N. 119 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 maggio 2021

Ordinanza del 5 maggio  2021  del  Consiglio  di  Stato  sul  ricorso
proposto da  Santoro  Sergio  contro  Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri e altri. 
 
Impiego pubblico -  Fissazione  di  un  limite  massimo  (c.d.  tetto
  retributivo), pari alla retribuzione  lorda  del  primo  presidente
  della Corte di cassazione -  Computazione  cumulativa  delle  somme
  comunque erogate all'interessato - Prevista applicazione del limite
  retributivo  ai  giudici  tributari  che  siano  anche   dipendenti
  pubblici   -   Versamento   annuale   delle   risorse   provenienti
  dall'applicazione  delle  misure  di  riduzione   dei   trattamenti
  retributivi al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. 
- Decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66  (Misure  urgenti  per  la
  competitivita'   e   la   giustizia   sociale),   convertito,   con
  modificazioni,  nella  legge  23  giugno  2014,  n.  89,  art.  13;
  decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per  la
  crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici),
  convertito, con modificazioni, nella legge  22  dicembre  2011,  n.
  214,  art.  23-ter,  comma  1;  legge  27  dicembre  2013,  n.  147
  ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
  dello Stato (legge di stabilita' 2014)"), art. 1, commi 471, 473  e
  474. 
(GU n.35 del 1-9-2021 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
              in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) 
 
    ha pronunciato la  presente  ordinanza  sul  ricorso  in  appello
iscritto al numero di registro generale 6756 del  2020,  proposto  da
Santoro Sergio, rappresentato e difeso dagli avvocati Daniele Granara
e Federico Tedeschini, con  domicilio  eletto  presso  lo  studio  di
quest'ultimo in Roma, largo Messico, 7; 
    contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in  persona  del
Presidente del Consiglio pro tempore, nonche' Ministero dell'economia
e delle finanze, in persona del Ministro pro  tempore,  Consiglio  di
Stato, in persona del Presidente pro tempore e Segretariato  generale
della giustizia amministrativa, in persona del legale  rappresentante
pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura  generale
dello Stato, presso i cui uffici in Roma,  via  dei  Portoghesi,  12,
sono elettivamente domiciliati; 
    per  la  riforma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo
regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 6668/2020,  resa  tra  le
parti. 
    Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri, del Ministero dell'economia e delle  finanze,
del Consiglio di Stato e del Segretariato  generale  della  giustizia
amministrativa; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nella Camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2020  il
cons. Valerio Perotti ed uditi per  le  parti  l'avvocato  Granara  e
l'avvocato dello Stato Di Martino; 
 
                           Fatto e diritto 
 
    Con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, l'avv. Santoro
Sergio, Presidente aggiunto del  Consiglio  di  Stato,  impugnava  il
provvedimento  prot.  n.  21643/T.E.  del  18   dicembre   2019   del
Segretariato  generale  della  giustizia  amministrativa  -   Ufficio
gestione del bilancio e del trattamento  economico  e  previdenziale,
con il quale veniva  disposto  -  a  decorrere  dalla  mensilita'  di
gennaio 2020 e sino  a  quella  di  dicembre  del  medesimo  anno  il
recupero, nel rispetto del limite massimo  retributivo  vigente,  dei
maggiori compensi percepiti (rispetto  al  limite  massimo  del  c.d.
«tetto stipendiale»), pari ad euro 31.481,26, in qualita' di  giudice
tributario negli anni 2015-2018. 
    Conseguentemente egli chiedeva  l'accertamento  a  percepire  «il
trattamento  economico  spettante  senza  le  decurtazioni   previste
dall'art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, e dall'art.  23-ter
del  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.   201,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214  e  la  condanna
dell'amministrazione al versamento e alla  restituzione  delle  somme
illegittimamente recuperate e  trattenute,  con  interessi  legali  e
rivalutazione monetaria». 
    Il ricorrente rappresentava, a tal fine, che: 
        la propria nomina a giudice tributario era avvenuta a seguito
di procedura concorsuale per titoli nel 2000 e che il compenso  fisso
percepito a tale titolo era di euro 249 al mese lordi, oltre la quota
variabile sulla produttivita', il cui ammontare e' quantificato negli
atti impugnati; 
        il Segretario generale della  giustizia  amministrativa,  con
atto prot. n. 21643/T.E. del 18 dicembre 2019, comunicato via Pec  in
pari data del Segretariato generale della giustizia amministrativa  -
Ufficio  gestione  del  bilancio  e  del  trattamento   economico   e
previdenziale, cosi' disponeva: 
          «Oggetto: Anno 2014 - Anno 2015 - Anno 2016 - Anno  2017  -
Anno 2018 -Applicazione art. 23-ter, comma  1,  del  decreto-legge  6
dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla  legge  22
dicembre 2011, n. 214 - Art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile
2014, n. 66, convertito, con  modificazioni  dalla  legge  23  giugno
2014, n. 89. Istanza di riesame - Recuperi,  secondo  cui  a  partire
dalla prossima mensilita'  di  gennaio  e  sino  alla  mensilita'  di
dicembre 2020 -  si  procedera',  nel  rispetto  del  limite  massimo
retributivo vigente, al recupero dei maggior compensi  pari  ad  euro
31.481,26 (per una rata mensile di euro 2.623,44, inferiore al quinto
cedibile), percepiti in qualita' di  giudice  tributario  negli  anni
2015-2018». 
    Il ricorrente deduceva,  a  sostegno  delle  proprie  ragioni,  i
seguenti motivi di impugnazione: 
        1)  Violazione  e/o  falsa  applicazione  dell'art.  13   del
decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 8912014,  e  dell'art.  23-ter,  comma  1,  del  decreto-legge  n.
201/2011, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  n.  214/2011,
anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n.  147/2013,
nonche' dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n.  203.
Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in particolare
per   irragionevolezza,    irrazionalita',    illogicita',    erronea
valutazione dei presupposti di  fatto  e  di  diritto,  travisamento,
manifesta    ingiustizia,     disparita'     di     trattamento     e
contraddittorieta'. Difetto di motivazione. Violazione degli articoli
1, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 97, 100,  101,  comma  secondo,  104,  comma
primo, e 108, comma secondo della Costituzione. 
    Ad avviso del ricorrente, giusta  il  disposto  di  cui  all'art.
23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, i redditi la cui eccedenza,
rispetto al limite di euro 240.000 annui, determina il  prelievo  del
quod superest sarebbero esclusivamente quelli conseguiti  nell'ambito
di  rapporti  di  lavoro  dipendente   o   autonomo   con   pubbliche
amministrazioni. Nel novero di tali redditi non  rientrerebbero,  per
l'effetto,  i  compensi  percepiti  dal  ricorrente   quale   giudice
tributario, in quanto munus pubblico che non comporta l'instaurazione
di un rapporto  di  pubblico  impiego  ne'  di  lavoro  autonomo  nei
confronti della pubblica amministrazione, trattandosi piuttosto di un
rapporto di servizio onorario. 
        2)  Violazione  e/o  falsa  applicazione  dell'art.  13   del
decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 89/2014,  e  dell'art.  23-ter,  comma  1,  del  decreto-legge  n.
201/2011, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  n.  214/2011,
anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n.  147/2013,
nell'ipotesi il motivo sub 1) non sia accolto  e  si  ritenga  dunque
applicabile il divieto. 
    L'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 sarebbe stato  violato
nella parte  in  cui  stabilisce  il  limite  del  tetto  retributivo
nell'importo  ivi  «fissato  in  euro  240.000  annui  al  lordo  dei
contributi previdenziali ed assistenziali e  degli  oneri  fiscali  a
carico del dipendente». 
    Nel novero di siffatti  contributi  previdenziali  rientrerebbero
esclusivamente quelli a carico del dipendente e non  anche  quelli  a
carico del datore di lavoro, che sarebbero in misura  di  gran  lunga
superiore rispetto ai primi (88%). La disposizione, avente  carattere
eccezionale, non potrebbe essere interpretata  in  via  estensiva  di
talche' l'importo da  confrontare  con  il  limite  di  euro  240.000
avrebbe  dovuto  essere   decurtato   dell'importo   dei   contributi
previdenziali ed assistenziali relativi alla posizione del ricorrente
ed a carico del datore di lavoro. 
    Inoltre, il regime del  tetto  massimo  retributivo  non  avrebbe
potuto   essere   applicato   nei   confronti   del   ricorrente   in
considerazione dell'antecedenza  cronologica  degli  incarichi  dallo
stesso ricoperti rispetto alla data del 1° maggio 2014,  a  decorrere
dalla quale il legislatore, giusta il disposto  di  cui  all'art.  13
comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014,  n.  66  (convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89), ha fissato in euro
240.000  annui  il  limite  massimo  retributivo  riferito  al  primo
Presidente della Corte di cassazione. 
    Nel caso di specie avrebbe infatti dovuto applicarsi, secondo  il
ricorrente,  in  via  estensiva  e/o   analogica,   la   disposizione
derogatoria di cui all'art. 1, comma 489 della legge n. 147 del  2013
la quale, avuto riguardo ai soggetti  gia'  titolari  di  trattamenti
pensionistici erogati da gestioni  previdenziali  pubbliche,  esonera
dall'applicazione del divieto di cumulo oltre il cd. tetto massimo «i
contratti e gli incarichi in corso fino alla loro  naturale  scadenza
prevista negli stessi». 
    Il  ricorrente  chiedeva  pertanto  l'annullamento   del   citato
provvedimento  prot.  n.  21643/T.E.  del  18  dicembre   2019,   con
accertamento  del  diritto  a  percepire  il  trattamento   economico
spettante senza le decurtazioni previste e  la  conseguente  condanna
dell'amministrazione  alla  restituzione  delle  somme  recuperate  e
trattenute, con interessi legali e rivalutazione  monetaria,  previo,
ove  occorrente,  annullamento   e/o   disapplicazione   degli   atti
intervenuti. 
    Con sentenza 18 giugno 2020, n. 6668, il giudice adito respingeva
il ricorso. Avverso tale decisione il ricorrente interponeva appello,
deducendo i seguenti motivi di impugnazione: 
        1)  Violazione  e  falsa  applicazione   dell'art.   13   del
decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 89/2014,  e  dell'art.  23-ter,  comma  1,  del  decreto-legge  n.
201/2011, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  n.  214/2011,
anche in riferimento all'art. 1, comma 471, della legge n.  147/2013;
dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n.  203  Eccesso
di potere in tutte le sue figure  sintomatiche,  in  particolare  per
irragionevolezza, irrazionalita',  illogicita',  erronea  valutazione
dei presupposti  di  fatto  e  di  diritto,  travisamento,  manifesta
ingiustizia, disparita' di trattamento e contraddittorieta'.  Difetto
di motivazione. Violazione degli articoli 1, 3, 4, 35,  36,  38,  53,
97, 100, 101, comma secondo, 104, comma primo, e 108,  comma  secondo
della Costituzione; 
        2)  Violazione  e  falsa  applicazione   dell'art.   13   del
decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 89/2014,  e  dell'art.  23-ter,  comma  1,  del  decreto-legge  n.
201/2011, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  n.  214/2011,
anche in riferimento all'art. 1, comma 489, della legge n.  147/2013,
nell'ipotesi il motivo sub 1) non sia accolto  e  si  ritenga  dunque
applicabile il divieto; 
        3) In subordine, illegittimita' derivata  per  illegittimita'
costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 89/2014 e dell'art.  23-ter,  comma
1, del decreto-legge  n.  201/2011,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge n. 214/2011, in relazione agli articoli 1, 3, 4, 35,  36,
38, 97, 100, 101, 104, 108 e 117, comma primo della Costituzione; 
        4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter,  comma  1,
del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 214/2011, dell'art. 1, comma 471, della legge  n.  147/2013,
come modificato dall'art. 13, comma 2, lettera a), del  decreto-legge
n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge  n.  89/2014,
dell'art. 1, comma 472, della  legge  n.  147/2013,  come  modificato
dall'art. 13, comma  2,  lettera  b),  del  citato  decreto-legge  n.
66/2014, dell'art. 1,  comma  473,  della  legge  n.  147/2013,  come
modificato  dall'art.  13,  comma   2,   lettera   c),   del   citato
decreto-legge n. 66/2014, dell'art. 1, commi 474 e 475,  della  legge
n.  147/2013,  nonche'  dell'art.  13  del  citato  decreto-legge  n.
66/2014, per violazione del principio della tutela  dell'affidamento,
di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e  6  della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo; 
        5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter,  comma  1,
del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475  della
legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione
degli articoli 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione; 
        6) Violazione e falsa applicazione degli  articoli  11  e  12
della legge 2 aprile 1979, n. 97 e dell'art. 3,  comma  primo,  della
legge 6 agosto  1984,  n.  425,  dato  che  la  normativa  sul  tetto
stipendiale di euro 240.000 annui incide, rendendolo  non  operativo,
sul meccanismo di adeguamento delle  retribuzioni  dei  magistrati  e
sulla relativa progressione economica. Illegittimita'  costituzionale
dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201/2011, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, dell'art. 1,  commi  471,
472, 473, 474 e 475 della legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del
decreto-legge n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 89/2014, per violazione degli articoli 3, 36, 53,  97,  100,  101,
104 e 108 della Costituzione; 
        7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter,  comma  1,
del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475  della
legge n. 147/2013, nonche' dell'art. 13 del decreto-legge n. 66/2014,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione
degli articoli 3 e 53 della Costituzione; 
        8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-ter,  comma  1,
del decreto-legge n. 201/2011, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 214/2011, e  dell'art.  13  del  decreto-legge  n.  66/2014,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89/2014, per violazione
e falsa applicazione dell'art. 7 Cost.  Illegittimita'  derivata  per
contrasto con la normativa costituzionale. 
    Si  costituivano  in  giudizio  le  amministrazioni   resistenti,
concludendo per l'infondatezza del gravame. 
    Il  Collegio,  a  fronte  delle  risultanze  di  causa,   ritiene
sussistere i presupposti di rilevanza e  non  manifesta  infondatezza
per rimettere alla Corte costituzionale la questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 13  (Limite  al  trattamento  economico  del
personale pubblico e delle societa' partecipate) del decreto-legge 24
aprile 2014, n.  66  (Misure  urgenti  per  la  competitivita'  e  la
giustizia sociale, convertito, con modificazioni, dalla legge  n.  23
giugno 2014, n. 89), anche nel combinato disposto con  l'art.  23-ter
(Disposizioni in materia di  trattamenti  economici),  comma  1,  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita, l'equita' e il  consolidamento  dei  conti  pubblici,  come
convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), per  contrasto  con
gli articoli 1, 2, 3, 10, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione. 
    Lo stesso dicasi per le previsioni di cui all'art. 1, commi  471,
473 e 474 della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale  dello  Stato),  dal
contenuto analogo. 
    In base all'art. 23-ter citato, «Con decreto del  Presidente  del
Consiglio dei ministri, previo parere  delle  competenti  Commissioni
parlamentari, entro novanta giorni dalla data di  entrata  in  vigore
della legge di conversione  del  presente  decreto,  e'  definito  il
trattamento economico annuo  onnicomprensivo  di  chiunque  riceva  a
carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni  nell'ambito
di  rapporti  di  lavoro  dipendente   o   autonomo   con   pubbliche
amministrazioni statali, di cui all'art.  1,  comma  2,  del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e  successive  modificazioni,  ivi
incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art.  3
del  medesimo  decreto  legislativo,  e   successive   modificazioni,
stabilendo come  parametro  massimo  di  riferimento  il  trattamento
economico del primo presidente della Corte  di  cassazione.  Ai  fini
dell'applicazione della disciplina di cui al  presente  comma  devono
essere  computate  in  modo  cumulativo  le  somme  comunque  erogate
all'interessato a carico del medesimo o di piu' organismi, anche  nel
caso di pluralita' di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel
corso dell'anno». 
    Le risorse rivenienti dall'applicazione delle misure di cui  alla
predetta norma sono annualmente versate al Fondo  per  l'ammortamento
dei titoli di Stato. 
    L'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 a sua  volta  dispone,
al comma 1, che: «A decorrere dal 1° maggio 2014  il  limite  massimo
retributivo riferito al primo presidente della  Corte  di  cassazione
previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter  [...]  e'  fissato  in  euro
240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed  assistenziali
e degli oneri fiscali a carico  del  dipendente.  A  decorrere  dalla
predetta data i riferimenti al limite retributivo di cui ai  predetti
articoli 23-bis e 23-ter  contenuti  in  disposizioni  legislative  e
regolamentari vigenti alla data di entrata  in  vigore  del  presente
decreto, si intendono sostituiti dal predetto importo. Sono  in  ogni
caso fatti salvi gli eventuali limiti retributivi  in  vigore  al  30
aprile  2014  determinati  per  effetto  di   apposite   disposizioni
legislative, regolamentari e statutarie, qualora inferiori al  limite
fissato dal presente articolo». 
    Cio' rilevato,  ritiene  il  Collegio,  alla  luce  delle  difese
dell'appellante,  che  -  a   prescindere   dalle   diverse   letture
dell'inciso «nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo»
di cui all'art. 23-ter per individuare, in termini soggettivi, coloro
cui si applica il c.d. «tetto retributivo» o  piuttosto,  in  termini
oggettivi, quali tra  gli  emolumenti  corrisposti  da  una  pubblica
amministrazione concorrano a formare il  «tetto»  -  la  formulazione
onnicomprensiva della norma  non  consenta,  almeno  ictu  oculi,  di
escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle
Commissioni tributarie, pur non apparendo  gli  stessi  qualificabili
alla  stregua  di  emolumenti  derivanti  da  «rapporti   di   lavoro
subordinato o autonomo», perche' afferenti a funzioni ad  investitura
a titolo onorario, dunque di un tertium genus rispetto alle nominate. 
    Cio' in ragione dell'art. 11 (Durata dell'incarico e assegnazione
degli incarichi per trasferimento), comma 1, del decreto  legislativo
31 dicembre 1992,  n.  545  (Ordinamento  degli  organi  speciali  di
giurisdizione  tributaria   ed   organizzazione   degli   uffici   di
collaborazione  in  attuazione  della  delega  al  Governo  contenuta
nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413)  (come  sostituito
dall'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203) a  mente
del quale «La nomina  a  una  delle  funzioni  dei  componenti  delle
commissioni tributarie provinciali e  regionali  non  costituisce  in
nessun caso rapporto di pubblico impiego». Sicche', posto che nemmeno
si tratta di «lavoro autonomo», non resterebbe che la  qualificazione
di lavoro pubblico  sotto  altra  forma:  in  particolare,  a  titolo
onorario  (formula  peculiare  del   settore   pubblico,   da   tempo
immemorabile praticata: in particolare,  sotto  diverse  modulazioni,
nell'organizzazione della giurisdizione). 
    Nel caso di specie,  l'appellante  evidenza  come  nella  realta'
effettuale, in applicazione dell'indicato «taglio»,  egli  sia  stato
decurtato di compensi lavorativi altrimenti di sua normale  spettanza
perche'  corrispondenti  a  prestazioni   lavorative   effettivamente
eseguite in modo continuativo. Il che risulta avvenuto per un importo
complessivo lordo di euro 31.481,26  (dunque  per  una  rata  mensile
lorda di euro 2.623,44, inferiore al quinto  cedibile),  relativo  ai
compensi per il lavoro prestato quale giudice tributario  negli  anni
compresi tra il 2015 e il 2018. 
    Corollario temporale dell'applicazione  delle  norme  restrittive
suddette e' poi, in via conseguenziale e automatica, la  decurtazione
dei successivi compensi di giudice tributario  anche  per  tutti  gli
anni  successivi,  e  senza  limiti  di  tempo.  Il   che,   per   la
continuativita' del rapporto, appare tuttora in atto e  si  produrra'
fintanto che dureranno le sue funzioni di giudice tributario. 
    Quanto sopra da'  la  concreta  evidenza  della  rilevanza  della
questione ai fini della decisione di questo giudizio. In effetti  la,
lamentata dall'appellante, preclusa corresponsione  degli  emolumenti
superiori al «tetto»  (la  cui  applicazione  l'interessato  comunque
contesta per questo ordine di  compensi,  e  gia'  in  considerazione
della detta loro natura),  discende  in  modo  pressoche'  automatico
dall'applicazione alle menzionate disposizioni di legge  ove  intese,
come finora e' avvenuto, in senso contrario a quello da lui assunto. 
    Al fine di enucleare le ragioni  che  portano  a  dubitare  della
legittimita' costituzionale - in relazione alla fattispecie  per  cui
e' causa - del combinato disposto degli articoli 13 del decreto-legge
n. 66 del 2014 e dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del  2011,
occorre ricordare l'assetto normativo in cui si colloca la disciplina
contenuta in queste disposizioni, cosi come descritto dalla  sentenza
della Corte costituzionale 26 maggio 2017, n.  124,  della  quale  si
riportano passaggi rilevanti. 
    La disciplina del limite massimo alle retribuzioni pubbliche  (di
cui alle  disposizioni  predette)  costituisce  invero  il  paradigma
generale cui ricondurre  la  materia  delle  attribuzioni  economiche
della pubblica amministrazione per remunerare i propri dipendenti,  e
ad essa si deve fare riferimento anche per le previsioni in  tema  di
cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche. 
    Una tale disciplina, in sostanza, viene  fatta  iscrivere  in  un
contesto generale di risorse finanziarie pubbliche limitate messo  in
relazione all'obiettivo politico  economico  del  contenimento  della
spesa pubblica. Queste andrebbero ripartite in  maniera  congrua,  il
che avverrebbe sganciandole del tutto, raggiunto  un  certo  livello,
dall'effettivita' del sinallagma contrattuale lavorativo del pubblico
(ma non del privato) dipendente: dunque gravando ex  lege,  e  al  di
fuori di quanto responsabilmente accettato e previsto dal  lavoratore
all'atto di costituzione del rapporto lavorativo, di gratuita'  delle
prestazioni  il  lavoratore  pubblico  che   abbia,   nel   complesso
dell'attivita' lavorativa pubblica - non importa di quale quantita' o
qualita' - raggiunto complessivamente l'imprevisto «tetto»  lordo  (e
sempre che non rientri tra le poche eccezioni nominatamente stabilite
dalla legge). 
    La sentenza Corte cost., n. 124 del 2017 afferma  testualmente  a
questo riguardo: «Il limite delle risorse disponibili»  -  «immanente
al settore  pubblico,  vincola  il  legislatore  a  scelte  coerenti,
preordinate a bilanciare molteplici valori di  rango  costituzionale,
come la parita' di trattamento (art.  3  Cost.),  il  diritto  a  una
retribuzione proporzionata alla quantita' e alla qualita' del  lavoro
svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e  dignitosa
(art. 36, primo  comma,  Cost.),  il  diritto  a  un'adeguata  tutela
previdenziale (art. 38, secondo  comma,  Cost.),  il  buon  andamento
della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)». 
    Ancora, «nel settore pubblico  non  e'  precluso  al  legislatore
dettare  un  limite  massimo  alle  retribuzioni  e  al  cumulo   tra
retribuzioni  e  pensioni,  a  condizione  che  la  scelta,  volta  a
bilanciare  i  diversi  valori  coinvolti,  non  sia   manifestamente
irragionevole. 
    In tale ottica, si richiede il rispetto  di  requisiti  rigorosi,
che salvaguardino l'idoneita'  del  limite  fissato  a  garantire  un
adeguato   e   proporzionato    contemperamento    degli    interessi
contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa
deve tener  conto  delle  risorse  concretamente  disponibili,  senza
svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalita'  elevate».
Nella  specie,  rileva  la  sentenza  costituzionale,   l'indicazione
precisa  di  un  limite  massimo  alle  retribuzioni  pubbliche   non
confligge  a  priori  con  i  principi   richiamati.   Invero,   tale
disciplina, pur  dettata  dalla  difficile  congiuntura  economica  e
finanziaria, trascende la finalita' di conseguire risparmi  immediati
e si inquadra in una prospettiva di  lungo  periodo,  di  talche'  la
circostanza che la relazione tecnica non computi  i  risparmi  attesi
non e' di per se' sintomatica dell'irragionevolezza della norma. 
    Le molteplici  variabili  in  gioco  precludono  una  valutazione
preventiva ponderata e  credibile.  Nel  dibattito  parlamentare  che
porto' all'approvazione dell'art. 23-ter del decreto-legge n. 201 del
2011, si attribui' alla  norma  un  impatto  quantificabile  solo  «a
consuntivo». 
    In questa prospettiva va adeguatamente considerato il vincolo  di
destinazione  che   la   legge   assegna   alle   risorse   derivanti
dall'applicazione  delle  norme   censurate,   stabilendo   la   loro
destinazione annuale al Fondo per l'ammortamento dei titoli di  Stato
(art. 23-ter, comma 4, decreto-legge n. 201 del 2011 ed art. 1, comma
474, della legge n. 147 del 2013), appartenente  a  una  contabilita'
speciale di tesoreria. 
    La disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche si presenta,
invero, come una  misura  di  contenimento  della  complessiva  spesa
pubblica, analogamente ad altri interventi introdotti in altri ambiti
(decreto-legge 31 maggio 2010,  n.  78,  recante  Misure  urgenti  in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita' economica,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;  6
luglio  2011,  n.   98,   recante   Disposizioni   urgenti   per   la
stabilizzazione finanziaria,  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 15 luglio 2011, n. 11; decreto-legge  6  luglio  2012,  n.  95,
recante Disposizioni urgenti per la revisione  della  spesa  pubblica
con  invarianza   dei   servizi   ai   cittadini,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n.  135;  decreto-legge  24
aprile 2014, n. 66, recante Misure urgenti per la competitivita' e la
giustizia sociale, convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  23
giugno 2014, n. 89; decreto-legge 24  giugno  2014,  n.  90,  recante
Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa
e  per  l'efficienza  degli  uffici   giudiziari,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114). 
    Inoltre, sin dalle prime  applicazioni,  riferibili  all'art.  3,
commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007,  n.  244,  recante
Disposizioni per la formazione del  bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria  2008),  le  disposizioni  sui  limiti
retributivi  sono  state  usualmente   affiancate   a   obblighi   di
pubblicita' degli incarichi. Il contenimento della spesa,  in  questa
complessiva prospettiva, e'  visto  non  come  fine  in  se',  ma  in
coerenza con altri obiettivi intesi a valorizzare la conoscenza della
gestione delle risorse pubbliche. 
    La  disciplina  primaria  vagliata  dalla  Corte   costituzionale
persegue  pertanto   «finalita'   di   contenimento   e   complessiva
razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di  garanzia  degli
altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate. 
    La non irragionevolezza delle scelte del legislatore  si  combina
con la valenza generale del limite retributivo, che si  delinea  come
misura di razionalizzazione, suscettibile  di  imporsi  a  tutti  gli
apparati amministrativi (sentenza  n.  153  del  2015,  con  riguardo
all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali). 
    Il limite retributivo,  dapprima  riferito  alle  amministrazioni
statali, in base all'art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre  2007,
n. 244, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008), ha via via attratto
nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da quelle
statali, le autorita' amministrative indipendenti (art. 1, commi  471
e 475, della legge n. 147 del 2013), le societa' partecipate  in  via
diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art.  13,  comma
2, lettera a, del decreto-legge n. 66 del 2014). 
    Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il
limite massimo retributivo di 240.000  euro  annui  e'  stato  esteso
anche agli amministratori, al personale dipendente, ai  collaboratori
e ai  consulenti  del  soggetto  affidatario  della  concessione  del
servizio pubblico radiofonico,  televisivo  e  multimediale,  la  cui
prestazione professionale non sia stabilita da tariffe  regolamentate
(art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n.  198,
recante Istituzione del  Fondo  per  il  pluralismo  e  l'innovazione
dell'informazione e deleghe al Governo  per  la  ridefinizione  della
disciplina del sostegno  pubblico  per  il  settore  dell'editoria  e
dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della  disciplina  di
profili pensionistici dei giornalisti e della  composizione  e  delle
competenze  del  Consiglio  nazionale  dell'Ordine  dei  giornalisti.
Procedura per l'affidamento  in  concessione  del  servizio  pubblico
radiofonico, televisivo e multimediale)». 
    Si  tratta  infatti,  per  la  sentenza,  di  dare  una   «tutela
sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali  in  gioco»  nel
cui «orizzonte si colloca anche il principio di proporzionalita'  tra
la retribuzione e la quantita' e la qualita'  del  lavoro  prestato»,
per cui «il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica  la
necessita' di una predeterminazione complessiva - e modellata  su  un
parametro prevedibile e certo -delle  risorse  che  l'amministrazione
puo' corrispondere  a  titolo  di  retribuzioni  e  pensioni»  e  «il
principio di proporzionalita' della  retribuzione  alla  quantita'  e
alla qualita' del lavoro svolto deve  essere  valutato  [...]  in  un
contesto peculiare, che  non  consente  una  considerazione  parziale
della retribuzione e del trattamento pensionistico». 
    Insomma, per la sentenza costituzionale, «il  carattere  limitato
delle   risorse   pubbliche   giustifica   la   necessita'   di   una
predeterminazione  complessiva  -  e  modellata   su   un   parametro
prevedibile e  certo  -  delle  risorse  che  l'amministrazione  puo'
corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni». 
    Il Collegio qui rileva che anche nella  presente  fattispecie  si
tratta di un regime  restrittivo  particolare  che  concerne  i  soli
lavoratori pubblici e che, pur a parita' di condizioni, li  distingue
economicamente dai lavoratori privati: per  i  quali  non  si  impone
altrettanto sacrificio remunerativo da «taglio lineare», per il fatto
soggettivo che i loro rapporti di  lavoro  principali  sono  estranei
alla spesa pubblica; e dunque muove dalla giurisprudenza  che  si  e'
formata, ma considera anche difficile sostenibilita' a lungo  termine
di un siffatto,  comunque  oggettivamente  discriminatorio  tra  pari
lavoratori, taglio lineare. 
    Tuttavia, questa disparita' qui assume  tratti  nuovi  e  affatto
particolari rispetto a quanto vagliato in passato. 
    Qui, invero,  non  si  tratta  solo  di  comparare  genericamente
diverse o simili prestazioni lavorative, e  dunque  di  svolgere  una
comparazione per  categorie  soggettive  generali:  ma  di  comparare
specificamente, in  concreto,  la  medesima,  oggettiva,  prestazione
lavorativa  (quella  di  giudice  tributario):  la  quale,   malgrado
siffatta identita' oggettiva della  prestazione,  viene  diversamente
remunerata dallo  Stato  secondo  un  criterio  discretivo  meramente
soggettivo; cioe' a seconda che sia prestata da un lavoratore privato
ovvero da un lavoratore pubblico (che ha una retribuzione  principale
pari o prossima al «tetto» indicato): il quale percio', a  differenza
di quell'altro che pur  svolge  la  medesima  prestazione,  nulla  in
pratica viene ad essere retribuito  per  quanto  supera  il  «tetto»,
mentre l'altro lo continua in pieno e senza diminuzioni di sorta. 
    Infatti riguardo a quello stesso lavoro effettivamente svolto  di
giudice tributario, simile ablazione non  e'  dalla  legge  praticata
(anzi: e' a contrariis esclusa) a carico quegli  altri  soggetti  che
traggono i primi redditi lavorativi dal  lavoro  privato  o  comunque
autonomo e pero' svolgono anch'essi quel medesimo lavoro  di  giudice
tributario, in ipotesi finanche  presso  la  stessa  concreta  unita'
organizzativa (ufficio, sezione)  dove  la  svolge  il  magistrato  o
pubblico dipendente, pur onerato della medesima quantita' e  qualita'
di lavoro. 
    Si tratta dunque di un'evidente disparita' di trattamento: non di
situazioni simili, ma della medesima situazione; e  questo  vale  per
tutti i giudici  tributari  che  sono  pubblici  dipendenti  (e  che,
beninteso, sono toccati dal  «tetto»)  rispetto  a  tutti  i  giudici
tributari che non sono  pubblici  dipendenti  (anche  se,  beninteso,
sarebbero altrimenti toccati dal «tetto»). La disparita' non potrebbe
essere piu' chiara e maggiore. 
    Tale e' qui il tema primario - e non il solo - della questione di
legittimita' costituzionale che qui si solleva rispetto a piu'  norme
della Costituzione. 
    Tutto cio' non appare «giustificato»  da  altro  se  non  che  il
lavoro «principale» e' da un lato di lavoro  privato,  dall'altro  di
lavoro  pubblico.  Ma  nulla  impinge  circa  le  energie  e  risorse
personali e i tempi  messi  a  disposizione  ed  utilizzati  dai  due
lavoratori nello svolgere quel pur medesimo lavoro: che e' quanto  la
Costituzione anzitutto si premura di garantire con le sue  norme  che
qui appaiono violate. L'effetto pratico, pur nel medesimo lavoro,  e'
di discriminare tra i lavoratori soltanto  in  ragione  di  una  loro
«appartenenza» soggettiva (cioe', in ragione di un  fatto  del  tutto
esterno alla loro  volonta'  e  certo  imprevedibile  all'atto  della
costituzione del rapporto  lavorativo  principale),  e  dunque  delle
vicende del rispettivo «datore di lavoro», cioe' in pratica per fatto
altrui: il che contrasta il  maturato  carattere  volontaristico  del
contratto di lavoro e appare urtare contro la percezione dei  valori,
dei principi e delle regole dell'eguaglianza assicurata  dall'art.  3
Cost., sia in se' come  in  vista  della  rimozione  delle  cause  di
ineguaglianza (art. 3, secondo comma). Qui il legislatore sembra aver
proceduto nel  senso  di  introdurre  diseguaglianze  che  prima  non
c'erano. 
    Inoltre, dal punto di vista del principio solidaristico  (art.  2
Cost.), meno ancora una tale  discriminazione  trova  giustificazione
riguardo ai «doveri inderogabili di solidarieta'  [...]  economica  e
sociale», posti a carico di tutti in relazione  alle  loro  capacita'
(economiche: cfr. art. 53  Cost.)  ma  qui  evidentemente  portati  a
carico del solo dipendente pubblico, mentre il lavoratore privato  ne
viene espressamente affrancato (pur se, quale  cittadino,  anche  lui
all'ultimo ne beneficia), e quale che sia il suo livello di  reddito:
quasi che la spesa pubblica componga  un  sistema  chiuso,  con  suoi
propri  e  riservati  doveri  di  solidarieta',  anziche'  essere  un
elemento del sistema economico generale, di cui  sono  pari  parte  i
lavoratori privati come quelli pubblici. 
    Non solo: la discriminazione e la disparita' appaiono  aggravarsi
solo che si consideri che poi nessun  riguardo  le  norme  sospettate
pongono alla complessiva capacita' reddituale da lavoro dei  soggetti
cosi' diversamente trattati: per cui ben puo' essere che  un  giudice
tributario a lavoro principale «privato» abbia gia'  in  origine  una
capacita' reddituale finanche superiore a  quella  del  pubblico  che
subisce il «taglio», eppure a differenza  di  questo  nulla  abbia  a
subire in  conseguenza  delle  norme  primarie  che  qui  vengono  in
questione: e abbia solo, uti civis, a beneficiarne. 
    Oltre la considerazione cosi' esposta, che di  suo  da'  evidenza
della lesione del principio di eguaglianza dell'art. 3 Cost.,  rileva
il Collegio come l'applicazione delle norme primarie in questione qui
e' fatta con riguardo non a una prestazione lavorativa  secondaria  a
remunerazione «fissa», ma ad una prestazione la cui remunerazione  e'
dalla legge prevista come variabile in relazione  alla  misura  della
quantita' e  al  livello  del  lavoro  effettuato  (art.  13  decreto
legislativo 31 dicembre 1992, n. 545). 
    Ne viene che in termini di risultato pratico  -  profilo  il  cui
rilievo e' essenziale, perche' si versa in un tema economico  -  cio'
determina in  se'  una  tendenziale,  progressiva  imposizione  della
gratuita' della prestazione lavorativa effettuata in capo  a  chi  e'
prossimo, o addirittura ha gia'  raggiunto,  il  «tetto»  retributivo
suddetto. 
    Questa  situazione  genera   poi   un'ulteriore   disparita'   di
trattamento, interna  alla  categoria  dei  dipendenti  pubblici  che
svolgono un siffatto servizio ulteriore: a seconda che  siano  o  non
siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) «tetto». 
    La  questione  dunque  non  si  si  esaurisce   nella   gratuita'
tendenziale della prestazione lavorativa di  giudice  tributario,  la
quale gia' ripropone - come meglio si vedra' - la capitale  questione
del contrasto dell'art. 36 Cost. in termini di proporzionalita'. Essa
infatti appare rilevare di suo, e in modo accentuato, in  termini  di
progressivita' e di irragionevolezza di questa gratuita' tendenziale. 
    E' dato  invero  ravvisare,  alla  base  di  tutto,  un  nuovo  e
manifesto  contrasto  con   il   principio   di   ragionevolezza   ed
eguaglianza, dunque  con  l'art.  3  Cost.:  perche'  dalle  indicate
comparazioni risulta una gratuita' tendenziale paradossalmente  tanto
maggiore quanto  maggiore  e'  l'impegno  lavorativo,  complessivo  e
settoriale, realmente profuso ed esplicato dal lavoratore a beneficio
dell'amministrazione pubblica. 
    Tutto cio' appare dunque di suo andare in contrasto  sia  con  il
principio di ragionevolezza, sia con  il  principio  di  eguaglianza,
dunque appunto con l'art. 3 Cost. Ma anche - in nuove forme  e  assai
piu' incisive rispetto  a  quelle  di  cui  alla  ricordata  sentenza
costituzionale - in contrasto con il principio generale della  giusta
e - a parita' (anzi: identita') di condizioni - pari retribuzione del
lavoro (art. 36 Cost.): la quale deriva da regole  etiche  e  sociali
oggi stimate universali nei rapporti economico-lavorativi e collegate
alla dignita' stessa dell'uomo, che massimamente  si  concretizza  ed
esprime proprio attraverso il lavoro,  il  suo  significativo  valore
morale e il suo riconoscimento economico: che, essendo produttivo  di
ricchezza a favore altrui, oltre a conferire dignita' a chi lo svolge
e' fatto economico generativo e  traslativo  di  valore;  e  che  per
questa medesima ragione - etica,  giuridica  ed  economica  -  impone
l'obbligo del compenso a chi ne riceve l'utilita' e il corrispondente
diritto a chi lo offre. Reciprocamente, vale a dire  dal  lato  della
remunerazione, il guadagno da lavoro e' considerato di prima dignita'
rispetto  al  profitto  d'impresa,  al  frutto  del  risparmio,  alla
rendita. 
    Si tratta di principi oggi immanenti a ogni  ordinamento  civile,
tanto da concretizzare  -  e  gia'  a  livello  internazionale  -  un
riconosciuto diritto fondamentale dell'uomo: «il  diritto  ad  eguale
retribuzione per  eguale  lavoro»  e'  espressamente  considerato  un
diritto  dell'uomo  (cfr.  art.  23,  comma  2,  della  Dichiarazione
universale  dei  diritti  umani  dell'Assemblea  generale   dell'ONU,
Parigi, 10 dicembre 1948). E qui non e' dubbio che,  per  le  ragioni
dette, ricorrano per l'esattamente «eguale  lavoro»  (di  piu':  come
detto, si tratta di identico lavoro). Il che comporta, come immediata
e naturale conseguenza, che debba davvero sussistere «il  diritto  ad
eguale retribuzione». 
    Si verte percio' della violazione non solo dell'art. 36 Cost., ma
anche  -  e  prima  -  del  diritto  dell'uomo  a  tale  parita'   di
retribuzione, riconosciuto al massimo livello internazionale: del che
occorre tener conto alla luce dell'art. 10, primo comma, da solo e in
combinato disposto con l'art. 2 della Costituzione. 
    Appare dunque gia'  in  questi  primi  sensi  non  manifestamente
infondato il sospetto di un contrasto delle dette norme primarie  con
gli articoli 2, 3, 10, 36, 97 della Costituzione. 
    Inoltre - riprendendo quanto accennato - una tale discriminatoria
privazione della proporzionata retribuzione del lavoro va considerata
anche nel tempo  (sono  ormai  passati  cinque  anni  dall'avvio  del
«taglio»). 
    Infatti la distinzione, specie se considerata in un  cosi'  lungo
tempo, appare superare il parametro di sostenibilita'  dell'eccezione
e appalesarsi per quello che e', un'effettiva discriminazione: il che
sembra superare quanto la sentenza  costituzionale,  come  ricordato,
riferendosi alla contingenza economica ha chiamato «tutela sistemica,
non  frazionata,  dei  valori  costituzionali»,  tale  per  cui   «il
principio di proporzionalita' della  retribuzione  alla  quantita'  e
alla qualita' del lavoro svolto deve  essere  valutato  [...]  in  un
contesto peculiare». Tali considerazioni, invero, facendo riferimento
al  «contesto  particolare»,  conducono  a  identificare  un  termine
all'eccezione al principio di proporzionalita' dell'art. 36 Cost.:  e
il  lungo  tempo  ormai  trascorso  gia'  ampiamente  e'  indice  del
superamento di un tale limite. 
    Tutto questo dunque, in nuove angolazioni rispetto  al  ricordato
precedente, appare in contrasto con l'art. 36, primo comma, Cost.,  a
mente del  quale  «Il  lavoratore  ha  diritto  ad  una  retribuzione
proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro [...]». 
    E' da rammentare che gia' di suo la norma costituzionale  applica
al lavoro il principio di proporzionalita', di generale imperativita'
e riferibile a tutti i rapporti di lavoro subordinato.  Il  principio
prescinde dalle preesistenti  condizioni  economiche  soggettive  del
lavoratore ed e' ancorato all'oggettivo valore economico proprio  del
singolo lavoro prestato (nella specie concreta, nel quantum stabilito
dalle norme di legge sulla proporzionale  remunerazione  dei  giudici
tributari, quale che sia il  loro  lavoro  «principale»,  pubblico  o
privato, dipendente o autonomo): e' dunque collegato  al  fatto  mero
dell'effettiva prestazione personale mediante  l'utilizzazione  delle
energie lavorative; e  non  soffre  limitazioni  o  restrizioni  -  e
soprattutto discriminazioni - per la circostanza dell'afferire  a  un
secondo,  volontario,  lavoro  (qual  e'   il   lavoro   di   giudice
tributario). 
    Invero, a radicale differenza  e  disparita'  dal  pari  caso  di
prestazione in cui il giudice tributario sia un  lavoratore  autonomo
(e dunque  con  manifesta  disparita'  di  trattamento,  malgrado  il
principio di eguaglianza dell'art. 3 Cost. e il paradigma,  evocabile
quanto meno  per  analogia,  dell'indistinta  capacita'  contributiva
dell'art. 53  Cost.  che  li  eguaglia  nei  doveri  di  solidarieta'
sociale), nel (solo)  caso  in  cui  il  giudice  tributario  sia  un
pubblico dipendente, il  trattamento  economico  per  lo  svolgimento
delle funzioni onorarie si aggiunge - ai fini del calcolo del «tetto»
- a quello gia' percepito come corrispettivo dello svolgimento  della
sua  normale  attivita'  lavorativa.  Trattamento  che,  di  suo,  ha
piuttosto  la  specifica  funzione  di  remunerare   l'ulteriore,   e
volontaria, attivita' svolta in qualita' di componente di un siffatto
organo giurisdizionale, al pari del lavoratore  autonomo  che  svolge
quel  medesimo,  volontario,  lavoro   aggiuntivo:   ma   che   viene
privilegiatamente sottratto a un simile taglio, pur essendo parimenti
destinatario e beneficiario degli effetti della spesa pubblica. 
    Il trattamento economico dei giudici tributari, e' qui ancora  il
caso di ricordare, e' per  legge  (art.  13  decreto  legislativo  31
dicembre 1992, n. 545) composto da una componente fissa  -  calcolata
in ragione della posizione  in  ruolo  del  magistrato  -  e  da  una
variabile: questa va calcolata proporzionalmente al lavoro  prestato,
cioe' in base al numero delle sentenze pubblicate. 
    Stando cosi' le cose, appare chiaro che quanto piu' elevato e' il
trattamento  economico  percepito  «a  monte»  dal  (solo)   pubblico
dipendente  (eventualita'  legata  alla  sua  maggior  anzianita'  di
servizio, ovvero all'importanza istituzionale dell'incarico, ovvero a
entrambe), tanto piu' probabile e' - ed e' nel caso qui al  vaglio  -
che il giudice tributario non percepisca in tutto o in  parte,  alcun
compenso per l'attivita' giurisdizionale  svolta:  a  differenza  del
giudice tributario che, ad esempio, svolge una libera professione (le
cui entrate sono artificialmente rese, a questi riguardi, come pari a
zero, quali che in realta' siano). 
    Ancora una volta, dunque,  appare  emergere  il  contrasto  delle
dette norme primarie sia con l'art. 36 della Costituzione, sia  anche
rispetto all'art. 3 della Costituzione: e, in entrambi i casi, sia in
se' che nella prospettiva del  principio  che  presiede  all'art.  53
della Costituzione. 
    Ma,  anche  indipendentemente  da  questa  comparazione  e  dalla
disparita' di trattamento che ne deriva (e  che  vale  a  distinguere
questo  caso  dai  restanti),  va  comunque   considerato   che   non
rispetterebbe la comune  logica  l'assumere  che  la  percezione  del
«tetto massimo» varrebbe ad  assicurare  l'adeguata  retribuzione  di
tutte le  attivita'  lavorative  effettivamente  svolte,  per  quanto
considerate  e  confuse  in  un  coacervo  contabile.  Invero,   cio'
equivarrebbe a non dare rilievo alcuno  al  pur  esistente  dispendio
aggiuntivo di energie per il lavoro aggiuntivo: e assumere - per poco
ragionevole fictio iuris - che l'attivita' di giudice tributario  non
direttamente retribuita verrebbe di fatto  a  non  comportare  questo
dispendio di energie e generare il diritto alla retribuzione; ovvero,
a essere in  parte  «compensata»  da  una  quota  della  retribuzione
percepita dal pubblico dipendente quale corrispettivo  dell'attivita'
lavorativa  subordinata  ordinariamente  svolta,  con  corrispondente
restrizione  di  quella  spettante  per  il  lavoro  principale,   in
disparita', a quel punto, con gli altri esercenti  lo  stesso  lavoro
principale:  ulteriore  profilo  di  violazione  dell'art.  3   della
Costituzione. Una tale raffigurazione,  comunque,  urterebbe  con  la
natura reciprocamente diversa e certo non omogenea dei  due  rapporti
di servizio, solo il  primo  dei  quali  e'  optimo  iure  di  lavoro
dipendente (ai sensi dell'art. 11  decreto  legislativo  31  dicembre
1992, n. 545, «La nomina a una delle funzioni  dei  componenti  delle
commissioni tributarie provinciali e  regionali  non  costituisce  in
nessun caso rapporto di pubblico impiego»). 
    Anche da quest'angolazione appare emergere un ulteriore contrasto
delle dette norme primarie con l'art. 3 della Costituzione, in  punto
di disparita' di trattamento e di violazione del canone  generale  di
ragionevolezza che deve caratterizzare  le  leggi.  Aspetto  decisivo
della sospetta incostituzionalita' e'  pertanto  la  circostanza  che
-lungi  dal  prevedere  un  limite  massimo   di   retribuzione   per
l'attivita' lavorativa  svolta  nell'interesse  dell'amministrazione,
qual  e'  l'intento  dichiarato  del  legislatore  -   l'applicazione
dell'istituto del «tetto retributivo» anche ai compensi  dei  giudici
tributari   che   ordinariamente   svolgano   attivita'    lavorativa
subordinata presso una pubblica amministrazione  in  realta'  finisce
per    tradursi    nell'imposizione     unilaterale,     da     parte
dell'amministrazione  beneficiaria  dei   relativi   servizi,   della
progressiva gratuita' delle relative prestazioni,  man  mano  che  la
qualita' e quantita' delle stesse vada aumentando. 
    Invero, se il giudice tributario svolge presso  l'amministrazione
di originaria appartenenza funzioni  di  particolare  complessita'  e
rilievo (ed e' questo il caso), tanto piu' se con elevata  anzianita'
di servizio, fatalmente non vedra' retribuita, in tutto o  in  parte,
l'attivita' giudicante - pur se connotata  da  profonda  complessita'
tecnica - svolta presso le Commissioni  tributarie  e  nell'esclusivo
interesse dell'amministrazione dell'economia e finanze  e  della  sua
giustizia. 
    Il che, oltre a contrastare, nella sua assolutezza, con  il  gia'
richiamato  principio  di  cui  all'art.   36   della   Costituzione,
contraddice altresi' quello di buon andamento dell'amministrazione ex
art. 97 della Costituzione. 
    Va  ricordato,  al  riguardo,  che  per  principio  generale   la
legittimita' di una disposizione legislativa, rispetto  al  parametro
dell'art. 97 Cost., va valutata tenendo conto dei  suoi  effetti  sul
buon  andamento  della  pubblica   amministrazione   complessivamente
intesa, non gia' di singole sue componenti, isolatamente  considerate
(cosi' Corte costituzionale, 30 maggio 2008, n. 183). 
    Nella specie, invero, la certezza della decurtazione  automatica,
in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all'attivita'
svolta  quale  giudice  tributario  non  puo'  che   recare   effetti
disincentivati: dunque  di  dissuadere,  in  prospettiva,  proprio  i
funzionari pubblici di maggiore e migliore  esperienza  e  competenza
nel  settore  giurisdizionale  (alieni  da  potenziali  conflitti  di
interesse di carattere professionale) - ossia quelli provenienti  dai
ruoli delle magistrature o dell'Avvocatura  dello  Stato  di  livello
apicale o di maggiore anzianita' - dal chiedere di ricoprire,  o  dal
continuare a ricoprire, quegli uffici onorari: il  che  comporterebbe
la conseguente sottrazione  alla  giustizia  tributaria  di  siffatte
professionalita'  e  indipendenza,  con  lesione  complessiva   della
razionalita' amministrativa e del principio di buona amministrazione,
di cui all'art. 97 della Costituzione, applicato  al  settore  e,  di
riflesso, all'intero ordinamento posta la centralita' - anche ai fini
dell'affidamento circa gli  investimenti  -  della  legittimita'  del
prelievo monetario e dell'inerente sicurezza giuridica. 
    Ne  verrebbe  infatti,  come  naturale  conseguenza,  il   fatale
progressivo  ritiro  dalla  giustizia  tributaria  delle  piu'   alte
professionalita' e l'abbassamento generale della qualita' e dei tempi
di quella risposta di giustizia. Il  che,  a  guardare  al  risultato
complessivo  per  la  societa',  appare  risolversi  in   una   nuova
irrazionalita' dell'organizzazione del sistema  economico-finanziario
e in un vulnus all'economia nazionale e agli operatori economici.  Il
sistema economico in tanto e'  capace  di  attirare  investimenti  in
quanto l'ordinamento si mostra capace di offrire, a ogni  investitore
od operatore, con  il  diritto  al  giudice  e  alla  qualita'  della
risposta di giustizia, imparziali  sicurezze  e  tempestive  certezze
giuridiche a riguardo a imposizioni tributarie stimabili di  sospetta
legittimita'. 
    In questi termini, l'aver fatto  il  legislatore  ricorso  ad  un
parametro meramente quantitativo con cui  modulare  il  corrispettivo
economico del servizio prestato tra le diverse categorie di  soggetti
chiamati a svolgere le funzioni di giudice tributario  (funzioni,  va
ricordato, essenziali per assicurare l'effettivita' del principio  di
legalita'  e  del  diritto  al   giudice   riguardo   all'imposizione
tributaria,  nonche'  per   l'assetto   complessivo   delle   finanze
pubbliche, e in se' tecnicamente assai  complesse  e  specialistiche,
tali cioe' da richiedere una rilevante preparazione  professionale  e
l'impegno allo studio delle singole controversie), significa  essersi
avvalsi di un parametro che - come detto -  non  tiene  in  conto  la
rilevanza delle professionalita' acquisite. 
    Sembra andarsi  cosi'  contro  il  principio  di  responsabilita'
personale  e  lo  stesso  principio  lavorista  che  l'art.  1  della
Costituzione pone a fondamento della Repubblica: per il  quale,  come
evidenziano autorevoli dottrine,  il  lavoro  rappresenta  il  «segno
distintivo dello sviluppo della  personalita'  dell'uomo»,  «il  piu'
idoneo ad esprimere il pregio della persona» con cui  socialmente  si
valuta la posizione da attribuire ai cittadini nello  Stato,  poiche'
il lavoro rappresenta non solo uno strumento per il conseguimento  di
mezzi di sostentamento, ma «il tramite necessario per  l'affermazione
della personalita'», cioe'  «cardine  costituzionale  per  elevare  e
commisurare  la  dignita'  dell'uomo».  Negare  la  «giusta  mercede»
-espressione di matrice teologica cui da  molti  si  fa  risalire  il
concetto secolare  di  proporzionata  retribuzione  -  appare  dunque
negare il valore stesso del merito acquisito dall'individuo  mediante
l'operosita' attivamente riversata nel lavoro. 
    E' poi appena il caso di  rammentare  che  il  lavoro  a  cui  si
riferisce la formula costituzionale non e' limitato al lavoro manuale
ma e' da intendere nel senso di «lavoro in  tutte  le  sue  forme  ed
applicazioni» (art. 35 della Costituzione) tanto che, come  ulteriore
autorevole domina ha evidenziato, ha  valore  unitario  ed  inclusivo
perche'  rappresenta  «un  titolo  di  appartenenza  alla   comunita'
nazionale,  alla  cittadinanza»:  e  altra  autorevole  dottrina   ha
sottolineato che il lavoro e' esso stesso il mezzo  che  consente  ai
cittadini di partecipare positivamente al soddisfacimento dei bisogni
della collettivita'. 
    Dunque  tale  negazione  della   prevista   retribuzione   sembra
mortificare  siffatti   assunti,   in   pratica   imponendo,   contro
l'efficienza  economica  generale,  ai  componenti  di  piu'  elevato
livello  professionale  pubblico  una  retribuzione   solo   parziale
dell'attivita' prestata, se non  anche  negandola  in  toto:  il  che
contrasta il principio di eguaglianza sostanziale di cui  all'art.  3
Cost. anche nel senso per cui finisce, in pratica,  con  l'assimilare
tra loro - in primis ai fini «retributivi» e,  dunque,  di  rilevanza
professionale - posizioni professionali e lavorative  (sia  pubbliche
che private) in realta' disomogenee e diverse. 
    Invero, la previsione - a fianco di un autonomo tetto massimo  di
«retribuibilita'» delle funzioni giurisdizionali tributarie (ex  art.
1, comma 311, legge 30 dicembre 2004,  n.  306)  -  di  un  ulteriore
limite, onnicomprensivo, di  retribuibilita'  di  qualsiasi  pubblica
funzione (di cui alle norme qui  sospettate  di  incostituzionalita')
sembra tradursi, per effetto degli automatismi di cui  si  e'  detto,
nell'aprioristica equiparazione delle prestazioni professionali  rese
da magistrati di maggior esperienza  e  professionalita'  rispetto  a
quelle di giudici privi di tali oggettivi requisiti, e posponendoli a
quelli provenienti dalle libere professioni, i cui redditi da  lavoro
privato non ricadono invece - come ripetutamente qui  sottolineato  -
nel   perimetro   applicativo   delle   norme   qui   sospettate   di
incostituzionalita'. 
    Le circostanze  evidenziate  inducono  infine  a  dubitare  della
compatibilita'   del   regime   economico/retributivo   dei   giudici
tributari, come conseguente all'applicazione del  combinato  disposto
degli articoli 13 del decreto-legge n. 66 del 2014 e 23-ter, comma 1,
del decreto-legge n. 201  del  2011,  con  il  principio  della  pari
capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    Appare  invero  difficile,  in  aggiunta  a  tutto  quanto   gia'
rilevato, non cogliere in una tale sottrazione della «giusta mercede»
un prelievo di natura tributaria o comunque  a  quello  assimilabile,
vista la pari natura pecuniaria e la pari affluenza del  prelievo  al
bilancio pubblico, dunque alle entrate (o mancate spese) e cosi  alla
fiscalita' generale. Una diversa configurazione, si  e'  costretti  a
considerare, assume  i  caratteri  di  una  qualificazione  meramente
nominalistica, perche' detta sostanza delle  cose  non  muta  e  come
tale, infatti, e' comunemente percepita. 
    Al riguardo, va rammentato che  (cfr.  Corte  costituzionale,  10
novembre 2017, n. 236; 6 maggio 2016, n. 96; 30 aprile 2015,  n.  70;
23 luglio 2015, n. 178; 4 giugno 2014, n. 154; 12 dicembre  2013,  n.
304; 17 dicembre 2013, n. 310; ordinanza 12  ottobre  2012,  n.  233)
«una   fattispecie   deve    ritenersi    di    natura    tributaria,
indipendentemente  dalla  qualificazione  offerta  dal   legislatore,
laddove si riscontrino tre  indefettibili  requisiti:  la  disciplina
legale deve essere  diretta,  in  via  prevalente,  a  procurare  una
definitiva decurtazione patrimoniale a carico del  soggetto  passivo;
la decurtazione non deve  integrare  una  modifica  da'  un  rapporto
sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente
rilevante e derivanti dalla  suddetta  decurtazione,  debbono  essere
destinate a sovvenire pubbliche spese». 
    Ritiene il Collegio che sussistano tali presupposti nel  caso  di
specie. 
    Quanto al primo profilo, posto che lex non distinguit riguardo al
tempo che la segue (e  sono  ormai  gia'  ben  sei  anni  dall'ultima
formulazione), la decurtazione disposta in base al combinato disposto
delle norme in questione presenta in realta' carattere  permanente  e
definitivo:  come  detto,   questi   elementi   caratterizzano   come
irragionevolmente sine die il limite retributivo introdotto dall'art.
23-ter del decreto-legge n.  201  del  2011,  facendone  di  loro  un
connotato permanente di un sistema asimmetrico  di  contribuzione  al
risparmio di spesa pubblica. 
    Del  pari,  la  mancata  retribuzione,  in  tutto  o  in   parte,
dell'attivita' professionale  prestata  dal  giudice  tributario,  in
ragione  del  raggiungimento  del   «tetto   stipendiale»,   discende
dall'automatica applicazione di un criterio  meramente  quantitativo,
indifferente  rispetto  alla  quantita'  e  qualita',  e  anche  alla
ponderazione  del   rendimento   del   singolo   giudice   tributario
(circostanza dalla quale deve pertanto desumersi  che  il  contestato
sopravvenuto «blocco retributivo» non faccia seguito, ad esempio,  ad
un mutamento del rapporto  sinallagmatico  sottostante  la  specifica
situazione remunerativa incisa dalla novella di legge). 
    Consegue  pertanto  la   realta'   di   una   mera   decurtazione
patrimoniale,  dal  carattere  non   temporaneo   ma   definitivo   e
permanente: il che qualifica di suo la  fattispecie  nel  novero  dei
casi  di  imposizione  tributaria  anomala  ed   implicita,   secondo
l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale. 
    Sussiste infine anche il terzo presupposto, ossia la destinazione
delle somme non corrisposte al finanziamento della spesa pubblica, in
ragione  di  quanto  previsto  dall'art.   23-ter,   comma   4,   del
decreto-legge n.  201  del  2011,  a  mente  del  quale  «Le  risorse
rivenienti dall'applicazione delle misure di cui al presente articolo
sono annualmente versate al Fondo per l'ammortamento  dei  titoli  di
Stato». 
    Va a questi propositi considerato che comunque una restrizione al
trattamento economico che annulli completamente, per chi ha raggiunto
il tetto,  la  retribuzione  proporzionale  per  il  servizio  svolto
nell'interesse   e   su   impulso   dell'amministrazione    (mediante
l'attivazione di apposite procedure concorsuali)  potrebbe,  a  tutto
concedere, solo essere temporanea e per breve durata:  quando  invece
la norma e' senza fine. Sicche' anche da questo  punto  di  vista  la
disciplina sospettata, in ragione  del  prelievo,  appare  di  dubbia
costituzionalita' in quanto modificazione permanente. 
    A  tal  riguardo,  si  deve  comunque  riconoscere  (cfr.   Corte
costituzionale,  23  dicembre   2019,   n.   288)   che   l'eventuale
«temporaneita'  dell'imposizione   non   costituisce   un   argomento
sufficiente a fornire  giustificazione  a  un'imposta,  che  potrebbe
comunque risultare disarticolata  dai  principi  costituzionali»,  di
talche', a maggior ragione, si deve considerare che la  definitivita'
del prelievo fiscale (qui, per di piu',  in  forma  occulta,  il  che
contraddice il principio per cui  «Nessuna  prestazione  personale  o
patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge»,  di  cui
all'art. 23 Cost.) ne rimarchi l'illegittimita'  costituzionale,  ove
disancorato dai predetti principi (ex  articoli  3,  23  e  53  della
Costituzione). 
    In  virtu'  delle  ragioni  esposte,  e   poiche'   la   presente
controversia  non  puo'  essere  definita   indipendentemente   dalla
risoluzione delle delineate questioni di legittimita' costituzionale,
il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale,  ai
sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1  e
dell'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 13  del  decreto-legge  n.  66  del  2014  e
dell'art. 23-ter decreto-legge n. 201 del  2011,  per  contrasto  con
agli articoli 3, 23, 36, 53 e 97 della Costituzione. 
 
                                P.Q.M. 
 
    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), 
    visti  gli  articoli  134  della  Costituzione,  1  della   legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
n.  87,  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata,   in
relazione agli  articoli  1,  2,  3,  10,  23,  36,  53  e  97  della
Costituzione,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale,   nei
termini di cui in motivazione,  dell'art.  13  del  decreto-legge  24
aprile 2014, n. 66 e dell'art. 23-ter, comma 1, del  decreto-legge  6
dicembre 2011, n. 201, nonche' dell'art. 1,  commi  471,  473  e  474
della legge 27 dicembre 2013, n. 147. 
    Sospende il giudizio in corso e ordina  l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che a cura della  Segreteria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti e sia comunicata al  Presidente  del  Consiglio
dei ministri. 
    Cosi' deciso in Roma nella Camera  di  consiglio  del  giorno  22
ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: 
        Giuseppe Severini, Presidente; 
        Valerio Perotti, consigliere, estensore; 
        Federico Di Matteo, consigliere; 
        Angela Rotondano, consigliere; 
        Giorgio Manca, consigliere. 
 
                       Il Presidente: Severini 
 
 
                                                 L'estensore: Perotti