla retribuzione lorda del primo presidente della Corte di cassazione - Computazione cumulativa delle somme comunque erogate all'interessato - Prevista applicazione del limite retributivo ai giudici tributari che siano anche dipendenti pubblici - Versamento annuale delle risorse provenienti dall'applicazione delle misure di riduzione dei trattamenti retributivi al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. - Decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, art. 13; decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 23-ter, comma 1; legge 27 dicembre 2013, n. 147 ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita' 2014)"), art. 1, commi 471, 473 e 474.(GU n.35 del 1-9-2021 )
IL CONSIGLIO DI STATO in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6756 del 2020, proposto da Santoro Sergio, rappresentato e difeso dagli avvocati Daniele Granara e Federico Tedeschini, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, largo Messico, 7; contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, nonche' Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, Consiglio di Stato, in persona del Presidente pro tempore e Segretariato generale della giustizia amministrativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12, sono elettivamente domiciliati; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 6668/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell'economia e delle finanze, del Consiglio di Stato e del Segretariato generale della giustizia amministrativa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella Camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2020 il cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti l'avvocato Granara e l'avvocato dello Stato Di Martino; Fatto e diritto Con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, l'avv. Santoro Sergio, Presidente aggiunto del Consiglio di Stato, impugnava il provvedimento prot. n. 21643/T.E. del 18 dicembre 2019 del Segretariato generale della giustizia amministrativa - Ufficio gestione del bilancio e del trattamento economico e previdenziale, con il quale veniva disposto - a decorrere dalla mensilita' di gennaio 2020 e sino a quella di dicembre del medesimo anno il recupero, nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, dei maggiori compensi percepiti (rispetto al limite massimo del c.d. «tetto stipendiale»), pari ad euro 31.481,26, in qualita' di giudice tributario negli anni 2015-2018. Conseguentemente egli chiedeva l'accertamento a percepire «il trattamento economico spettante senza le decurtazioni previste dall'art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, e dall'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e la condanna dell'amministrazione al versamento e alla restituzione delle somme illegittimamente recuperate e trattenute, con interessi legali e rivalutazione monetaria». Il ricorrente rappresentava, a tal fine, che: la propria nomina a giudice tributario era avvenuta a seguito di procedura concorsuale per titoli nel 2000 e che il compenso fisso percepito a tale titolo era di euro 249 al mese lordi, oltre la quota variabile sulla produttivita', il cui ammontare e' quantificato negli atti impugnati; il Segretario generale della giustizia amministrativa, con atto prot. n. 21643/T.E. del 18 dicembre 2019, comunicato via Pec in pari data del Segretariato generale della giustizia amministrativa - Ufficio gestione del bilancio e del trattamento economico e previdenziale, cosi' disponeva: «Oggetto: Anno 2014 - Anno 2015 - Anno 2016 - Anno 2017 - Anno 2018 -Applicazione art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 - Art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. Istanza di riesame - Recuperi, secondo cui a partire dalla prossima mensilita' di gennaio e sino alla mensilita' di dicembre 2020 - si procedera', nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, al recupero dei maggior compensi pari ad euro 31.481,26 (per una rata mensile di euro 2.623,44, inferiore al quinto cedibile), percepiti in qualita' di giudice tributario negli anni 2015-2018». Il ricorrente deduceva, a sostegno delle proprie ragioni, i seguenti motivi di impugnazione: 1) Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 8912014, e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in particolare per irragionevolezza, irrazionalita', illogicita', erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, travisamento, manifesta ingiustizia, disparita' di trattamento e contraddittorieta'. Difetto di motivazione. Violazione degli articoli 1, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 97, 100, 101, comma secondo, 104, comma primo, e 108, comma secondo della Costituzione. Ad avviso del ricorrente, giusta il disposto di cui all'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, i redditi la cui eccedenza, rispetto al limite di euro 240.000 annui, determina il prelievo del quod superest sarebbero esclusivamente quelli conseguiti nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni. Nel novero di tali redditi non rientrerebbero, per l'effetto, i compensi percepiti dal ricorrente quale giudice tributario, in quanto munus pubblico che non comporta l'instaurazione di un rapporto di pubblico impiego ne' di lavoro autonomo nei confronti della pubblica amministrazione, trattandosi piuttosto di un rapporto di servizio onorario. 2) Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, nell'ipotesi il motivo sub 1) non sia accolto e si ritenga dunque applicabile il divieto. L'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 sarebbe stato violato nella parte in cui stabilisce il limite del tetto retributivo nell'importo ivi «fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente». Nel novero di siffatti contributi previdenziali rientrerebbero esclusivamente quelli a carico del dipendente e non anche quelli a carico del datore di lavoro, che sarebbero in misura di gran lunga superiore rispetto ai primi (88%). La disposizione, avente carattere eccezionale, non potrebbe essere interpretata in via estensiva di talche' l'importo da confrontare con il limite di euro 240.000 avrebbe dovuto essere decurtato dell'importo dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi alla posizione del ricorrente ed a carico del datore di lavoro. Inoltre, il regime del tetto massimo retributivo non avrebbe potuto essere applicato nei confronti del ricorrente in considerazione dell'antecedenza cronologica degli incarichi dallo stesso ricoperti rispetto alla data del 1° maggio 2014, a decorrere dalla quale il legislatore, giusta il disposto di cui all'art. 13 comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89), ha fissato in euro 240.000 annui il limite massimo retributivo riferito al primo Presidente della Corte di cassazione. Nel caso di specie avrebbe infatti dovuto applicarsi, secondo il ricorrente, in via estensiva e/o analogica, la disposizione derogatoria di cui all'art. 1, comma 489 della legge n. 147 del 2013 la quale, avuto riguardo ai soggetti gia' titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, esonera dall'applicazione del divieto di cumulo oltre il cd. tetto massimo «i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi». Il ricorrente chiedeva pertanto l'annullamento del citato provvedimento prot. n. 21643/T.E. del 18 dicembre 2019, con accertamento del diritto a percepire il trattamento economico spettante senza le decurtazioni previste e la conseguente condanna dell'amministrazione alla restituzione delle somme recuperate e trattenute, con interessi legali e rivalutazione monetaria, previo, ove occorrente, annullamento e/o disapplicazione degli atti intervenuti. Con sentenza 18 giugno 2020, n. 6668, il giudice adito respingeva il ricorso. Avverso tale decisione il ricorrente interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di impugnazione: 1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, anche in riferimento all'art. 1, comma 471, della legge n. 147/2013; dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in particolare per irragionevolezza, irrazionalita', illogicita', erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, travisamento, manifesta ingiustizia, disparita' di trattamento e contraddittorieta'. Difetto di motivazione. Violazione degli articoli 1, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 97, 100, 101, comma secondo, 104, comma primo, e 108, comma secondo della Costituzione; 2) Violazione e falsa applicazione dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, nell'ipotesi il motivo sub 1) non sia accolto e si ritenga dunque applicabile il divieto; 3) In subordine, illegittimita' derivata per illegittimita' costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014 e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, in relazione agli articoli 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97, 100, 101, 104, 108 e 117, comma primo della Costituzione; 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, dell'art. 1, comma 471, della legge n. 147/2013, come modificato dall'art. 13, comma 2, lettera a), del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, dell'art. 1, comma 472, della legge n. 147/2013, come modificato dall'art. 13, comma 2, lettera b), del citato decreto-legge n. 66/2014, dell'art. 1, comma 473, della legge n. 147/2013, come modificato dall'art. 13, comma 2, lettera c), del citato decreto-legge n. 66/2014, dell'art. 1, commi 474 e 475, della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del citato decreto-legge n. 66/2014, per violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione degli articoli 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione; 6) Violazione e falsa applicazione degli articoli 11 e 12 della legge 2 aprile 1979, n. 97 e dell'art. 3, comma primo, della legge 6 agosto 1984, n. 425, dato che la normativa sul tetto stipendiale di euro 240.000 annui incide, rendendolo non operativo, sul meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati e sulla relativa progressione economica. Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione degli articoli 3, 36, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione; 7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione; 8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, e dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 Cost. Illegittimita' derivata per contrasto con la normativa costituzionale. Si costituivano in giudizio le amministrazioni resistenti, concludendo per l'infondatezza del gravame. Il Collegio, a fronte delle risultanze di causa, ritiene sussistere i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza per rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 13 (Limite al trattamento economico del personale pubblico e delle societa' partecipate) del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 23 giugno 2014, n. 89), anche nel combinato disposto con l'art. 23-ter (Disposizioni in materia di trattamenti economici), comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici, come convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), per contrasto con gli articoli 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione. Lo stesso dicasi per le previsioni di cui all'art. 1, commi 471, 473 e 474 della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), dal contenuto analogo. In base all'art. 23-ter citato, «Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione. Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui al presente comma devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico del medesimo o di piu' organismi, anche nel caso di pluralita' di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell'anno». Le risorse rivenienti dall'applicazione delle misure di cui alla predetta norma sono annualmente versate al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. L'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 a sua volta dispone, al comma 1, che: «A decorrere dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter [...] e' fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente. A decorrere dalla predetta data i riferimenti al limite retributivo di cui ai predetti articoli 23-bis e 23-ter contenuti in disposizioni legislative e regolamentari vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, si intendono sostituiti dal predetto importo. Sono in ogni caso fatti salvi gli eventuali limiti retributivi in vigore al 30 aprile 2014 determinati per effetto di apposite disposizioni legislative, regolamentari e statutarie, qualora inferiori al limite fissato dal presente articolo». Cio' rilevato, ritiene il Collegio, alla luce delle difese dell'appellante, che - a prescindere dalle diverse letture dell'inciso «nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo» di cui all'art. 23-ter per individuare, in termini soggettivi, coloro cui si applica il c.d. «tetto retributivo» o piuttosto, in termini oggettivi, quali tra gli emolumenti corrisposti da una pubblica amministrazione concorrano a formare il «tetto» - la formulazione onnicomprensiva della norma non consenta, almeno ictu oculi, di escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle Commissioni tributarie, pur non apparendo gli stessi qualificabili alla stregua di emolumenti derivanti da «rapporti di lavoro subordinato o autonomo», perche' afferenti a funzioni ad investitura a titolo onorario, dunque di un tertium genus rispetto alle nominate. Cio' in ragione dell'art. 11 (Durata dell'incarico e assegnazione degli incarichi per trasferimento), comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) (come sostituito dall'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203) a mente del quale «La nomina a una delle funzioni dei componenti delle commissioni tributarie provinciali e regionali non costituisce in nessun caso rapporto di pubblico impiego». Sicche', posto che nemmeno si tratta di «lavoro autonomo», non resterebbe che la qualificazione di lavoro pubblico sotto altra forma: in particolare, a titolo onorario (formula peculiare del settore pubblico, da tempo immemorabile praticata: in particolare, sotto diverse modulazioni, nell'organizzazione della giurisdizione). Nel caso di specie, l'appellante evidenza come nella realta' effettuale, in applicazione dell'indicato «taglio», egli sia stato decurtato di compensi lavorativi altrimenti di sua normale spettanza perche' corrispondenti a prestazioni lavorative effettivamente eseguite in modo continuativo. Il che risulta avvenuto per un importo complessivo lordo di euro 31.481,26 (dunque per una rata mensile lorda di euro 2.623,44, inferiore al quinto cedibile), relativo ai compensi per il lavoro prestato quale giudice tributario negli anni compresi tra il 2015 e il 2018. Corollario temporale dell'applicazione delle norme restrittive suddette e' poi, in via conseguenziale e automatica, la decurtazione dei successivi compensi di giudice tributario anche per tutti gli anni successivi, e senza limiti di tempo. Il che, per la continuativita' del rapporto, appare tuttora in atto e si produrra' fintanto che dureranno le sue funzioni di giudice tributario. Quanto sopra da' la concreta evidenza della rilevanza della questione ai fini della decisione di questo giudizio. In effetti la, lamentata dall'appellante, preclusa corresponsione degli emolumenti superiori al «tetto» (la cui applicazione l'interessato comunque contesta per questo ordine di compensi, e gia' in considerazione della detta loro natura), discende in modo pressoche' automatico dall'applicazione alle menzionate disposizioni di legge ove intese, come finora e' avvenuto, in senso contrario a quello da lui assunto. Al fine di enucleare le ragioni che portano a dubitare della legittimita' costituzionale - in relazione alla fattispecie per cui e' causa - del combinato disposto degli articoli 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 e dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, occorre ricordare l'assetto normativo in cui si colloca la disciplina contenuta in queste disposizioni, cosi come descritto dalla sentenza della Corte costituzionale 26 maggio 2017, n. 124, della quale si riportano passaggi rilevanti. La disciplina del limite massimo alle retribuzioni pubbliche (di cui alle disposizioni predette) costituisce invero il paradigma generale cui ricondurre la materia delle attribuzioni economiche della pubblica amministrazione per remunerare i propri dipendenti, e ad essa si deve fare riferimento anche per le previsioni in tema di cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche. Una tale disciplina, in sostanza, viene fatta iscrivere in un contesto generale di risorse finanziarie pubbliche limitate messo in relazione all'obiettivo politico economico del contenimento della spesa pubblica. Queste andrebbero ripartite in maniera congrua, il che avverrebbe sganciandole del tutto, raggiunto un certo livello, dall'effettivita' del sinallagma contrattuale lavorativo del pubblico (ma non del privato) dipendente: dunque gravando ex lege, e al di fuori di quanto responsabilmente accettato e previsto dal lavoratore all'atto di costituzione del rapporto lavorativo, di gratuita' delle prestazioni il lavoratore pubblico che abbia, nel complesso dell'attivita' lavorativa pubblica - non importa di quale quantita' o qualita' - raggiunto complessivamente l'imprevisto «tetto» lordo (e sempre che non rientri tra le poche eccezioni nominatamente stabilite dalla legge). La sentenza Corte cost., n. 124 del 2017 afferma testualmente a questo riguardo: «Il limite delle risorse disponibili» - «immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parita' di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)». Ancora, «nel settore pubblico non e' precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole. In tale ottica, si richiede il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l'idoneita' del limite fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalita' elevate». Nella specie, rileva la sentenza costituzionale, l'indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge a priori con i principi richiamati. Invero, tale disciplina, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalita' di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo, di talche' la circostanza che la relazione tecnica non computi i risparmi attesi non e' di per se' sintomatica dell'irragionevolezza della norma. Le molteplici variabili in gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile. Nel dibattito parlamentare che porto' all'approvazione dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, si attribui' alla norma un impatto quantificabile solo «a consuntivo». In questa prospettiva va adeguatamente considerato il vincolo di destinazione che la legge assegna alle risorse derivanti dall'applicazione delle norme censurate, stabilendo la loro destinazione annuale al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, decreto-legge n. 201 del 2011 ed art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilita' speciale di tesoreria. La disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche si presenta, invero, come una misura di contenimento della complessiva spesa pubblica, analogamente ad altri interventi introdotti in altri ambiti (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; 6 luglio 2011, n. 98, recante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11; decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135; decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante Misure urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89; decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114). Inoltre, sin dalle prime applicazioni, riferibili all'art. 3, commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008), le disposizioni sui limiti retributivi sono state usualmente affiancate a obblighi di pubblicita' degli incarichi. Il contenimento della spesa, in questa complessiva prospettiva, e' visto non come fine in se', ma in coerenza con altri obiettivi intesi a valorizzare la conoscenza della gestione delle risorse pubbliche. La disciplina primaria vagliata dalla Corte costituzionale persegue pertanto «finalita' di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate. La non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi (sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali). Il limite retributivo, dapprima riferito alle amministrazioni statali, in base all'art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008), ha via via attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, le autorita' amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le societa' partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera a, del decreto-legge n. 66 del 2014). Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il limite massimo retributivo di 240.000 euro annui e' stato esteso anche agli amministratori, al personale dipendente, ai collaboratori e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198, recante Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria e dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Procedura per l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale)». Si tratta infatti, per la sentenza, di dare una «tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali in gioco» nel cui «orizzonte si colloca anche il principio di proporzionalita' tra la retribuzione e la quantita' e la qualita' del lavoro prestato», per cui «il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessita' di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo -delle risorse che l'amministrazione puo' corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni» e «il principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto deve essere valutato [...] in un contesto peculiare, che non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico». Insomma, per la sentenza costituzionale, «il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessita' di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo - delle risorse che l'amministrazione puo' corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni». Il Collegio qui rileva che anche nella presente fattispecie si tratta di un regime restrittivo particolare che concerne i soli lavoratori pubblici e che, pur a parita' di condizioni, li distingue economicamente dai lavoratori privati: per i quali non si impone altrettanto sacrificio remunerativo da «taglio lineare», per il fatto soggettivo che i loro rapporti di lavoro principali sono estranei alla spesa pubblica; e dunque muove dalla giurisprudenza che si e' formata, ma considera anche difficile sostenibilita' a lungo termine di un siffatto, comunque oggettivamente discriminatorio tra pari lavoratori, taglio lineare. Tuttavia, questa disparita' qui assume tratti nuovi e affatto particolari rispetto a quanto vagliato in passato. Qui, invero, non si tratta solo di comparare genericamente diverse o simili prestazioni lavorative, e dunque di svolgere una comparazione per categorie soggettive generali: ma di comparare specificamente, in concreto, la medesima, oggettiva, prestazione lavorativa (quella di giudice tributario): la quale, malgrado siffatta identita' oggettiva della prestazione, viene diversamente remunerata dallo Stato secondo un criterio discretivo meramente soggettivo; cioe' a seconda che sia prestata da un lavoratore privato ovvero da un lavoratore pubblico (che ha una retribuzione principale pari o prossima al «tetto» indicato): il quale percio', a differenza di quell'altro che pur svolge la medesima prestazione, nulla in pratica viene ad essere retribuito per quanto supera il «tetto», mentre l'altro lo continua in pieno e senza diminuzioni di sorta. Infatti riguardo a quello stesso lavoro effettivamente svolto di giudice tributario, simile ablazione non e' dalla legge praticata (anzi: e' a contrariis esclusa) a carico quegli altri soggetti che traggono i primi redditi lavorativi dal lavoro privato o comunque autonomo e pero' svolgono anch'essi quel medesimo lavoro di giudice tributario, in ipotesi finanche presso la stessa concreta unita' organizzativa (ufficio, sezione) dove la svolge il magistrato o pubblico dipendente, pur onerato della medesima quantita' e qualita' di lavoro. Si tratta dunque di un'evidente disparita' di trattamento: non di situazioni simili, ma della medesima situazione; e questo vale per tutti i giudici tributari che sono pubblici dipendenti (e che, beninteso, sono toccati dal «tetto») rispetto a tutti i giudici tributari che non sono pubblici dipendenti (anche se, beninteso, sarebbero altrimenti toccati dal «tetto»). La disparita' non potrebbe essere piu' chiara e maggiore. Tale e' qui il tema primario - e non il solo - della questione di legittimita' costituzionale che qui si solleva rispetto a piu' norme della Costituzione. Tutto cio' non appare «giustificato» da altro se non che il lavoro «principale» e' da un lato di lavoro privato, dall'altro di lavoro pubblico. Ma nulla impinge circa le energie e risorse personali e i tempi messi a disposizione ed utilizzati dai due lavoratori nello svolgere quel pur medesimo lavoro: che e' quanto la Costituzione anzitutto si premura di garantire con le sue norme che qui appaiono violate. L'effetto pratico, pur nel medesimo lavoro, e' di discriminare tra i lavoratori soltanto in ragione di una loro «appartenenza» soggettiva (cioe', in ragione di un fatto del tutto esterno alla loro volonta' e certo imprevedibile all'atto della costituzione del rapporto lavorativo principale), e dunque delle vicende del rispettivo «datore di lavoro», cioe' in pratica per fatto altrui: il che contrasta il maturato carattere volontaristico del contratto di lavoro e appare urtare contro la percezione dei valori, dei principi e delle regole dell'eguaglianza assicurata dall'art. 3 Cost., sia in se' come in vista della rimozione delle cause di ineguaglianza (art. 3, secondo comma). Qui il legislatore sembra aver proceduto nel senso di introdurre diseguaglianze che prima non c'erano. Inoltre, dal punto di vista del principio solidaristico (art. 2 Cost.), meno ancora una tale discriminazione trova giustificazione riguardo ai «doveri inderogabili di solidarieta' [...] economica e sociale», posti a carico di tutti in relazione alle loro capacita' (economiche: cfr. art. 53 Cost.) ma qui evidentemente portati a carico del solo dipendente pubblico, mentre il lavoratore privato ne viene espressamente affrancato (pur se, quale cittadino, anche lui all'ultimo ne beneficia), e quale che sia il suo livello di reddito: quasi che la spesa pubblica componga un sistema chiuso, con suoi propri e riservati doveri di solidarieta', anziche' essere un elemento del sistema economico generale, di cui sono pari parte i lavoratori privati come quelli pubblici. Non solo: la discriminazione e la disparita' appaiono aggravarsi solo che si consideri che poi nessun riguardo le norme sospettate pongono alla complessiva capacita' reddituale da lavoro dei soggetti cosi' diversamente trattati: per cui ben puo' essere che un giudice tributario a lavoro principale «privato» abbia gia' in origine una capacita' reddituale finanche superiore a quella del pubblico che subisce il «taglio», eppure a differenza di questo nulla abbia a subire in conseguenza delle norme primarie che qui vengono in questione: e abbia solo, uti civis, a beneficiarne. Oltre la considerazione cosi' esposta, che di suo da' evidenza della lesione del principio di eguaglianza dell'art. 3 Cost., rileva il Collegio come l'applicazione delle norme primarie in questione qui e' fatta con riguardo non a una prestazione lavorativa secondaria a remunerazione «fissa», ma ad una prestazione la cui remunerazione e' dalla legge prevista come variabile in relazione alla misura della quantita' e al livello del lavoro effettuato (art. 13 decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545). Ne viene che in termini di risultato pratico - profilo il cui rilievo e' essenziale, perche' si versa in un tema economico - cio' determina in se' una tendenziale, progressiva imposizione della gratuita' della prestazione lavorativa effettuata in capo a chi e' prossimo, o addirittura ha gia' raggiunto, il «tetto» retributivo suddetto. Questa situazione genera poi un'ulteriore disparita' di trattamento, interna alla categoria dei dipendenti pubblici che svolgono un siffatto servizio ulteriore: a seconda che siano o non siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) «tetto». La questione dunque non si si esaurisce nella gratuita' tendenziale della prestazione lavorativa di giudice tributario, la quale gia' ripropone - come meglio si vedra' - la capitale questione del contrasto dell'art. 36 Cost. in termini di proporzionalita'. Essa infatti appare rilevare di suo, e in modo accentuato, in termini di progressivita' e di irragionevolezza di questa gratuita' tendenziale. E' dato invero ravvisare, alla base di tutto, un nuovo e manifesto contrasto con il principio di ragionevolezza ed eguaglianza, dunque con l'art. 3 Cost.: perche' dalle indicate comparazioni risulta una gratuita' tendenziale paradossalmente tanto maggiore quanto maggiore e' l'impegno lavorativo, complessivo e settoriale, realmente profuso ed esplicato dal lavoratore a beneficio dell'amministrazione pubblica. Tutto cio' appare dunque di suo andare in contrasto sia con il principio di ragionevolezza, sia con il principio di eguaglianza, dunque appunto con l'art. 3 Cost. Ma anche - in nuove forme e assai piu' incisive rispetto a quelle di cui alla ricordata sentenza costituzionale - in contrasto con il principio generale della giusta e - a parita' (anzi: identita') di condizioni - pari retribuzione del lavoro (art. 36 Cost.): la quale deriva da regole etiche e sociali oggi stimate universali nei rapporti economico-lavorativi e collegate alla dignita' stessa dell'uomo, che massimamente si concretizza ed esprime proprio attraverso il lavoro, il suo significativo valore morale e il suo riconoscimento economico: che, essendo produttivo di ricchezza a favore altrui, oltre a conferire dignita' a chi lo svolge e' fatto economico generativo e traslativo di valore; e che per questa medesima ragione - etica, giuridica ed economica - impone l'obbligo del compenso a chi ne riceve l'utilita' e il corrispondente diritto a chi lo offre. Reciprocamente, vale a dire dal lato della remunerazione, il guadagno da lavoro e' considerato di prima dignita' rispetto al profitto d'impresa, al frutto del risparmio, alla rendita. Si tratta di principi oggi immanenti a ogni ordinamento civile, tanto da concretizzare - e gia' a livello internazionale - un riconosciuto diritto fondamentale dell'uomo: «il diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro» e' espressamente considerato un diritto dell'uomo (cfr. art. 23, comma 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani dell'Assemblea generale dell'ONU, Parigi, 10 dicembre 1948). E qui non e' dubbio che, per le ragioni dette, ricorrano per l'esattamente «eguale lavoro» (di piu': come detto, si tratta di identico lavoro). Il che comporta, come immediata e naturale conseguenza, che debba davvero sussistere «il diritto ad eguale retribuzione». Si verte percio' della violazione non solo dell'art. 36 Cost., ma anche - e prima - del diritto dell'uomo a tale parita' di retribuzione, riconosciuto al massimo livello internazionale: del che occorre tener conto alla luce dell'art. 10, primo comma, da solo e in combinato disposto con l'art. 2 della Costituzione. Appare dunque gia' in questi primi sensi non manifestamente infondato il sospetto di un contrasto delle dette norme primarie con gli articoli 2, 3, 10, 36, 97 della Costituzione. Inoltre - riprendendo quanto accennato - una tale discriminatoria privazione della proporzionata retribuzione del lavoro va considerata anche nel tempo (sono ormai passati cinque anni dall'avvio del «taglio»). Infatti la distinzione, specie se considerata in un cosi' lungo tempo, appare superare il parametro di sostenibilita' dell'eccezione e appalesarsi per quello che e', un'effettiva discriminazione: il che sembra superare quanto la sentenza costituzionale, come ricordato, riferendosi alla contingenza economica ha chiamato «tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali», tale per cui «il principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto deve essere valutato [...] in un contesto peculiare». Tali considerazioni, invero, facendo riferimento al «contesto particolare», conducono a identificare un termine all'eccezione al principio di proporzionalita' dell'art. 36 Cost.: e il lungo tempo ormai trascorso gia' ampiamente e' indice del superamento di un tale limite. Tutto questo dunque, in nuove angolazioni rispetto al ricordato precedente, appare in contrasto con l'art. 36, primo comma, Cost., a mente del quale «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro [...]». E' da rammentare che gia' di suo la norma costituzionale applica al lavoro il principio di proporzionalita', di generale imperativita' e riferibile a tutti i rapporti di lavoro subordinato. Il principio prescinde dalle preesistenti condizioni economiche soggettive del lavoratore ed e' ancorato all'oggettivo valore economico proprio del singolo lavoro prestato (nella specie concreta, nel quantum stabilito dalle norme di legge sulla proporzionale remunerazione dei giudici tributari, quale che sia il loro lavoro «principale», pubblico o privato, dipendente o autonomo): e' dunque collegato al fatto mero dell'effettiva prestazione personale mediante l'utilizzazione delle energie lavorative; e non soffre limitazioni o restrizioni - e soprattutto discriminazioni - per la circostanza dell'afferire a un secondo, volontario, lavoro (qual e' il lavoro di giudice tributario). Invero, a radicale differenza e disparita' dal pari caso di prestazione in cui il giudice tributario sia un lavoratore autonomo (e dunque con manifesta disparita' di trattamento, malgrado il principio di eguaglianza dell'art. 3 Cost. e il paradigma, evocabile quanto meno per analogia, dell'indistinta capacita' contributiva dell'art. 53 Cost. che li eguaglia nei doveri di solidarieta' sociale), nel (solo) caso in cui il giudice tributario sia un pubblico dipendente, il trattamento economico per lo svolgimento delle funzioni onorarie si aggiunge - ai fini del calcolo del «tetto» - a quello gia' percepito come corrispettivo dello svolgimento della sua normale attivita' lavorativa. Trattamento che, di suo, ha piuttosto la specifica funzione di remunerare l'ulteriore, e volontaria, attivita' svolta in qualita' di componente di un siffatto organo giurisdizionale, al pari del lavoratore autonomo che svolge quel medesimo, volontario, lavoro aggiuntivo: ma che viene privilegiatamente sottratto a un simile taglio, pur essendo parimenti destinatario e beneficiario degli effetti della spesa pubblica. Il trattamento economico dei giudici tributari, e' qui ancora il caso di ricordare, e' per legge (art. 13 decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545) composto da una componente fissa - calcolata in ragione della posizione in ruolo del magistrato - e da una variabile: questa va calcolata proporzionalmente al lavoro prestato, cioe' in base al numero delle sentenze pubblicate. Stando cosi' le cose, appare chiaro che quanto piu' elevato e' il trattamento economico percepito «a monte» dal (solo) pubblico dipendente (eventualita' legata alla sua maggior anzianita' di servizio, ovvero all'importanza istituzionale dell'incarico, ovvero a entrambe), tanto piu' probabile e' - ed e' nel caso qui al vaglio - che il giudice tributario non percepisca in tutto o in parte, alcun compenso per l'attivita' giurisdizionale svolta: a differenza del giudice tributario che, ad esempio, svolge una libera professione (le cui entrate sono artificialmente rese, a questi riguardi, come pari a zero, quali che in realta' siano). Ancora una volta, dunque, appare emergere il contrasto delle dette norme primarie sia con l'art. 36 della Costituzione, sia anche rispetto all'art. 3 della Costituzione: e, in entrambi i casi, sia in se' che nella prospettiva del principio che presiede all'art. 53 della Costituzione. Ma, anche indipendentemente da questa comparazione e dalla disparita' di trattamento che ne deriva (e che vale a distinguere questo caso dai restanti), va comunque considerato che non rispetterebbe la comune logica l'assumere che la percezione del «tetto massimo» varrebbe ad assicurare l'adeguata retribuzione di tutte le attivita' lavorative effettivamente svolte, per quanto considerate e confuse in un coacervo contabile. Invero, cio' equivarrebbe a non dare rilievo alcuno al pur esistente dispendio aggiuntivo di energie per il lavoro aggiuntivo: e assumere - per poco ragionevole fictio iuris - che l'attivita' di giudice tributario non direttamente retribuita verrebbe di fatto a non comportare questo dispendio di energie e generare il diritto alla retribuzione; ovvero, a essere in parte «compensata» da una quota della retribuzione percepita dal pubblico dipendente quale corrispettivo dell'attivita' lavorativa subordinata ordinariamente svolta, con corrispondente restrizione di quella spettante per il lavoro principale, in disparita', a quel punto, con gli altri esercenti lo stesso lavoro principale: ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 della Costituzione. Una tale raffigurazione, comunque, urterebbe con la natura reciprocamente diversa e certo non omogenea dei due rapporti di servizio, solo il primo dei quali e' optimo iure di lavoro dipendente (ai sensi dell'art. 11 decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545, «La nomina a una delle funzioni dei componenti delle commissioni tributarie provinciali e regionali non costituisce in nessun caso rapporto di pubblico impiego»). Anche da quest'angolazione appare emergere un ulteriore contrasto delle dette norme primarie con l'art. 3 della Costituzione, in punto di disparita' di trattamento e di violazione del canone generale di ragionevolezza che deve caratterizzare le leggi. Aspetto decisivo della sospetta incostituzionalita' e' pertanto la circostanza che -lungi dal prevedere un limite massimo di retribuzione per l'attivita' lavorativa svolta nell'interesse dell'amministrazione, qual e' l'intento dichiarato del legislatore - l'applicazione dell'istituto del «tetto retributivo» anche ai compensi dei giudici tributari che ordinariamente svolgano attivita' lavorativa subordinata presso una pubblica amministrazione in realta' finisce per tradursi nell'imposizione unilaterale, da parte dell'amministrazione beneficiaria dei relativi servizi, della progressiva gratuita' delle relative prestazioni, man mano che la qualita' e quantita' delle stesse vada aumentando. Invero, se il giudice tributario svolge presso l'amministrazione di originaria appartenenza funzioni di particolare complessita' e rilievo (ed e' questo il caso), tanto piu' se con elevata anzianita' di servizio, fatalmente non vedra' retribuita, in tutto o in parte, l'attivita' giudicante - pur se connotata da profonda complessita' tecnica - svolta presso le Commissioni tributarie e nell'esclusivo interesse dell'amministrazione dell'economia e finanze e della sua giustizia. Il che, oltre a contrastare, nella sua assolutezza, con il gia' richiamato principio di cui all'art. 36 della Costituzione, contraddice altresi' quello di buon andamento dell'amministrazione ex art. 97 della Costituzione. Va ricordato, al riguardo, che per principio generale la legittimita' di una disposizione legislativa, rispetto al parametro dell'art. 97 Cost., va valutata tenendo conto dei suoi effetti sul buon andamento della pubblica amministrazione complessivamente intesa, non gia' di singole sue componenti, isolatamente considerate (cosi' Corte costituzionale, 30 maggio 2008, n. 183). Nella specie, invero, la certezza della decurtazione automatica, in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all'attivita' svolta quale giudice tributario non puo' che recare effetti disincentivati: dunque di dissuadere, in prospettiva, proprio i funzionari pubblici di maggiore e migliore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale (alieni da potenziali conflitti di interesse di carattere professionale) - ossia quelli provenienti dai ruoli delle magistrature o dell'Avvocatura dello Stato di livello apicale o di maggiore anzianita' - dal chiedere di ricoprire, o dal continuare a ricoprire, quegli uffici onorari: il che comporterebbe la conseguente sottrazione alla giustizia tributaria di siffatte professionalita' e indipendenza, con lesione complessiva della razionalita' amministrativa e del principio di buona amministrazione, di cui all'art. 97 della Costituzione, applicato al settore e, di riflesso, all'intero ordinamento posta la centralita' - anche ai fini dell'affidamento circa gli investimenti - della legittimita' del prelievo monetario e dell'inerente sicurezza giuridica. Ne verrebbe infatti, come naturale conseguenza, il fatale progressivo ritiro dalla giustizia tributaria delle piu' alte professionalita' e l'abbassamento generale della qualita' e dei tempi di quella risposta di giustizia. Il che, a guardare al risultato complessivo per la societa', appare risolversi in una nuova irrazionalita' dell'organizzazione del sistema economico-finanziario e in un vulnus all'economia nazionale e agli operatori economici. Il sistema economico in tanto e' capace di attirare investimenti in quanto l'ordinamento si mostra capace di offrire, a ogni investitore od operatore, con il diritto al giudice e alla qualita' della risposta di giustizia, imparziali sicurezze e tempestive certezze giuridiche a riguardo a imposizioni tributarie stimabili di sospetta legittimita'. In questi termini, l'aver fatto il legislatore ricorso ad un parametro meramente quantitativo con cui modulare il corrispettivo economico del servizio prestato tra le diverse categorie di soggetti chiamati a svolgere le funzioni di giudice tributario (funzioni, va ricordato, essenziali per assicurare l'effettivita' del principio di legalita' e del diritto al giudice riguardo all'imposizione tributaria, nonche' per l'assetto complessivo delle finanze pubbliche, e in se' tecnicamente assai complesse e specialistiche, tali cioe' da richiedere una rilevante preparazione professionale e l'impegno allo studio delle singole controversie), significa essersi avvalsi di un parametro che - come detto - non tiene in conto la rilevanza delle professionalita' acquisite. Sembra andarsi cosi' contro il principio di responsabilita' personale e lo stesso principio lavorista che l'art. 1 della Costituzione pone a fondamento della Repubblica: per il quale, come evidenziano autorevoli dottrine, il lavoro rappresenta il «segno distintivo dello sviluppo della personalita' dell'uomo», «il piu' idoneo ad esprimere il pregio della persona» con cui socialmente si valuta la posizione da attribuire ai cittadini nello Stato, poiche' il lavoro rappresenta non solo uno strumento per il conseguimento di mezzi di sostentamento, ma «il tramite necessario per l'affermazione della personalita'», cioe' «cardine costituzionale per elevare e commisurare la dignita' dell'uomo». Negare la «giusta mercede» -espressione di matrice teologica cui da molti si fa risalire il concetto secolare di proporzionata retribuzione - appare dunque negare il valore stesso del merito acquisito dall'individuo mediante l'operosita' attivamente riversata nel lavoro. E' poi appena il caso di rammentare che il lavoro a cui si riferisce la formula costituzionale non e' limitato al lavoro manuale ma e' da intendere nel senso di «lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35 della Costituzione) tanto che, come ulteriore autorevole domina ha evidenziato, ha valore unitario ed inclusivo perche' rappresenta «un titolo di appartenenza alla comunita' nazionale, alla cittadinanza»: e altra autorevole dottrina ha sottolineato che il lavoro e' esso stesso il mezzo che consente ai cittadini di partecipare positivamente al soddisfacimento dei bisogni della collettivita'. Dunque tale negazione della prevista retribuzione sembra mortificare siffatti assunti, in pratica imponendo, contro l'efficienza economica generale, ai componenti di piu' elevato livello professionale pubblico una retribuzione solo parziale dell'attivita' prestata, se non anche negandola in toto: il che contrasta il principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 Cost. anche nel senso per cui finisce, in pratica, con l'assimilare tra loro - in primis ai fini «retributivi» e, dunque, di rilevanza professionale - posizioni professionali e lavorative (sia pubbliche che private) in realta' disomogenee e diverse. Invero, la previsione - a fianco di un autonomo tetto massimo di «retribuibilita'» delle funzioni giurisdizionali tributarie (ex art. 1, comma 311, legge 30 dicembre 2004, n. 306) - di un ulteriore limite, onnicomprensivo, di retribuibilita' di qualsiasi pubblica funzione (di cui alle norme qui sospettate di incostituzionalita') sembra tradursi, per effetto degli automatismi di cui si e' detto, nell'aprioristica equiparazione delle prestazioni professionali rese da magistrati di maggior esperienza e professionalita' rispetto a quelle di giudici privi di tali oggettivi requisiti, e posponendoli a quelli provenienti dalle libere professioni, i cui redditi da lavoro privato non ricadono invece - come ripetutamente qui sottolineato - nel perimetro applicativo delle norme qui sospettate di incostituzionalita'. Le circostanze evidenziate inducono infine a dubitare della compatibilita' del regime economico/retributivo dei giudici tributari, come conseguente all'applicazione del combinato disposto degli articoli 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 e 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201 del 2011, con il principio della pari capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione. Appare invero difficile, in aggiunta a tutto quanto gia' rilevato, non cogliere in una tale sottrazione della «giusta mercede» un prelievo di natura tributaria o comunque a quello assimilabile, vista la pari natura pecuniaria e la pari affluenza del prelievo al bilancio pubblico, dunque alle entrate (o mancate spese) e cosi alla fiscalita' generale. Una diversa configurazione, si e' costretti a considerare, assume i caratteri di una qualificazione meramente nominalistica, perche' detta sostanza delle cose non muta e come tale, infatti, e' comunemente percepita. Al riguardo, va rammentato che (cfr. Corte costituzionale, 10 novembre 2017, n. 236; 6 maggio 2016, n. 96; 30 aprile 2015, n. 70; 23 luglio 2015, n. 178; 4 giugno 2014, n. 154; 12 dicembre 2013, n. 304; 17 dicembre 2013, n. 310; ordinanza 12 ottobre 2012, n. 233) «una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica da' un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese». Ritiene il Collegio che sussistano tali presupposti nel caso di specie. Quanto al primo profilo, posto che lex non distinguit riguardo al tempo che la segue (e sono ormai gia' ben sei anni dall'ultima formulazione), la decurtazione disposta in base al combinato disposto delle norme in questione presenta in realta' carattere permanente e definitivo: come detto, questi elementi caratterizzano come irragionevolmente sine die il limite retributivo introdotto dall'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, facendone di loro un connotato permanente di un sistema asimmetrico di contribuzione al risparmio di spesa pubblica. Del pari, la mancata retribuzione, in tutto o in parte, dell'attivita' professionale prestata dal giudice tributario, in ragione del raggiungimento del «tetto stipendiale», discende dall'automatica applicazione di un criterio meramente quantitativo, indifferente rispetto alla quantita' e qualita', e anche alla ponderazione del rendimento del singolo giudice tributario (circostanza dalla quale deve pertanto desumersi che il contestato sopravvenuto «blocco retributivo» non faccia seguito, ad esempio, ad un mutamento del rapporto sinallagmatico sottostante la specifica situazione remunerativa incisa dalla novella di legge). Consegue pertanto la realta' di una mera decurtazione patrimoniale, dal carattere non temporaneo ma definitivo e permanente: il che qualifica di suo la fattispecie nel novero dei casi di imposizione tributaria anomala ed implicita, secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale. Sussiste infine anche il terzo presupposto, ossia la destinazione delle somme non corrisposte al finanziamento della spesa pubblica, in ragione di quanto previsto dall'art. 23-ter, comma 4, del decreto-legge n. 201 del 2011, a mente del quale «Le risorse rivenienti dall'applicazione delle misure di cui al presente articolo sono annualmente versate al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato». Va a questi propositi considerato che comunque una restrizione al trattamento economico che annulli completamente, per chi ha raggiunto il tetto, la retribuzione proporzionale per il servizio svolto nell'interesse e su impulso dell'amministrazione (mediante l'attivazione di apposite procedure concorsuali) potrebbe, a tutto concedere, solo essere temporanea e per breve durata: quando invece la norma e' senza fine. Sicche' anche da questo punto di vista la disciplina sospettata, in ragione del prelievo, appare di dubbia costituzionalita' in quanto modificazione permanente. A tal riguardo, si deve comunque riconoscere (cfr. Corte costituzionale, 23 dicembre 2019, n. 288) che l'eventuale «temporaneita' dell'imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un'imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali», di talche', a maggior ragione, si deve considerare che la definitivita' del prelievo fiscale (qui, per di piu', in forma occulta, il che contraddice il principio per cui «Nessuna prestazione personale o patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge», di cui all'art. 23 Cost.) ne rimarchi l'illegittimita' costituzionale, ove disancorato dai predetti principi (ex articoli 3, 23 e 53 della Costituzione). In virtu' delle ragioni esposte, e poiche' la presente controversia non puo' essere definita indipendentemente dalla risoluzione delle delineate questioni di legittimita' costituzionale, il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale, ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dell'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 e dell'art. 23-ter decreto-legge n. 201 del 2011, per contrasto con agli articoli 3, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione.
P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale, nei termini di cui in motivazione, dell'art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 e dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, nonche' dell'art. 1, commi 471, 473 e 474 della legge 27 dicembre 2013, n. 147. Sospende il giudizio in corso e ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura della Segreteria la presente ordinanza sia notificata alle parti e sia comunicata al Presidente del Consiglio dei ministri. Cosi' deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Severini, Presidente; Valerio Perotti, consigliere, estensore; Federico Di Matteo, consigliere; Angela Rotondano, consigliere; Giorgio Manca, consigliere. Il Presidente: Severini L'estensore: Perotti