N. 113 SENTENZA 6 aprile - 9 maggio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Sanita' pubblica - Norme della Regione Lazio  -  Requisiti  richiesti
  per l'accreditamento delle strutture private -  Necessita'  che  il
  rapporto di lavoro con il personale sanitario dedicato  ai  servizi
  alla  persona  occupato  sia  regolato  dal  Contratto   collettivo
  nazionale  di  lavoro  (CCNL)  -   Violazione   dei   principi   di
  ragionevolezza  e  proporzionalita',  nonche'  della  liberta'   di
  iniziativa economica privata - Illegittimita' costituzionale. 
- Legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13, art. 9, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3, 41 e 117, commi primo, secondo, lettera  l),
  e terzo. 
(GU n.19 del 11-5-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuliano AMATO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni
  AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo
  PATRONI GRIFFI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,
della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018,  n.  13  (Legge  di
Stabilita' regionale 2019), promosso dal Consiglio di Stato  in  sede
giurisdizionale, sezione terza, nel procedimento vertente tra Aurelia
80 spa e altri e la Regione Lazio,  con  ordinanza  del  23  febbraio
2021, iscritta al n. 112 del registro  ordinanze  2021  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  34,  prima   serie
speciale, dell'anno 2021. 
    Visti gli atti di costituzione  di  Aurelia  80  spa,  Villa  Von
Siebenthal srl, Casa di cura Citta'  di  Roma  spa  e  della  Regione
Lazio; 
    udito nell'udienza pubblica del 6 aprile 2022 il Giudice relatore
Giovanni Amoroso; 
    uditi l'avvocato Fabio Elefante per Aurelia  80  spa  e  altri  e
l'avvocato Rosa Maria Privitera per la Regione Lazio, quest'ultima in
collegamento da remoto,  ai  sensi  del  punto  1)  del  decreto  del
Presidente della Corte del 18 maggio 2021; 
    deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 23 febbraio 2021, il Consiglio di Stato  in
sede  giurisdizionale,  sezione  terza,  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1, della  legge  della
Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di stabilita'  regionale
2019), in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, commi  primo,  secondo,
lettera l), e terzo, della Costituzione. 
    Il Collegio rimettente premette che  alcune  strutture  sanitarie
avevano impugnato, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale  per
il Lazio, la circolare della Regione Lazio del 1°  ottobre  2019,  n.
775071, recante «Disposizioni relative  alla  progressiva  attuazione
dell'articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018, n.  13»,  nella
parte in cui  stabilisce  che  il  personale  sanitario  dedicato  ai
servizi alla persona delle strutture  sanitarie  private  accreditate
deve avere con la struttura un rapporto di lavoro dipendente regolato
dal contratto collettivo  nazionale  di  lavoro  (CCNL)  sottoscritto
dalle   associazioni   maggiormente   rappresentative   nel   settore
sanitario. 
    A fronte del rigetto del ricorso da parte del  giudice  di  primo
grado, le parti soccombenti interponevano appello ponendo  nuovamente
in  discussione,  sotto  plurimi   profili,   la   conformita'   alla
Costituzione dell'art. 9, comma 1, della predetta legge  regionale  e
deducendo, di qui, l'invalidita' derivata della circolare impugnata. 
    In  punto  di  rilevanza,  il  Consiglio  di   Stato   rimettente
sottolinea  che  la  legittimita'  della  norma  regionale  censurata
costituisce il  fondamento  anche  di  quella  degli  atti  attuativi
impugnati e che sulla loro natura immediatamente lesiva,  in  assenza
di gravame incidentale da parte  dell'amministrazione  regionale,  si
sarebbe determinato un giudicato  interno.  Il  rimettente  evidenzia
che,  inoltre,  la  stessa  disposizione  ha  comunque  una   valenza
immediatamente precettiva nei confronti degli operatori del settore. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio premette  che
una  previsione  analoga  a  quella  dettata  dalla  norma  regionale
impugnata era contenuta nel decreto  del  Commissario  ad  acta  alla
sanita'  della  Regione  Lazio  n.   376   del   17   novembre   2016
(Accreditamento strutture sociosanitarie residenziali assistenziali e
riabilitative. Integrazione DPCA 00090/2010. Contrattualizzazione del
personale  dedicato  ai  servizi   alla   persona   nelle   strutture
sociosanitarie residenziali assistenziali  e  riabilitative)  ed  era
stata gia' oggetto di annullamento da parte del  Consiglio  di  Stato
con la sentenza n. 3303 del 2019. Tale pronuncia aveva in particolare
ritenuto che il provvedimento commissariale si era posto al di  fuori
dei requisiti per l'accreditamento stabiliti dal decreto  legislativo
30 dicembre 1992,  n.  502  (Riordino  della  disciplina  in  materia
sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23  ottobre  1992,  n.
421), anche alla luce del decreto legislativo 15 giugno 2015,  n.  81
(Disciplina organica  dei  contratti  di  lavoro  e  revisione  della
normativa in tema di mansioni, a  norma  dell'articolo  1,  comma  7,
della legge 10 dicembre 2014, n. 183), cosiddetto Jobs Act. 
    Il  giudice  a  quo  sottolinea  dunque   che,   essendosi   gia'
pronunciato su tali aspetti, l'unica questione da decidere e' se  una
previsione di questo tipo possa essere invece contenuta in una  legge
regionale. 
    Cio' posto, il Consiglio di Stato dubita, in primo  luogo,  della
compatibilita' della norma censurata con gli artt. 3 e 41  Cost.,  in
quanto  comprimerebbe  eccessivamente   l'autonomia   privata   delle
strutture  sanitarie  accreditate  in   termini   di   organizzazione
dell'impresa. 
    Inoltre,  il  Collegio  denuncia  un  possibile  contrasto  della
medesima norma con l'art. 117, primo comma, Cost.,  in  relazione  al
rispetto  delle  norme  comunitarie  e  al  generale   principio   di
ragionevolezza e proporzionalita'. 
    Pone altresi' in dubbio  il  Consiglio  di  Stato  rimettente  la
compatibilita' dell'art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del
2018 con l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., ossia  con  la
competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento  civile  e
cio' laddove «impone il recepimento di determinati accordi  sindacali
al di sopra delle soglie previste dal legislatore nazionale». 
    Invero, il limite inserito nella norma regionale  non  troverebbe
corrispondenza ne' nell'art. 8-sexies del d.lgs. n. 502 del 1992, ne'
nel d.lgs. n. 81 del 2015. Di qui anche  la  ritenuta  non  manifesta
infondatezza di dubbi di legittimita' costituzionale con  riferimento
alla delimitazione della competenza legislativa concorrente regionale
prevista dall'art. 117, terzo comma, Cost. 
    2.- Con atto depositato il 13 settembre 2021, si sono  costituite
in giudizio le societa' Aurelia 80 spa, Villa von  Siebenthal  srl  e
Casa di cura  Citta'  di  Roma  spa,  rilevando  che  la  Regione  ha
erroneamente   ritenuto   di   essere   legittimamente    intervenuta
nell'ambito della propria competenza concorrente ex art.  117,  terzo
comma, Cost.,  nelle  materie  «tutela  della  salute»  e  «tutela  e
sicurezza del lavoro». 
    In  realta',  la  norma  censurata   inciderebbe   sui   rapporti
contrattuali che si instaurano tra soggetti privati nell'ambito della
sanita' privata accreditata, ponendosi cosi' in contrasto con  l'art.
117, secondo comma, lettera  l),  Cost.,  atteso  che  la  competenza
esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ricomprende la
disciplina dei rapporti di diritto privato rispetto  alla  quale  non
sono ammesse differenze di carattere territoriale. Ne'  si  rinviene,
del resto, nella legislazione statale di riferimento  la  limitazione
introdotta a carico delle  strutture  sanitarie  private  accreditate
dall'art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018. 
    Deducono inoltre le parti costituite il contrasto della  predetta
disposizione anche  con  gli  altri  parametri  evocati  dal  giudice
rimettente, poiche' la norma non sarebbe funzionale alla tutela della
salute, bensi' a quella  dell'occupazione,  e  non  effettuerebbe  un
adeguato bilanciamento tra  i  valori  costituzionali  coinvolti,  in
danno della liberta' di impresa sancita dall'art. 41 Cost. 
    3.- Con atto del 2 settembre 2021, si e' costituita  in  giudizio
la Regione Lazio eccependo in  via  pregiudiziale  l'inammissibilita'
delle questioni, sia perche' aventi  ad  oggetto  una  circolare,  di
valore regolamentare, e non una norma  primaria  di  legge,  sia  per
l'individuazione solo parziale delle disposizioni interposte rispetto
all'evocata violazione della competenza esclusiva dello  Stato  nella
materia «ordinamento civile». 
    Nel merito, la Regione deduce la non fondatezza delle  questioni,
osservando, in primo  luogo,  quanto  alla  violazione  dell'art.  41
Cost., che la libera iniziativa economica  privata  ben  puo'  essere
limitata per il perseguimento di uno scopo di carattere  sociale,  da
individuarsi,  nell'ipotesi  considerata,  tanto  nella  tutela   dei
lavoratori prevista dall'art. 36 Cost., quanto in quella della salute
che, in virtu' dell'art. 32 Cost., e' soprattutto un interesse  della
collettivita'. 
    Evidenzia, inoltre, la Regione che  la  legge  censurata  non  ha
travalicato la competenza statale in materia di «ordinamento civile»,
essendosi limitata a prevedere, ferma la possibilita'  di  scelta  da
parte delle strutture accreditate dello strumento  a  tal  fine  piu'
idoneo, l'obbligo di instaurare con il personale  sanitario  dedicato
ai servizi alla persona un rapporto di  dipendenza,  funzionale  alla
garanzia della qualita' del servizio, in  una  prospettiva  tanto  di
continuita' medico-paziente, quanto di  "tranquillita'"  del  singolo
operatore sanitario. 
    4.- Con memoria depositata il  16  marzo  2022,  le  parti  hanno
replicato alle deduzioni contenute nell'atto  di  costituzione  della
Regione Lazio. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 23 febbraio 2021 (r. o. n. 112  del  2021),
il Consiglio di Stato in  sede  giurisdizionale,  sezione  terza,  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma
1, della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge  di
stabilita' regionale 2019), in riferimento agli artt. 3,  41  e  117,
commi primo, secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione. 
    Il Collegio rimettente premette che  alcune  strutture  sanitarie
avevano impugnato, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale  per
il Lazio, la circolare della Regione Lazio del 1°  ottobre  2019,  n.
775071, recante «Disposizioni relative  alla  progressiva  attuazione
dell'articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018, n.  13»,  nella
parte in cui  stabilisce  che  il  personale  sanitario  dedicato  ai
servizi alla persona delle strutture  sanitarie  private  accreditate
deve avere con la struttura un rapporto di lavoro dipendente regolato
dal contratto collettivo  nazionale  di  lavoro  (CCNL)  sottoscritto
dalle   associazioni   maggiormente   rappresentative   nel   settore
sanitario. 
    A fronte del rigetto del ricorso da parte del  giudice  di  primo
grado,  le  parti  soccombenti  proponevano  appello  lamentando   un
contrasto, sotto plurimi profili, dell'art. 9, comma 1,  della  legge
reg. Lazio n. 13 del 2018 con la Costituzione,  e  deducendo  di  qui
l'invalidita' derivata della circolare impugnata. 
    In  punto  di  rilevanza,  il  Consiglio  di   Stato   rimettente
sottolinea che la norma regionale censurata costituisce il fondamento
anche degli atti attuativi impugnati. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza,  il  Collegio  dubita  in
primo luogo della compatibilita'  della  norma  censurata  -  che  ha
sostanzialmente  riprodotto  sotto  tali  profili  il  contenuto  dei
decreti del Commissario ad acta alla sanita' della Regione  Lazio  n.
376 del 17 novembre  2016  (Accreditamento  strutture  sociosanitarie
residenziali  assistenziali  e   riabilitative.   Integrazione   DPCA
00090/2010. Contrattualizzazione del personale  dedicato  ai  servizi
alla   persona   nelle    strutture    sociosanitarie    residenziali
assistenziali  e  riabilitative)  e  n.  422  del  5   ottobre   2017
(Accreditamento delle strutture sanitarie. Modifica  ed  integrazione
del Decreto del Commissario ad Acta n. 00090/2010 e del  Decreto  del
Commissario ad Acta n. 376/2016. Contrattualizzazione  del  personale
dedicato ai servizi alla persona), annullati dallo  stesso  Consiglio
di Stato con sentenza del 21 marzo 2019, n. 3303 - con gli artt. 3  e
41 Cost., nonche' con l'art. 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in
relazione al principio di ragionevolezza e proporzionalita' affermato
a piu' riprese nella giurisprudenza europea. 
    In particolare, il giudice a quo rileva a questo riguardo che  il
perseguimento dell'utilita' sociale,  pure  richiamata  dall'art.  41
Cost.,  deve  essere  adeguatamente  bilanciato  con   altri   valori
rilevanti quali la liberta' di  impresa  e  la  stessa  tutela  della
salute dei destinatari delle prestazioni. 
    Il Consiglio di Stato lamenta, inoltre, la  violazione  dell'art.
117, secondo comma, lettera  l),  Cost.,  da  parte  del  legislatore
regionale, in quanto, con una disposizione incidente sulle  modalita'
di disciplina  del  rapporto  di  lavoro,  mediante  il  rinvio  alla
contrattazione collettiva, avrebbe  invaso  la  competenza  esclusiva
dello Stato in  materia  di  «ordinamento  civile».  Cio'  in  quanto
avrebbe introdotto limitazioni non contemplate dall'art. 8-sexies del
decreto  legislativo  30  dicembre  1992,  n.  502  (Riordino   della
disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della  legge
23 ottobre 1992, n. 421), anche alla luce del decreto legislativo  15
giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei  contratti  di  lavoro  e
revisione della normativa in tema di mansioni, a norma  dell'articolo
1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), con cio'  violando
in ogni caso anche la competenza concorrente della Regione in materia
di tutela della salute e di tutela e sicurezza  del  lavoro,  di  cui
all'art. 117, terzo comma, Cost. 
    2.- La Regione Lazio, costituita in giudizio, ha eccepito in  via
preliminare l'inammissibilita' delle questioni, in quanto  le  stesse
avrebbero ad oggetto la circolare della Regione Lazio del 1°  ottobre
2019, recante  «Disposizioni  relative  alla  progressiva  attuazione
dell'articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018,  n.  13»,  atto
impugnato dalle strutture sanitarie nel  giudizio  principale,  ossia
una norma di valore regolamentare sottratta al sindacato della Corte. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il Consiglio di Stato rimettente censura non gia'  la  circolare,
ma la disposizione di legge regionale (art. 9, comma 1, citato) della
quale la prima  costituisce  attuazione.  La  disposizione  censurata
sancisce direttamente l'onere, da  parte  delle  strutture  sanitarie
accreditate, di assumere personale dedicato ai servizi di  cura  alla
persona con contratto di  lavoro  dipendente  conforme  al  CCNL  del
settore, al fine di soddisfare i requisiti di carattere organizzativo
necessari per conservare l'accreditamento. 
    Quindi oggetto delle censure di illegittimita' costituzionale  e'
la disposizione  di  un  atto  normativo  primario  che  rientra  nel
sindacato di questa Corte. 
    3.-  Ancora  in  via  preliminare,  le  sollevate  questioni   di
legittimita' costituzionale sono, poi, ammissibili con riferimento al
requisito della rilevanza, avendo il Consiglio  di  Stato  rimettente
motivato in ordine alla ritenuta lesivita'  dell'atto  impugnato  (la
richiamata circolare), la  cui  legittimita',  oggetto  del  giudizio
principale,  e'  condizionata,  direttamente  e   unicamente,   dallo
scrutinio delle questioni stesse;  e,  anche  se  queste  fissano  ed
esauriscono l'oggetto del contendere tra le parti nella controversia,
cio' che fa venir meno  il  carattere  incidentale  del  giudizio  di
costituzionalita'. 
    Inoltre, l'ordinanza di rimessione contiene una motivazione  che,
quanto ai parametri costituzionali, e' certamente  sufficiente;  tale
non e' invece la motivazione quanto  al  parametro  interposto  della
normativa dell'Unione europea. 
    Quest'ultima viene  richiamata  in  termini  generici,  e  quindi
inadeguati, in riferimento «al rispetto delle norme  comunitarie,  in
relazione al generale principio di ragionevolezza e  proporzionalita'
della disposizione in relazione alla finalita' di maggior  efficienza
della   prestazione   sanitaria».   Peraltro,   il   «principio    di
ragionevolezza e  proporzionalita'»  viene  evocato  per  dedurre  il
necessario bilanciamento tra le liberta' - segnatamente  la  liberta'
d'impresa - e i diritti fondamentali garantiti dai Trattati  europei,
con una prospettazione che si sovrappone, senza specifici riferimenti
normativi e  quindi  in  termini  generici,  a  quella,  maggiormente
puntuale, sviluppata con riguardo ai parametri interni. 
    Deve essere, quindi, dichiarata inammissibile la questione con la
quale il Consiglio di Stato rimettente assume la violazione, da parte
della disposizione censurata, dell'art. 117, primo comma,  Cost.,  in
relazione al «principio  di  ragionevolezza  e  proporzionalita'»  di
derivazione europea. 
    4.-  Passando  al  merito  delle  questioni,  e'  preliminarmente
opportuno richiamare, in sintesi, il quadro normativo di  riferimento
nel quale si collocano le questioni di legittimita' costituzionale. 
    4.1.- Su un piano generale,  occorre  ricordare  che  la  riforma
realizzata - in forza della delega di cui all'art. 1 della  legge  23
ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la
revisione  delle  discipline  in  materia  di  sanita',  di  pubblico
impiego, di previdenza e di finanza territoriale) - dal d.lgs. n. 502
del 1992, superando l'assetto delineato dalla legge 23 dicembre 1978,
n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), ha prefigurato
una concorrenza tra le prestazioni offerte da strutture  pubbliche  e
private munite dell'accreditamento cosiddetto istituzionale. 
    Detto accreditamento, come ha avuto occasione di precisare questa
Corte, e' mirato al  riconoscimento  del  possesso  da  parte  di  un
soggetto  o  di  un  organismo  di  prescritti  specifici   requisiti
(sentenza n. 416 del 1995). 
    Nell'assetto   originario   del   d.lgs.   n.   502   del   1992,
l'accreditamento  cosiddetto   istituzionale   era   subordinato   al
possesso, da parte  delle  strutture  sanitarie,  sia  pubbliche  che
private, di determinati standard  di  qualificazione  e  si  riteneva
avesse valenza autorizzatoria vincolata al ricorrere degli stessi. 
    In  seguito,  l'art.  8-quater  del  d.lgs.  n.  502  del   1992,
introdotto in una prospettiva di riduzione della  spesa  dal  decreto
legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme  per  la  razionalizzazione
del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge
30  novembre  1998,  n.   419),   ha   subordinato,   al   comma   1,
l'accreditamento anche alla funzionalita' della struttura richiedente
«agli indirizzi di programmazione regionale». 
    Pertanto, nell'assetto attuale, l'accreditamento e'  strettamente
connesso anche alle scelte programmatorie che governano  la  funzione
di  contingentamento  e  di  selezione  all'ingresso   nel   Servizio
sanitario  nazionale  (SSN)  e  piu'  specificamente  regionale.   Di
conseguenza, non tutti i privati in possesso  dei  requisiti  tecnici
richiesti hanno diritto a ottenerlo, ma solo quelli la cui  attivita'
si inserisce in  modo  appropriato  nella  programmazione  regionale:
sussiste, dunque, una sfera di discrezionalita'  dell'amministrazione
nella  concessione  dell'accreditamento,  in   considerazione   della
valutazione della rispondenza  e  adeguatezza  agli  obiettivi  della
programmazione. 
    In questo bilanciamento rileva anche  la  compatibilita'  con  le
risorse organizzative e finanziarie disponibili (sentenza n. 200  del
2005). 
    L'accreditamento  postula  oggi  non  solo  una  valutazione,  di
carattere vincolato, circa la  sussistenza  in  capo  alla  struttura
sanitaria dei richiesti standard di qualificazione,  ma  ne  implica,
altresi', un'altra, avente carattere  discrezionale,  correlata  alla
programmazione regionale. 
    In proposito, la giurisprudenza  amministrativa  ha  riconosciuto
che l'accreditamento  e'  un  provvedimento  di  carattere  non  gia'
autorizzativo, bensi' abilitativo-concessorio  (Consiglio  di  Stato,
sezione terza, sentenza 27 febbraio 2018, n. 1206), che si colloca  a
meta' strada tra la concessione di servizio pubblico e l'abilitazione
tecnica idoneativa (ex multis, Consiglio  di  Stato,  sezione  terza,
sentenze 18 ottobre 2021, n. 6954,  30  aprile  2020,  n.  2773  e  3
febbraio 2020, n. 824). 
    Mediante l'accreditamento le strutture  autorizzate  acquisiscono
lo status di soggetto idoneo a erogare prestazioni e servizi sanitari
per conto del SSN. 
    L'abilitazione a fornire, in concreto, prestazioni a  carico  del
SSN segue, invece, solo alla stipula di accordi contrattuali che,  ai
sensi dell'art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del  1992,  definiscono
programmi di attivita', con indicazione dei volumi e delle  tipologie
di prestazioni erogabili. 
    L'effetto dell'accreditamento, quindi, e' quello di abilitare  il
singolo operatore ad erogare prestazioni sanitarie  "per  conto"  del
SSN, il che prelude all'esercizio di  attivita'  sanitarie  anche  "a
carico" dello stesso per il  tramite  della  stipula  dei  successivi
accordi contrattuali (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza  18
ottobre 2021, n. 6954). 
    4.2.- La Regione, in qualita'  di  amministrazione  titolare  del
servizio pubblico di assistenza sanitaria, e' il soggetto che concede
l'accreditamento ed e' chiamata dallo stesso art. 8-quater del d.lgs.
n. 502 del 1992 a stabilire i requisiti  ulteriori  a  quelli  minimi
individuati  in  via  generale  da  un  atto  di   indirizzo   e   di
coordinamento statale, costituito, ancora all'attualita', dal  d.P.R.
14 gennaio 1997 (Approvazione dell'atto di indirizzo e  coordinamento
alle regioni e alle province autonome di  Trento  e  di  Bolzano,  in
materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi
per l'esercizio delle attivita' sanitarie da  parte  delle  strutture
pubbliche e private). 
    Alle  Regioni  sono  pertanto  demandate  la   disciplina   delle
modalita' di accertamento  e  verifica  sul  rispetto  dei  requisiti
minimi, l'individuazione di standard  addizionali  di  qualita',  che
costituiscono requisiti ulteriori per  l'accreditamento,  nonche'  la
definizione delle procedure per il rilascio  dell'accreditamento,  le
ipotesi di revoca e i controlli. 
    La forte  connotazione  pubblicistica  dell'accreditamento  e  la
crescente  valorizzazione  della  sua  funzione  di  garanzia   delle
prestazioni  erogate  dalle   strutture   sanitarie   private   hanno
costituito anche il fondamento sul quale si  e'  articolata  l'intesa
tra lo Stato, le Regioni e le Province  autonome  intervenuta  il  20
dicembre 2012, sul documento recante «Disciplinare per  la  revisione
della normativa dell'accreditamento, in attuazione  dell'articolo  7,
comma 1, del nuovo Patto per la salute per gli anni 2010-2012». 
    La sottoscrizione di  tale  intesa  e'  avvenuta  allo  scopo  di
promuovere una revisione della normativa in materia di accreditamento
e di remunerazione delle prestazioni sanitarie,  con  l'obiettivo  di
pervenire alla istituzione di un sistema di  accreditamento  uniforme
sul piano nazionale. 
    Ai fini dell'esame delle questioni  sollevate  dal  Consiglio  di
Stato, rileva, nell'ambito dell'intesa, la previsione riguardante  le
competenze del personale.  Si  prevede,  in  particolare,  che  debba
essere  assicurato  che  il  personale  delle  strutture  accreditate
«possieda,  acquisisca  e  mantenga  le  conoscenze  e  le   abilita'
necessarie  alla  realizzazione  in  qualita'   e   sicurezza   delle
specifiche attivita'».  Sono  presi  a  tal  fine  in  considerazione
l'attivita'  di  programmazione,   la   verifica   della   formazione
necessaria, le modalita' di inserimento e  l'addestramento  di  nuovo
personale. 
    4.3.- In questo piu' ampio contesto normativo, vanno considerate,
inoltre, le disposizioni dettate dalla legge della  Regione  Lazio  3
marzo  2003,  n.  4  (Norme  in  materia   di   autorizzazione   alla
realizzazione di strutture e all'esercizio di attivita'  sanitarie  e
socio-sanitarie,  di  accreditamento  istituzionale  e   di   accordi
contrattuali). 
    In particolare, ai sensi dell'art.  13,  comma  1,  «[l]a  Giunta
regionale, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, stabilisce, con apposito  provvedimento,  sentita  la
competente  commissione  consiliare,   i   requisiti   ulteriori   di
qualificazione  per  il  rilascio  dell'accreditamento  nonche'   gli
indicatori ed i livelli di accettabilita' dei relativi valori per  la
verifica dell'attivita' svolta e dei risultati raggiunti in relazione
alle prestazioni accreditate». 
    Con tale provvedimento sono, altresi',  individuati  i  requisiti
essenziali la cui mancanza comporta la revoca dell'accreditamento. 
    Un rilievo particolare, ai fini  delle  questioni  in  esame,  ha
l'art. 17-bis della medesima legge regionale che prevede, al comma 1,
che «[n]ell'ambito dei processi di  accreditamento  istituzionale  la
Giunta regionale opera per salvaguardare i livelli occupazionali  del
settore». 
    4.4.- Proprio in  attuazione  di  tale  ultima  disposizione,  il
decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio n. 376  del  2016
aveva  contemplato,  quale  ulteriore  requisito  di   qualificazione
necessario per il rilascio dell'accreditamento, che  nelle  strutture
sociosanitarie residenziali, sia assistenziali sia riabilitative,  il
personale avente qualifica di  infermiere,  educatore  professionale,
fisioterapista, tecnico sanitario e operatore sociosanitario o figura
equivalente o  dedicata  ai  servizi  alla  persona  avesse,  con  il
soggetto gestore della struttura, un rapporto  di  lavoro  dipendente
regolato dal  CCNL  sottoscritto  dalle  associazioni  sindacali  dei
datori   di   lavoro   e   dei   lavoratori   comparativamente   piu'
rappresentative nel settore sanitario. 
    Il  successivo  decreto  commissariale  n.  422  del  2017  aveva
individuato  poi  le  tempistiche  di   attuazione   della   relativa
previsione e la percentuale, nella misura dell'80 per cento, di detto
personale da assumere con contratto  di  lavoro  dipendente  conforme
alle previsioni della contrattazione collettiva nazionale di  settore
per ottenere (o conservare) l'accreditamento. 
    Tali decreti erano stati  impugnati,  con  distinti  ricorsi,  da
alcune strutture sanitarie private dinanzi al TAR Lazio che li  aveva
annullati in parte qua, rilevando che  le  relative  disposizioni  si
ponevano  al  di  fuori  del  perimetro  tanto  dei   requisiti   per
l'accreditamento  delle  strutture  sanitarie,   previsti   dall'art.
8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, quanto dell'art. 2 del d.lgs. n.
81 del 2015, che consente l'utilizzo di rapporti  di  collaborazione,
specie per le  professioni  intellettuali  tra  le  quali  dovrebbero
essere ascritte anche quelle infermieristiche, diversi da  quelli  di
natura subordinata. 
    La medesima statuizione era confermata  da  successive  decisioni
del Consiglio di Stato che, in particolare, ha ritenuto  indimostrata
la correlazione tra la natura del rapporto di  lavoro  degli  addetti
alle strutture accreditate con la tutela  della  salute,  essendo  la
tipologia  del  rapporto  di  lavoro,  di   contro,   prevalentemente
correlata al diverso ed  eterogeneo  tema  della  salvaguardia  della
stabilita' occupazionale nel  settore  sanitario  privato,  interesse
che,  pur  in  astratto  meritorio,  avrebbe  richiesto   un'espressa
previsione normativa primaria, che  invece  mancava  nella  normativa
statale e regionale (Consiglio di Stato, sezione terza,  sentenza  27
settembre 2019, n. 6473). 
    5.- Nel contesto descritto si colloca,  dunque,  l'art.  9  della
legge  reg.  Lazio  n.  13  del  2018,  attinto  dalle  questioni  di
legittimita' costituzionale in esame, il quale,  all'interno  di  una
norma rubricata «Disposizioni di salvaguardia dell'occupazione  nelle
strutture  che  erogano  attivita'  sanitarie  e   socio   sanitarie.
Definizione agevolata in  materia  di  controlli  esterni  in  ambito
sanitario», prevede, al comma 1, che «[a] tutela della qualita' delle
prestazioni erogate e del corretto rapporto tra costo  del  lavoro  e
quantificazione delle tariffe, il  personale  sanitario  dedicato  ai
servizi  alla  persona,  necessario   a   soddisfare   gli   standard
organizzativi, dovra' avere con la struttura un rapporto di lavoro di
dipendenza regolato dal  Contratto  collettivo  nazionale  di  lavoro
(CCNL) sottoscritto dalle associazioni  maggiormente  rappresentative
nel settore sanitario». 
    E'  questa  (l'art.  9,  comma  1)  una   disposizione   isolata,
nell'ambito della legge regionale di stabilita' per il 2019,  diversa
anche da quelle  dettate  dai  successivi  commi  (da  2  a  5),  che
riguardavano la definizione agevolata in materia di controlli esterni
in ambito sanitario, uno dei quali (il comma 2) e',  peraltro,  stato
oggetto di una pronuncia di illegittimita'  costituzionale  (sentenza
n. 217 del 2020), in accoglimento del ricorso del Governo. 
    Con la disposizione censurata il legislatore regionale ha  inteso
approntare un fondamento normativo all'analoga regola gia' posta  dal
decreto commissariale, annullato in sede giurisdizionale. Ma cio'  ha
fatto - secondo il Consiglio di Stato rimettente -  violando  per  un
verso le regole sul riparto di competenze tra Stato e Regione e,  per
l'altro, i principi di ragionevolezza e proporzionalita',  quanto  ai
possibili limiti alla liberta' di iniziativa economica privata. 
    6.- Tutto cio' premesso, passando ora a esaminare nel  merito  le
censure  mosse  dall'ordinanza  di  rimessione,  le   questioni   che
investono il riparto delle competenze tra Stato e Regioni (art.  117,
secondo comma, lettera l, e terzo comma, Cost.) vanno dichiarate  non
fondate. 
    6.1.- Al riguardo, il Consiglio di Stato  rimettente  assume,  in
primo  luogo,  che  la  prescrizione,  da  parte  della  disposizione
censurata,  dell'ulteriore  condizione  relativa  all'assunzione  del
personale   dedicato   alla   cura    della    persona,    ai    fini
dell'accreditamento, travalicherebbe il  perimetro  della  competenza
esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile»  (art.  117,
secondo comma, lettera l, Cost.), anche  perche'  essa  contempla  il
recepimento di determinati accordi sindacali per  la  disciplina  dei
rapporti di lavoro con le strutture accreditate. 
    In proposito e' ben vero quanto ripetutamente affermato da questa
Corte, secondo cui la disciplina generale dei rapporti di lavoro  tra
privati  deve  essere  assoggettata  a  regole  che  ne  garantiscano
l'uniformita' a livello nazionale (sentenze n. 39 del 2022, n.  25  e
n. 20 del 2021 e n. 194 del 2020), sicche' il  legislatore  regionale
non puo' emanare una normativa che incida su un  rapporto  di  lavoro
gia'  sorto  e  che,  nel  regolarne  il  trattamento  giuridico   ed
economico,  si  sostituisca  a  quella  statale  e,  per  essa,  alla
contrattazione collettiva (sentenze n. 153 del 2021, n. 78  e  n.  16
del 2020). Rientrano, infatti, nella materia «ordinamento civile» gli
interventi  legislativi  che  dettano  misure  relative  a   rapporti
lavorativi gia' in essere e che si  impongono  all'autonomia  privata
con il carattere dell'inderogabilita' (vedi, da ultimo, sentenza n. 9
del 2022). 
    La disposizione censurata, tuttavia,  non  invade  la  competenza
esclusiva statale in materia di ordinamento  civile,  in  quanto  non
regola - ne' direttamente, ne' indirettamente - i rapporti di  lavoro
gia' in essere tra le strutture sanitarie e  i  propri  addetti,  ne'
estende ad essi l'applicazione di determinati  contratti  collettivi,
bensi' si limita a contemplare un requisito per il raggiungimento  da
parte  delle  strutture  sanitarie   degli   standard   organizzativi
necessari a conseguire o a conservare l'accreditamento. 
    Essa «non definisce diritti e obblighi di un rapporto  di  lavoro
gia' sorto, ma si colloca in una fase organizzativa, antecedente allo
stesso» (sentenza n. 241 del 2021; in senso conforme, sentenze n.  36
del 2021, n. 77 del 2020 e n. 20 del 2020). 
    Si    tratta,    dunque,    di    una    previsione     incidente
sull'organizzazione sanitaria, che e' parte integrante della  materia
costituita dalla «tutela della salute», riconducibile alla competenza
concorrente di cui al terzo comma dell'art. 117  Cost.,  «costituendo
le modalita' di organizzazione  del  servizio  sanitario  la  cornice
funzionale ed operativa che garantisce la  qualita'  e  l'adeguatezza
delle prestazioni erogate» (sentenza n. 9 del 2022). 
    Non rientra, pertanto, nella competenza statale  esclusiva  nella
materia «ordinamento civile» e deve  essere  piuttosto  ricondotta  a
quella concorrente «tutela della  salute»  una  misura,  come  quella
recata dalla disposizione censurata, che pone un requisito  ulteriore
per  l'accreditamento  delle   strutture   sanitarie   nel   contesto
dell'organizzazione del servizio sanitario regionale. 
    6.2.- Ne' puo' ritenersi che la Regione abbia superato  i  limiti
della propria competenza concorrente  in  materia  di  «tutela  della
salute», di cui all'art. 117, terzo comma,  Cost.,  stabilendo  detto
ulteriore requisito per l'accreditamento. 
    E' la stessa legislazione statale a prevedere,  infatti,  che  la
Regione, quale soggetto deputato al  rilascio  del  provvedimento  di
accreditamento delle strutture sanitarie, possa introdurre  requisiti
di qualificazione ulteriori rispetto a quelli a tal fine  contemplati
dall'art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992. 
    Come  e'  stato  piu'  volte  sottolineato   da   questa   Corte,
l'individuazione di detti requisiti deve avvenire  nel  rispetto  dei
principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (sentenze  n.
195 e n. 36 del 2021 e n. 161 del 2016). 
    Costituiscono in particolare principi fondamentali in materia  di
tutela della  salute  le  disposizioni  dettate  dagli  artt.  8-ter,
8-quater e 8-quinquies  del  d.lgs.  n.  502  del  1992  in  tema  di
autorizzazioni e accreditamenti, con le quali il legislatore  statale
ha   inteso   vincolare   le   strutture   socio-sanitarie    private
all'osservanza di  requisiti  essenziali,  dai  quali  far  dipendere
l'erogazione di prestazioni riferite  alla  garanzia  di  un  diritto
fondamentale come quello alla salute (sentenza n. 106 del 2020). 
    Alla stregua di quanto  gia'  evidenziato,  l'art.  8-quater  del
d.lgs. n. 502 del 1992 demanda proprio alle Regioni  l'individuazione
di  requisiti  ulteriori,  sia  sul  piano  tecnico  che  su   quello
organizzativo, modulati anche secondo la tipologia delle  prestazioni
erogate dalle singole strutture. 
    E' quindi la stessa normativa statale a  limitarsi  a  dettare  i
principi generali, consentendo per  il  resto  l'autonomo  esplicarsi
delle competenze  normative  regionali  negli  aspetti  di  dettaglio
riguardanti (anche) l'organizzazione del servizio. 
    In particolare sono organizzativi, e nel loro ambito  si  colloca
quello prescritto della disposizione censurata, anche i requisiti che
attengono al personale delle strutture  sanitarie,  i  quali  -  come
riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato,
sezione terza, sentenza 12 ottobre 2020, n. 6102) - devono  garantire
adeguate condizioni di organizzazione interna, con  riferimento  alla
dotazione  quantitativa  e  alla  qualificazione  professionale   del
personale effettivamente impiegato. 
    6.3.- Neppure vi  e'  stato  sconfinamento  nell'esercizio  della
potesta' legislativa riconosciuta alla Regione dall'art.  117,  terzo
comma, Cost., in materia di «tutela e sicurezza del  lavoro»,  avendo
la disposizione censurata un contenuto e una finalita' di  promozione
attiva dell'occupazione e non gia' di regolamentazione del rapporto. 
    Il prescritto  requisito  per  l'accreditamento,  pur  avendo  ad
oggetto la tipologia del rapporto di lavoro del personale  che  opera
nelle strutture sanitarie, e' volto a garantire la maggiore idoneita'
di queste ultime ad erogare prestazioni di cura della persona e  solo
indirettamente favorisce  il  rapporto  di  dipendenza,  in  sintonia
peraltro con la disciplina statale,  secondo  cui  il  «contratto  di
lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma  comune
di rapporto di lavoro» (art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015). 
    La  disposizione  censurata  rappresenta,  quindi,   una   misura
ascrivibile, seppur di riflesso, alle politiche  attive  del  lavoro,
non precluse al  legislatore  regionale  nel  rispetto  dei  principi
fondamentali posti dalla legislazione  dello  Stato.  Del  resto,  la
stessa  normativa  statale  (art.  11  del  decreto  legislativo   14
settembre 2015, n. 150, recante «Disposizioni per il  riordino  della
normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche  attive,
ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre  2014,  n.
183») riconosce, al comma 2, alle Regioni le «competenze  in  materia
di programmazione di politiche attive del  lavoro»,  con  particolare
riferimento  alla  «identificazione  della  strategia  regionale  per
l'occupazione». 
    Cio'  pero'  -  com'e'  di  tutta  evidenza  -  non  esonera   il
legislatore regionale dal rispetto di altri parametri  non  attinenti
alla competenza, quali nella specie gli artt. 3 e 41  Cost.,  la  cui
violazione e' parimenti denunciata nell'ordinanza di rimessione. 
    7.-  Sono,  invece,  fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.,  le
quali - per essere strettamente connesse - possono  essere  esaminate
congiuntamente. 
    7.1.- L'iniziativa economica privata, come enuncia il primo comma
dell'art. 41 Cost., e' oggetto di una liberta' garantita,  nella  cui
protezione  si  esprime,  quale  principio  generale  di  ispirazione
liberista, la tutela costituzionale dell'attivita' d'impresa, pur nel
rispetto dell'«utilita' sociale» con cui non puo' essere in contrasto
(secondo comma dell'art. 41). 
    In simmetria con il parametro interno, la liberta' di  impresa  -
da leggere oggi anche alla luce dei  Trattati  e,  in  generale,  del
diritto  dell'Unione  europea  (sentenza  n.  218  del  2021)  -   e'
riconosciuta,  altresi',  dall'art.  16  della  Carta   dei   diritti
fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza  il  7  dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE). 
    Le possibili limitazioni di tale liberta' devono, innanzi  tutto,
avere una base legale, stante «la regola della riserva di  legge  nel
campo delle private liberta'  nella  materia  economica,  comprensive
della liberta' di iniziativa» (sentenza n. 40 del 1964);  regola  per
cui le «determinazioni della legge [...] possono essere diverse anche
di contenuto, a seconda della natura dell'attivita' economica e della
utilita' sociale da perseguire ma non possono mai mancare del  tutto»
(sentenza n. 388 del 1992). 
    Inoltre, il  bilanciamento  tra  lo  svolgimento  dell'iniziativa
economica  privata  e  la  salvaguardia  dell'utilita'  sociale  deve
rispondere,  in  ogni  caso,  ai   principi   di   ragionevolezza   e
proporzionalita' (art. 3, primo comma, Cost.). 
    Si tratta di una «complessa operazione di bilanciamento»  per  la
quale vengono in  evidenza  «il  contesto  sociale  ed  economico  di
riferimento», «le esigenze generali del mercato in cui si realizza la
liberta'  di  impresa»,  nonche'  «le  legittime  aspettative   degli
operatori» (sentenza n. 218 del 2021). 
    Nel rispetto di tali principi non e' «configurabile  una  lesione
della liberta'  d'iniziativa  economica  allorche'  l'apposizione  di
limiti di ordine generale al suo esercizio  corrisponda  all'utilita'
sociale» (ancora, sentenza n. 218 del 2021). 
    Se e' vero, quindi,  che  la  liberta'  di  impresa  puo'  essere
limitata in ragione di tale bilanciamento,  tuttavia,  come  ha  piu'
volte sottolineato  questa  Corte,  per  un  verso,  l'individuazione
dell'utilita' sociale non deve essere arbitraria e, per un altro, gli
interventi  del  legislatore  non  possono  perseguirla  con   misure
palesemente incongrue (ex plurimis, sentenze n. 85 del 2020, n. 151 e
n. 47 del 2018, n. 16 del 2017, n. 203 del 2016, n. 56 del  2015,  n.
247 e n. 152 del 2010 e n. 167 del 2009). 
    Questi principi devono essere rispettati anche  nella  disciplina
legislativa  di  un'attivita'  economica  privata  integrata  in   un
pubblico servizio. Essa, infatti, e'  pur  sempre  espressione  della
liberta' di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost. 
    Peraltro,  anche  in   tale   evenienza,   gli   interventi   del
legislatore, pur potendo  incidere  sull'organizzazione  dell'impresa
privata, non possono perseguire l'utilita' sociale  con  prescrizioni
eccessive, tali da «condizionare le scelte imprenditoriali  in  grado
cosi'  elevato  da  indurre  sostanzialmente  la   funzionalizzazione
dell'attivita' economica [...], sacrificandone le opzioni di fondo  o
restringendone in rigidi confini lo spazio e l'oggetto  delle  stesse
scelte organizzative»  (sentenza  n.  548  del  1990)  o  in  maniera
arbitraria e con misure palesemente incongrue  (sentenza  n.  56  del
2015). 
    7.2.- Nella fattispecie in esame, la disposizione censurata (art.
9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del  2018)  costituisce  una
specificazione  dei  «requisiti  ulteriori»,   necessari,   oltre   i
«requisiti minimi», affinche' le strutture sanitarie private  possano
conseguire  l'accreditamento  e  quindi  si   lega,   in   linea   di
continuita', alla legge reg. Lazio n. 4 del 2003, la quale - come  si
e' gia' sopra rilevato - rappresenta la cornice normativa in  materia
di autorizzazione alla realizzazione di strutture e all'esercizio  di
attivita'   sanitarie   e    socio-sanitarie,    di    accreditamento
istituzionale e di  accordi  contrattuali,  quale  specificazione  di
quella di principio posta dalla legislazione  statale  (artt.  8-bis,
8-ter e 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992). 
    I requisiti minimi e quelli ulteriori  (previsti  rispettivamente
dell'art. 5 e dall'art. 13 della legge reg.  Lazio  n.  4  del  2003)
costituiscono  essi   stessi   elementi   indicatori   dell'idoneita'
all'attivita' di cura della salute della  persona  che  la  struttura
intende  svolgere  e   in   relazione   alla   quale   essa   domanda
l'accreditamento. 
    Quindi il fine di utilita' sociale che  viene  in  rilievo,  come
possibile limite della liberta' di attivita' economica privata, e' di
tipo   sanitario.   Appartiene,    come    specificazione    relativa
all'accreditamento, alla piu'  generale  finalita'  che  persegue  il
Servizio sanitario regionale, nel quale la struttura accreditata va a
integrarsi  una  volta  stipulato  l'accordo  contrattuale,  di   cui
all'art. 18 della legge reg. Lazio n. 4 del 2003. 
    In quest'ottica si colloca  anche  la  prescrizione  posta  dalla
disposizione censurata che concerne si' il  rapporto  di  lavoro  del
personale delle strutture accreditate, e quindi anche  la  tutela  di
quest'ultimo, ma pur sempre nella misura in cui cio'  non  pregiudica
irragionevolmente la liberta' di iniziativa economica  privata  e  il
fine stesso della cura della salute. 
    La competenza regionale, quantunque concorrente,  in  materia  di
tutela e sicurezza del lavoro legittima in linea di massima - come si
e' gia' detto - la previsione di un requisito ulteriore  che  attenga
al rapporto di impiego del personale delle strutture accreditate,  ma
solo nella misura in cui cio' sia coerente con il  perseguimento  del
fine sociale ultimo di una siffatta prescrizione. 
    L'art. 17-bis della legge reg. Lazio n. 4 del 2003,  come  visto,
gia' prevede -  in  termini  generali,  ma  proprio  con  riferimento
all'autorizzazione alla realizzazione di strutture e all'esercizio di
attivita' sanitarie e socio-sanitarie - specifiche  norme  di  tutela
dell'occupazione,  stabilendo  in  particolare  che  nell'ambito  dei
processi di accreditamento istituzionale la  Giunta  regionale  opera
per salvaguardare i livelli occupazionali del  settore.  Anche  sotto
questo profilo e' gia' previsto che, al fine  (pur  indiretto)  della
tutela  del  lavoro,  l'attivita'  regolatoria  della  Regione  possa
esplicarsi, in modo piu' mirato e  flessibile,  con  atti  di  natura
amministrativa. 
    Viceversa, la disposizione censurata detta  una  prescrizione  di
normazione primaria, molto puntuale  e  rigida,  quella  appunto  che
richiede che il  «  personale  sanitario  dedicato  ai  servizi  alla
persona» - ossia  tutto  tale  personale,  senza  ne'  eccezioni  ne'
graduazione in relazione  alle  varie  figure  professionali  e  alle
relative mansioni e funzioni - abbia con la struttura un «rapporto di
lavoro di dipendenza», connotato quindi dalla subordinazione, per  di
piu' regolato da una determinata  contrattazione  collettiva  (quella
posta  dal  CCNL   sottoscritto   dalle   associazioni   maggiormente
rappresentative nel settore sanitario). 
    Una  cosi'  penetrante  limitazione  del   potere   organizzativo
dell'imprenditore,   titolare    della    struttura    che    ambisce
all'accreditamento, risulta anche non coerente con  il  fine  sociale
della tutela della salute e non proporzionata al  suo  perseguimento.
Sono infatti ipotizzabili, come idonei a tal  fine,  soprattutto  per
alcune  figure  professionali  di  alta  qualificazione  nel  settore
sanitario, rapporti di lavoro autonomo di cui al Titolo III del Libro
V del codice civile (art. 1  della  legge  22  maggio  2017,  n.  81,
recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale
e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e  nei
luoghi del lavoro subordinato»), ne' possono escludersi  rapporti  di
collaborazione  che  si   concretino   in   prestazioni   di   lavoro
prevalentemente  personali,  continuative  e  le  cui  modalita'   di
esecuzione sono organizzate dal committente (art. 2 del d.lgs. n.  81
del 2015). 
    Nel quadro  delle  tipologie  di  rapporto  di  impiego  privato,
infatti, il lavoro subordinato a tempo indeterminato  costituisce  la
«forma comune» di rapporto di lavoro (art. 1 del  d.lgs.  n.  81  del
2015),  ma  non  gia'  quella  esclusiva,  come  invece  richiede  la
disposizione censurata. 
    A  cio'  si   aggiunge   che,   nella   particolare   fattispecie
dell'accreditamento delle strutture sanitarie private,  un  requisito
ulteriore, attinente  alla  tipologia  del  rapporto  di  lavoro  del
personale impiegato nella struttura, non puo' non richiedere comunque
una qualche flessibilita' per essere in sintonia e adattarsi all'atto
programmatorio, adottato di volta in volta  dalla  Giunta  regionale,
nell'ambito del piano sanitario regionale (art. 2  della  legge  reg.
Lazio n. 4 del 2003). 
    Del   resto,   finanche   la    stessa    circolare,    investita
dall'impugnazione oggetto del giudizio principale, pur mirata a  dare
attuazione alla disposizione censurata, non arriva a farne una  piena
applicazione  quanto,  sia  alle  figure  professionali   interessate
(perche' essa riguarda soltanto operatori sanitari con  qualifica  di
infermiere,  terapista  della  riabilitazione,  ostetrica   e   altra
equivalente o similare), sia alla  percentuale  complessiva  di  tale
personale (perche' concerne non gia' la totalita', ma fino all'80 per
cento, dell'organico necessario), sia alla contrattazione  collettiva
richiamata (perche' si fa riferimento, in alternativa, alla  garanzia
di condizioni economiche e giuridiche non inferiori). 
    La tutela del lavoro puo' anche essere  perseguita  nel  contesto
dell'organizzazione del servizio sanitario regionale, ma  pur  sempre
nel bilanciamento tra la liberta' di iniziativa  privata  e  il  fine
sociale della tutela della salute.  Viceversa,  con  la  disposizione
censurata  il  legislatore   regionale   ha   introdotto,   con   una
prescrizione rigida  e  generalizzata,  un  requisito  ulteriore  per
l'accreditamento,   senza   alcuna   graduazione    risultante    dal
bilanciamento tra i valori  costituzionali  in  gioco.  E  anzi,  una
siffatta previsione finisce finanche per  escludere  la  possibilita'
degli stessi operatori sanitari di prestare la propria attivita'  con
contratto di collaborazione o di  lavoro  autonomo  presso  strutture
accreditate. 
    Emerge cosi' il difetto  di  ragionevolezza  e  proporzionalita',
rispetto al fine sociale ultimo della  tutela  della  salute,  di  un
siffatto   rigido   requisito   ulteriore,   quale   previsto   dalla
disposizione  censurata  come  condizione  per  l'accreditamento   di
strutture operanti nel contesto del piano sanitario  regionale.  Cio'
si traduce in un limite irragionevole  alla  liberta'  di  iniziativa
economica privata. 
    7.3.- In  definitiva,  la  disposizione  censurata,  ponendo  una
regola non gia' tendenziale e modulabile, bensi' rigida  e  assoluta,
risulta essere in contrasto con  il  canone  della  ragionevolezza  e
proporzionalita' dell'intervento normativo rispetto al  fine  sociale
perseguito (art. 3 Cost.) e  limita  eccessivamente  la  liberta'  di
iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). 
    8.-  Va  pertanto  dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018. 
    Rimane comunque per la Regione - nell'ambito delle sue competenze
in tema  di  accreditamento  delle  strutture  sanitarie,  esercitate
mediante un equilibrato bilanciamento tra la liberta'  di  iniziativa
economica privata e i  fini  sociali,  in  particolare  quello  della
tutela della salute - la possibilita'  di  fissare,  quale  requisito
ulteriore per l'accreditamento, standard  organizzativi  piu'  idonei
anche quanto al rapporto di  impiego  del  personale  necessario  per
l'erogazione delle prestazioni sanitarie. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,
della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018,  n.  13  (Legge  di
stabilita' regionale 2019); 
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, della legge della reg.  Lazio  n
13 del 2018 - sollevata, con riferimento all'art. 117,  primo  comma,
della Costituzione, in relazione al «principio  di  ragionevolezza  e
proporzionalita'» della normativa dell'Unione europea - dal Consiglio
di Stato in sede  giurisdizionale,  sezione  terza,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe; 
    3)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del
2018, sollevate, in relazione agli artt. 117, commi secondo,  lettera
l), e terzo, Cost., dal Consiglio di Stato in  sede  giurisdizionale,
sezione terza, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2022. 
 
                                F.to: 
                     Giuliano AMATO, Presidente 
                     Giovanni AMOROSO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA