N. 19 SENTENZA 10 - 25 gennaio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Straniero - Politiche sociali - Reddito di cittadinanza  -  Requisiti
  necessari - Possesso del permesso di soggiorno UE per  soggiornanti
  di lungo periodo, anziche' del permesso unico lavoro o del permesso
  di soggiorno di  almeno  un  anno  -  Denunciata  irragionevolezza,
  violazione di diritto individuale essenziale e del principio, anche
  convenzionale,  di  non  discriminazione  -  Non  fondatezza  delle
  questioni. 
- Decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni,
  nella legge 28 marzo 2019, n. 26, art.  2,  comma  1,  lettera  a),
  numero 1). 
- Costituzione, artt. 2, 3, 31, 38 e 117,  primo  comma;  Convenzione
  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
  fondamentali, art.14; Carta dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
  europea, artt. 20 e 21. 
(GU n.4 del 26-1-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1,
lettera a), numero 1),  del  decreto-legge  28  gennaio  2019,  n.  4
(Disposizioni urgenti in materia di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo  2019,
n. 26, promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo,  sezione  lavoro,
nel procedimento vertente tra L.  E.  e  l'Istituto  nazionale  della
previdenza sociale (INPS) con ordinanza del 10 luglio 2020,  iscritta
al n. 180 del registro ordinanze 2020  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 52,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2020. 
    Visti gli atti di costituzione  di  L.  E.  e  dell'INPS  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udita nell'udienza  pubblica  del  9  novembre  2021  la  Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi gli avvocati Alberto Guariso per L. E., Mauro Sferrazza per
l'INPS e l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per il  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 10 gennaio 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bergamo,  sezione  lavoro,  solleva
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2,  comma  1,
lettera a), numero 1),  del  decreto-legge  28  gennaio  2019,  n.  4
(Disposizioni urgenti in materia di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo  2019,
n. 26, che, fra i diversi requisiti necessari per  l'ottenimento  del
reddito di cittadinanza  (di  seguito,  anche:  Rdc),  richiede  agli
stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per  soggiornanti
di lungo periodo». 
    Il  giudizio  a  quo  e'  stato  promosso  da  L.  E.,  cittadina
nigeriana, con  ricorso  depositato  il  13  gennaio  2020  ai  sensi
dell'art. 702-bis del codice di procedura civile.  La  ricorrente  ha
chiesto   l'accertamento   del    carattere    discriminatorio    del
comportamento  dell'Istituto  nazionale  della   previdenza   sociale
(INPS), tramite diretta applicazione  dell'art.  12  della  direttiva
(UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13  dicembre
2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso  unico  che  consente  ai  cittadini  di  paesi   terzi   di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno  Stato  membro  e  a  un
insieme comune di  diritti  per  i  lavoratori  di  paesi  terzi  che
soggiornano  regolarmente  in  uno  Stato   membro,   oppure   previa
rimessione della questione di legittimita'  costituzionale  sull'art.
2, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.l.  n.  4  del  2019,  come
convertito,  «con  i   conseguenti   ordini   di   cessazione   della
discriminazione e  rimozione  degli  effetti»,  oltre  alla  condanna
dell'INPS al pagamento del Rdc e al risarcimento del danno. 
    Il rimettente riferisce che L. E. ha fatto ingresso in Italia nel
1996 e che era titolare - dal 12 gennaio 2017 -  di  un  permesso  di
soggiorno per "attesa occupazione", di  cui  ha  chiesto  il  rinnovo
(essendo scaduto il 27 marzo 2019).  Il  7  ottobre  2019  L.  E.  ha
presentato domanda di reddito di cittadinanza in forma  cartacea,  in
quanto il sistema informatico dell'INPS non consentiva  di  procedere
agli stranieri che non dichiarassero la titolarita' del  permesso  di
lungo periodo o della protezione internazionale. Il 23  ottobre  2019
l'INPS ha ritenuto  inammissibile  la  domanda,  in  quanto  «non  e'
possibile accettare domande cartacee». 
    Il giudice a quo respinge, in via  preliminare,  un'eccezione  di
inammissibilita', osservando che l'azione esperita  dalla  ricorrente
«nelle forme  ex  art.  28  d.lgs.  150/2011  e'  un'azione  tipica»,
specificamente prevista per  offrire  tutela  contro  qualunque  atto
discriminatorio. 
    Il rimettente ricorda poi che lo stesso Tribunale di  Bergamo  ha
sollevato  una  questione  analoga,   riguardante   il   reddito   di
inclusione, e richiama la motivazione di quell'ordinanza.  Sintetizza
poi alcune norme del d.l. n. 4 del 2019, come convertito,  precisando
che l'unico punto controverso attiene alla titolarita' da parte della
ricorrente del permesso di soggiorno di lungo periodo, mentre non  e'
contestato il suo possesso di tutti gli altri requisiti previsti  per
il riconoscimento del reddito  di  cittadinanza.  Il  giudice  a  quo
dichiara dunque rilevante la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del  2019,
come convertito. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che
il reddito di cittadinanza  e'  esplicitamente  qualificato  «livello
essenziale delle prestazioni» e  costituisce  una  «misura  [...]  di
contrasto  alla  poverta',  alla  disuguaglianza   e   all'esclusione
sociale» (art. 1, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come  convertito).
Sarebbe dunque finalizzato a dare attuazione ai fondamentali  compiti
della Repubblica  di  cui  agli  artt.  2  e  3  della  Costituzione,
proponendosi di assicurare un «livello minimo di  sussistenza»  e  la
concreta  possibilita'  di  svolgimento  della   personalita'   nelle
formazioni sociali, in primis quella lavorativa. 
    Il giudice a quo rileva che, nella  sentenza  n.  187  del  2010,
questa Corte avrebbe  affermato  che,  per  valutare  l'essenzialita'
della prestazione, occorre verificare  se  essa  integri  un  rimedio
destinato a soddisfare i bisogni primari inerenti alla  tutela  della
persona umana, rimedio «costituente, dunque, un diritto fondamentale,
perche' garanzia per la stessa sopravvivenza del  soggetto».  Ove  si
tratti di una provvidenza destinata a far fronte  al  "sostentamento"
della  persona,  qualsiasi  discrimine  tra  cittadini  e   stranieri
regolarmente soggiornanti  finirebbe  per  violare  l'art.  14  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto  1955,  n.  848,  come
inteso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Il  rimettente  ritiene,  in  definitiva,  che  il   reddito   di
cittadinanza sia «riconducibile nell'alveo dei diritti essenziali»  e
che, dunque, il requisito del permesso di lungo periodo si  ponga  in
contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. («anche  nelle  specifiche  forme
della tutela della famiglia e del lavoro ex artt. 31  e  38  Cost.»),
nonche' con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  14
CEDU e agli artt. 20  e  21  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «in tema  di  principi  di
eguaglianza e di non discriminazione». 
    In ogni caso, anche qualora  il  reddito  di  cittadinanza  fosse
considerato «prestazione estranea al nucleo dei diritti  essenziali»,
la limitazione prevista dalla norma censurata  sarebbe  in  contrasto
con l'art. 3 Cost. per irragionevolezza. Il rimettente da'  atto  che
il legislatore puo' circoscrivere la platea dei beneficiari di  certe
prestazioni sociali, ma la limitazione dovrebbe pur sempre rispondere
al principio di ragionevolezza, che puo'  ritenersi  rispettato  solo
qualora sussista una «ragionevole correlazione» tra la condizione cui
e' subordinato il beneficio e gli altri peculiari  requisiti  che  ne
definiscono la ratio, cioe' tra il requisito posto e le situazioni di
bisogno che la provvidenza e' volta a fronteggiare (il giudice a  quo
richiama la sentenza n. 166 del 2018 di questa Corte). 
    Nel caso di specie, la norma censurata finirebbe per penalizzare,
«senza alcuna apprezzabile ragione e anzi  in  aperto  contrasto  con
l'intento legislativo», «proprio i nuclei familiari piu'  bisognosi»,
dati i requisiti necessari per ottenere il permesso di lungo periodo.
A tale proposito, il rimettente richiama gli argomenti dedotti  dalla
Corte di cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza di rimessione  17
giugno 2019, n. 16164, in materia di "bonus bebe'". 
    Inoltre, secondo il giudice a  quo  la  norma  censurata  non  si
raccorderebbe con l'art. 41 del decreto legislativo 25  luglio  1998,
n. 286 (Testo unico  delle  disposizioni  concernenti  la  disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in  base
al quale «[g]li stranieri titolari della  carta  di  soggiorno  o  di
permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno  [...]  sono
equiparati ai  cittadini  italiani  ai  fini  della  fruizione  delle
provvidenze e delle  prestazioni,  anche  economiche,  di  assistenza
sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo
di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per
gli invalidi civili e per gli indigenti». 
    Infine, quanto al problema dell'«applicazione  del  diritto  alla
parita'  di  trattamento  sancito  dall'art.   12   della   direttiva
2011/98/UE» nel godimento delle prestazioni di sicurezza  sociale  di
cui al regolamento (CE) n. 883/2004  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento  dei  sistemi
di sicurezza sociale, il rimettente osserva  che  la  possibilita'  o
meno di ricondurre il reddito di cittadinanza  alle  «prestazioni  di
disoccupazione» di cui all'art. 3, paragrafo 1, lettera h) del citato
regolamento  «non  condiziona  la  proposizione  della  questione  di
legittimita'  costituzionale»  (sul  punto  rinvia   agli   argomenti
utilizzati dalla Corte di cassazione nella citata ordinanza n.  16164
del 2019). 
    Il rimettente solleva conseguentemente questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.l.
n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 2,  3,  31,
38 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione  all'art.  14
CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE, «nella parte in  cui  esclude  dalla
prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso  unico
lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di
almeno un anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998». 
    2.- L'11 gennaio  2021  l'INPS  si  e'  costituito  nel  presente
giudizio. 
    In primo  luogo,  la  parte  eccepisce  l'inammissibilita'  della
questione per difetto  di  motivazione  sulla  rilevanza,  in  quanto
sarebbe errato l'assunto del  rimettente  secondo  il  quale  l'unica
questione   controversa   nel   giudizio   a   quo   sarebbe   quella
dell'estensione del reddito di cittadinanza agli stranieri  privi  di
permesso di lungo periodo. Non essendo stato dimostrato  il  possesso
degli altri requisiti, l'eventuale accoglimento della  questione  non
condurrebbe al riconoscimento del Rdc in capo alla ricorrente. 
    Inoltre,  l'azione  esercitata  nel  giudizio  a  quo,  ai  sensi
dell'art. 28 del  decreto  legislativo  1°  settembre  2011,  n.  150
(Disposizioni complementari al codice di procedura civile in  materia
di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione,
ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sarebbe
inammissibile in quanto esperibile solo a fronte di un  comportamento
discriminatorio, non in caso di legittimo diniego  della  prestazione
per assenza di un requisito  previsto  dalla  legge.  La  motivazione
offerta dal rimettente su tale eccezione sarebbe  «poco  plausibile».
Ancora, l'eventuale sentenza di  accoglimento  non  potrebbe  rendere
antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui e'
stato tenuto, con la conseguenza che essa  non  potrebbe  condurre  a
riconoscere il diritto  al  reddito  di  cittadinanza  in  capo  alla
ricorrente. 
    La questione sarebbe poi inammissibile perche' il rimettente - in
assenza di pronunce della  Cassazione  che  la  escludano  -  avrebbe
omesso di  sperimentare  una  possibile  interpretazione  adeguatrice
della disposizione censurata. 
    Passando alla non manifesta infondatezza, la parte  riepiloga  la
normativa in materia e osserva che il reddito di cittadinanza «non e'
un semplice e mero [...] beneficio economico, bensi'  un  piu'  ampio
progetto personalizzato»,  comprendente  interventi  di  sostegno  al
nucleo familiare e impegni di quest'ultimo funzionali al  superamento
dello stato di poverta'.  Il  reddito  di  cittadinanza,  ricorda  la
parte,   e'   condizionato   dalla   dichiarazione    di    immediata
disponibilita' al lavoro e dalla successiva sottoscrizione del "patto
per il lavoro", e non puo' dunque essere ricondotto «ne' ad  un  mero
sussidio per l'affrancamento dalla poverta', ne' ad  una  prestazione
che afferisce ai bisogni primari ed essenziali della  persona»  (come
il  diritto  alla  salute  o  all'abitazione).  La  misura   non   si
risolverebbe in una «mera prestazione assistenziale e generalizzata»,
volta a superare un «mero stato  di  bisogno»,  perche',  «ove  cosi'
fosse, il legislatore non ne avrebbe  -  ad  esempio  -  condizionato
l'erogazione alla sottoscrizione - da parte del  nucleo  familiare  -
del patto per il lavoro». 
    L'obiettivo di «affrancamento "mirato"» dalla poverta' perseguito
dal reddito di cittadinanza dovrebbe indurre a qualificarlo come  una
prestazione diretta a superare le difficolta'  del  nucleo  familiare
gia' radicato sul territorio italiano, non  come  uno  strumento  per
creare il radicamento sociale dei nuclei familiari legati stabilmente
al territorio. 
    L'INPS  assimila  il  reddito  di  cittadinanza  al  reddito   di
inclusione e, richiamando la nota del Ministero del lavoro  2  maggio
2018, afferma che anch'esso rientra tra le provvidenze economiche che
costituiscono  diritti  soggettivi  in  base  alla  legislazione  sui
servizi sociali, con la conseguenza che la norma  che  lo  istituisce
dovrebbe essere letta in combinato disposto con l'art. 80, comma  19,
della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale  e  pluriennale  dello  Stato  (legge
finanziaria 2001)», che riserva  quelle  provvidenze  agli  stranieri
titolari del permesso di lungo periodo, per favorire i  soggetti  che
hanno una maggiore stabilita' di residenza nel nostro Paese. 
    L'INPS osserva che il reddito di cittadinanza non potrebbe essere
considerato  quale  prestazione   essenziale   e   ricorda   che   la
giurisprudenza costituzionale ha censurato il requisito del  permesso
di  lungo  periodo  in  relazione  alle  provvidenze  necessarie  per
soddisfare  bisogni  primari  dell'individuo,  legati  a   stati   di
invalidita' o a gravi  situazioni  di  urgenza  e  bisogno,  che  non
verrebbero in rilievo ne' per l'assegno sociale ne' per il reddito di
cittadinanza. 
    La  parte  ritiene  poi  generici  i  profili  di  illegittimita'
costituzionale riguardanti gli artt. 2, 38 e 117, primo comma, Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 14 CEDU  e  agli  artt.  20  e  21
CDFUE. 
    In ogni caso, tali questioni sarebbero infondate,  in  quanto  il
reddito di cittadinanza si collocherebbe  al  di  fuori  dei  settori
della sicurezza sociale tutelati dal diritto  europeo.  La  direttiva
2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo  status
dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo,
limiterebbe  al  soggiornante  di  lungo  periodo   la   parita'   di
trattamento in relazione alle prestazioni sociali. Una norma che nega
l'accesso al reddito di cittadinanza allo straniero privo di permesso
di lungo periodo non sarebbe dunque irragionevole, «stante la stretta
correlazione   tra   l'auspicabile   realizzazione   del    "progetto
personalizzato" di cui al patto  per  il  lavoro  [...]  ed  un  piu'
stabile ed attivo inserimento, in  Italia,  del  cittadino  di  Paese
terzo». 
    L'INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa  Corte,  che
ha fatto salvo  il  requisito  del  permesso  di  lungo  periodo  per
l'assegno sociale, e sottolinea che, al di la' del nucleo dei diritti
inviolabili, il  legislatore  potrebbe  richiedere  un  permesso  che
attesti «un'attiva partecipazione dello straniero alla vita sociale». 
    Il reddito di cittadinanza non  rientrerebbe  nei  settori  della
sicurezza sociale di cui all'art. 3 del regolamento (CE) n.  883/2004
e, dunque, nell'ambito di applicazione dell'art. 12  della  direttiva
2011/98/UE. Del resto, poiche' l'erogazione  del  Rdc  presupporrebbe
una valutazione,  anche  discrezionale,  delle  esigenze  del  nucleo
familiare, sarebbe infondata anche la questione basata  sulla  CDFUE,
in quanto essa si applica solo nell'attuazione del  diritto  europeo,
ai sensi del suo art. 51. 
    Quanto alla violazione del principio di ragionevolezza, lamentata
in via  subordinata,  l'INPS  si  sofferma  sul  diverso  regime  del
permesso di lungo periodo rispetto al permesso di  lavoro  e  osserva
che la norma censurata sarebbe conforme all'art. 3 Cost.,  in  quanto
la differenza fra i due regimi sarebbe «ragionevolmente  fondata  sul
radicamento territoriale del soggetto nel territorio  nazionale».  In
mancanza  di  tale  radicamento,  non  si  potrebbe  parlare  di  una
situazione  di   poverta'   che   spetti   all'ordinamento   italiano
soccorrere,  ne'  vi  sarebbe  la  base  per  attuare   il   progetto
personalizzato. 
    Non sussisterebbe neppure la violazione dell'art.  38  Cost.,  in
quanto   spetterebbe   al   legislatore   contemperare   i    diritti
assistenziali con i limiti della finanza pubblica. 
    3.-  Il  12  gennaio  2021  e'  intervenuto   nel   giudizio   di
legittimita' costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    In primo luogo, l'Avvocatura eccepisce  l'inammissibilita'  della
questione perche' il rimettente chiederebbe «una  sentenza  additiva,
che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo  proporrebbe  di
abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo,
«reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza
continuativa in Italia da  almeno  due  anni».  Senonche',  una  cosa
sarebbero  i  requisiti  di  residenza,  un'altra  i   requisiti   di
soggiorno, che sarebbero richiesti anche  per  i  cittadini  europei,
dovendo questi essere titolari del diritto di soggiorno o del diritto
di soggiorno permanente. La difesa erariale rileva che,  in  base  al
diritto europeo (art.  11  della  direttiva  2003/109/CE),  l'accesso
degli stranieri alle prestazioni sociali e' limitato ai  soggiornanti
di  lungo  periodo,  salvo  l'ampliamento  previsto  dalla  direttiva
2011/98/UE per determinati settori di sicurezza sociale, settori  che
non verrebbero in rilievo nel caso di specie. In base  alla  proposta
del rimettente, il reddito di cittadinanza dovrebbe  essere  concesso
agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa,
mentre per i cittadini  europei  cio'  non  sarebbe  sufficiente.  Ne
conseguirebbe   uno   «stravolgimento   dell'impianto   della   norma
denunciata,   che   verrebbe   trasformata    in    una    disciplina
sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata;  e  anzi
costituzionalmente vietata dall'art. 117 c. 1 Cost., nella misura  in
cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell'Unione
e a vantaggio dei cittadini di paesi  terzi».  Poiche'  la  soluzione
proposta  dal  giudice  a  quo  non  e'  l'unica   configurabile   in
alternativa a quella censurata, la  questione  sarebbe  inammissibile
per invasione della discrezionalita' legislativa. 
    Nel  merito  l'Avvocatura  ritiene  le  questioni  manifestamente
infondate. 
    Il  reddito  di  cittadinanza   sarebbe   diverso   dalle   altre
prestazioni assistenziali in relazione alle  quali  questa  Corte  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art.  80,  comma  19,
della  legge  n.  388  del  2000:  in  quei  casi  «si  trattava  del
riconoscimento di benefici attinenti  ai  bisogni  primari  e  vitali
della persona», mentre il Rdc avrebbe una ratio diversa,  cosi'  come
l'assegno sociale, per il quale questa Corte ha ritenuto legittimo il
requisito del permesso di lungo periodo con la  sentenza  n.  50  del
2019. Il reddito di  cittadinanza  rientrerebbe  fra  le  prestazioni
«genericamente di assistenza sociale, mirando a soccorrere situazioni
di poverta' relativa del nucleo familiare per  un  periodo  di  tempo
limitato e sulla base di un progetto personalizzato». Il permesso  di
lungo periodo offrirebbe la prova  del  radicamento  dello  straniero
nell'ordinamento  italiano,  in  mancanza  del  quale  non   potrebbe
«parlarsi di una situazione di poverta'  che  spetti  all'ordinamento
italiano soccorrere», ne' vi  sarebbe  «la  base  per  predisporre  e
attuare nel tempo il progetto personalizzato». Il Rdc  presupporrebbe
un radicamento gia' esistente, non sarebbe lo strumento per  crearlo.
La norma censurata sarebbe anche volta a  scoraggiare  il  cosiddetto
"turismo assistenziale". A sostegno  dell'infondatezza,  l'Avvocatura
invoca la citata sentenza  n.  50  del  2019,  riguardante  l'assegno
sociale. Inoltre, proprio le sentenze della Corte costituzionale  che
hanno esteso a  tutti  gli  stranieri  regolari,  a  prescindere  dal
permesso  di  lungo  periodo,   diverse   prestazioni   assistenziali
condurrebbero a ritenere ragionevole la richiesta  di  tale  permesso
per  il  reddito  di  cittadinanza,   trattandosi   di   un   diritto
«finanziariamente condizionato», che impone un suo bilanciamento  con
le esigenze finanziarie. Non vi sarebbe, dunque, violazione dell'art.
3 Cost. 
    L'Avvocatura nega poi  che  sia  violato  l'art.  31  Cost.,  che
contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti  delle
compatibilita' finanziarie e sul presupposto che si tratti non  della
famiglia  "in  astratto",  bensi'   della   famiglia   specificamente
riferibile alla societa' italiana».  Inoltre,  l'art.  31  lascerebbe
discrezionalita' al legislatore e non lo costringerebbe  a  prevedere
proprio quel tipo di misura e a individuarne i  requisiti  nel  senso
auspicato dal rimettente. 
    Ancora, la difesa erariale nega che il  reddito  di  cittadinanza
sia una «prestazione essenziale», giacche' esso  mira  a  contrastare
una  situazione  di  poverta',  «per   quanto   difficile,   comunque
compatibile con lo svolgimento di attivita' lavorativa». 
    Sarebbe non fondata anche la  questione  riferita  all'art.  117,
primo  comma,  Cost.,  «per  il  tramite   del   principio   di   non
discriminazione di cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. In primo luogo,  la
Carta  si  applica  solo  se  la  materia  rientra  nella  competenza
dell'Unione europea (art. 51, paragrafo 2, CDFUE)  e  il  reddito  di
cittadinanza  sarebbe  estraneo  all'ambito  di  applicazione   della
direttiva 2011/98/UE. Inoltre, la scelta di limitare  la  prestazione
de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in  linea  con  il
diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE. 
    Infine, non sarebbe violato neppure l'art. 14 CEDU.  L'Avvocatura
richiama la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'8
aprile 2014, Dhahbi contro Italia (riguardante  l'assegno  al  nucleo
familiare), osservando che il Rdc e' una  misura  assistenziale  «che
viene erogata a totale carico del  bilancio  pubblico,  senza  che  i
beneficiari effettuino alcun versamento di  contributi»,  sicche'  la
norma censurata non comporterebbe una discriminazione  in  base  alla
sola nazionalita'. 
    4.- Il 12 gennaio 2021  L.  E.  si  e'  costituita  nel  presente
giudizio. 
    La parte argomenta sia sulla prima  questione  sollevata,  cioe',
sul «carattere "essenziale e primario" della prestazione», sia  sulla
seconda, riguardante la ritenuta assenza di ragionevole  correlazione
tra il requisito del permesso di lungo periodo e la ratio del reddito
di cittadinanza. 
    Quanto  al  primo  punto,  L.  E.  nega  che  la  preclusione  di
limitazioni basate sulla cittadinanza, per  le  prestazioni  volte  a
soddisfare bisogni primari, valga  solo  per  le  misure  riguardanti
l'invalidita': la preclusione sarebbe  legata,  invece,  al  concetto
stesso di «servizio sociale»,  come  emergerebbe  dalle  sentenze  di
questa Corte n. 281 e n. 44 del 2020.  I  riferimenti  costituzionali
posti a fondamento dei  diritti  sociali  andrebbero  oltre  la  sola
salute  psicofisica.  Quello  che   conta   sarebbe   la   «copertura
costituzionale» del bisogno al quale il  Rdc  si  rivolge.  La  parte
richiama gli artt. 3, secondo comma, e 35 Cost., in quanto il reddito
di cittadinanza mirerebbe ad attuare il diritto al  lavoro  e  a  far
uscire l'individuo dalla poverta' e dall'emarginazione.  Inoltre,  il
Rdc sarebbe destinato ai nuclei familiari in condizione  di  poverta'
assoluta e, a tale proposito, la parte ricorda i requisiti  economici
del  reddito  di  cittadinanza  e  la  soglia  di  poverta'  assoluta
calcolata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT).  Del  resto,
il preambolo del d.l. n. 4 del 2019, come  convertito,  definisce  il
reddito di cittadinanza come «misura utile ad assicurare  un  livello
minimo di sussistenza». Il diritto  di  uscire  dalla  condizione  di
poverta' assoluta godrebbe di tutela costituzionale, ai  sensi  degli
artt. 2 e 3 Cost. I  bisogni  primari  e  la  pari  dignita'  sociale
andrebbero tutelati anche con riferimento agli stranieri, in  quanto,
secondo  la  giurisprudenza  costituzionale,  l'art.   3   Cost.   si
applicherebbe anche agli stranieri quando si tratti  di  garantire  i
diritti fondamentali. 
    Quanto  al  secondo  punto,  la  parte  mette  in   evidenza   la
contraddizione tra il requisito del permesso di  lungo  periodo,  che
presuppone un reddito pari almeno all'assegno sociale, e  il  bisogno
cui  si  intende  rimediare,  ossia  la  poverta'.  Il   reddito   di
cittadinanza sarebbe limitato a quegli  stranieri  che,  dopo  averla
superata, siano ricaduti in una situazione di poverta', cio' che  non
avrebbe «alcuna logica spiegazione». 
    Ulteriore contraddizione riguarderebbe la  funzione  sociale  del
Rdc. Questo sarebbe un  «reddito  "per"  la  cittadinanza,  cioe'  un
percorso verso "l'inserimento sociale" [...]  di  soggetti  che  tale
inserimento  non  hanno  ancora  conseguito»,   e   dunque   non   un
«corrispettivo» di un inserimento  gia'  ottenuto  ma  un  mezzo  per
accedervi.  A  differenza  dell'assegno  sociale,   il   reddito   di
cittadinanza  sarebbe  una  prestazione  diretta  a  raggiungere   un
obiettivo preciso, cio' che ne spiegherebbe  la  temporaneita'.  Tale
funzione risulterebbe dalla necessaria sottoscrizione del "patto  per
il  lavoro"  o  del  "patto  per  l'inclusione  sociale",  patti  che
comprendono obblighi indispensabili  per  chi  non  ha  raggiunto  un
adeguato inserimento sociale. 
    Le considerazioni della sentenza n. 50  del  2019  non  sarebbero
applicabili al reddito di  cittadinanza.  Se  il  permesso  di  lungo
periodo comprova un inserimento  stabile  e  attivo  nella  societa',
allora esso sarebbe sintomatico di una condizione che non  giustifica
l'accesso  al   Rdc,   sicche'   sarebbe   irragionevole   richiedere
congiuntamente l'inserimento stabile e  attivo  e  la  situazione  di
emarginazione. 
    L'integrazione degli stranieri sarebbe un obiettivo  fondamentale
dell'Unione europea,  a  fini  di  coesione  sociale  e  di  crescita
economica, e il percorso di integrazione  comincerebbe  in  una  fase
precedente rispetto al permesso di lungo periodo  e  gia'  in  quella
fase dovrebbe essere supportato. 
    Ancora, se fosse plausibile richiedere  un  titolo  di  soggiorno
indice  di  una  «relativa  stabilita'»  sul  territorio   nazionale,
occorrerebbe considerare che  il  radicamento  territoriale  gia'  e'
garantito dal requisito della residenza  decennale  in  Italia.  Tale
requisito,  in  particolare,  confermerebbe  che  l'esclusione  dello
straniero sarebbe collegata solo alla mancanza di reddito. 
    Inoltre, il carattere condizionale della prestazione escluderebbe
la  sua  "esportabilita'"  e  garantirebbe  il  collegamento  con  il
territorio nel corso dell'erogazione. L. E. osserva comunque  che  un
radicamento territoriale deriverebbe anche dal fatto che, salvo  casi
eccezionali, il reddito di  cittadinanza  richiederebbe  che  vi  sia
stata in passato una prestazione  lavorativa,  elemento  decisivo  ai
fini del radicamento. 
    La parte ritiene violato anche l'art.  31  Cost.,  in  quanto  il
numero dei familiari incide sulle possibilita' di accesso  al  Rdc  e
sul suo  importo,  mentre  per  gli  stranieri  si  innescherebbe  un
«circolo vizioso ancora piu' illogico»,  giacche'  piu'  alto  e'  il
numero  dei  familiari,  piu'  alto  e'  il  reddito  necessario  per
conseguire il permesso di lungo periodo  e,  dunque,  piu'  difficile
sarebbe ottenere il reddito di cittadinanza. 
    Quanto alla possibile applicazione dell'art. 12  della  direttiva
2011/98/UE, secondo L. E. il rimettente avrebbe  dovuto  approfondire
tale profilo, in quanto l'eventuale contrasto della  norma  censurata
con l'art. 12 implicherebbe l'irrilevanza delle questioni  sollevate,
in conseguenza della diretta applicabilita' della norma  europea.  La
parte afferma peraltro di non avere interesse  ad  una  pronuncia  di
questo tipo e, dunque, non formula  le  proprie  conclusioni  in  tal
senso. 
    L. E. illustra poi un  diverso  profilo  -  non  considerato  dal
rimettente - riguardante il preteso contrasto fra l'esclusione  degli
stranieri titolari del permesso unico di lavoro dal Rdc e l'art.  12,
paragrafo 1, lettera h), della direttiva 2011/98/UE, che  assicura  a
tali stranieri parita' di trattamento in  relazione  ai  «servizi  di
consulenza forniti dai centri per l'impiego». 
    Secondo la parte, infine, dall'esame della disciplina vigente  in
altri Paesi europei emergerebbe che  in  nessuno  le  prestazioni  di
inclusione sociale sarebbero condizionate «a un titolo  di  soggiorno
che manifesti gia' tale inclusione». 
    5.-  Il  14  ottobre  2021  l'INPS  ha  depositato  una   memoria
integrativa in cui argomenta ulteriormente le proprie conclusioni. 
    Anche L. E. ha  depositato,  il  19  ottobre  2021,  una  memoria
integrativa a ulteriore sostegno delle conclusioni gia' formulate. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel giudizio iscritto al  reg.  ord.  n.  180  del  2020,  il
Tribunale  ordinario  di  Bergamo,  sezione  lavoro,   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti  in
materia di reddito di cittadinanza e di  pensioni),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che, fra  i  diversi
requisiti necessari per l'ottenimento del reddito di cittadinanza (di
seguito, anche:  Rdc),  richiede  agli  stranieri  il  «possesso  del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo». 
    Il rimettente solleva un primo ordine  di  questioni  e,  in  via
subordinata,  una  seconda  questione.  In  primo  luogo,  la   norma
censurata sarebbe costituzionalmente illegittima «nella parte in  cui
esclude dalla prestazione del reddito di cittadinanza i  titolari  di
permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di  permesso
di soggiorno di almeno un anno  ex  art.  41  d.lgs.  286/1998»,  per
violazione degli  artt.  2  e  3  della  Costituzione  («anche  nelle
specifiche forme della tutela della famiglia e del lavoro ex artt. 31
e 38 Cost.»), nonche' dell'art. 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 14 della Convenzione per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20 e 21  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007,  «in  tema
di principi di eguaglianza e  di  non  discriminazione»,  in  quanto,
costituendo il reddito di  cittadinanza  una  prestazione  essenziale
diretta a soddisfare bisogni primari della persona  umana,  qualsiasi
discriminazione tra cittadini e stranieri  regolarmente  soggiornanti
nella sua concessione sarebbe costituzionalmente illegittima. 
    Con la seconda censura il giudice a  quo  lamenta  la  violazione
dell'art. 3, primo comma, Cost., poiche', anche qualora il reddito di
cittadinanza fosse  ritenuto  «prestazione  estranea  al  nucleo  dei
diritti essenziali» della persona, non  esisterebbe  una  ragionevole
correlazione tra il requisito e le situazioni di bisogno per le quali
la prestazione e' prevista. 
    2.-  Come  esposto  nel  Ritenuto  in  fatto,  una  delle   parti
costituite in giudizio e il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
intervenuto  nel  medesimo,  hanno  sollevato  diverse  eccezioni  di
inammissibilita'. 
    2.1.- In  primo  luogo,  l'Istituto  nazionale  della  previdenza
sociale (INPS) rileva l'inammissibilita' delle questioni per  difetto
di motivazione sulla rilevanza, in quanto  nel  giudizio  a  quo  non
sarebbe stato dimostrato il possesso da parte della ricorrente  degli
altri requisiti del reddito di cittadinanza. 
    L'eccezione non e' fondata. Il rimettente  afferma  espressamente
che «risulta agli  atti  (e  comunque  non  e'  stato  specificamente
contestato dall'INPS) il possesso da parte della ricorrente di  tutti
gli altri requisiti previsti per il [...] riconoscimento [del reddito
di cittadinanza]». Tale affermazione e'  sufficiente  ai  fini  della
motivazione  sulla  rilevanza,  tenuto  conto  anche  del   carattere
"esterno" del controllo operato da questa Corte sul punto (ex multis,
sentenze n. 183 del 2021, n. 44 del 2020 e n. 128 del 2019). 
    2.2.- In secondo luogo, l'INPS eccepisce la scarsa  plausibilita'
della motivazione con cui il rimettente ha  respinto  l'eccezione  di
inammissibilita' dell'azione  anti-discriminazione  esercitata  dalla
ricorrente, azione che - secondo la parte - non sarebbe consentita in
presenza di un diniego dovuto all'assenza di  un  requisito  previsto
dalla legge.  L'eventuale  sentenza  di  accoglimento,  inoltre,  non
potrebbe rendere antigiuridico un comportamento che tale non era  nel
momento in cui e' stato tenuto, ragion  per  cui  essa  non  potrebbe
condurre a riconoscere  il  reddito  di  cittadinanza  in  capo  alla
ricorrente. 
    Neppure tale eccezione e' fondata. Nell'ordinanza  di  rimessione
il giudice a quo ha osservato che l'azione esperita dalla  ricorrente
«nelle forme  ex  art.  28  d.lgs.  150/2011  e'  un'azione  tipica»,
specificamente prevista per offrire  tutela  contro  «qualunque  atto
discriminatorio oggettivamente pregiudizievole», con possibilita' per
il  giudice  di  adottare,  anche  nei   confronti   della   pubblica
amministrazione, ogni provvedimento idoneo a  rimuovere  gli  effetti
dell'atto discriminatorio. Tale motivazione,  benche'  stringata,  e'
sufficiente e plausibile, anche considerando il fatto che piu'  volte
questa Corte ha deciso  nel  merito  questioni  originate  da  azioni
anti-discriminazione proposte contro atti applicativi  di  una  norma
legislativa (sentenze n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e  n.  119  del
2015). 
    Inoltre, se e' vero che una sentenza  di  accoglimento  non  puo'
rendere a posteriori illecita  una  condotta  che  tale  non  era  al
momento in cui e' stata tenuta,  cio'  e'  ininfluente  nel  caso  di
specie perche' nel giudizio a quo la ricorrente non ha  chiesto  solo
un risarcimento del danno ma, in primis, la cessazione della condotta
discriminatoria  con  conseguente  riconoscimento  del   reddito   di
cittadinanza. Comunque, la  rilevanza  non  coincide  con  l'utilita'
concreta - per una parte del giudizio a  quo  -  della  pronuncia  di
accoglimento,  essendo   invece   sufficiente   che   essa   eserciti
un'influenza sul percorso argomentativo del  giudice  rimettente  (ex
multis, sentenze n. 202 e n. 157 del 2021). 
    2.3.- Ancora, secondo l'INPS le questioni sarebbero inammissibili
perche' il rimettente - in assenza di pronunce della  Cassazione  che
lo  impediscano  -  avrebbe  omesso  di  sperimentare  una  possibile
interpretazione adeguatrice della disposizione  censurata.  Peraltro,
l'INPS non indica quale sarebbe la possibile interpretazione conforme
a  Costituzione.  In  effetti,  essa  risulta  preclusa  dal   tenore
letterale della disposizione, che limita chiaramente il beneficio  ai
soli stranieri titolari del permesso di soggiorno di  lungo  periodo.
Si puo' dunque ribadire il «principio -  ripetutamente  affermato  da
questa Corte - secondo il quale l'onere di  interpretazione  conforme
viene meno, lasciando il passo  all'incidente  di  costituzionalita',
allorche' il tenore letterale della disposizione  non  consenta  tale
interpretazione» (sentenza n. 221 del 2019; piu' di recente, sentenza
n. 102 del 2021). 
    Pertanto, nemmeno tale eccezione e' fondata. 
    2.4.- Infine, l'INPS eccepisce  la  genericita'  delle  questioni
sollevate per  violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.  (in
relazione all'art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE) e degli  artt.
2 e 38 Cost. 
    Per quanto riguarda l'art. 14 CEDU, l'eccezione non  e'  fondata.
Il rimettente cita alcune frasi contenute nella  sentenza  di  questa
Corte n. 187 del 2010, che ha accolto  una  questione  sollevata,  in
riferimento all'art. 117, primo, comma, in relazione all'art. 14 CEDU
e all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato  a  Parigi
il 20 marzo 1952, sull'art. 80, comma 19,  della  legge  23  dicembre
2000, n. 388, recante «Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge  finanziaria  2001)»,  nella
parte in cui tale norma  subordinava  al  requisito  della  carta  di
soggiorno la  concessione  agli  stranieri  dell'assegno  mensile  di
invalidita'. Anche a questo riguardo, dunque, la motivazione, benche'
sintetica,   puo'   essere   considerata    sufficiente    ai    fini
dell'illustrazione  della  non   manifesta   infondatezza   di   tale
questione. 
    L'eccezione  e',  invece,  da  accogliere  con  riferimento  alle
questioni basate sugli artt. 20 e 21 CDFUE.  Tali  disposizioni  sono
semplicemente menzionate nell'ordinanza di  rimessione,  senza  alcun
argomento aggiuntivo. In particolare, il rimettente non  illustra  il
presupposto di applicabilita' della CDFUE, cioe' la  circostanza  che
le norme sul reddito di cittadinanza  rappresentino  «attuazione  del
diritto dell'Unione» ai  sensi  del  suo  art.  51:  il  che  implica
l'inammissibilita' delle  censure  basate  sulla  Carta  (da  ultimo,
sentenze n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021, n. 278 del 2020). 
    Ancora, l'eccezione non e' fondata  con  riferimento  all'art.  2
Cost. Il rimettente espone argomenti chiaramente diretti a  sostenere
che il reddito di cittadinanza soddisferebbe un  diritto  inviolabile
dello straniero e consentirebbe lo svolgimento della sua personalita'
nelle formazioni sociali (in primis, quella lavorativa),  sicche'  la
motivazione risulta sufficiente. 
    L'eccezione e' fondata con riferimento anche all'art.  38  Cost.,
che e' menzionato solo di sfuggita ed e', fra l'altro, collegato  dal
rimettente alla «tutela [...] del  lavoro»,  anziche'  all'assistenza
sociale, con la conseguenza che la motivazione  sulla  non  manifesta
infondatezza risulta carente. 
    Vanno  pertanto  dichiarate  manifestamente   inammissibili   per
insufficiente  motivazione  sulla  non  manifesta   infondatezza   le
questioni sollevate per violazione degli artt. 38 e 117, primo comma,
Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE. 
    2.5.- Pur in  assenza  di  eccezione  sul  punto,  va  dichiarata
manifestamente inammissibile anche la questione  ex  art.  31  Cost.,
poiche' anche tale parametro e' menzionato solo  di  sfuggita,  e  il
rimettente si limita a citarne l'oggetto («tutela  della  famiglia»),
senza spendere alcun argomento per illustrare la  sua  violazione  da
parte della norma censurata. 
    2.6.-  Anche  il   Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  solleva
un'eccezione di inammissibilita' delle questioni, osservando  che  il
rimettente chiederebbe una sentenza additiva, a seguito  della  quale
il reddito di cittadinanza dovrebbe essere  concesso  agli  stranieri
sulla base della  sola  residenza  biennale  continuativa,  cio'  che
invece non  sarebbe  sufficiente  per  i  cittadini  europei.  Questo
determinerebbe  uno   «stravolgimento   dell'impianto   della   norma
denunciata,   che   verrebbe   trasformata    in    una    disciplina
sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata;  e  anzi
costituzionalmente vietata dall'art. 117 c. 1 Cost., nella misura  in
cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell'Unione
e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». 
    L'eccezione non e' fondata. A parte  l'erroneo  riferimento  alla
residenza biennale (il requisito necessario per tutti per accedere al
reddito di cittadinanza e' la residenza decennale, non  biennale,  in
base all'art. 2, comma 1, lettera a, numero 2,  del  d.l.  n.  4  del
2019,  come  convertito),  occorre  rilevare,  da  un  lato,  che  il
rimettente non mira ad "aprire"  il  riconoscimento  del  reddito  di
cittadinanza a  tutti  gli  stranieri  in  possesso  della  residenza
richiesta, ma agli stranieri «titolari di permesso  unico  lavoro  ex
art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un
anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998»; dall'altro, che per  i  richiedenti
cittadini dell'Unione europea e' sufficiente la  residenza  decennale
(come  per  gli  italiani),  in  base  all'interpretazione   corrente
dell'art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del  2019,
come convertito. 
    3.- Venendo al merito, e' opportuno sintetizzare  preliminarmente
la disciplina del reddito di cittadinanza. Il d.l.  n.  4  del  2019,
come convertito, che lo istituisce, lo definisce «misura fondamentale
di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto  al  lavoro,  di
contrasto alla poverta', alla disuguaglianza e all'esclusione sociale
[...]», e lo qualifica  «livello  essenziale  delle  prestazioni  nei
limiti delle risorse  disponibili»  (art.  1,  comma  1).  Il  citato
decreto-legge e' stato oggetto di  modifiche  (non  significative  ai
fini del presente giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n.
234 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2022 e
bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024). 
    Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che
costituisce un'«integrazione del reddito familiare» fino alla  soglia
di 6000 euro annui (incrementata a seconda dei componenti del  nucleo
familiare), alla quale si puo' aggiungere un'integrazione del reddito
dei nuclei familiari locatari di un'abitazione, fino ad un massimo di
3360 euro annui (art. 3, comma 1). Il beneficio e' riconosciuto  «per
un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi» e puo'  essere
rinnovato, previa sospensione di un mese  prima  di  ciascun  rinnovo
(art. 3, comma 6). 
    La  sua  erogazione  «e'  condizionata  alla   dichiarazione   di
immediata disponibilita' al lavoro da parte dei componenti il  nucleo
familiare maggiorenni, [...]  nonche'  all'adesione  ad  un  percorso
personalizzato  di  accompagnamento  all'inserimento   lavorativo   e
all'inclusione  sociale  che  prevede  attivita'  al  servizio  della
comunita', di riqualificazione professionale, di completamento  degli
studi, nonche'  altri  impegni  individuati  dai  servizi  competenti
finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro  e  all'inclusione
sociale»» (art. 4, comma 1). Questo percorso si  realizza  o  con  il
Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l'impiego  e  che
«deve contenere gli obblighi e gli  impegni  previsti  dal  comma  8,
lettera b», che  riguardano  essenzialmente  la  ricerca  attiva  del
lavoro e l'accettazione delle offerte congrue) o  con  il  Patto  per
l'inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali  competenti
per il contrasto della poverta' (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta  di
due "canali" comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal
centro per l'impiego puo'  essere  inviato  al  servizio  comunale  e
viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il  Patto  per  l'inclusione
sociale  comprende  anche  gli  «interventi   per   l'accompagnamento
all'inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13). 
    Nell'ambito di entrambi i Patti, «il beneficiario  e'  tenuto  ad
offrire [...] la  propria  disponibilita'  per  la  partecipazione  a
progetti a titolarita'  dei  comuni,  utili  alla  collettivita',  in
ambito culturale, sociale,  artistico,  ambientale,  formativo  e  di
tutela dei beni comuni, da svolgere  presso  il  medesimo  comune  di
residenza, mettendo a disposizione un numero di ore  compatibile  con
le altre attivita' del  beneficiario  e  comunque  non  inferiore  al
numero di otto ore settimanali [...]» (art. 4, comma 15). 
    Rispetto  al  precedente  istituto  del  reddito  di  inclusione,
dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per  una  spiccata
finalizzazione all'inserimento lavorativo e per  un  piu'  stringente
meccanismo della condizionalita', cioe'  per  un'accentuazione  degli
impegni assunti dai beneficiari.  Inoltre,  rispetto  al  reddito  di
inclusione il reddito di cittadinanza e' destinato a una platea  piu'
ampia di beneficiari, in quanto  e'  prevista  una  soglia  economica
d'accesso piu' alta (art. 2, comma 1, lettera b).  Per  altro  verso,
come visto, il d.l. n. 4 del 2019, come convertito,  ha  previsto  un
forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia  (da
due a dieci anni). 
    L'art.  12  del  citato  decreto-legge  detta   le   disposizioni
finanziarie per l'attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un
limite legislativo di  spesa.  Il  comma  1  determina  la  provvista
finanziaria per l'erogazione del Rdc, autorizzando la spesa di  5.907
milioni di euro per il 2019, di 7.167 milioni per il 2020,  di  7.391
milioni per il 2021 e di 7.246 milioni annui a  decorrere  dal  2022,
con imputazione ad apposito capitolo dello stato  di  previsione  del
Ministero  del  lavoro,  denominato  «Fondo   per   il   reddito   di
cittadinanza». Tale autorizzazione di  spesa  e'  stata  incrementata
dapprima dall'art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre 2020, n. 178
(Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno  finanziario  2021  e
bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), poi, per la somma di
1.000 milioni di euro  limitatamente  all'anno  2021,  dall'art.  11,
comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41  (Misure  urgenti  in
materia di sostegno alle  imprese  e  agli  operatori  economici,  di
lavoro, salute e  servizi  territoriali,  connesse  all'emergenza  da
COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 21 maggio 2021,
n. 69, e infine, sempre per il 2021 per la somma di  200  milioni  di
euro, dall'art. 11, comma 13, del decreto-legge 21 ottobre  2021,  n.
146 (Misure urgenti in materia economica  e  fiscale,  a  tutela  del
lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con  modificazioni,
nella legge 17 dicembre 2021, n. 215. Per gli anni  2022  e  seguenti
l'autorizzazione di spesa di cui all'art. 12, comma 1, del d.l. n.  4
del 2019, come convertito, e' stata incrementata dall'art.  1,  comma
73, della legge n. 234 del 2021, per una somma di poco  superiore  ai
1.000 milioni all'anno. 
    L'art. 12, comma 9, del d.l. n.  4  del  2019,  come  convertito,
prevede che, «[i]n caso di esaurimento delle risorse disponibili  per
l'esercizio di riferimento ai sensi del comma 1,  [...]  con  decreto
del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con  il
Ministro dell'economia e delle finanze,  da  adottarsi  entro  trenta
giorni  dall'esaurimento  di  dette  risorse,   e'   ristabilita   la
compatibilita' finanziaria mediante rimodulazione dell'ammontare  del
beneficio». 
    4.- La prima questione, sollevata con riferimento agli artt. 2  e
3 Cost., non e' fondata. 
    Questa Corte ha gia' esaminato questioni concernenti  il  reddito
di cittadinanza, con riferimento all'art. 7-ter, comma 1, del d.l. n.
4 del 2019, come convertito, che prevede la sospensione del beneficio
nei confronti del soggetto cui  e'  applicata  una  misura  cautelare
personale (sentenze n. 126  del  2021  e  n.  122  del  2020).  Nella
pronuncia piu' recente, questa Corte ha rilevato che  «la  disciplina
del reddito di cittadinanza definisce un  percorso  di  reinserimento
nel  mondo  lavorativo  che  va  al  di  la'  della  pura  assistenza
economica.  Cio'  differenzia  la  misura  in  questione   da   altre
provvidenze sociali, la cui erogazione si  fonda  essenzialmente  sul
solo stato  di  bisogno,  senza  prevedere  un  sistema  di  rigorosi
obblighi e condizionalita'. Cosi', ad esempio, per quelle prestazioni
che si configurano quali misure di sostegno  indispensabili  per  una
vita dignitosa, come la pensione d'inabilita'  civile  [...]  diretta
alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili e alla tutela  di
bisogni primari della persona [...]». La pronuncia richiama anche  la
pensione di cittadinanza («misura di  mero  contrasto  alla  poverta'
delle persone anziane») e l'assegno sociale («volto a far fronte a un
particolare stato di bisogno derivante  dall'indigenza»),  osservando
che «[p]er tali provvidenze non e' prevista la sospensione  nel  caso
di misure cautelari personali». Il reddito di  cittadinanza,  invece,
«non ha natura meramente assistenziale, proprio perche'  accompagnato
da  un  percorso  formativo  e  d'inclusione  che  comporta   precisi
obblighi,  il  cui  mancato  rispetto  determina,  in  varie   forme,
l'espulsione dal percorso medesimo». 
    Gia' nella sentenza n. 7 del 2021, peraltro, questa  Corte  aveva
dichiarato l'illegittimita' costituzionale di una legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia, la' dove limitava gli  interventi  di
contrasto alla poverta' a favore dei  nuclei  familiari  aventi  come
minimo un componente residente  in  regione  da  almeno  cinque  anni
continuativi, in  quanto  le  risorse  in  questione  «devono  essere
utilizzate per la concessione di  generici  interventi  di  contrasto
alla poverta'», «a differenza di quanto  e'  dato  riscontrare  nella
disciplina che ha istituito il fondo per  l'anno  2019,  che  invece,
come anche quella relativa alla misura attiva di sostegno al  reddito
che l'ha preceduto, prevedeva espressamente due  componenti,  una  di
carattere economico e una di  inclusione  sociale;  quest'ultima,  in
particolare, strutturata mediante la sottoscrizione di un  patto  cui
erano obbligatoriamente tenuti (a pena  di  decadenza  dal  beneficio
economico)  i  componenti  maggiorenni  del  nucleo  familiare».   La
sentenza continua rilevando che «dal  tenore  della  norma  impugnata
emerge una soluzione di continuita'  rispetto  al  peculiare  modello
degli interventi che l'hanno preceduta e appare chiara  la  finalita'
di destinare le risorse individuate [...]  a  soddisfare  un  bisogno
basilare  e  immediato  dei  beneficiari  selezionati,  genericamente
correlato alla loro situazione di poverta', senza la previsione di un
progetto  di  inclusione».  Per  la  Corte  era  dunque  esclusa  «la
possibilita' di distinguerli  [gli  interventi  in  questione]  dalle
prestazioni  legate  ai  bisogni  primari  della  persona».  Di   qui
l'accoglimento della questione, per la mancata «correlazione  tra  il
soddisfacimento dei bisogni primari  dell'essere  umano,  insediatosi
nel  territorio  regionale,  e  la  protrazione  nel  tempo  di  tale
insediamento». 
    Anche nella sentenza n. 137 del  2021  e'  rimarcata  la  «natura
meramente  assistenziale  dell'assegno  sociale,  che   pertanto   si
differenzia  da  altre  provvidenze,  motivate  anche  da   ulteriori
finalita', come il gia' ricordato reddito di cittadinanza, che non ha
natura meramente assistenziale, ma anche di reinserimento  lavorativo
e per tali ragioni legato a piu'  stringenti  requisiti,  obblighi  e
condizioni». 
    Nel caso in esame questa Corte  non  puo'  che  ribadire  che  il
reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri  di  una
misura di contrasto alla poverta', non si risolve in una  provvidenza
assistenziale   diretta   a   soddisfare    un    bisogno    primario
dell'individuo, ma persegue diversi e piu'  articolati  obiettivi  di
politica attiva del lavoro e di  integrazione  sociale.  A  tale  sua
prevalente connotazione si collegano coerentemente  la  temporaneita'
della  prestazione  e  il  suo  carattere  condizionale,   cioe'   la
necessita'  che  ad  essa  si  accompagnino   precisi   impegni   dei
destinatari, definiti in Patti sottoscritti  da  tutti  i  componenti
maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all'art.
4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4  del  2019).  E'  inoltre  prevista  la
decadenza dal beneficio nel  caso  in  cui  un  solo  componente  non
rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del d.l. n. 4 del 2019). 
    La conclusione di non fondatezza cosi' raggiunta non esclude  che
resta  compito  della  Repubblica,   in   attuazione   dei   principi
costituzionali di cui agli artt. 2,  3  e  38,  primo  comma,  Cost.,
garantire, apprestando le  necessarie  misure,  il  diritto  di  ogni
individuo  alla  «sopravvivenza  dignitosa»  e  al  «minimo   vitale»
(sentenza n. 137 del 2021). Nemmeno il rilievo costituzionale di tale
compito  puo'  tuttavia  legittimare  questa  Corte   a   intervenire
"convertendo" verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale
una piu' complessa misura, come quella oggetto del presente giudizio,
cui   il   legislatore   ha   assegnato,   come   visto,    finalita'
prevalentemente diverse,  e  rispetto  alla  quale,  come  si  vedra'
appresso, il contestato requisito del permesso di lungo  periodo  non
risulta irragionevole. 
    5.- Non e' fondata neppure la questione sollevata per  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 14 CEDU. 
    5.1.- Il parametro interposto e' invocato in modo pertinente. 
    L'art. 14 CEDU - secondo cui «[i]l godimento dei diritti e  delle
liberta`  riconosciuti  nella  presente   Convenzione   deve   essere
assicurato  senza  nessuna  discriminazione,  in  particolare  quelle
fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la  religione,  le
opinioni politiche o quelle di altro genere,  l'origine  nazionale  o
sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la  ricchezza,  la
nascita od ogni altra  condizione»  -  costituisce  completamento  di
altre clausole normative della Convenzione e dei  suoi  Protocolli  e
puo' essere invocato solo in collegamento con una di esse (ex multis,
sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo,  6  luglio  2021,
A.M. e altri contro Russia,  paragrafo  64;  8  aprile  2014,  Dhahbi
contro Italia, paragrafo 39). 
    Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU
cui l'art. 14 si collega nel caso di  specie,  ma  -  richiamando  la
sentenza n. 187  del  2010  di  questa  Corte,  che  ha  accolto  una
questione sollevata, in riferimento  all'art.  117  primo  comma,  in
relazione all'art. 14 CEDU e all'art. 1 Prot. addiz. CEDU,  sull'art.
80, comma 19, della legge n. 388 del  2000  -  implicitamente  invoca
l'art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione  della
proprieta'. E, poiche' il  d.l.  n.  4  del  2019,  come  convertito,
prevede un diritto al reddito di cittadinanza (che  «e'  riconosciuto
dall'INPS ove ricorrano le condizioni», in base al suo art. 5,  comma
3, ma la cui erogazione e' poi subordinata all'adesione  al  percorso
personalizzato,   come   previsto   all'art.   4,   comma   1),   non
impropriamente  il  giudice  a   quo   ha   invocato   il   parametro
convenzionale. 
    5.2.- Questa Corte si e' gia'  pronunciata,  in  piu'  occasioni,
sulla conformita' dell'art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000
(la' dove subordinava l'accesso a determinate provvidenze al possesso
della carta di soggiorno) all'art. 14 CEDU. Nella sentenza n. 187 del
2010, in particolare, si e' osservato che «[c]io' che  dunque  assume
valore dirimente» e' «accertare se, alla  luce  della  configurazione
normativa e della funzione sociale che e'  chiamato  a  svolgere  nel
sistema, lo specifico "assegno" che viene qui in discorso  integri  o
meno un rimedio destinato a consentire  il  concreto  soddisfacimento
dei "bisogni primari" inerenti alla  stessa  sfera  di  tutela  della
persona  umana,  che  e'  compito  della  Repubblica   promuovere   e
salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un  diritto  fondamentale
perche' garanzia per la stessa sopravvivenza del  soggetto».  Sicche'
ove «si versi in tema  di  provvidenza  destinata  a  far  fronte  al
"sostentamento" della persona, qualsiasi discrimine tra  cittadini  e
stranieri  regolarmente  soggiornanti  nel  territorio  dello  Stato,
fondato su requisiti diversi dalle condizioni  soggettive,  finirebbe
per risultare in contrasto con  il  principio  sancito  dall'art.  14
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, avuto riguardo  alla
relativa lettura che, come si e' detto, e' stata in piu'  circostanze
offerta dalla Corte di Strasburgo». Questo criterio  di  giudizio  e'
stato poi ribadito dalle sentenze n. 329 del 2011 e n. 50 del 2019. 
    In questa  prospettiva,  le  conclusioni  sopra  raggiunte  sulle
caratteristiche del reddito di cittadinanza - che non si esaurisce in
una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno  primario
dell'individuo, ma persegue piu' ampi obiettivi  di  politica  attiva
del lavoro e di integrazione  sociale  -  conducono  a  ritenere  non
fondata anche la questione sollevata con  riferimento  all'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 14 CEDU. 
    6.- Resta da esaminare la questione sollevata in via subordinata,
con riferimento all'art. 3, primo  comma,  Cost.  Il  giudice  a  quo
ritiene che, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse  ritenuto
«prestazione  estranea  al  nucleo  dei  diritti  essenziali»   della
persona, la disposizione censurata sarebbe comunque  illegittima  per
l'assenza di  una  ragionevole  correlazione  tra  il  requisito  del
permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno  in
vista delle quali la prestazione e' prevista. 
    Nemmeno tale questione e' fondata, giacche' il raffronto  fra  il
requisito prescritto e  le  finalita'  perseguite  dalla  misura  non
conduce a conclusioni di irragionevolezza della  scelta  operata  dal
legislatore nell'esercizio della sua discrezionalita'. 
    Il permesso di soggiorno di lungo  periodo  e'  concesso  qualora
ricorra una serie di  presupposti  che  testimoniano  della  relativa
stabilita' della presenza sul territorio, e il suo regime si  colloca
nella logica di  una  ragionevole  prospettiva  di  integrazione  del
destinatario nella comunita' ospitante. Piu'  precisamente,  in  base
all'art. 9, commi 1 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio  1998,
n. 286 (Testo unico  delle  disposizioni  concernenti  la  disciplina
dell'immigrazione e norme sulla  condizione  dello  straniero),  esso
puo' essere chiesto in presenza di quattro requisiti:  a)  «possesso,
da almeno cinque anni, di  un  permesso  di  soggiorno  in  corso  di
validita'»;  b)  «disponibilita'  di   un   reddito   non   inferiore
all'importo annuo dell'assegno sociale»;  c)  «alloggio  idoneo»;  d)
«superamento, da parte del richiedente,  di  un  test  di  conoscenza
della lingua italiana». Il permesso e' a tempo indeterminato (art. 9,
comma 2, t.u. immigrazione) e fra le cause della sua  revoca  non  e'
prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioe', del reddito  e
dell'alloggio idoneo). 
    Cio' precisato, occorre  verificare  se  esista  una  ragionevole
correlazione tra il requisito fissato  dalla  norma  censurata  e  la
ratio del reddito di cittadinanza. Come gia' ampiamente sottolineato,
tale provvidenza non si risolve in un  mero  sussidio  economico,  ma
costituisce   una   misura   piu'   articolata,   comportante   anche
l'assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere
il nucleo familiare beneficiario in un  «percorso  personalizzato  di
accompagnamento all'inserimento lavorativo e  all'inclusione  sociale
che   prevede   attivita'   al   servizio   della    comunita',    di
riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonche'
altri  impegni  individuati  dai   servizi   competenti   finalizzati
all'inserimento nel mercato  del  lavoro  e  all'inclusione  sociale»
(art. 4, comma 1, del d.l.  n.  4  del  2019,  come  convertito).  Va
considerato inoltre che la  durata  del  beneficio  economico  e'  di
diciotto mesi (permanendo i requisiti), con possibilita'  di  rinnovo
(art. 3, comma 6). 
    L'orizzonte  temporale  della  misura  non  e'  dunque  di  breve
periodo, considerando sia la durata del beneficio  sia  il  risultato
perseguito.  Gli  obiettivi  dell'intervento  implicano  infatti  una
complessa operazione di  inclusione  sociale  e  lavorativa,  che  il
legislatore,   nell'esercizio   della   sua   discrezionalita',   non
irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in  Italia
a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine
del  reddito  di  cittadinanza,  la  titolarita'   del   diritto   di
soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come  un  requisito
privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicche'  la
scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti,  ma  pur
sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio,  non  puo'
essere   giudicata   esorbitante   rispetto    ai    confini    della
ragionevolezza. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara  manifestamente  inammissibili   le   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti  in
materia di reddito di cittadinanza e di  pensioni),  convertito,  con
modificazioni, nella legge  28  marzo  2019,  n.  26,  sollevate,  in
riferimento agli artt. 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 della Carta dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,  dal
Tribunale ordinario  di  Bergamo,  sezione  lavoro,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.l.
n. 4 del 2019, come convertito, sollevate, in riferimento agli  artt.
2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848,  dal
Tribunale di Bergamo, sezione lavoro,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2022. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattrice 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA