N. 95 SENTENZA 9 marzo - 14 aprile 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Sanzioni amministrative -  Atti  contrari  alla  pubblica  decenza  -
  Sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro, anziche'
  da 51 a 309 euro, come previsto  per  gli  atti  osceni  colposi  -
  Violazione del principio di ragionevolezza  e  di  proporzionalita'
  della pena - Illegittimita' costituzionale in parte qua. 
- Codice penale, art. 726, come sostituito dall'art. 2, comma 6,  del
  decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.16 del 20-4-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuliano AMATO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,
  Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria
  SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  726  del
codice penale, come sostituito dall'art.  2,  comma  6,  del  decreto
legislativo 15  gennaio  2016,  n.  8  (Disposizioni  in  materia  di
depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2,  della  legge  28
aprile 2014, n. 67), promosso dal Giudice  di  pace  di  Sondrio  nel
procedimento vertente tra A. B. e la Prefettura  della  Provincia  di
Sondrio, con ordinanza del 26 novembre 2020, iscritta al  n.  80  del
registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio  del  9  marzo  2022  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 26 novembre 2020, il  Giudice  di  pace  di
Sondrio ha sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 726  del  codice
penale, come sostituito dall'art. 2, comma 6, del decreto legislativo
15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a
norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014,  n.  67),
nella parte in cui punisce gli atti contrari  alla  pubblica  decenza
con una sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, anziche'  con
una sanzione amministrativa da 51 a 309 euro. 
    1.1.- Il rimettente e' chiamato a giudicare sul  ricorso  avverso
un'ordinanza-ingiunzione emessa dalla Prefettura della  Provincia  di
Sondrio per il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria  di
5.000 euro, in relazione alla  violazione  dell'art.  726  cod.  pen.
(atti contrari alla pubblica decenza).  In  base  alla  contestazione
riportata sul verbale dei Carabinieri e richiamata nell'ordinanza  di
rimessione, il  ricorrente  «veniva  sorpreso  ad  orinare  in  luogo
pubblico  all'interno  del  parcheggio  della  discoteca  [...],   in
prossimita' di una delle  porte  di  emergenza,  nonostante  i  bagni
riservati al pubblico fossero correttamente funzionanti». 
    Il giudice a quo osserva che, a seguito della modifica  apportata
dall'art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, l'art. 726 cod.  pen.
- che in precedenza prevedeva una contravvenzione punita con la  pena
alternativa dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda da  10  a  206
euro -  prevede  oggi  un  illecito  amministrativo,  punito  con  la
sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro. 
    Osserva, inoltre, che l'art. 3 della legge 24 novembre  1981,  n.
689  (Modifiche   al   sistema   penale),   in   tema   di   sanzioni
amministrative, stabilirebbe una presunzione  di  colpa  in  capo  al
trasgressore (sono richiamate Corte di  cassazione,  sezione  seconda
civile, sentenze 10 febbraio 2009, n. 3251, 21 gennaio 2009, n.  1554
e 11 giugno 2007, n.  13610),  e  che  nel  caso  di  specie  non  si
rinverrebbero circostanze ed elementi tali da  far  ritenere  che  il
coefficiente soggettivo in capo al ricorrente sia il dolo. Non avendo
quest'ultimo fornito la prova dell'assenza di colpa, la sua  condotta
dovrebbe pertanto considerarsi colposa. 
    Al riguardo il giudice a quo afferma che il ricorrente «per  mera
leggerezza, colto da un impellente bisogno di orinare, si risolveva a
farlo nei pressi della discoteca», senza pero' «voler, neppure in via
eventuale, ledere o mettere in pericolo il bene  giuridico»  tutelato
dall'art. 726 cod. pen. Il fatto potrebbe quindi «denotare una  certa
noncuranza, trascuratezza, leggerezza,  disattenzione  rispetto  alle
norme sociali che regolano  la  convivenza,  ma  sicuramente  non  la
volonta' (id est il dolo) di offesa». 
    Cionondimeno, il fatto dovrebbe  comunque  essere  sanzionato  ai
sensi dell'art. 726 cod. pen., che non distingue tra ipotesi dolose e
colpose; donde la rilevanza della questione prospettata. 
    1.2.- In punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
osserva che  la  disposizione  censurata  comminerebbe  una  sanzione
pecuniaria  sproporzionata  per  eccesso   rispetto   alla   sanzione
amministrativa, da 51 a 309 euro, prevista per le condotte colpose di
atti osceni dall'art. 527, terzo comma, cod.  pen.,  come  modificato
dall'art. 44  del  decreto  legislativo  30  dicembre  1999,  n.  507
(Depenalizzazione  dei   reati   minori   e   riforma   del   sistema
sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della legge 25  giugno  1999,
n. 205). 
    Tale  sproporzione  determinerebbe  una  violazione  dell'art.  3
Cost., in quanto condotte colpose di  minore  gravita',  come  quelle
sussumibili nell'art. 726 cod. pen., verrebbero  sanzionate  in  modo
notevolmente piu' severo delle condotte di cui  all'art.  527,  terzo
comma, cod. pen., nonostante quest'ultima disposizione si riferisca a
fatti  piu'  gravi,  in  quanto   dotati   necessariamente   di   una
connotazione sessuale; connotazione di cui sono invece privi gli atti
contrari alla pubblica decenza (sono richiamate Corte di  cassazione,
sezione terza penale, sentenze 29 luglio 2011, n. 30242 e  11  giugno
2004, n. 26388). 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  inammissibile  e,
comunque, non fondata. 
    2.1.- La  questione  sarebbe  anzitutto  inammissibile  sotto  il
duplice   profilo   dell'insufficienza   della   descrizione    della
fattispecie concreta e  della  carente  motivazione  della  rilevanza
della questione, che sarebbe affermata in modo meramente apodittico. 
    Il rimettente prospetterebbe infatti la questione  con  esclusivo
riferimento alle condotte colpose di violazione  dell'art.  726  cod.
pen., ma non indagherebbe sulla ricorrenza nel caso sottoposto al suo
esame dei presupposti di  tale  connotazione  soggettiva,  bensi'  si
limiterebbe all'errata e apodittica constatazione che non vi  sarebbe
prova di  una  deliberata  volonta'  di  offesa  del  bene  giuridico
protetto da parte del contravventore. Cio' sull'assunto che l'art.  3
della legge n. 689 del 1981 stabilisca una presunzione di colpa. 
    Non sarebbe pero' corretto affermare che  il  dolo  richiede  una
deliberata volonta' di offesa,  essendo  invece  sufficiente  che  la
coscienza e la volonta' si indirizzino sulla condotta e, nei reati di
evento, sul risultato della medesima. 
    D'altra parte, il  rimettente  non  illustrerebbe  le  specifiche
circostanze che lo conducono a escludere la connotazione  dolosa  del
fatto, mentre l'asserito «impellente bisogno» del ricorrente potrebbe
al piu' configurare, ove dimostrato  processualmente,  uno  stato  di
necessita' valevole come esimente. 
    Errato sarebbe anche il  presupposto  interpretativo  secondo  il
quale la colpa negli illeciti  amministrativi  andrebbe  presunta  ai
sensi dell'art.  3  della  legge  n.  689  del  1981,  giacche'  tale
disposizione «risponde invece alla esigenza di individuare l'elemento
soggettivo richiesto  in  via  generale  per  la  sanzionabilita'  di
violazioni amministrative, il quale, come per le medesime fattispecie
anteriormente  inquadrate  come  reati  contravvenzionali,  prescinde
dalla natura colposa o dolosa della condotta, rilevando  soltanto  la
suitas della condotta» (e' richiamata Corte  di  cassazione,  sezione
sesta penale, sentenza 18 giugno 2020, n. 11777). 
    Infine, l'ordinanza non darebbe conto «del vaglio preliminare  in
ordine alla tempestivita' dell'opposizione»  ai  sensi  dell'art.  22
della legge n. 689 del 1981, «ne' della  delibazione  del  fondamento
dei  motivi  di  impugnazione,  che  in   tale   tipo   di   giudizio
circoscrivono la res in iudicio deducta». 
    2.2.- In  via  subordinata,  la  difesa  statale  chiede  che  la
questione sia comunque dichiarata non fondata,  dal  momento  che  il
piu' mite trattamento sanzionatorio stabilito  per  gli  atti  osceni
colposi non risulterebbe irragionevole alla luce dell'evoluzione  dei
costumi sessuali, che ha condotto a qualificare come non  lesive  dei
valori tutelati dall'art. 527  cod.  pen.  e,  piu'  in  generale,  a
considerare come di  ridotto  disvalore  condotte  meramente  colpose
contrastanti con  la  moralita'  sessuale.  Inalterata  risulterebbe,
invece, l'esigenza di sanzionare condotte  colposamente  contrastanti
con le regole del vivere civile, oggi percepite come piu'  fortemente
antisociali che in passato,  in  quanto  funzionali  «al  fine  primo
dell'ordinamento giuridico: "ne cives ad  arma  veniant"».  Cio'  che
apparirebbe di particolare rilievo in  relazione  alla  «sempre  piu'
vasta convivenza di gruppi culturali di origine estremamente  diversa
sul territorio nazionale per effetto del fenomeno migratorio». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice di  pace  di
Sondrio ha sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 726  del  codice
penale, come sostituito dall'art. 2, comma 6, del decreto legislativo
15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a
norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014,  n.  67),
nella parte in cui punisce gli atti contrari  alla  pubblica  decenza
con una sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, anziche'  con
una sanzione amministrativa da 51 a 309 euro. 
    Secondo  il  rimettente,  sarebbe  contrario  al   principio   di
eguaglianza   il   distinto   trattamento   sanzionatorio   riservato
all'illecito amministrativo di atti contrari  alla  pubblica  decenza
rispetto a quello delineato per l'illecito, parimenti amministrativo,
di atti osceni colposi, previsto dall'art.  527,  terzo  comma,  cod.
pen. Conseguentemente, il giudice  a  quo  auspica  una  sostituzione
dell'attuale cornice edittale stabilita dall'art. 726 cod.  pen.  con
quella stabilita, appunto, dall'art. 527,  terzo  comma,  cod.  pen.,
assunto quale tertium comparationis. 
    2.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  intervenuto  in
giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale  dello  Stato,  eccepisce
l'inammissibilita' della questione, in relazione  alla  insufficiente
descrizione  della  fattispecie  e  alla  carente  motivazione  sulla
rilevanza. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    La fattispecie e', anzitutto, descritta in  termini  succinti  ma
chiari: il ricorrente e' stato  sorpreso  a  urinare  nel  parcheggio
adiacente a una discoteca, nonostante i bagni di quest'ultima fossero
regolarmente funzionanti. Cio' basta per considerare  applicabile  la
disposizione censurata, senza che occorrano ulteriori accertamenti in
punto  di  fatto,  alla  luce   del   costante   orientamento   della
giurisprudenza di legittimita' che riconduce all'art. 726  cod.  pen.
la condotta consistente nell'urinare in un luogo pubblico, o comunque
aperto al pubblico (Corte  di  cassazione,  sezione  settima  penale,
sentenze 27 ottobre 2017-13 aprile 2018, n. 16477 e 17 gennaio  2017,
n. 20852; sezione terza penale, sentenza 6 novembre 2013, n.  48096),
non constando  d'altra  parte  circostanze  di  fatto  idonee  a  far
supporre la sussistenza di cause esimenti. 
    Dall'applicabilita' dell'art. 726 cod. pen. nel  caso  di  specie
discende pianamente la rilevanza della questione posta dal giudice  a
quo, che  dubita  della  legittimita'  costituzionale  della  cornice
sanzionatoria attualmente prevista dal legislatore, essendo  evidente
che - in caso di rigetto della questione - dovrebbe essere confermata
la sanzione irrogata e  impugnata  dal  ricorrente,  pari  al  minimo
edittale di 5.000 euro. 
    Per  altro  verso,  e   contrariamente   a   quanto   argomentato
dall'Avvocatura generale dello Stato, non inficia la rilevanza  della
questione l'eventuale errore compiuto dal  giudice  a  quo  circa  la
natura dolosa o colposa della condotta ascritta al ricorrente.  Tanto
nell'uno come nell'altro caso,  la  disposizione  censurata  dovrebbe
infatti trovare comunque applicazione,  dal  momento  che  l'illecito
amministrativo - cosi' come accade per le contravvenzioni - e' punito
indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, e la distinzione tra i
diversi titoli di  responsabilita'  rileva  soltanto  ai  fini  della
commisurazione della sanzione, ferma restando pero' l'inderogabilita'
del minimo edittale,  la  cui  eccessiva  entita'  e'  per  l'appunto
denunciata dal rimettente. 
    Ne', ancora, puo' addebitarsi al giudice a quo di non avere  dato
conto    nell'ordinanza    di    rimessione    della    tempestivita'
dell'opposizione e della sua fondatezza,  laddove  fosse  accolta  la
questione di legittimita' costituzionale  prospettata.  Da  un  lato,
infatti, l'esigenza di una puntuale motivazione sulla rilevanza della
questione, pur costantemente affermata  da  questa  Corte,  non  puo'
essere estesa sino a pretendere che il giudice a quo si impegni nella
confutazione di tutte le pensabili eccezioni di rito,  rilevabili  su
istanza di parte o d'ufficio, che ostino all'esame del  merito  della
domanda nel giudizio che pende avanti a se', salvo che  nel  caso  in
cui sussistano plausibili ragioni - emergenti dalla stessa  ordinanza
di  rimessione  -  che  possano   condurre   a   dubitare   di   tale
ammissibilita' (sentenza n.  102  del  2020).  Dall'altro  lato,  dal
tenore complessivo dell'ordinanza di rimessione emerge  con  evidenza
il convincimento del giudice che il  fatto  materiale  contestato  al
ricorrente sussista, e che l'unica  ragione  per  la  quale  potrebbe
essere accolta la sua opposizione  consiste  nell'eccessivita'  della
sanzione   pecuniaria   irrogata:   eccessivita'   determinata,   per
l'appunto, dalla disposizione della cui  legittimita'  costituzionale
lo stesso rimettente dubita. Cio' che, ancora, conferma la  rilevanza
della questione prospettata. 
    3.- Ai fini dell'esame del merito della questione,  e'  anzitutto
opportuno un preliminare inquadramento  del  contesto  normativo  nel
quale essa si colloca. 
    3.1.- Prima della modifica apportata dall'art. 2,  comma  6,  del
d.lgs. n. 8 del 2016, l'art. 726, primo comma, cod. pen.  configurava
una contravvenzione, da ultimo punita con l'arresto fino a un mese  o
con l'ammenda da 10 a 206 euro. La condotta era  -  e  tuttora  e'  -
descritta come il fatto di «[c]hiunque, in luogo pubblico o aperto  e
esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza». 
    L'elaborazione dottrinale  e  giurisprudenziale  intervenuta  dal
1930 a oggi su questa disposizione si e'  essenzialmente  concentrata
sul problema della distinzione del suo ambito applicativo  da  quello
della  fattispecie  di  atti  osceni,   originariamente   configurata
dall'art. 527 cod. pen. come delitto. 
    Nella sua versione originaria, l'art.  527  cod.  pen.  al  primo
comma  sanzionava  con  la  reclusione  da  tre  mesi  a   tre   anni
«[c]hiunque, in un luogo pubblico o aperto  o  esposto  al  pubblico,
compie atti osceni»; mentre, all'allora secondo comma, prevedeva  una
mera pena pecuniaria (da ultimo fissata nella  multa  da  trecento  a
tremila lire) nell'ipotesi in cui il fatto avvenisse «per colpa». 
    Secondo  la  giurisprudenza  di  legittimita'   formatasi   sulle
originarie  disposizioni  del  codice  penale  e  poi   costantemente
ribadita, «la distinzione tra gli atti osceni  e  gli  atti  contrari
alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono,
in  modo  intenso   e   grave,   il   pudore   sessuale,   suscitando
nell'osservatore sensazioni di  disgusto  oppure  rappresentazioni  o
desideri erotici, mentre i secondi ledono il  normale  sentimento  di
costumatezza,  generando   fastidio   e   riprovazione»   (Corte   di
cassazione, sezione settima penale, sentenza n. 16477  del  2018;  in
senso conforme, sezione terza  penale,  sentenza  5  dicembre  2013-4
febbraio 2014, n. 5478). 
    Sulla base di tale  criterio,  si  e'  ad  esempio  ritenuto  che
costituiscano atti contrari alla pubblica decenza l'urinare in  luogo
pubblico (supra, punto 2), l'esporre il corpo nudo  in  una  spiaggia
pubblica non riservata ai nudisti (Corte di cassazione, sezione terza
penale, sentenze 20 giugno 2012,  n.  28990  e  27  giugno  2005,  n.
31407),  l'essere  sorpresi  addormentati  e  completamente  nudi  in
un'autovettura  al  fianco  di  una  donna  semisvestita  (Corte   di
cassazione, sezione terza penale, sentenza 22 maggio 2012, n. 23234),
il  palpeggiarsi  i  genitali  davanti  ad  altri  soggetti  in  modo
scostumato e scomposto ma non  espressivo  di  «concupiscenza»  e  di
«dimostrazione di  "libido"»  (Corte  di  cassazione,  sezione  terza
penale, sentenza 11 giugno 2004, n. 26388). 
    Viceversa,  sono  stati  ritenuti   integrare   la   piu'   grave
fattispecie di atti osceni l'essere sorpresi, completamente  nudi,  a
compiere un atto sessuale all'interno di un'autovettura  parcheggiata
su una piazza centrale del paese senza alcuna specifica  cautela  per
evitare di essere visti (Corte di cassazione, sezione  terza  penale,
sentenza 29 luglio 2011, n. 30242), il toccamento  lascivo  di  parti
intime del proprio corpo, sia pure al di sopra degli abiti (Corte  di
cassazione, sezione  terza  penale,  sentenza  13  gennaio  2015,  n.
19178), il fatto di mostrare e toccarsi i genitali  in  una  spiaggia
affollata di bagnanti (Corte di  cassazione,  sezione  terza  penale,
sentenza n. 5478 del 2013) o in una  piscina  (Corte  di  cassazione,
sezione terza penale, sentenza 27 febbraio  2020,  n.  16465),  e  in
generale  gli  atti  esibizionistici,  tra  cui  in  particolare   la
masturbazione in luogo pubblico (Corte di cassazione,  sezione  sesta
penale, sentenze 21 gennaio 2022, n.  3318,  e  17  giugno  2021,  n.
32687). 
    Da tale  casistica  si  evince  in  definitiva  che  il  criterio
discretivo tra i due illeciti, per come inteso dal  diritto  vivente,
non risiede nella circostanza che l'autore mostri  o  meno  le  parti
intime  del  proprio  corpo,  quanto  nel  particolare  atteggiamento
soggettivo che accompagna la condotta: laddove la nudita' sia esibita
in modo da non convogliare un  messaggio  di  natura  sessuale,  essa
configurera' - al  piu'  -  la  fattispecie  di  atti  contrari  alla
pubblica decenza; mentre risultera' integrata la fattispecie di  atti
osceni quando la condotta dell'agente convogli  chiaramente  un  tale
messaggio,  senza  che  -  in  tal  caso  -  sia  neppure  necessaria
l'esibizione diretta degli organi genitali. 
    3.2.-  Sull'impianto  originario  del  codice  penale   si   sono
succeduti  vari  interventi  che  hanno  avuto  a  oggetto   le   due
fattispecie in questione. 
    Anzitutto, l'art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n.
507  (Depenalizzazione  dei  reati  minori  e  riforma  del   sistema
sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della legge 25  giugno  1999,
n. 205) ha trasformato in mero illecito amministrativo la fattispecie
di atti osceni colposi, di cui all'allora secondo comma dell'art. 527
cod. pen. 
    Successivamente, l'art. 3, comma 22, della legge 15 luglio  2009,
n. 94 (Diposizioni in materia di sicurezza  pubblica)  ha  introdotto
nell'art. 527  cod.  pen.  un  nuovo  secondo  comma,  che  prevedeva
l'aumento da un terzo alla meta' della pena prevista dal primo comma,
per l'ipotesi in cui  il  fatto  «e'  commesso  all'interno  o  nelle
immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se
da cio' deriva il pericolo che essi vi assistano». 
    Infine, l'art. 2, commi 1, lettera a), e 6, del d.lgs. n.  8  del
2016  ha  trasformato   in   altrettanti   illeciti   amministrativi,
rispettivamente,  il  primo  comma  dell'art.  527  cod.  pen.,   che
configura la fattispecie base di atti osceni  dolosi,  e  l'art.  726
cod. pen., in questa sede censurato. Parallelamente, l'art. 2,  comma
1, lettera b),  dello  stesso  d.lgs.  n.  8  del  2016  ha  previsto
un'autonoma cornice edittale  per  l'ipotesi  di  cui  all'art.  527,
secondo comma, cod. pen., conservandone la natura di delitto. 
    3.3.- In sintesi, il quadro che risulta  da  tali  interventi  e'
cosi' composto: 
    - la fattispecie base di atti osceni dolosi  e',  oggi,  prevista
dall'art. 527, primo comma, cod. pen. come  illecito  amministrativo,
punibile con la sanzione pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro; 
    - la fattispecie (costituente lex specialis rispetto  all'ipotesi
base del primo comma) di atti osceni  commessi  all'interno  o  nelle
immediate vicinanze di luoghi  abitualmente  frequentati  da  minori,
prevista dall'attuale secondo  comma  dell'art.  527  cod.  pen.,  ha
conservato carattere di delitto, ed e' punita con  la  reclusione  da
quattro mesi a quattro anni e sei mesi; 
    - la fattispecie di atti osceni colposi e' prevista  dall'attuale
terzo comma dell'art. 527 cod. pen. come illecito amministrativo,  al
quale e' applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria  da  51  a
309 euro; 
    - la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza  prevista
dall'art.  726  cod.  pen.  e'   anch'essa   divenuta   un   illecito
amministrativo, al quale e' applicabile  la  sanzione  amministrativa
pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro, il cui ammontare e' oggetto  delle
censure del rimettente. 
    4.- La questione e' fondata. 
    4.1.- La recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato  che
il principio della  proporzionalita'  delle  sanzioni  rispetto  alla
gravita' dell'illecito si applica anche al di fuori dei confini della
responsabilita' penale, e in particolare alla materia delle  sanzioni
amministrative a carattere punitivo, rispetto alle quali  esso  trova
il proprio fondamento nell'art. 3 Cost., in combinato disposto con le
norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta  incisi
dalla  sanzione  (sentenza  n.   112   del   2019).   Tali   sanzioni
«condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo  rispetto  a
un  illecito,  per  la  cui  commissione  l'ordinamento  dispone  che
l'autore subisca una sofferenza  in  termini  di  restrizione  di  un
diritto (diverso dalla liberta' personale,  la  cui  compressione  in
chiave sanzionatoria e' riservata alla pena); restrizione che  trova,
dunque,  la  sua  "causa  giuridica"  proprio  nell'illecito  che  ne
costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene - pur  a
fronte  dell'ampia  discrezionalita'  che  al   legislatore   compete
nell'individuazione  degli  illeciti  e  nella  scelta  del  relativo
trattamento punitivo  -  anche  per  le  sanzioni  amministrative  si
prospetta, dunque, l'esigenza che non venga  manifestamente  meno  un
rapporto di congruita' tra la sanzione e  la  gravita'  dell'illecito
sanzionato;  evenienza  nella  quale  la  compressione  del   diritto
diverrebbe irragionevole e non giustificata»  (sentenza  n.  185  del
2021; in senso conforme, ancora la sentenza n. 112 del 2019,  nonche'
le sentenze n. 212 e n. 88 del 2019 e n. 22 del 2018). 
    4.2.- Ai fini della verifica della proporzionalita' della cornice
edittale censurata, dunque, occorre anzitutto valutare  il  grado  di
disvalore dell'illecito sanzionato. Valutazione, questa,  invero  non
del tutto agevole, in relazione alla laconicita' del testo  dell'art.
726 cod. pen., che  si  limita  a  vietare  il  compimento  di  «atti
contrari alla pubblica decenza» in luogo pubblico,  ovvero  aperto  o
esposto al pubblico. 
    Come gia' si e' osservato (supra, punto 3.1.), la  giurisprudenza
di  legittimita'  formatasi  su   tale   disposizione   consente   di
identificarne l'ambito applicativo in condotte  lesive  del  «normale
sentimento di costumatezza», che generano «fastidio e  riprovazione»:
condotte  quasi  invariabilmente  associate,   nella   prassi,   alla
scopertura di parti intime del corpo, attuata pero' senza convogliare
messaggi di natura sessuale, che determinerebbero l'inquadramento nel
piu' grave illecito di atti osceni. Tra tali  condotte,  compare  con
una certa frequenza nei repertori giurisprudenziali proprio l'urinare
in un luogo pubblico: condotta il cui disvalore potrebbe oggi  essere
percepito, piu' che nella momentanea scopertura di una  parte  intima
del corpo,  nel  fatto  stesso  di  insudiciare  luoghi  abitualmente
frequentati dal pubblico. 
    In ogni caso, si  tratta  di  condotte  certamente  in  grado  di
ingenerare molestia  e  fastidio,  ma  altrettanto  indubbiamente  di
disvalore limitato, risolvendosi - in definitiva - in una espressione
di trascuratezza rispetto alle regole di buona educazione proprie  di
una civile convivenza. 
    4.3.- A fronte di un simile limitato disvalore, la previsione  di
una sanzione minima di 5.000 euro e di una massima di 10.000 euro non
puo' che apparire manifestamente sproporzionata. 
    4.3.1.-  Per  quanto  debba  riconoscersi  un  ampio  margine  di
discrezionalita' al  legislatore  nell'individuare  la  misura  della
sanzione appropriata per ciascun illecito  amministrativo,  una  tale
discrezionalita' non puo' sconfinare nella manifesta irragionevolezza
e nell'arbitrio, come nei casi in cui la scelta sanzionatoria risulti
macroscopicamente incoerente rispetto ai  livelli  medi  di  sanzioni
amministrative previste  per  illeciti  amministrativi  di  simile  o
maggiore gravita'. 
    Il  che  e'  giocoforza  affermare  a   proposito   dell'illecito
amministrativo all'esame, sol che si confronti la sanzione  per  esso
stabilita e quelle comminate, ad esempio, per illeciti amministrativi
di assai frequente realizzazione come quelli previsti in  materia  di
circolazione stradale, molti dei quali - lungi dal  determinare  mera
molestia o fastidio nell'occasionale spettatore - espongono  a  grave
pericolo l'incolumita' e la vita stessa di altri utenti del traffico.
Basti pensare che chi abbia superato con la propria auto di oltre  60
km/h il limite massimo di velocita' consentita, magari nel  mezzo  di
un centro abitato, e' soggetto oggi  a  una  sanzione  amministrativa
compresa tra 845 e 3.382 euro. 
    Una tale disparita' sanzionatoria non puo' non ingenerare, in chi
risulti colpito da una sanzione cosi' severa, il sentimento  di  aver
subito una ingiustizia. Sentimento che ha le proprie  radici  proprio
nel vulnus  avvertito  a  quel  «valore  essenziale  dell'ordinamento
giuridico  di  un  Paese  civile»  tutelato  dall'art.  3  Cost.,   e
rappresentato dalla  «coerenza  tra  le  parti  di  cui  si  compone»
(sentenza n. 204 del 1982). 
    4.3.2.-  L'eccessivita'  del  minimo  di  5.000  euro  si  coglie
agevolmente  anche  nel  confronto  con  lo   specifico   trattamento
sanzionatorio  oggi  previsto  per   gli   atti   osceni:   illecito,
quest'ultimo,  che  -  a   dispetto   della   distinta   collocazione
sistematica nel codice penale - e'  sempre  stato  considerato  dalla
dottrina e dalla giurisprudenza  in  rapporto  di  gravita'  maggiore
rispetto a quello, fenomenologicamente  contiguo,  di  atti  contrari
alla pubblica decenza; tanto che  il  principale  problema  esegetico
relativo  all'illecito  in  esame  e'  rappresentato  proprio   dalla
definizione della linea di demarcazione rispetto agli atti osceni, in
relazione a tipologie di condotte spesso  caratterizzate  dal  comune
denominatore dell'esposizione di parti intime del corpo (supra, punto
3.1.). 
    Come si e' poc'anzi sottolineato, la  fattispecie  base  di  atti
osceni dolosi, prevista dall'art. 527, primo  comma,  cod.  pen.  e',
oggi, qualificata come illecito  amministrativo,  sottoposto  ad  una
sanzione amministrativa che, nel minimo, e' anch'essa  pari  a  5.000
euro. Una tale  equiparazione  e'  pero'  contraria  alla  tradizione
penalistica  italiana,  che  -  come  appena  rilevato  -  ha  sempre
individuato una chiara differenza di disvalore tra atti osceni e atti
(meramente) contrari alla pubblica decenza, qualificando i primi come
delitto punibile (se commesso con dolo) con la reclusione da tre mesi
a tre anni, i secondi come contravvenzione  soggetta  all'arresto  da
cinque giorni a un mese o, in alternativa, a una blanda  ammenda  (da
ultimo, da 10 a 206 euro). Il quadro edittale stabilito per gli  atti
contrari  alla  pubblica  decenza   consentiva   d'altra   parte   al
trasgressore di definire il procedimento a proprio carico mediante il
semplice pagamento di un'oblazione pari, ex art. 162-bis  cod.  pen.,
alla meta' del massimo dell'ammenda, e dunque di  103  euro,  il  cui
effetto era quello di estinguere il reato. 
    Ne'  il  drastico  innalzamento,   attuato   dall'intervento   di
depenalizzazione  del  2016,  della  sanzione   pecuniaria   rispetto
all'ammenda previgente - che  era  poi  l'unica  pena  effettivamente
applicata nella prassi per contravvenzioni come l'art. 726 cod.  pen.
nella formulazione previgente -  risulta  in  alcun  modo  spiegabile
sulla base di un maggior disvalore acquisito dagli atti contrari alla
pubblica decenza rispetto al passato, come ipotizzato dall'Avvocatura
generale dello Stato. 
    E' vero, semmai, il contrario. 
    L'illecito ora in esame sanziona -  oggi  come  ieri  -  condotte
scostumate e inurbane, atte a ingenerare molestie  e  fastidio  negli
spettatori; mentre la fattispecie di atti osceni -  anche  nella  sua
forma base di cui all'art. 527, primo comma, cod.  pen.  -  comprende
condotte connotate da gravita' tutt'altro che trascurabile,  come  in
particolare gli atti esibizionistici, i quali sono  spesso  percepiti
dalla persona che ne  sia  involontariamente  spettatrice  come  atti
aggressivi,  idonei  a  ingenerarle  il   comprensibile   timore   di
successivi atti di natura violenta. 
    Cio' tanto piu' quando il fatto sia compiuto in luoghi isolati  e
la persona verso cui  l'atto  si  rivolge  sia  per  qualche  ragione
vulnerabile: dovendosi in proposito tener presente che il delitto  di
cui al secondo comma dell'art. 527 cod. pen., il solo illecito penale
residuato agli interventi di depenalizzazione, si  realizza  soltanto
quando il fatto sia commesso «all'interno o nelle immediate vicinanze
di luoghi abitualmente frequentati da minori». 
    L'evoluzione dei costumi sessuali  su  cui  ragiona  l'Avvocatura
generale dello Stato, e la conseguente minore sensibilita' collettiva
nei confronti  della  nudita'  del  corpo  in  se'  considerata,  non
attenuano affatto la gravita' delle condotte da ultimo menzionate. Di
tali condotte oggi semmai si riconosce,  assai  piu'  chiaramente  di
quanto non accadesse in passato, la dimensione lesiva non solo e  non
tanto del «pudore» - e cioe' del bene giuridico collettivo, concepito
a sua volta quale species dei beni «moralita' pubblica» o  del  «buon
costume», alla cui tutela e' dichiaratamente funzionale il delitto di
atti osceni, secondo la sistematica del codice  del  1930  -,  quanto
soprattutto degli interessi e dei diritti fondamentali delle  persone
nei  cui  confronti  tali  condotte  sono,   spesso,   specificamente
indirizzate. 
    Sicche' anche da questo angolo  visuale  la,  sia  pur  parziale,
equiparazione  sanzionatoria  tra  i  due  illeciti  realizzata   dal
legislatore delegato del 2016 si conferma  come  priva  di  qualsiasi
ragionevole giustificazione. 
    5.- Accertato cosi' il vulnus al  principio  di  proporzionalita'
della pena, occorre ora valutare se e come  sia  possibile  a  questa
Corte  ricondurre  a   legalita'   costituzionale   la   disposizione
censurata. 
    Al riguardo, soccorre la recente ma ormai copiosa  giurisprudenza
di questa Corte, secondo la quale - una volta accertato un  vulnus  a
un principio o a un diritto riconosciuti dalla  Costituzione  -  «non
puo' essere di ostacolo  all'esame  nel  merito  della  questione  di
legittimita' costituzionale l'assenza di un'unica soluzione  a  "rime
obbligate"   per   ricondurre   l'ordinamento   al   rispetto   della
Costituzione,  ancorche'  si  versi   in   materie   riservate   alla
discrezionalita'  del  legislatore»  (sentenza  n.  62   del   2022),
risultando a tal fine sufficiente la presenza nell'ordinamento di una
o piu' soluzioni "costituzionalmente adeguate",  che  si  inseriscano
nel tessuto normativo coerentemente  con  la  logica  perseguita  dal
legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n.
252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e  n.  222  del
2018). 
    Il  rimettente  indica,   quale   soluzione   "costituzionalmente
adeguata", la cornice edittale stabilita per la peculiare ipotesi  di
atti osceni realizzati «per colpa», per i quali, ai  sensi  dell'art.
527, terzo comma, cod. pen., e' prevista la  sanzione  amministrativa
pecuniaria da 51 a 309 euro. 
    La soluzione appare congrua anche a questa  Corte.  Infatti,  per
quanto la condotta integrante l'illecito di atti osceni  colposi  sia
caratterizzata,  dal  punto  di  vista  materiale,   dal   necessario
coinvolgimento della sfera sessuale da parte dell'agente,  che  resta
invece estranea agli atti contrari alla pubblica decenza,  la  natura
meramente  colposa  della  condotta  -  evidenziata  dall'assenza  di
consapevolezza, da parte di chi pone in  essere  la  condotta,  della
percepibilita' da  parte  di  terzi  dell'atto  sessuale  compiuto  -
esclude in radice quella  dimensione  aggressiva  posseduta,  invece,
dagli atti sessuali  deliberatamente  compiuti  in  pubblico,  spesso
diretti verso una o piu' vittime determinate. La visione involontaria
di atti sessuali compiuti da altri senza alcuna intenzione aggressiva
o  comunque  maliziosa  nei  confronti  di  terzi  potra',  al  piu',
ingenerare nello spettatore  un  senso  di  fastidio  e  di  molestia
sostanzialmente analogo a quello provocato  dalla  generalita'  degli
atti inurbani e scostumati riconducibili, appunto,  alla  fattispecie
di atti contrari alla pubblica decenza. 
    Ne' tale conclusione potrebbe essere inficiata dall'obiezione per
cui l'illecito di atti contrari alla pubblica decenza comprende anche
condotte dolose, a differenza di quanto accade per l'illecito di  cui
all'art.  527,  terzo  comma,  cod.  pen.   Rispetto   infatti   alla
generalita'  degli  illeciti  amministrativi,  come  accade  per   le
contravvenzioni, il fuoco del disvalore del  fatto  non  risiede  nel
peculiare   atteggiarsi   dell'elemento   soggettivo   (che    rileva
normalmente  soltanto  quale  criterio   di   quantificazione   della
sanzione), bensi' nella materialita' della condotta, e in particolare
nella sua oggettiva dimensione  di  offensivita'  per  gli  interessi
protetti dalla norma.  Offensivita'  che  pare,  per  l'appunto,  non
distante da  quella  caratteristica  dell'illecito  di  atti  osceni,
allorche' compiuto meramente per colpa. 
    Resta ferma, naturalmente, la possibilita' per il legislatore  di
individuare altra e in ipotesi piu'  congrua  cornice  sanzionatoria,
che tenga piu' specificamente conto delle peculiarita'  dell'illecito
amministrativo censurato rispetto a quello di  atti  osceni  colposi,
purche' nel rispetto del principio di proporzionalita'  tra  gravita'
dell'illecito  e  severita'  della  sanzione,  che   risulta   invece
macroscopicamente violato dalla disposizione qui esaminata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 726 del codice
penale, come sostituito dall'art. 2, comma 6, del decreto legislativo
15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a
norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014,  n.  67),
nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria  «da
euro 5.000 a euro 10.000» anziche' «da euro 51 a euro 309». 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2022. 
 
                                F.to: 
                     Giuliano AMATO, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA