N. 16 SENTENZA 16 dicembre 2021- 21 gennaio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale  -  Competenza  e  giurisdizione  -  Giudice  per  le
  indagini preliminari - Rigetto della richiesta di decreto penale di
  condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante  -
  Incompatibilita' a pronunciare sulla  nuova  richiesta  di  decreto
  penale formulata dal pubblico ministero in conformita'  ai  rilievi
  del giudice stesso - Omessa previsione - Disparita' di  trattamento
  e lesione del diritto di difesa - Illegittimita' costituzionale  in
  parte qua. 
- Codice di procedura penale, art. 34, comma 2. 
- Costituzione, artt. 3 e 24. 
(GU n.4 del 26-1-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  34,  comma
2, del codice di  procedura  penale,  promosso  dal  Giudice  per  le
indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di   Macerata   nel
procedimento penale a carico di G. M., con ordinanza del  15  gennaio
2020, iscritta al n. 91 del  registro  ordinanze  2020  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  34,  prima   serie
speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 20 ottobre  2021  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 16 dicembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 gennaio 2020, il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale ordinario  di  Macerata  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt.  3  e  24  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 34,  comma  2,  del  codice  di
procedura penale, nella parte in cui non prevede  «l'incompatibilita'
del GIP che abbia rigettato la  richiesta  di  emissione  di  decreto
penale per ritenuta diversita' del  fatto  a  pronunziarsi  su  nuova
richiesta  di  emissione  di  decreto  penale,  avanzata  dal  PM  in
conformita' ai rilievi precedentemente formulati dal giudice». 
    1.1.- Il rimettente riferisce che, nel  procedimento  principale,
il pubblico ministero aveva chiesto l'emissione di un decreto  penale
di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di  guida
in stato di ebbrezza, di cui all'art. 186 del decreto legislativo  30
aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). 
    La richiesta era stata rigettata dal giudice a quo,  sul  rilievo
che non risultava  contestata  l'aggravante  dell'aver  provocato  un
incidente stradale, di cui  al  comma  2-sexies  (recte:  2-bis)  del
citato art. 186: aggravante la cui sussistenza era desumibile da  una
nota dei Carabinieri,  nella  quale  si  riferiva  -  secondo  quanto
riportato nell'ordinanza di rimessione - che «"la responsabilita' del
sinistro non puo' che ricadere su entrambi i conducenti" (tra i quali
l'odierno imputato [...])». 
    Di seguito a cio', il  pubblico  ministero  aveva  formulato  una
nuova  richiesta  di  decreto  penale,  contestando  l'aggravante  in
questione. 
    1.2.- Investito di tale seconda richiesta, il  rimettente  rileva
come l'art. 34, comma 2, cod.  proc.  pen.  non  contempli  l'ipotesi
considerata tra i casi di  incompatibilita'  del  giudice.  Essa  non
potrebbe neppure costituire motivo di ricusazione a  norma  dell'art.
37, comma 1, lettera b), cod. proc.  pen.,  non  trattandosi  di  una
manifestazione indebita  del  convincimento  del  giudice  sui  fatti
oggetto   dell'imputazione;   ne',   d'altra   parte,    risulterebbe
«appagante»  il  ricorso  all'istituto  dell'astensione  per   «gravi
ragioni di convenienza» (art. 36, comma  1,  lettera  h,  cod.  proc.
pen.), non potendo essere rimessa alla discrezionalita'  del  singolo
magistrato «la autovalutazione della propria capacita'  professionale
di non lasciarsi influenzare da giudizi gia' espressi ritualmente». 
    Secondo il rimettente,  la  mancata  inclusione  dell'ipotesi  in
esame fra le cause di incompatibilita' porrebbe la norma censurata in
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., per violazione del principio di
parita' di trattamento e del diritto di difesa. 
    Infatti,   tenuto   conto   anche   «dell'espansione    che    ha
caratterizzato  l'evoluzione  dell'istituto  a  seguito  di  numerose
sentenze della  Corte  costituzionale»,  l'incompatibilita'  dovrebbe
essere prevista in tutti i casi in cui  l'attivita'  del  giudice  si
configuri  «come  oggettivamente  sostitutiva  del  potere-dovere  di
iniziativa del pubblico ministero»: ipotesi che ricorrerebbe nel caso
in discorso, nel quale il giudice, ponendo in evidenza la sussistenza
di  un'aggravante  non  contestata,   avrebbe   svolto   un'attivita'
sostitutiva di quella di naturale spettanza dell'organo dell'accusa. 
    La norma censurata si porrebbe altresi' in  contrasto,  in  parte
qua, con il principio, piu' volte affermato da questa Corte,  per  il
quale «l'incompatibilita'  e'  determinata  da  ogni  valutazione  di
merito circa l'idoneita' delle risultanze  probatorie  a  fondare  un
giudizio di responsabilita' dell'imputato». Nella specie, si  sarebbe
al cospetto di una previa  valutazione  di  responsabilita'  compiuta
dallo stesso giudice chiamato all'emissione del  decreto  penale,  il
quale,  rigettando  la  precedente  richiesta,  avrebbe  ritenuto   -
implicitamente, ma univocamente  -  non  solo  sussistente  il  fatto
(giacche', in caso contrario, avrebbe respinto la richiesta per  tale
motivo), ma anche configurabile un'aggravante non contestata. 
    Al riguardo, il rimettente ricorda come questa Corte  abbia  gia'
dichiarato l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  34,  comma  2,
cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede  che  il  giudice  che
abbia, all'esito di precedente dibattimento riguardante  il  medesimo
fatto  storico  a  carico  del   medesimo   imputato,   ordinato   la
trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell'art.  521,
comma 2, cod. proc. pen., in ragione della  ritenuta  diversita'  del
fatto da come descritto nel decreto che dispone il giudizio,  divenga
incompatibile alla funzione di giudizio (sentenza n. 455  del  1994),
nonche' alla trattazione dell'udienza preliminare  (sentenza  n.  400
del 2008). 
    Rileva, inoltre, il giudice a quo come, nella stessa sentenza  n.
455 del 1994, questa Corte abbia chiarito che l'incompatibilita' alla
funzione di giudizio deve essere riconosciuta in capo al giudice  che
abbia,  in  uno  stadio  anteriore  del  procedimento,  espresso  una
valutazione di merito della stessa materia processuale riguardante il
medesimo incolpato: e cio',  tanto  se  tale  valutazione  sia  stata
compiuta a conclusione delle  indagini  preliminari,  quanto  se  sia
stata compiuta in un precedente giudizio di cognizione, non  potutosi
definire con sentenza. 
    Nel  caso  considerato,  esso   rimettente   avrebbe   certamente
espresso, per le ragioni gia' indicate,  una  valutazione  di  merito
rigettando l'originaria richiesta di decreto penale. Ne'  rileverebbe
in senso contrario la circostanza che si verta novamente in una  fase
di decisione  sulla  richiesta  di  decreto  penale.  Il  rigetto  di
quest'ultima  comporta,  infatti,  la  restituzione  degli  atti   al
pubblico ministero, con la conseguenza che  la  riformulazione  della
richiesta aprirebbe un nuovo giudizio, che dovrebbe  essere  pertanto
demandato a un diverso giudice. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  il  quale  ha  chiesto  che  le  questioni  siano  dichiarate
inammissibili o non fondate. 
    Secondo  l'Avvocatura  dello  Stato,   le   questioni   sarebbero
inammissibili, in quanto il giudice a quo non avrebbe illustrato  «se
si fosse in fase di valutazione astratta o concreta  della  questione
sulla scorta della mera descrizione del fatto contenuta nel  capo  di
imputazione». 
    Nel merito, la difesa dello Stato rileva come  questioni  (a  suo
avviso) analoghe siano gia' state decise da questa  Corte  nel  senso
della non fondatezza con le sentenze n. 66 del 2019 e n. 18 del 2017. 
    In particolare, nella sentenza n. 18 del  2017  questa  Corte  ha
ritenuto decisiva, per escludere l'insorgenza di  una  situazione  di
incompatibilita'  allo  svolgimento  della  funzione  di  giudice,  e
segnatamente di giudice dell'udienza preliminare, la circostanza  che
la valutazione della  medesima  res  iudicanda  e  il  conseguenziale
invito a modificare l'imputazione fossero  intervenuti  nella  stessa
fase della quale il giudice interessato era investito, e non  in  una
fase precedente  e  distinta.  La  valutazione  sulla  qualificazione
giuridica  del  fatto  rientra,  infatti,  nel  complessivo  giudizio
demandato al giudice in quella specifica fase processuale, e l'invito
a modificare l'imputazione rappresenta un «rimedio  endofasico»,  non
idoneo a creare situazioni di incompatibilita'. 
    A parere dell'Avvocatura dello Stato, non  vi  sarebbero  ragioni
per le quali le odierne questioni debbano essere  decise  in  termini
diversi, non potendo nel caso in esame prospettarsi  una  regressione
del procedimento. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del   Tribunale
ordinario  di  Macerata  dubita  della  legittimita'   costituzionale
dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in
cui non prevede «l'incompatibilita' del GIP che  abbia  rigettato  la
richiesta di emissione di decreto penale per ritenuta diversita'  del
fatto a pronunziarsi su  nuova  richiesta  di  emissione  di  decreto
penale, avanzata dal PM in  conformita'  ai  rilievi  precedentemente
formulati dal giudice». 
    L'incidente di  legittimita'  costituzionale  si  innesta  in  un
procedimento nel quale il giudice rimettente, chiamato  dal  pubblico
ministero ad emettere decreto penale di condanna nei confronti di una
persona imputata del reato di  guida  in  stato  di  ebbrezza,  aveva
rigettato la richiesta in ragione della mancata contestazione di  una
circostanza aggravante (l'avere  l'imputato  provocato  un  incidente
stradale), la cui sussistenza era desumibile dagli atti di  indagine.
Di seguito a cio', il pubblico ministero aveva  formulato  una  nuova
richiesta   di   decreto    penale,    recante    la    contestazione
dell'aggravante, sulla quale il rimettente dovrebbe ora pronunciarsi. 
    Secondo   il   giudice   a    quo,    la    mancata    previsione
dell'incompatibilita' del giudice, in una simile ipotesi, porrebbe la
norma censurata in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione,
per violazione del principio di parita' di trattamento e del  diritto
di difesa, sotto due distinti profili. 
    In primo luogo, perche', ponendo in evidenza  la  sussistenza  di
un'aggravante   non   contestata,   il   giudice   avrebbe   compiuto
un'attivita' sostitutiva del potere-dovere di iniziativa spettante al
pubblico ministero, con conseguente  commistione  di  ruoli,  atta  a
minare l'imparzialita' del giudice stesso. 
    In secondo  luogo,  perche'  sarebbero  riscontrabili,  nel  caso
considerato, le condizioni in presenza delle quali - alla luce  della
giurisprudenza di questa Corte - la previsione dell'incompatibilita',
derivante   da    atti    compiuti    nel    procedimento,    risulta
costituzionalmente necessaria. Da un lato, infatti, il  provvedimento
di rigetto della precedente richiesta di decreto penale comporterebbe
una  valutazione  di  merito  circa  l'idoneita'   delle   risultanze
probatorie a fondare un giudizio  di  responsabilita'  dell'imputato,
essendo  implicito  in  esso  il  riconoscimento,  non   solo   della
sussistenza del fatto, ma  anche  di  un'aggravante  non  contestata.
Dall'altro  lato,  il  rigetto  della  richiesta  di  decreto  penale
comporta la restituzione degli atti al  pubblico  ministero,  con  la
conseguenza che la riproposizione della richiesta aprirebbe un  nuovo
giudizio, che dovrebbe essere necessariamente demandato a un  diverso
giudice. 
    2.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  ha  eccepito,  in  modo
molto  stringato,  l'inammissibilita'  delle  questioni  per  carente
descrizione della fattispecie concreta. 
    Secondo la difesa dello Stato, il rimettente non avrebbe chiarito
se, nel rigettare la prima richiesta di decreto  penale  per  mancata
contestazione dell'aggravante, egli abbia  compiuto  una  valutazione
concreta, ovvero una  valutazione  astratta  sulla  base  della  mera
descrizione del fatto contenuta nel capo di imputazione. L'Avvocatura
dello Stato non spiega perche' il particolare sarebbe  rilevante:  si
deve peraltro supporre che,  a  suo  avviso,  nella  seconda  ipotesi
sarebbe mancato un apprezzamento sul merito dell'ipotesi  di  accusa,
atto a costituire fonte di pregiudizio. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Dalla   pur   sintetica   narrazione   dei    fatti,    contenuta
nell'ordinanza di rimessione, emerge in modo chiaro e univoco che  il
giudice a quo ha desunto la  configurabilita'  dell'aggravante  dagli
atti di indagine (in specie, da una relazione dei Carabinieri) e  non
gia' dalla descrizione del fatto recata dal capo d'imputazione. 
    Peraltro, anche nel caso in cui l'aggravante  emergesse  da  tale
descrizione, non si puo' escludere, per  quanto  si  osservera'  piu'
avanti, che il provvedimento di rigetto della  richiesta  di  decreto
penale implichi una valutazione "contenutistica" sulla res iudicanda. 
    3.-  Sempre  sul  piano  dell'ammissibilita',  occorre  piuttosto
rilevare una apparente incongruenza del petitum rispetto alla vicenda
oggetto del giudizio principale. 
    Il rimettente chiede, infatti, a questa Corte di  introdurre  una
nuova ipotesi di incompatibilita', riferita specificamente al giudice
per le indagini preliminari «che  abbia  rigettato  la  richiesta  di
emissione di decreto penale di condanna per ritenuta  diversita'  del
fatto». 
    In questo modo, il giudice  a  quo  mostra  di  ritenere  che  la
nozione  di   «fatto   diverso»   (impiegata,   quanto   alle   nuove
contestazioni  dibattimentali,  nell'art.  516   cod.   proc.   pen.)
equivalga  a  (o  si  presti  a  ricomprendere)  quella   di   «fatto
diversamente circostanziato» (presa in considerazione dal  successivo
art. 517). 
    La giurisprudenza di  legittimita'  e',  per  converso,  costante
nell'affermare  che  la  mancata  contestazione  di  una  circostanza
aggravante - ipotesi che viene in rilievo nel giudizio a  quo  -  non
dia luogo a  «diversita'  del  fatto».  Il  fatto  deve  considerarsi
«diverso» quando, in rapporto a taluno dei suoi  elementi  essenziali
(condotta, evento,  nesso  causale,  elemento  soggettivo),  presenta
connotati  materiali  difformi  rispetto  a  quello  contestato.  Non
rientra,  percio',  in  tale  nozione  la  mancata  contestazione  di
un'aggravante,   la   quale   implica   non   gia'    una    modifica
dell'imputazione originaria, ma l'aggiunta ad  essa  di  un  elemento
accessorio, non  necessario  ai  fini  della  sussistenza  del  reato
(l'art. 517 cod. proc. pen. qualifica,  infatti,  tale  ipotesi  come
contestazione  «suppletiva»)  (ex  plurimis,  Corte  di   cassazione,
sezione prima penale, sentenza 12 maggio-18 giugno  2015,  n.  25882;
sezione quarta penale, sentenza 25 giugno-28 luglio 2008, n. 31446). 
    In questa prospettiva, l'accoglimento  del  petitum,  cosi'  come
formulato dal rimettente, rimarrebbe privo di  effetti  nel  giudizio
principale, proprio perche' ivi non si  discute  di  una  ipotesi  di
diversita' del fatto. 
    Deve escludersi, tuttavia, che cio'  comporti  l'inammissibilita'
delle questioni per difetto  di  rilevanza.  Dal  tenore  complessivo
dell'ordinanza di rimessione e dalle singole argomentazioni  in  essa
svolte si desume, in  effetti,  che,  di  la'  dal  riferimento  alla
diversita' del fatto - il quale si risolve in una  mera  imprecisione
tecnica -, il giudice a quo, nel richiedere  l'ulteriore  ampliamento
del catalogo delle incompatibilita', ha avuto specificamente di  mira
la fattispecie che viene in rilievo nel giudizio  principale,  ossia,
appunto, il rigetto della richiesta di  decreto  penale  per  mancata
contestazione di una circostanza aggravante. 
    4.- In questi  termini,  le  questioni  sono  fondate,  sotto  il
secondo dei profili prospettati dal giudice rimettente. 
    4.1.- Per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla
incompatibilita'  del  giudice,  derivante  da  atti   compiuti   nel
procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzieta' e  della
imparzialita' della giurisdizione,  presidiati  dagli  artt.  3,  24,
secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate ad
evitare che la decisione  sul  merito  della  causa  possa  essere  o
apparire condizionata dalla forza della  prevenzione  -  ossia  dalla
naturale tendenza a confermare una decisione gia' presa  o  mantenere
un atteggiamento gia' assunto -  scaturente  da  valutazioni  cui  il
giudice sia stato precedentemente chiamato in  ordine  alla  medesima
res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 183  del  2013,  n.  153  del
2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001). 
    L'imparzialita' del giudice richiede, in specie, che «la funzione
del giudicare sia assegnata a un soggetto "terzo", non solo scevro di
interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione  del
diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine  alla
materia da decidere,  formatesi  in  diverse  fasi  del  giudizio  in
occasione di funzioni decisorie ch'egli sia stato chiamato a svolgere
in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996). 
    In quest'ottica, l'art. 34 cod. proc. pen. - dopo aver  regolato,
al comma 1, la cosiddetta incompatibilita'  "verticale",  determinata
dall'articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio -
si  occupa,  al  comma   2   (oggi   censurato),   della   cosiddetta
incompatibilita' "orizzontale", attinente alla relazione tra la  fase
del giudizio e quella che immediatamente la precede. 
    La disposizione, costruita secondo  la  tecnica  della  casistica
tassativa («[n]on puo' partecipare al  giudizio  il  giudice  che  ha
emesso il provvedimento  conclusivo  dell'udienza  preliminare  o  ha
disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna
o ha deciso sull'impugnazione avverso la  sentenza  di  non  luogo  a
procedere»), e' stata oggetto,  nel  corso  del  tempo,  di  numerose
declaratorie di illegittimita' costituzionale di tipo  additivo,  che
hanno  significativamente  ampliato   l'elenco   delle   ipotesi   di
operativita' dell'istituto. 
    4.2.-  In  linea  generale,  l'incompatibilita'  presuppone   una
relazione  tra  due  termini:  una  "fonte  di  pregiudizio"   (ossia
un'attivita'  giurisdizionale  atta  a  generare   la   forza   della
prevenzione) e una  "sede  pregiudicata"  (vale  a  dire  un  compito
decisorio, al quale il giudice, che abbia posto in essere l'attivita'
pregiudicante, non risulta piu' idoneo). 
    4.2.1. - Per quanto attiene alla "sede pregiudicata" - che l'art.
34, comma 2, cod. proc. pen.  individua  nella  «partecipa[zione]  al
giudizio» - questa Corte, fin dalle sue prime pronunce in materia, ha
posto in evidenza come per «giudizio» debba intendersi ogni  processo
che in base a un esame delle prove pervenga a una decisione di merito
(sentenze n. 155 e n. 131 del 1996, n. 453 del 1994, n. 439 del 1993,
n. 261, n. 186 e n. 124 del 1992). 
    La  nozione  comprende,  pertanto,  non  soltanto   il   giudizio
dibattimentale, ma anche il giudizio abbreviato (sentenza n. 401  del
1991), l'applicazione della pena su richiesta delle parti  (ordinanza
n.  151  del  2004),  l'udienza  preliminare   (almeno   nell'attuale
configurazione, sentenza n. 224 del 2001)  e  talora  l'incidente  di
esecuzione (sentenza n.  7  del  2022),  nonche'  -  per  quanto  qui
particolarmente interessa - il decreto penale di  condanna  (sentenza
n. 346 del 1997). 
    Com'e' noto, il procedimento per decreto e' un  rito  speciale  a
carattere "premiale", con contraddittorio eventuale e differito.  Con
il  decreto  il  giudice  per   le   indagini   preliminari   applica
all'imputato, su richiesta del pubblico  ministero,  per  determinati
tipi di reato, una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione
di una pena detentiva, eventualmente ridotta fino alla meta' rispetto
al  minimo  edittale,  senza  alcuna   attivazione   preventiva   del
contraddittorio. L'imputato puo' presentare opposizione nei  quindici
giorni dalla notificazione del decreto, determinando  l'instaurazione
di un processo mediante giudizio  immediato,  giudizio  abbreviato  o
patteggiamento. 
    Al giudice spetta,  in  base  all'esame  delle  risultanze  delle
indagini preliminari, di accogliere  o  rigettare  la  richiesta  del
pubblico ministero, senza possibilita' di apportarvi modifiche. 
    Si tratta di una funzione di giudizio,  in  quanto  il  controllo
demandato al giudice per le indagini preliminari attiene non solo  ai
presupposti del rito, ma anche al  merito  dell'ipotesi  accusatoria,
postulando una verifica del fatto  storico  e  della  responsabilita'
dell'imputato. Il giudice puo' sindacare, tra l'altro, la  congruita'
della pena richiesta dal pubblico  ministero  (per  tutte,  Corte  di
cassazione, sezione quarta penale, sentenza 22 maggio-26 giugno 2018,
n. 29349), l'esattezza della qualificazione giuridica del fatto  (per
tutte, Corte  di  cassazione,  sezione  quinta  penale,  sentenza  15
dicembre 2011-24 gennaio  2012,  n.  2982)  e  la  sufficienza  degli
elementi probatori (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda
penale, sentenza 16 giugno-21 luglio 2021, n. 28288):  ipotesi  tutte
che, in caso di esito negativo della  verifica,  portano  al  rigetto
della richiesta. Egli puo' anche prosciogliere  l'imputato  ai  sensi
dell'art. 129 cod. proc. pen. (art. 459, comma 3, cod. proc. pen.). 
    4.2.2.- Quanto,  invece,  all'"attivita'  pregiudicante",  questa
Corte ha da tempo precisato le condizioni in presenza delle quali  la
previsione   dell'incompatibilita'   del   giudice   deve   ritenersi
costituzionalmente necessaria. 
    In   primo   luogo,   presupposto   di   ogni    incompatibilita'
endoprocessuale e' la preesistenza di valutazioni  che  cadono  sulla
medesima res iudicanda. In secondo luogo - benche' l'architettura del
nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le  conoscenze
probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento  -  non
basta a generare l'incompatibilita' la semplice  conoscenza  di  atti
anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato  chiamato
a compiere una valutazione di essi, strumentale all'assunzione di una
decisione. In terzo luogo,  tale  decisione  deve  avere  natura  non
«formale»,  ma  «di  contenuto»:   essa   deve   comportare,   cioe',
valutazioni che attengono al merito dell'ipotesi dell'accusa,  e  non
gia' al mero svolgimento del processo. Da ultimo,  affinche'  insorga
l'incompatibilita', e' necessario che la  precedente  valutazione  si
collochi in una diversa fase  del  procedimento,  essendo  del  tutto
ragionevole che, all'interno di ciascuna delle fasi, resti preservata
«l'esigenza di continuita' e di globalita'»: prospettiva nella  quale
il  giudice  chiamato  al  giudizio  di   merito   non   incorre   in
incompatibilita' allorche' compia valutazioni preliminari,  anche  di
merito,  destinate  a  sfociare  in  quella   conclusiva,   venendosi
altrimenti   a   determinare   una   «assurda   frammentazione»   del
procedimento, che implicherebbe la necessita'  di  disporre,  per  la
medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono  gli
atti da compiere (sentenze n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996). 
    Sulla base di tali  criteri,  questa  Corte  ha  incluso  tra  le
possibili "fonti di pregiudizio" anche l'ordinanza con  la  quale  il
giudice del dibattimento, avendo accertato che il fatto e' diverso da
come descritto nell'imputazione, disponga, ai  sensi  dell'art.  521,
comma 2, cod. proc. pen., la  trasmissione  degli  atti  al  pubblico
ministero. Nel momento in cui accerta che il fatto e' diverso da come
descritto  nell'imputazione,  il   giudice   compie,   infatti,   una
penetrante delibazione del merito della res iudicanda, non  dissimile
da quella che, in mancanza di una valutazione  della  diversita'  del
fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di  merito.
L'ordinanza  di  trasmissione  degli  atti  al   pubblico   ministero
determina, d'altro canto, la regressione del procedimento nella  fase
delle indagini preliminari: «la fase in corso davanti al giudice  che
l'ha emessa si chiude, e la  fase  che  si  aprira'  all'esito  delle
iniziative del  pubblico  ministero  -  il  quale  dovra'  esercitare
novamente l'azione penale, sempre che  ne  ravvisi  i  presupposti  -
sara', [...]  anche  se  omologa,  una  fase  distinta  e  ulteriore,
rispetto alla quale la valutazione di merito  insita  nel  precedente
provvedimento potra' assumere una valenza "pregiudicante"»  (sentenza
n. 18 del 2017). 
    Di  qui,  dunque,  l'esigenza   costituzionale   che   il   nuovo
dibattimento  (sentenza  n.  455  del  1994)  o  la   nuova   udienza
preliminare (sentenza  n.  400  del  2008),  tenuti  all'esito  della
predetta trasmissione per lo stesso fatto storico e nei confronti del
medesimo imputato, siano attribuiti alla cognizione di altro giudice. 
    4.3.- Analoga conclusione si impone, mutatis mutandis,  nel  caso
oggi in esame. 
    Da un lato, infatti, il rigetto della richiesta di decreto penale
per mancata contestazione  di  una  circostanza  aggravante  comporta
anch'esso  una  valutazione  di  merito  sulla  res  iudicanda.  Come
correttamente rilevato dal giudice a quo, in tale  provvedimento  e',
infatti, insito il riconoscimento che,  alla  luce  delle  risultanze
degli atti di indagine, non solo il fatto per cui si procede sussiste
ed e'  addebitabile  all'imputato  (in  caso  contrario,  il  giudice
rigetterebbe la richiesta  per  tale  motivo),  ma  che  e'  altresi'
aggravato da una circostanza trascurata dal pubblico ministero. 
    Dall'altro lato, poi,  il  rigetto  della  richiesta  di  decreto
penale determina, per espressa previsione del codice  di  rito  (art.
459, comma 3,  cod.  proc.  pen.),  la  restituzione  degli  atti  al
pubblico ministero e, con essa - secondo un costante indirizzo  della
giurisprudenza di legittimita' -,  la  regressione  del  procedimento
nella fase delle indagini preliminari (fase che si era chiusa con  la
precedente richiesta di decreto penale, che costituisce uno dei  modi
di esercizio dell'azione penale): tant'e' che il  pubblico  ministero
viene pienamente  reintegrato  nelle  proprie  attribuzioni,  potendo
anche optare per una eventuale richiesta di archiviazione, senza  che
vi osti il principio di irretrattabilita' dell'azione penale (tra  le
altre,  Corte  di  cassazione,  sezione  terza  penale,  sentenza  14
dicembre 2017-26 marzo 2018, n. 14012; sezione seconda penale,  20-27
marzo 2009, n. 13680). 
    Di   conseguenza,   anche   in   questo   caso,   la   successiva
riproposizione della richiesta di decreto penale apre una nuova  fase
di giudizio che, sebbene  omologa  alla  precedente,  resta  da  essa
distinta e nella quale,  pertanto,  la  valutazione  "contenutistica"
insita nel provvedimento di rigetto della prima richiesta esplica  la
propria efficacia pregiudicante. 
    5.- L'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. va dichiarato,  pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che  il
giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di
decreto  penale  di  condanna  per  mancata  contestazione   di   una
circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare  sulla  nuova
richiesta di decreto  penale  formulata  dal  pubblico  ministero  in
conformita' ai rilievi del giudice stesso. 
    Resta  assorbito   l'ulteriore   profilo   di   censura,   legato
all'asserito svolgimento da parte del giudice, nel caso  considerato,
di un'attivita'  sostitutiva  del  potere-dovere  di  iniziativa  del
pubblico ministero. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34,  comma  2,
del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il
giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di
decreto  penale  di  condanna  per  mancata  contestazione   di   una
circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare  sulla  nuova
richiesta di decreto  penale  formulata  dal  pubblico  ministero  in
conformita' ai rilievi del giudice stesso. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 gennaio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA