N. 196 SENTENZA 21 settembre - 21 ottobre 2021

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Assistenza e solidarieta' sociale - Reddito  di  inclusione  (ReI)  -
  Requisiti per gli stranieri - Possesso del permesso di soggiorno UE
  per soggiornanti di  lungo  periodo  -  Denunciata  violazione  dei
  principi  di   uguaglianza   e   ragionevolezza,   anche   in   via
  convenzionale - Inammissibilita' delle questioni. 
- Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147,  art.  3,  comma  1,
  lettera a), n. 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 38 e 117, primo comma; Convenzione per la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 14; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,  artt.
  20, 21 e 34, paragrafo 3; Carta sociale europea, artt. 13 e 30. 
(GU n.43 del 27-10-2021 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Francesco  VIGANO',  Luca  ANTONINI,   Angelo   BUSCEMA,   Emanuela
  NAVARRETTA, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,
lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto  alla  poverta'),  promosso  dal  Tribunale  ordinario   di
Brescia, sezione lavoro,  nel  procedimento  vertente  tra  R.  S.  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale  (INPS)  e  altro,  con
ordinanza del  2  maggio  2020,  iscritta  al  n.  106  del  registro
ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti gli atti di costituzione di  R.  S.  e  dell'INPS,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udita nell'udienza pubblica del  21  settembre  2021  la  Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi l'avvocato Alberto Guariso per R. S., Mauro  Sferrazza  per
l'INPS e l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per il  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 21 settembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Brescia,  sezione  lavoro,  solleva
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,  comma  1,
lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto alla poverta'), nella parte in cui, fra i diversi requisiti
necessari per l'ottenimento del reddito di  inclusione  (di  seguito,
anche: ReI), richiede agli stranieri il  «possesso  del  permesso  di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento  agli
artt. 2, 3, primo e secondo comma,  38  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 14 della Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 20,  21  e
34, paragrafo 3, della Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, e agli artt.  13  e  30  della  Carta
sociale europea, riveduta, con  annesso,  fatta  a  Strasburgo  il  3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  9  febbraio
1999, n. 30. 
    Il rimettente riferisce che il giudizio a quo e' stato  promosso,
con ricorso ex art. 702-bis del codice di procedura civile, da R. S.,
cittadina pakistana, che  ha  proposto  un'azione  civile  contro  la
discriminazione ai sensi dell'art.  28  del  decreto  legislativo  1°
settembre 2011, n.  150  (Disposizioni  complementari  al  codice  di
procedura civile  in  materia  di  riduzione  e  semplificazione  dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi  dell'articolo  54  della
legge 18 giugno 2009,  n.  69),  contro  l'Istituto  nazionale  della
previdenza sociale (INPS) e il Comune di San Zeno Naviglio. 
    La ricorrente, titolare di un permesso di  soggiorno  per  motivi
familiari, era giunta in Italia nel 2010 per  ricongiungersi  con  il
marito, gia' titolare dello status  di  rifugiato.  La  coppia  aveva
avuto cinque figli, di cui tre nati in Italia. Il 14 gennaio 2019  R.
S., nel frattempo rimasta vedova, aveva presentato al Comune  domanda
finalizzata ad ottenere il reddito di  inclusione.  Tale  domanda  e'
stata respinta dal Comune  «per  mancanza  del  titolo  di  soggiorno
richiesto». R. S. si rivolgeva  dunque  al  giudice  a  quo,  facendo
valere l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,  lettera
a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 e chiedendo  l'accertamento
dell'avvenuta discriminazione e  la  condanna  delle  controparti  al
riconoscimento del beneficio e al risarcimento  del  danno  derivante
dal mancato accesso al progetto personalizzato. 
    Il  rimettente  si  sofferma  poi  sulle  eccezioni   preliminari
sollevate dall'INPS e dal Comune, argomentandone  l'infondatezza;  in
particolare, nega il difetto di legittimazione  passiva  dell'INPS  e
osserva che, a fronte di una doglianza per  condotta  discriminatoria
per ragioni di nazionalita', R. S. «risulta senz'altro legittimata» a
proporre l'azione contro la discriminazione. 
    1.1.- Il Tribunale illustra poi la rilevanza delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale  prospettate  da  R.  S.  in   relazione
all'art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.lgs.  n.  147  del
2017, «nella formulazione vigente  tra  l'1.7.2018  e  il  31.3.2019,
ovverosia a seguito delle modifiche introdotte dalla  l.  205/2017  e
prima dell'abrogazione del Reddito di Inclusione ad  opera  del  d.l.
4/2019». 
    Il rimettente osserva  che  R.  S.,  al  momento  della  domanda,
risultava residente in Italia in via continuativa da almeno due  anni
e in possesso delle  condizioni  economiche  richieste  dall'art.  3,
comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2017;  da  cio'  deduce  la  rilevanza
delle questioni relative alla  norma  censurata  (che  richiede  agli
stranieri il possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo), in
quanto l'accoglimento del ricorso dipende dalla loro fondatezza. 
    1.2.- Il rimettente argomenta poi la non  manifesta  infondatezza
delle questioni. Osserva  che  il  ReI  e'  una  «misura  finalizzata
all'affrancamento da una condizione di poverta' e da  una  situazione
di emarginazione sociale», strutturata «quale mezzo per la promozione
di un'esistenza libera e dignitosa». Essendo destinato a fronteggiare
situazioni di indigenza, il ReI sarebbe volto  a  favorire  il  pieno
sviluppo della persona umana ai sensi  dell'art.  3,  secondo  comma,
Cost.  e   costituirebbe   livello   essenziale   delle   prestazioni
concernenti i diritti sociali, in base all'art. 1, comma  1,  lettera
a), della legge 15 marzo 2017, n. 33 (Delega recante  norme  relative
al contrasto della poverta',  al  riordino  delle  prestazioni  e  al
sistema degli interventi e dei servizi sociali).  Il  giudice  a  quo
cita due pronunce di questa Corte (sentenze n. 40 del 2013 e  n.  187
del 2010) dalle quali  risulterebbero  precluse  discriminazioni  tra
cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti con riferimento  alle
prestazioni  essenziali,   volte   a   soddisfare   bisogni   primari
dell'individuo. 
    Cio' premesso, il rimettente ritiene che la norma censurata violi
l'art.  3  Cost.,  con  riferimento   sia   al   primo   comma   (per
ingiustificata disparita'  di  trattamento),  sia  al  secondo  comma
(principio di uguaglianza sostanziale). 
    Inoltre, la norma  in  questione  violerebbe  l'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 14 CEDU e  agli  artt.  20  e  21
CDFUE, «in tema di principi di eguaglianza e di non discriminazione». 
    Ancora, l'art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.lgs.  n.
147  del  2017  contrasterebbe  «con   i   doveri   inderogabili   di
solidarieta' imposti, in materia di assistenza sociale,  dagli  artt.
2, 38 e 117, c. 1, Cost.», quest'ultimo in relazione sia  agli  artt.
21 e 34, paragrafo 3, CDFUE (secondo  cui  a  tutti  coloro  che  non
dispongono di risorse sufficienti deve essere garantita un'assistenza
sociale volta  ad  assicurare  un'esistenza  dignitosa,  al  fine  di
contrastare l'esclusione sociale e la poverta'), sia agli artt. 13  e
30 della Carta sociale europea, secondo cui ogni persona  ha  diritto
all'assistenza  sociale,  la'  dove   sia   sprovvista   di   risorse
sufficienti,   nonche'   alla    protezione    dalla    poverta'    e
dall'emarginazione sociale. 
    1.3.- In ogni caso, anche qualora si ritenesse  che  il  ReI  non
possa essere «qualificato alla stregua di una prestazione interna  al
nucleo dei bisogni essenziali della persona», la norma  censurata  si
porrebbe comunque in contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost. 
    Secondo il  rimettente,  il  legislatore  puo'  circoscrivere  la
platea dei beneficiari di  una  certa  prestazione  sociale  ma  tale
limitazione   «deve   pur   sempre   rispondere   al   principio   di
ragionevolezza ex art. 3 Cost.»,  e  tale  principio  puo'  ritenersi
rispettato solo qualora sussista «una ragionevole  correlazione»  tra
il requisito e «le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle
quali le singole prestazioni sono state previste»  (viene  citata  la
sentenza di questa Corte n. 166 del 2018). Il giudice a  quo  osserva
che l'accesso  al  ReI  e'  comunque  subordinato  ad  una  residenza
biennale nel territorio nazionale,  il  che  assicurerebbe  un  certo
«radicamento  territoriale»,  con  la  conseguenza  che   l'ulteriore
requisito  del  permesso  di  soggiorno  di  lungo  periodo   sarebbe
irragionevole. Inoltre, il permesso di  soggiorno  di  lungo  periodo
presuppone la titolarita' di un reddito minimo e la conoscenza  della
lingua italiana, cio' che non sarebbe compatibile «con situazioni  di
poverta' e di emarginazione che  il  Legislatore  ha  dichiaratamente
voluto contrastare con l'introduzione della prestazione in esame». La
norma censurata finirebbe cosi' per escludere  dal  ReI  proprio  gli
stranieri maggiormente bisognosi, in contrasto con la funzione  della
misura stessa di affrancare da situazioni di poverta'  ed  esclusione
sociale. 
    Per il  rimettente  non  vi  sarebbe  dunque  alcuna  ragionevole
correlazione tra la residenza protratta  per  almeno  un  quinquennio
(necessaria per il permesso di lungo  periodo)  e  la  condizione  di
indigenza che il ReI dovrebbe contrastare,  come  risulterebbe  anche
dal fatto che la sua erogazione ha durata limitata, in relazione  sia
al beneficio economico sia alla componente di servizi  alla  persona.
Il giudice a quo poi sottolinea la differenza tra il ReI e  l'assegno
sociale, oggetto della sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte. 
    1.4.- Infine, il rimettente precisa che le questioni  prospettate
non sono superabili, ne' in via interpretativa, ne' sulla base  della
direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,  del  13
dicembre 2011 (relativa a una  procedura  unica  di  domanda  per  il
rilascio di un permesso unico che  consente  ai  cittadini  di  paesi
terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro  e
a un insieme comune di diritti per i lavoratori di  paesi  terzi  che
soggiornano regolarmente in uno Stato membro). 
    Sotto il primo profilo, il dato testuale dell'art.  3,  comma  1,
lettera  a),  numero  1),  del  d.lgs.  n.  147  del   2017   sarebbe
«inequivoco»  e  non  consentirebbe  diverse  interpretazioni   della
disposizione censurata. 
    Sotto il secondo, il giudice a quo  esclude  che  il  ReI  ricada
nell'ambito  di  applicazione  dell'art.  12,  paragrafo   1,   della
direttiva n. 2011/98/UE, che assicura agli  stranieri  lavoratori  il
diritto alla parita' di  trattamento  (rispetto  ai  cittadini  dello
Stato membro in cui soggiornano) nei settori della sicurezza  sociale
di cui al regolamento (CE) 883/2004  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio, del 29 aprile 2004 (relativo al coordinamento dei  sistemi
di sicurezza  sociale).  La  misura  in  esame  non  sarebbe  infatti
riconducibile alle prestazioni familiari di cui all'art. 3, paragrafo
1, lettera j), del citato regolamento: da un lato, le  sue  finalita'
escludono che si tratti di  una  prestazione  volta  a  compensare  i
carichi familiari; dall'altro, non si potrebbe sostenere che  la  sua
erogazione prescinda da una valutazione individuale  e  discrezionale
delle esigenze del nucleo familiare. Ne' il ReI sarebbe riconducibile
ad altre  ipotesi  previste  dall'art.  3  del  regolamento  (CE)  n.
883/2004. Il giudizio  a  quo  non  potrebbe  percio'  essere  deciso
applicando direttamente norme europee. 
    In conclusione, il Tribunale di Brescia censura l'art.  3,  comma
1, lettera a), numero 1), del  d.lgs.  n.  147  del  2017,  la'  dove
condiziona l'accesso degli stranieri al reddito  di  inclusione  alla
titolarita'  del  permesso  di  soggiorno  di  lungo   periodo,   per
violazione  degli  artt.  2,  3,  38  e  117,  primo  comma,   Cost.,
quest'ultimo con riferimento all'art. 14 CEDU, agli artt.  20,  21  e
34, paragrafo 3, CDFUE e agli artt.  13  e  30  della  Carta  sociale
europea. 
    2.- Il 24 settembre 2020 l'INPS si  e'  costituito  nel  presente
giudizio di legittimita' costituzionale. 
    In primo luogo,  la  parte  eccepisce  il  difetto  di  un'idonea
motivazione sulla rilevanza, in quanto il giudice a quo  non  avrebbe
motivato «circa la  ritenuta  applicazione  al  caso  concreto  della
disciplina  di  cui  al  D.  Lgs.  n.  147/2017,  nonostante  la  sua
abrogazione a far data dal 29 gennaio 2019»  (recte:  dal  1°  aprile
2019).  Inoltre,  il  rimettente  non   avrebbe   argomentato   sulla
possibilita'  di  far  rientrare   la   ricorrente   nell'ambito   di
applicazione della normativa  transitoria  di  cui  all'art.  13  del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in  materia
di  reddito  di  cittadinanza  e  di   pensioni),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26. 
    La parte ricorda la sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte, che
ha   dichiarato   inammissibili   le   questioni   di    legittimita'
costituzionale sollevate dal Tribunale di Bergamo con  riguardo  alla
stessa norma, in quanto «[i]l rimettente omette completamente di dare
conto dell'intervenuta abrogazione della norma censurata, cosi'  come
di  indicare  le  ragioni  che  lo  inducono  a  ritenerla  nondimeno
applicabile», e non «prende in considerazione  la  norma  transitoria
contenuta nell'art. 13, comma  1,  del  d.l.  n.  4  del  2019,  come
convertito, e la sua specifica portata in relazione al  caso  oggetto
del suo giudizio». L'INPS ritiene che, per le stesse  ragioni,  anche
le questioni sollevate dal Tribunale di Brescia siano inammissibili. 
    Secondo la parte, la motivazione sulla rilevanza sarebbe  carente
anche  perche'  il   rimettente   non   avrebbe   argomentato   sulla
«possibilita' di interpretare la norma in maniera  costituzionalmente
orientata». 
    L'INPS illustra poi la  asserita  non  fondatezza  dei  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  sollevati  dal  rimettente.  La   parte
riassume il quadro normativo di riferimento ed osserva che il ReI non
potrebbe essere considerato ne' «un mero sussidio per l'affrancamento
dalla poverta'» ne' «una prestazione che afferisce a bisogni  primari
ed essenziali della persona». La misura non sarebbe solo un beneficio
economico ma un piu' ampio progetto personalizzato, volto a garantire
autonomia a  chi  e'  in  condizioni  di  poverta'  e  subordinato  a
specifici impegni del nucleo familiare; non si  tratterebbe,  dunque,
di  una  «prestazione  meramente  assistenziale   e   generalizzata»,
corrisposta in  presenza  di  un  semplice  stato  di  bisogno.  Essa
implicherebbe  una  valutazione  individuale  e  discrezionale  della
situazione del richiedente e non verrebbe concessa  in  base  ad  una
situazione  legalmente  definita.  La  realizzazione   del   progetto
personalizzato  comporterebbe  una  necessaria  correlazione  tra  lo
stesso ReI e un «piu' intenso radicamento del soggetto nel territorio
dello Stato italiano», tale da rendere ragionevole la necessita'  del
permesso di lungo periodo. Il ReI mirerebbe, dunque,  a  superare  le
criticita' in cui e' incorso il nucleo familiare  gia'  radicato  sul
territorio italiano, non a creare il radicamento sociale dei  «nuclei
familiari non radicati e versanti in difficolta'». 
    La parte sottolinea ancora la  differenza  tra  il  ReI  e  altri
benefici   (quali   l'assegno   di   invalidita',   l'indennita'   di
accompagnamento e  la  pensione  di  inabilita'),  che  riguardano  i
bisogni primari della persona. 
    L'INPS eccepisce inoltre la genericita' delle questioni sollevate
per violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.  (in  relazione
all'art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE) e degli artt.  2,  38  e
117, primo comma, Cost.  (in  relazione  sia  agli  artt.  21  e  34,
paragrafo 3, CDFUE sia  agli  artt.  13  e  30  della  Carta  sociale
europea). 
    Tali questioni sarebbero non fondate  anche  perche'  il  ReI  si
porrebbe al di fuori dei settori della sicurezza sociale tutelati dal
diritto europeo; inoltre, la direttiva 2003/109/CE del Consiglio  del
25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di  paesi  terzi
che siano  soggiornanti  di  lungo  periodo,  attribuirebbe  solo  al
soggiornante di lungo periodo il diritto alla parita' di  trattamento
con riguardo alle prestazioni sociali. La materia del contrasto  alla
poverta' rientrerebbe nella competenza degli Stati  membri,  per  cui
l'art. 34 CDFUE non sarebbe applicabile. 
    La parte ricorda infine la sentenza di questa  Corte  n.  50  del
2019, che ha fatto salvo il requisito del permesso di  lungo  periodo
per l'assegno sociale: da essa risulterebbe che  l'esigenza  di  pari
trattamento tra cittadini italiani e stranieri sussiste solo  per  le
prestazioni che soddisfano i bisogni primari della persona e  i  suoi
diritti inviolabili. 
    Il requisito del permesso di lungo periodo si  raccorderebbe  con
la previsione dell'art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998,  n.
286  (Testo  unico  delle  disposizioni  concernenti  la   disciplina
dell'immigrazione e  norme  sulla  condizione  dello  straniero),  in
connessione con l'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n.
388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)». 
    3.- Il 5 ottobre 2020 si e' costituita nel presente  giudizio  R.
S., ricorrente nel giudizio a quo. 
    La parte si sofferma innanzitutto sulla gia' citata  sentenza  n.
146 del 2020 di questa Corte, osservando che la presente questione si
pone in termini diversi, in quanto il rimettente avrebbe indicato  «i
due elementi essenziali ai fini della rilevanza», ossia l'intervenuta
abrogazione della norma censurata e la  presentazione  della  domanda
nel periodo della sua vigenza. Di conseguenza sarebbe «evidente»  che
il giudice a quo ha ritenuto applicabile la norma in questione per il
fatto che la domanda doveva  essere  esaminata  in  base  alle  norme
vigenti al momento della presentazione. 
    La disposizione transitoria dell'art. 13 del d.l. n. 4  del  2019
sarebbe espressione di un principio generale, in forza del quale  una
legge che intendesse abolire una prestazione prevista alla data della
domanda  dovrebbe  prevedere  espressamente  tale   proprio   effetto
retroattivo. Nel caso di specie tale  previsione  «pacificamente  non
esiste», e dunque il giudice avrebbe  «evidentemente»  ritenuto  che,
per il periodo dal 14 gennaio 2019 (data della domanda) al  31  marzo
2019 (data oltre la quale il ReI non puo' piu' essere  riconosciuto),
R. S. avrebbe diritto alla prestazione (qualora  la  questione  fosse
fondata),  essendo  cio'  sufficiente  ai   fini   della   rilevanza.
L'eventuale prolungamento del ReI oltre il 31 marzo  2019,  in  forza
della norma transitoria, sarebbe questione rimessa al giudice comune,
non decisiva ai fini del giudizio costituzionale. 
    Nel  merito,  R.  S.  argomenta  innanzitutto  a  sostegno  della
questione sollevata in via principale, osservando che il ReI,  avendo
lo scopo di  emancipare  da  una  condizione  di  poverta'  assoluta,
soddisfa bisogni essenziali, assimilabili a quelli in  considerazione
dei quali questa Corte ha censurato limitazioni a prestazioni sociali
derivanti dal mancato possesso della cittadinanza. In particolare, la
parte ricorda le norme che riconducono il ReI ai  livelli  essenziali
delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il  territorio
nazionale. A suo giudizio,  sarebbe  evidente  che  l'uscita  da  una
condizione di poverta' assoluta rientra  fra  i  bisogni  primari  ed
essenziali della persona. 
    R.  S.  si  sofferma  poi  sulla  questione  sollevata   in   via
subordinata, mettendo in evidenza il «circolo vizioso» esistente  tra
un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo) che  richiede  due
requisiti reddituali  minimi  (reddito  pari  all'assegno  sociale  e
alloggio idoneo) e una prestazione  destinata  ai  casi  di  poverta'
assoluta. La conseguenza sarebbe l'esclusione dal beneficio di chi si
e' sempre trovato in condizione di poverta'. Anche a  tale  proposito
la parte richiama  la  giurisprudenza  costituzionale  relativa  alle
prestazioni di invalidita'. 
    La stessa parte osserva ancora che il ReI e'  condizionato  dalla
partecipazione del beneficiario a un progetto di  inclusione,  e  che
dunque la garanzia connessa al suo radicamento territoriale  riguarda
il futuro della prestazione, sicche' sarebbe incoerente dare  rilievo
al radicamento passato. Rileva inoltre che il reddito necessario  per
conseguire il permesso di lungo periodo aumenta con  l'aumentare  del
numero dei familiari, con la  conseguenza  di  un  ulteriore  circolo
vizioso, giacche' piu' alto e' il numero dei figli, piu' difficile e'
ottenere il permesso che serve a godere  del  sussidio  di  contrasto
alla poverta'.  Una  garanzia  di  stabilita'  deriverebbe  gia'  dal
generale requisito della residenza biennale, sicche' sarebbe illogico
chiedere solo per gli stranieri la residenza quinquennale. 
    In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe
irragionevole,  non  proporzionato  e   discriminatorio   verso   gli
stranieri. 
    R. S. richiama infine la  disciplina  esistente  in  altri  Paesi
europei, nei quali le prestazioni di sostegno  al  reddito  sarebbero
condizionali, come in Italia, e osserva che tuttavia in nessuno Stato
dell'Unione europea esse sarebbero subordinate al permesso  di  lungo
periodo. 
    4.- Il 5 ottobre 2020 e' intervenuto  nel  presente  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    L'Avvocatura eccepisce in primo  luogo  l'inammissibilita'  delle
questioni, perche' il rimettente chiederebbe «una sentenza  additiva,
che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo  proporrebbe  di
abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo,
reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della  residenza
biennale. Senonche', una cosa sarebbero  i  requisiti  di  residenza,
un'altra i requisiti di soggiorno, che sarebbero richiesti anche  per
i cittadini europei, dovendo questi essere titolari  del  diritto  di
soggiorno o del diritto di soggiorno permanente (come previsto  dalla
stessa norma censurata). In base al diritto europeo  (art.  11  della
direttiva 2003/109/CE), l'accesso degli  stranieri  alle  prestazioni
sociali  e'  limitato  ai  soggiornanti  di  lungo   periodo,   salvo
l'ampliamento previsto dalla  direttiva  2011/98/UE  in  relazione  a
determinati settori di sicurezza sociale, sicche' la norma  censurata
avrebbe  optato  per  «la  sola  possibilita'»  a  disposizione   del
legislatore nazionale.  Il  rimettente  propone  che  il  reddito  di
inclusione  sia  concesso  agli  stranieri  sulla  base  della   sola
residenza biennale continuativa, mentre cio' non sarebbe  sufficiente
per  i  cittadini  europei.  Ne  conseguirebbe  uno   «stravolgimento
dell'impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una
disciplina  sostanzialmente   diversa,   e   non   costituzionalmente
obbligata; e anzi  costituzionalmente  vietata  dall'art.  117  c.  1
Cost., nella misura in cui genererebbe una  discriminazione  a  danno
dei cittadini dell'Unione  e  a  vantaggio  dei  cittadini  di  paesi
terzi». Poiche' quella proposta dal giudice  a  quo  non  e'  l'unica
soluzione  configurabile  in  alternativa  a  quella  censurata,   la
questione sarebbe inammissibile per invasione della  discrezionalita'
legislativa. 
    Inoltre,  secondo  l'Avvocatura  l'ordinanza  sarebbe  «priva  di
idonea motivazione in punto di rilevanza». La ricorrente  ha  chiesto
il ReI il 14 gennaio 2019, ma non ha impugnato  il  provvedimento  di
«immediato   rigetto»   ricevuto,    proponendo    invece    l'azione
anti-discriminazione al fine di ottenere l'attribuzione  del  reddito
di inclusione. Tale misura, osserva  la  difesa  erariale,  e'  stata
abrogata dal d.l. n. 4 del 2019, che  ha  introdotto  il  reddito  di
cittadinanza. L'art. 13, comma 1, del citato decreto stabilisce  che,
«[a] decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito di inclusione  non  puo`
essere piu` richiesto e a decorrere dal successivo mese di aprile non
e` piu` riconosciuto, ne´ rinnovato», e regola altresi'  il  caso  in
cui  «il  Reddito  di  inclusione  sia  stato  riconosciuto  in  data
anteriore al mese di aprile  2019».  La  disciplina  non  conterrebbe
invece, secondo l'Avvocatura, «disposizioni  di  diritto  transitorio
che regolino in modo specifico l'applicabilita' della disciplina  del
reddito di inclusione nelle cause, come quella  pendente  davanti  al
giudice a quo, che abbiano ad oggetto la  richiesta  di  attribuzione
del REI, ancora pendenti alla data di entrata in vigore  della  nuova
disciplina». Il giudice a quo non argomenterebbe  sull'applicabilita'
della norma abrogata ai fini della decisione; sarebbe  invece  chiaro
che R. S. non rientra tra coloro ai quali il  ReI  e'  stato  erogato
prima della sua  abrogazione  e  che  possono  percio'  continuare  a
fruirne. 
    L'ordinanza  non  indicherebbe,  inoltre,  la  data  precisa   di
presentazione del ricorso, sicche' non sarebbe possibile stabilire se
esso  sia  precedente  o  successivo  al  1°  aprile  2019,  data  di
abrogazione della norma censurata. 
    Tale eccezione  di  inammissibilita'  sarebbe  stata  accolta  da
questa Corte nella sentenza n. 146  del  2020,  riguardante  un  caso
analogo al presente. 
    Quanto al merito, la difesa erariale rileva  che  il  reddito  di
inclusione sarebbe diverso dalle altre prestazioni  assistenziali  di
cui all'art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, in  relazione
alle   quali   questa   Corte    ha    dichiarato    l'illegittimita'
costituzionale, giacche' in quei casi «si trattava del riconoscimento
di benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona».  Il
ReI avrebbe  una  ratio  diversa  -  cosi'  come  e'  diversa  quella
dell'assegno sociale, oggetto della pronuncia di infondatezza  n.  50
del  2019  -  trattandosi  di  una  prestazione   «genericamente   di
assistenza sociale», volta a fronteggiare situazioni di poverta'  per
un  periodo  di  tempo  limitato,   sulla   base   di   un   progetto
personalizzato,  e  cio'  giustificherebbe  la  necessita'  un  certo
radicamento dello straniero nella societa' italiana. Il  permesso  di
lungo periodo offrirebbe la prova di tale  radicamento,  in  mancanza
del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione  di  poverta'  che
spetti all'ordinamento italiano soccorrere», ne' vi sarebbe «la  base
per predisporre e attuare nel tempo il progetto  personalizzato».  Il
reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento  gia'  esistente,
non sarebbe lo strumento per  crearlo.  La  norma  censurata  sarebbe
diretta a scoraggiare il cosiddetto "turismo assistenziale". 
    A  sostegno  dell'infondatezza,  l'Avvocatura  invoca  la  citata
sentenza n. 50 del  2019,  riguardante  l'assegno  sociale.  Inoltre,
proprio le sentenze della Corte costituzionale  che  hanno  esteso  a
tutti gli stranieri regolari, a prescindere  dal  permesso  di  lungo
periodo, diverse prestazioni assistenziali, condurrebbero ancor  piu'
a ritenere ragionevole la richiesta di tale permesso per  il  reddito
di  inclusione,   trattandosi   di   un   diritto   "finanziariamente
condizionato", che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed
esigenze finanziarie. In conclusione,  l'art.  3  Cost.  non  sarebbe
violato. 
    L'interveniente nega poi che sia violato  l'art.  31  Cost.,  che
tutelerebbe la famiglia «nei limiti delle compatibilita'  finanziarie
e sul presupposto che si tratti non  della  famiglia  "in  astratto",
bensi'  della  famiglia  specificamente  riferibile   alla   societa'
italiana». L'art. 31 lascerebbe alla discrezionalita' del legislatore
la scelta dei modi della tutela e non lo costringerebbe  a  prevedere
proprio  il  reddito  di  inclusione  e  a  individuare  i  requisiti
auspicati dal rimettente. 
    Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione  sia
una «prestazione essenziale», essendo esso diretto a contrastare  una
situazione di poverta', «per quanto difficile,  comunque  compatibile
con lo svolgimento di attivita' lavorativa». 
    Sarebbe non fondata anche la  questione  riferita  all'art.  117,
primo  comma,  Cost.,  «per  il  tramite   del   principio   di   non
discriminazione di cui agli artt.  20  e  21»  CDFUE.  La  scelta  di
limitare la prestazione de qua ai  soli  stranieri  lungosoggiornanti
sarebbe in linea con  il  diritto  europeo,  in  particolare  con  la
direttiva 2003/109/CE. 
    Infine, sarebbe insussistente la violazione dell'art.  34  CDFUE,
che non troverebbe applicazione nell'ipotesi di  specie,  essendo  la
materia del «contrasto  alla  poverta'»  di  competenza  degli  Stati
membri. Comunque, come gia' detto per  l'art.  31  Cost.,  l'art.  34
CDFUE non  costringerebbe  il  legislatore  a  prevedere  proprio  il
reddito di inclusione ne' a individuare  i  requisiti  auspicati  dal
rimettente. 
    5.- Il 31 agosto 2021 l'INPS ha depositato una memoria. 
    In   essa,   in   primo   luogo,   ribadisce    l'eccezione    di
inammissibilita' delle questioni per  difetto  di  motivazione  sulla
permanente   applicabilita'   della   norma   censurata,   nonostante
l'abrogazione operata dal d.l. n. 4 del 2019. 
    Nel  merito,  la  parte  ripropone  gli  argomenti  gia'   svolti
nell'atto di costituzione, richiamando in particolare la sentenza  n.
50 del 2019, in tema di assegno sociale, e la  sentenza  n.  106  del
2018, dalla quale risulterebbe la legittimita' di una previsione  che
richieda il permesso di  lungo  periodo  per  l'accesso  all'edilizia
residenziale pubblica. 
    6.- Il 31 agosto 2021 anche R. S. ha depositato una memoria. 
    Quanto alla sentenza n. 146 del 2020 di questa  Corte,  la  parte
osserva che la mancata motivazione  sulla  permanente  applicabilita'
della norma  censurata,  nonostante  la  successiva  abrogazione,  si
giustificherebbe  per   l'esistenza   del   principio   generale   di
irretroattivita'. R. S. nota che non e' contestata l'assenza  di  una
norma che vieti l'erogazione del ReI a chi abbia  presentato  domanda
prima dell'abrogazione. La parte richiama la sentenza della Corte  di
cassazione, sezione prima, del 19 febbraio 2019, n. 4890,  osservando
che la domanda della prestazione  sarebbe  il  fatto  generatore  del
diritto, cui non si applica la legge successiva, per cui  il  giudice
sarebbe chiamato a decidere "ora per allora". Essendo pacifica la non
retroattivita' della norma abrogante, l'assenza  di  motivazione  sul
punto non sarebbe censurabile. 
    Secondo R. S. poi il  giudice  a  quo  non  avrebbe  chiesto  una
pronuncia  additiva,  ma  semplicemente  una  sentenza  che  dichiari
costituzionalmente illegittimo il requisito limitativo introdotto: di
qui la non fondatezza della relativa eccezione di inammissibilita'. 
    Nel  merito,  la  parte  osserva  che  le  prestazioni  volte   a
soddisfare  bisogni  primari  dell'individuo  non  sono  solo  quelle
attinenti a situazioni di disabilita' e si sofferma sulla  ratio  del
ReI, analizzando la «condizione sociale  e  reddituale»  sulla  quale
interviene. Espone poi la situazione della ricorrente, rilevando che,
nonostante lo status di vedova, i cinque figli a carico e  l'ISEE  di
254  euro,  non  potra'  mai  accedere  al  ReI  ne'  al  reddito  di
cittadinanza. 
    Secondo R. S., inoltre, la norma censurata non potrebbe  superare
il controllo di ragionevolezza «per il carattere  condizionale  della
prestazione»: nel caso del ReI  (a  differenza  dell'assegno  sociale
oggetto della sentenza n. 50 del  2019),  il  concorso  dei  soggetti
bisognosi al progresso della societa' si realizzerebbe «attraverso la
corrispettivita'  della  prestazione»,  cioe'  dopo  l'accesso   alla
misura, non prima. L'inserimento  «stabile  e  attivo»  del  soggetto
nella societa' sarebbe l'obiettivo della provvidenza e,  dunque,  non
potrebbe  esserne  il  presupposto.  La   componente   del   progetto
personalizzato, valorizzata dall'INPS a sostegno del rigetto, farebbe
propendere per l'irragionevolezza  della  norma.  Inoltre,  la  parte
evidenzia che, a differenza  dell'assegno  sociale,  il  ReI  e'  una
prestazione a  tempo  determinato  e  l'unico  radicamento  rilevante
sarebbe quello (garantito  dalla  disciplina  del  ReI)  relativo  al
periodo in cui la prestazione viene resa. 
    Ancora,  R.  S.  osserva  che,  in  caso  di  accoglimento  della
questione, si applicherebbe l'art. 41 t.u. immigrazione, che richiede
il permesso almeno annuale per l'accesso alle prestazioni sociali,  e
tale permesso presupporrebbe «requisiti  minimi  di  inserimento  che
vanno ben oltre la  mera  residenza».  Sarebbe  dunque  illogico  che
l'ordinamento escluda una quota elevata di stranieri  regolari  dalla
possibilita' di uscire dalla poverta'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel giudizio iscritto al  reg.  ord.  n.  106  del  2020,  il
Tribunale  ordinario  di  Brescia,  sezione  lavoro,   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n.  147  (Disposizioni
per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di  contrasto   alla
poverta'), nella parte in cui, fra i diversi requisiti necessari  per
l'ottenimento del reddito di inclusione, richiede agli  stranieri  il
«possesso del permesso di soggiorno  UE  per  soggiornanti  di  lungo
periodo». 
    Il rimettente solleva un primo ordine  di  questioni  e,  in  via
subordinata,  una  seconda  questione.  In  primo  luogo,  la   norma
censurata violerebbe gli artt. 2, 3, primo e  secondo  comma,  38,  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  14  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, della Carta dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12  dicembre  2007,  e  agli
artt. 13 e 30 della Carta sociale  europea,  riveduta,  con  annesso,
fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva  con
la legge 9 febbraio 1999, n. 30, in quanto, costituendo il reddito di
inclusione una prestazione essenziale  volta  al  soddisfacimento  di
bisogni primari della persona umana,  qualsiasi  discriminazione  tra
cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nella sua concessione
sarebbe incostituzionale. 
    Con la seconda censura il giudice a  quo  lamenta  la  violazione
dell'art. 3, primo comma, Cost., in quanto, anche qualora il  reddito
di inclusione non fosse «prestazione interna al  nucleo  dei  bisogni
essenziali  della   persona»,   non   esisterebbe   una   ragionevole
correlazione tra il requisito richiesto e le situazioni di bisogno in
vista delle quali la prestazione e' prevista. 
    2.- Come esposto nel  Ritenuto  in  fatto,  l'Istituto  nazionale
della previdenza sociale (INPS) e il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, rispettivamente costituito e intervenuto  in  giudizio,  hanno
sollevato diverse eccezioni di inammissibilita'. Con una di esse,  in
particolare, e' lamentato un difetto di motivazione  sulla  rilevanza
delle questioni, in quanto  il  rimettente  non  avrebbe  argomentato
sulla permanente applicabilita' della norma censurata, nonostante  la
sua abrogazione ad opera del decreto-legge  28  gennaio  2019,  n.  4
(Disposizioni urgenti in materia di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo  2019,
n. 26, ne' avrebbe tenuto conto della disposizione transitoria di cui
all'art. 13, comma 1,  del  d.l.  n.  4  del  2019.  Sia  l'INPS  che
l'Avvocatura affermano  che  analoga  eccezione  di  inammissibilita'
sarebbe stata accolta dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte. 
    La parte ricorrente nel  giudizio  a  quo  ha  replicato  a  tale
eccezione osservando - nell'atto di costituzione - che  le  questioni
qui in esame si pongono in termini diversi rispetto a quelle  oggetto
della sentenza n. 146 del 2020, in quanto l'ordinanza  del  Tribunale
di Brescia conterrebbe  elementi  ulteriori  rispetto  a  quella  del
Tribunale di Bergamo, giudice a quo nel  precedente  giudizio.  Nella
memoria integrativa la parte ha poi rilevato che, essendo pacifica la
non retroattivita' della norma abrogante,  l'assenza  di  motivazione
sulla permanente applicabilita' dell'art. 3,  comma  1,  lettera  a),
numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 non sarebbe censurabile. 
    2.1.- L'eccezione e' fondata. 
    La sentenza n.  146  del  2020  di  questa  Corte  ha  dichiarato
inammissibili  questioni  analoghe  a  quello  oggetto  del  presente
giudizio, in  quanto,  in  quel  caso,  il  rimettente  aveva  omesso
«completamente di dare conto dell'intervenuta abrogazione della norma
censurata, cosi' come di  indicare  le  ragioni  che  lo  inducono  a
ritenerla nondimeno applicabile». Dopo aver ricordato che il Capo  II
del d.lgs. n. 147 del 2017 (comprendente la  disposizione  censurata)
e' stato abrogato a decorrere dal 1° aprile 2019 in virtu' di  quanto
disposto dall'art. 11, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, e che  l'art.
13 di questo stesso decreto contiene una disposizione transitoria che
regola il passaggio dal ReI al reddito di cittadinanza, questa  Corte
ha  rilevato  che  «[l]a  totale  mancanza  di  una  benche'   minima
argomentazione sulla portata della norma transitoria  -  come  detto,
neppure menzionata - e sulla permanente  applicabilita'  della  norma
censurata nei giudizi pendenti si traduce in una  omessa  motivazione
sulla rilevanza di tutte le questioni, con la conseguenza della  loro
inammissibilita' (ex multis, sentenze n. 30 e n. 13 del 2020)». 
    Rispetto all'ordinanza che ha dato origine alla sentenza  n.  146
del 2020 l'atto di rimessione qui in esame (precedente rispetto  alla
citata sentenza di questa Corte) si differenzia solo per  un  aspetto
formale:  mentre  nella  prima  l'avvenuta  abrogazione  della  norma
censurata non era espressamente rilevata dal rimettente ma  risultava
implicitamente dall'ordinanza, come attestato dalla  stessa  sentenza
n. 146 del 2020 («Dall'ordinanza si puo' solo indirettamente cogliere
che il rimettente non era probabilmente  inconsapevole  dell'avvenuta
abrogazione, per il riferimento  al  fatto  che  la  norma  censurata
sarebbe stata "vigente ratione temporis" e per l'uso  in  vari  punti
dell'imperfetto nella descrizione della  disciplina  del  reddito  di
inclusione»),  nella  presente  vicenda  il   giudice   a   quo   da'
esplicitamente atto dell'avvenuta abrogazione della  norma  censurata
ad opera del d.l. n. 4 del 2019. 
    Anche l'ordinanza del Tribunale di Brescia,  nondimeno,  presenta
le  due  lacune  che  hanno  indotto  questa   Corte   a   dichiarare
inammissibili  le  analoghe  questioni  sollevate  dal  Tribunale  di
Bergamo. L'attuale rimettente,  infatti:  a)  omette  di  argomentare
sulla permanente applicabilita' della  norma  censurata  nei  giudizi
pendenti, nonostante l'abrogazione; b) non «prende in  considerazione
la norma transitoria contenuta nell'art. 13, comma 1, del d.l.  n.  4
del 2019, [...] e la sua  specifica  portata  in  relazione  al  caso
oggetto del suo giudizio, come invece sarebbe  stato  necessario  per
dare conto della rilevanza della questione sottoposta a questa Corte»
(sentenza n. 146 del 2020). 
    Nel presente giudizio, dunque, si puo' ribadire quanto  affermato
da questa Corte nella sentenza n.  146  del  2020,  ossia  che  «[d]i
fronte al silenzio del giudice  a  quo  toccherebbe  a  questa  Corte
pronunciarsi direttamente sugli effetti dell'abrogazione della  norma
censurata sui giudizi pendenti,  ricostruendo  il  significato  della
disposizione  transitoria  e  applicando   i   criteri   in   ipotesi
individuati  dalla  giurisprudenza  per  fattispecie  simili,  ma  si
tratterebbe di operazioni di spettanza del giudice a quo, sulle quali
questa Corte esercita solo un controllo successivo di  sufficienza  e
plausibilita' in funzione della verifica della rilevanza». 
    Pertanto, tutte le questioni sollevate dal Tribunale  di  Brescia
vanno dichiarate  inammissibili  per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma  1,  lettera  a),  numero  1),  del
decreto legislativo 15  settembre  2017,  n.  147  (Disposizioni  per
l'introduzione di una misura nazionale di contrasto  alla  poverta'),
sollevate dal Tribunale ordinario di  Brescia,  sezione  lavoro,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 2, 3,  38
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  14  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, agli artt. 20, 21 e 34, paragrafo 3, della Carta dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12  dicembre  2007,  e  agli
artt. 13 e 30 della Carta sociale  europea,  riveduta,  con  annesso,
fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva  con
la legge 9 febbraio 1999, n. 30. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 settembre 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattrice 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 ottobre 2021. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA