N. 128 SENTENZA 26 aprile - 26 maggio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Personale dell'Avvocatura generale dello  Stato  -
  Onorari e spese di  lite  liquidati  in  sentenza  a  carico  delle
  controparti  -  Computo  al  fine  del  raggiungimento  del  "tetto
  retributivo"   -   Denunciata   disparita'   di    trattamento    e
  irragionevolezza, violazione dei principi di  proporzionalita'  tra
  lavoro e retribuzione, di uguaglianza tributaria  e  di  necessaria
  istituzione in base alla legge di una  prestazione  patrimoniale  -
  Non fondatezza delle questioni. 
- Decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni,
  nella legge 11 agosto 2014, n. 114, art. 9, comma 1;  decreto-legge
  6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge
  22 dicembre 2011, n. 214, art. 23-ter, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3, 23, 36, 53 e 81. 
(GU n.22 del 1-6-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuliano AMATO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni
  AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo
  PATRONI GRIFFI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,
del decreto-legge 24 giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti  per  la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n. 114, in  combinato  disposto  con  l'art.  23-ter,
comma 1, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22  dicembre
2011, n. 214, promosso dal Consiglio di Stato,  sezione  quinta,  nel
procedimento vertente tra F. V. e il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e altri, con sentenza non definitiva  del  26  agosto  2020,
iscritta al n. 172 del registro ordinanze  2020  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  50,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2020. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  F.  V.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  26  aprile  2022  il  Giudice
relatore Augusto Antonio Barbera; 
    uditi l'avvocato Felice Laudadio per F.  V.  e  l'avvocato  dello
Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 26 aprile 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con sentenza non definitiva del 26 agosto 2020 (r.o.  n.  172
del 2020), il Consiglio di Stato, sezione quinta,  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt.  3,  23,  36,  53  e  81  della  Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 9,  comma  1,  del
decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti   per   la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n. 114, in  combinato  disposto  con  l'art.  23-ter,
comma 1, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22  dicembre
2011, n. 214. 
    2.- Il  giudice  rimettente  espone  che,  con  ricorso  proposto
davanti al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, F. V.,
avvocato dello Stato in servizio presso l'Avvocatura distrettuale  di
Napoli, ha impugnato il provvedimento con cui e' stata  effettuata  -
ai sensi dell'art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure
urgenti per la competitivita' e la  giustizia  sociale),  convertito,
con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, e  dell'art.  9
del d.l. n. 90 del 2014, come  convertito,  per  il  superamento  del
limite retributivo previsto dall'art. 23-ter  del  d.l.  n.  201  del
2011, come convertito - la trattenuta sui compensi  professionali  di
cui  all'art.  21  del  regio  decreto  30  ottobre  1933,  n.   1611
(Approvazione del testo unico delle leggi e  delle  norme  giuridiche
sulla  rappresentanza  e   difesa   in   giudizio   dello   Stato   e
sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato), relativamente al primo
quadrimestre del 2015, nella misura di euro 7.799,64 lordi. 
    Il ricorrente ha chiesto l'accertamento del proprio diritto  alla
liquidazione, «integrale  e  senza  decurtazioni»,  degli  emolumenti
dovuti ai sensi dell'art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933, dell'art.  61
del  regio  decreto  30  ottobre  1933,  n.  1612  (Approvazione  del
regolamento per l'esecuzione del testo  unico  delle  leggi  e  delle
norme giuridiche sulla rappresentanza  e  difesa  in  giudizio  dello
Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato) e  dell'art.  1
della legge 23 dicembre 1993, n. 559 (Disciplina  della  soppressione
delle gestioni fuori bilancio nell'ambito delle Amministrazioni dello
Stato), relativi al primo quadrimestre del 2015, «nonche' di tutti  i
successivi percipiendi, sia per quanto concerne i 3/10 che i 7/10, di
cui  alle  modalita'  legali  e  regolamentari  di  riparto,  ed   in
particolare senza che ne venga operata la trattenuta di cui  all'art.
23-ter del decreto-legge n. 201/2011 cit., ne' alcuna altra ritenuta,
oltre interessi e rivalutazione monetaria del credito». 
    In  via  subordinata,  il  ricorrente  ha  chiesto  la   condanna
dell'amministrazione  resistente  al  risarcimento  del   danno   «da
inadempimento dell'obbligo di pagamento,  ovvero  dal  ritardo  nella
conclusione del procedimento amministrativo». 
    Con sentenza del 17 giugno 2019, n.  3338,  il  TAR  Campania  ha
respinto il ricorso e, avverso questa  pronuncia,  il  ricorrente  ha
proposto appello davanti all'odierno rimettente. 
    3.- Il Consiglio di Stato esamina,  preliminarmente,  il  secondo
motivo   di   appello,   con   cui   il   ricorrente   ha   lamentato
l'incompatibilita' di tutti gli avvocati e i procuratori dello  Stato
a   difendere   l'amministrazione,   perche'   «necessariamente    ed
indistintamente portatori - nell'attualita' o in prospettiva futura -
di  un  interesse   personale   contrapposto   a   quello   dell'ente
patrocinato»,  ritenendolo  inammissibile.  In  capo  all'appellante,
infatti,  non  sussiste  «un  interesse  rilevante  e  giuridicamente
tutelabile a dolersi dell'attribuzione, ad un  determinato  organo  o
soggetto,   del   patrocinio   legale   delle   proprie   controparti
processuali». 
    Ad avviso  del  giudice  rimettente,  il  motivo  di  appello  e'
comunque non fondato nel merito, in  quanto,  per  espressa  volonta'
normativa, il patrocinio delle  amministrazioni  statali  e'  assunto
dall'Avvocatura dello Stato in  via  impersonale,  non  rilevando  la
persona fisica dell'avvocato o del procuratore incaricata di svolgere
la difesa in giudizio, «tale  che  e'  da  escludersi  in  radice  la
configurabilita' di una situazione di  incompatibilita',  fattispecie
che riguarda le persone fisiche e non gli uffici dello Stato». 
    4.- Con riferimento al primo motivo di appello, il  Consiglio  di
Stato osserva che la decurtazione dei compensi professionali relativi
al primo quadrimestre del 2015 e agli anni successivi, lamentata  dal
ricorrente,   discende,   «in   modo   automatico    e    vincolato»,
dall'applicazione dell'art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come
convertito, in combinato disposto con l'art. 23-ter del d.l.  n.  201
del 2011, come convertito. 
    Il censurato art. 9, infatti, riconduce espressamente all'oggetto
dell'art.  23-ter  «una   particolare   tipologia   di   attribuzione
economiche,  ossia  i  "compensi  professionali   corrisposti   dalle
amministrazioni pubbliche" [...] agli avvocati e ai procuratori dello
Stato (le cosiddette  propine)»,  cosi'  giustificando  «una  lettura
onnicomprensiva dell'inciso "a carico delle finanze pubbliche" [...],
che vi faccia ricadere ogni importo a  qualunque  titolo  corrisposto
[...] da un'amministrazione pubblica». 
    Ne  seguirebbe  la  rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale delle norme censurate. 
    5.- Con riferimento alla non manifesta infondatezza,  il  giudice
rimettente premette una ricostruzione del quadro normativo nel  quale
si collocano le disposizioni censurate. 
    La disciplina del limite  massimo  alle  retribuzioni  pubbliche,
dettata dall'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e
dall'art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come  convertito,  si
iscrive in un contesto  generale  di  risorse  finanziarie  pubbliche
limitate, che devono essere ripartite in modo congruo e  trasparente,
messo in relazione all'obiettivo politico-economico del  contenimento
della spesa pubblica. 
    La disciplina in esame, pur  essendo  dettata  da  una  difficile
congiuntura economica, non e' volta a conseguire risparmi  immediati,
inquadrandosi in una prospettiva di lungo periodo, il cui impatto  e'
quantificabile solo a consuntivo. 
    Il  fine  di  contenimento  della  spesa  pubblica,  inoltre,  e'
coerente con «altri obiettivi  intesi  a  valorizzare  la  conoscenza
della  gestione  delle  risorse  pubbliche»,  come  gli  obblighi  di
pubblicita' degli incarichi. 
    Sul piano sistematico, va  altresi'  considerato  il  vincolo  di
destinazione  che   la   legge   assegna   alle   risorse   derivanti
dall'applicazione delle norme censurate, destinate appunto  al  fondo
per l'ammortamento dei titoli di Stato, ai sensi degli artt.  23-ter,
comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e 1,  comma  474,
della legge 27 dicembre 2013, n. 147  recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato  (Legge  di
stabilita' 2014)». 
    Come chiarito dalla sentenza n. 124 del 2017 di  questa  Corte  -
conclude il giudice rimettente - la scelta legislativa di fissare  un
limite massimo alle  retribuzioni  pubbliche  non  e'  irragionevole,
perche'   idonea   a   garantire   un   adeguato   e    proporzionato
contemperamento  degli  interessi  contrapposti,  «senza  svilire  il
lavoro prestato da chi esprime professionalita'  elevate»,  anche  in
considerazione della sua valenza generale. 
    6.-  Il  Consiglio  di  Stato  ricorda,  poi,  che   i   compensi
professionali corrisposti agli avvocati e ai procuratori dello  Stato
a cui fa riferimento il censurato art. 9 comprendono, a seguito della
novella introdotta dalla medesima disposizione,  solamente  le  somme
per onorari e diritti liquidate dal giudice in sentenza e corrisposte
dalle controparti  soccombenti,  che  vengono  ripartite  secondo  le
modalita' stabilite dal d.P.C.m. del 29  febbraio  1972  (Regolamento
per la riscossione,  da  parte  dell'Avvocatura  dello  Stato,  degli
onorari  e  delle  competenze  di  spettanza  e   per   la   relativa
ripartizione)  alla  fine   di   ogni   quadrimestre   dell'esercizio
finanziario. 
    Ai  sensi  dell'art.  21  del  r.d.  n.  1611  del  1933,  spetta
all'Avvocatura generale e alle Avvocature distrettuali,  nei  giudizi
rispettivamente   trattati,   curare    l'esazione    dei    compensi
professionali, una volta che il titolo giudiziale che li  prevede  e'
divenuto irrevocabile. Questi andranno poi ripartiti per sette decimi
tra gli avvocati e i procuratori dell'ufficio  interessato  e  per  i
restanti tre decimi  in  misura  uguale  tra  tutti  gli  avvocati  e
procuratori dello Stato. 
    Ad avviso del giudice rimettente, i compensi in esame  hanno  si'
natura retributiva, ma «la loro  provvista  non  [sarebbe]  a  carico
sostanziale del bilancio dello Stato, ma dei soggetti soccombenti  in
giustizia verso lo Stato», con  la  conseguenza  che  essi  sarebbero
estranei a obiettivi  di  contenimento  della  finanza  pubblica.  Lo
Stato, infatti, e' solamente «il soggetto che li riscuote dai terzi e
li redistribuisce, ma non ne e' l'avente diritto ne' ne e' gravato». 
    Le cosiddette propine, pero', «non sono dovute per il  sol  fatto
dell'attivita' lavorativa svolta, bensi' hanno una funzione per cosi'
dire di remunerazione  "premiale"»,  essendo  ripartite  in  base  al
rendimento individuale, secondo i criteri oggi previsti  dal  decreto
dell'Avvocato generale  dello  Stato  28  ottobre  2014  (Criteri  di
determinazione del rendimento individuale ai  sensi  dell'articolo  9
del  decreto-legge  24  giugno   2014,   n.   90,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114). 
    Non trattandosi di «importi prelevati dai bilanci  di  previsione
delle amministrazioni patrocinate (e, per tali, "a loro carico"),  ma
[di]  somme  versate  per  lo  piu'  da  soggetti  privati  (riscossi
dall'Avvocatura dello Stato nella sua  qualita'  di  distrattaria  ex
lege)», la loro corresponsione ai destinatari non rifletterebbe  «una
spesa pubblica, cioe' un prelievo retributivo a carico delle  finanze
pubbliche, ma un semplice passaggio di valuta proveniente ab extra  e
dalla legge delegato all'ufficio dell'Avvocatura erariale». 
    Infatti, come previsto dall'art. 1 della legge n. 559  del  1993,
le competenze di cui all'art. 21 del  r.d.  n.  1611  del  1933  sono
versate   «nell'apposito   capitolo   dello   stato   di   previsione
dell'entrata del  bilancio  dello  Stato  [...]  al  solo  scopo  del
successivo  riparto  quadrimestrale».  Questi  emolumenti  sarebbero,
quindi, vincolati ex lege «in favore delle persone degli  Avvocati  e
dei Procuratori dello Stato, cui consegue l'obbligo per il  Ministero
dell'economia  e  delle  finanze  di  riassegna[r]le  nel  competente
capitolo (parimenti vincolato) del proprio stato di previsione  della
spesa (capitolo 4439) e di emettere i relativi ordini di pagamento». 
    L'Avvocatura dello Stato, peraltro, riscuote  le  spese  di  lite
«non per conto dell'amministrazione, bensi'  nella  sua  qualita'  di
distrattaria ex lege». 
    L'art. 9, comma 6, del d.l. n.  90  del  2014,  come  convertito,
invece,  ha  eliminato  la  possibilita',  per  gli  avvocati   e   i
procuratori dello Stato,  di  percepire  compensi  professionali  nei
«casi  di  pronunciata  compensazione  integrale  delle  spese,   ivi
compresi  quelli  di  transazione  dopo  sentenza   favorevole   alle
amministrazioni»,  che  sono   «a   carico»   delle   amministrazioni
patrocinate. 
    7.- In base a queste premesse, il giudice rimettente ritiene  non
manifestamente infondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 9, comma 1, del d.l.  n.  90  del  2014,  come  convertito,
«nella parte in cui, non escludendoli  espressamente,  riconduce,  in
modo automatico, [gli onorari e  diritti  liquidati  dal  giudice  in
sentenza e corrisposti dalle controparti soccombenti] tra i  compensi
professionali corrisposti [al] personale  dell'Avvocatura  di  Stato,
[...] ai fini  del  raggiungimento  del  limite  retributivo  di  cui
all'articolo 23-ter del  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.  201»,
nonche'   di   quest'ultima   norma   «limitatamente   alla   lettura
omnicomprensiva della previsione "a carico delle  finanze  pubbliche"
ivi contenuta». 
    Una «lettura onnicomprensiva [dell'] art. 23-ter, non  incentrata
sul contenimento della spesa pubblica ma indistintamente  comprensiva
di  qualsiasi  attribuzione  retributiva  a  carico  di  un  soggetto
pubblico formalmente proveniente dalla pubblica amministrazione»,  si
porrebbe, in primo luogo, in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. 
    Si assegnerebbe, infatti, alla  norma  la  «funzione,  di  ordine
strettamente  politico  e  sociale,  di  mera  equiordinazione  delle
retribuzioni   pubbliche   di   tutti   i    pubblici    dipendenti»,
contravvenendo alla ratio giustificatrice della  novella  legislativa
delineata dalla sentenza n. 124 del 2017 di questa Corte. 
    In   tal   modo   si   lederebbe   il   principio   generale   di
«proporzionalita'  tra  lavoro  e  retribuzione,  alla   luce   della
quantita' e  qualita'  del  primo»  e  si  creerebbe  una  «manifesta
disparita' di trattamento  con  i  livelli  elevati  della  dirigenza
privata, non sottoposta ad analogo limite». 
    8.- Ad avviso del Consiglio di Stato, inoltre, le norme censurate
introdurrebbero  «uno  speciale  prelievo  tributario  ad  personam»,
sussistendo, nella  fattispecie  al  suo  esame,  tutti  i  requisiti
individuati dalla giurisprudenza di questa  Corte  per  ritenerla  di
natura tributaria (ex multis, sentenze n. 236 del  2917,  n.  96  del
2016, n. 178 e n. 70 del 2015, n. 154 del 2014, n. 310 e n.  304  del
2013 e n. 233 del 2012). 
    In primo luogo, il limite retributivo fissato dal censurato  art.
23-ter, a cui rinvia, inserendovi i compensi professionali, l'art. 9,
comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito,  integrerebbe  una
decurtazione patrimoniale di carattere permanente e definitivo. 
    Inoltre,  questa  decurtazione   non   sarebbe   «espressione   e
conseguenza di una modifica [del] rapporto sinallagmatico», in quanto
il censurato art. 9, comma 1, lasciando immutato il regime di calcolo
dei compensi professionali degli avvocati  e  dei  procuratori  dello
Stato, si limita a includere questi  compensi,  «costituiti  solo  da
somme "non a carico" delle amministrazioni patrocinate», «nella  base
di calcolo del c.d. "tetto stipendiale"», senza  alcuna  ponderazione
del rendimento degli avvocati. 
    Infine, le somme prelevate sarebbero destinate  al  finanziamento
della spesa pubblica, alla  luce  di  quanto  previsto  dal  comma  4
dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito. 
    «La natura intrinsecamente tributaria della decurtazione disposta
[...] dalle disposizioni censurate» comporterebbe, secondo il giudice
rimettente, la violazione dell'art. 3 Cost., «per l'evidente  bis  in
idem del prelievo tributario e la disparita'  con  altri  lavoratori,
sia  pubblici  che  privati»,  in  quanto  inciderebbe  su  una  voce
remunerativa del «reddito lavorativo complessivo» che pero'  e'  gia'
«sottoposto a prelievo tributario, in condizioni di parita' con tutti
gli altri percettori di reddito di lavoro». 
    9.- Le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche con
riferimento agli artt.  3  e  53  Cost.,  perche',  introducendo  «un
elemento  di  discriminazione  [...]  in  danno  di  una  particolare
categoria di dipendenti  statali  non  contrattualizzati»,  le  norme
censurate colpirebbero  «piu'  gravemente,  a  parita'  di  capacita'
contributiva per redditi  di  lavoro,  la  categoria  cui  appartiene
l'appellante», ledendo cosi' il principio di uguaglianza tributaria e
creando  una  discriminazione  qualitativa  che  «aggrava  [...]  gli
effetti della progressione tributaria». 
    10.- Inoltre, la definitivita' del prelievo fiscale operato dalle
norme  censurate,  nonche'  la  sua  forma  «anomala  e   implicita»,
contraddirebbe il principio per cui nessuna prestazione  personale  o
patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge. 
    11.- L'art. 3 Cost. sarebbe altresi' violato, perche' «la  scelta
del legislatore di computare i compensi di cui trattasi [...] ai fini
del raggiungimento del c.d. "tetto stipendiale" [sarebbe]  incoerente
con la natura premiale  (sulla  base  del  "rendimento  individuale")
impressa a tali compensi dal successivo comma 5 del medesimo art.  9,
con cio' contraddicendo il principio di ragionevolezza». 
    Infatti, «con l'avanzare dell'anzianita' di  servizio  -  cui  e'
notoriamente correlata la progressione stipendiale - il diritto  alla
[...] percezione [degli onorari] progressivamente si  riduce  sino  a
venir meno, all'apice della carriera», nonostante in  questo  momento
l'avvocato e  il  procuratore  dello  Stato  maturino  «una  maggiore
esperienza in campo lavorativo». Cio' sarebbe contradditorio rispetto
alla «dichiarata volonta' legislativa di ricondurre tale attribuzione
economica  alla  "bravura"  ed  efficienza  del  singolo  avvocato  o
procuratore dello Stato nello svolgimento del suo servizio». 
    12.- Le norme censurate si porrebbero, infine, in  contrasto  con
l'art. 81 Cost. 
    Si tratterebbe, infatti, di entrate prelevate  ai  debitori,  «ma
poi incamerate dallo Stato, non venendo piu'  distribuite  una  volta
raggiunto il "tetto" individuale: sicche' ci si troverebbe di  fronte
ad un ulteriore prelievo dissimulatamente tributario [che] prescinde,
nel modus operandi, da adeguamenti alle mutate condizioni  del  ciclo
economico». 
    13.- E' intervenuto nel giudizio di legittimita'  costituzionale,
con atto depositato il 29 dicembre 2020, il Presidente del  Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. 
    Ad avviso della difesa dello Stato, il presupposto interpretativo
da cui muove il giudice rimettente, secondo cui i compensi  spettanti
agli avvocati e ai procuratori dello Stato  ai  sensi  dell'art.  21,
comma 1, del  r.d.  n.  1611  del  1933,  nonostante  abbiano  natura
retributiva, non sono «a carico sostanziale del bilancio dello Stato,
ma dei soggetti soccombenti in giustizia  verso  lo  Stato»,  sarebbe
erroneo. 
    Trattandosi di «emolumenti pubblici accessori  alla  retribuzione
principale», infatti,  gli  avvocati  e  i  procuratori  dello  Stato
possono far valere il diritto al relativo pagamento nei confronti non
delle parti private soccombenti in  giudizio,  ma  dello  Stato  che,
quale datore di lavoro, e' obbligato ad erogarli. 
    Una volta che l'Avvocatura dello Stato ha riscosso  le  spese  di
lite liquidate in sentenza, le  relative  somme  entrerebbero  a  far
parte del bilancio dello Stato, senza che il vincolo di  destinazione
su di esse impresso dall'art. 1  della  legge  n.  559  del  1993  ne
modifichi la natura. Da cio' conseguirebbe la  non  fondatezza  delle
questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate  dal   giudice
rimettente, in quanto su di esse si e' gia' pronunciata questa  Corte
con la  sentenza  n.  124  del  2017,  che  ha  ritenuto  conforme  a
Costituzione  «l'applicazione  di  un  tetto  massimo  a   tutte   le
retribuzioni del settore pubblico». 
    Qualificati i compensi di cui al censurato art. 9, comma 1,  come
retribuzione accessoria a carico del bilancio dello Stato e non  come
prelievo tributario, risulterebbero infondate  anche  le  censure  di
violazione degli artt. 3 e 53 Cost. La scelta  di  ricomprendere  nel
tetto  stipendiale  anche  il   compenso   variabile   in   questione
rientrerebbe, infatti, nella discrezionalita' legislativa, rispetto a
cui non e' configurabile alcun vincolo costituzionale. 
    L'Avvocatura  conclude,  infine,  per  l'inammissibilita'   della
censura relativa all'art. 81 Cost., per carenza di motivazione. 
    14.- Con atto depositato il 29 dicembre 2020, si e' costituito in
giudizio F. V., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che  le
questioni siano accolte, alla  luce  delle  «ragioni  puntualmente  e
[...] condivisibilmente illustrate nell'Ordinanza di rimessione». 
    15.- L'Associazione unitaria degli avvocati e  procuratori  dello
Stato (AUAPS) ha presentato un'opinione scritta in qualita' di amicus
curiae - ammessa con  decreto  presidenziale  del  14  marzo  2022  -
argomentando a sostegno dell'ammissibilita' e  della  fondatezza  nel
merito delle questioni sollevate. 
    L'opinione evidenza in particolare «l'elemento differenziale  tra
l'oggetto del giudizio scrutinato con la sentenza n. 236 del 2017 (la
rimodulazione degli onorari professionali) e quello che ne occupa (la
decurtazione degli onorari professionali in caso di  superamento  del
"tetto massimo")», rilevando come «in  questo  caso  le  "trattenute"
sono  effettivamente  riconducibili   a   una   forma   di   prelievo
tributario». 
    Ancorche' questa Corte  escludesse  la  natura  tributaria  della
fattispecie, sussisterebbe  il  vulnus  ai  parametri  costituzionali
evocati   dal   giudice   rimettente,   perche'    sarebbe    «palese
[l']irragionevolezza di una trattenuta che  e'  stata  istituita  per
conseguire effetti di contenimento e governo della spesa pubblica, ma
che illogicamente  ha  a  oggetto  anche  gli  onorari  professionali
derivanti dalla riscossione delle spese di lite  liquidate  a  carico
della  controparte   processuale   della   pubblica   Amministrazione
patrocinata». 
    Questi sarebbero diversi da ogni  altra  forma  di  remunerazione
degli avvocati e dei procuratori dello Stato, essendo «previsti  allo
scopo di remunerare [...] quella peculiarissima  parte  di  attivita'
che concerne specificamente [...] la difesa in  giudizio  [...],  che
nel  trattamento  retributivo  non  puo'  trovare  la  sua  integrale
compensazione».  Essi,  infatti,  sono  estranei  alle   progressioni
stipendiali  e  sono  esclusi  dall'assoggettamento  al   trattamento
previdenziale;  ma   soprattutto   non   hanno   «alcun   nesso   col
conseguimento della finalita'  sottesa  all'imposizione  del  tetto»,
derivando «dalle somme liquidate a carico delle controparti  in  sede
giudiziale o stragiudiziale». 
    I  compensi  professionali  in  questione,  quindi,  non  gravano
sull'erario,    entrando    «direttamente    nella     disponibilita'
dell'Avvocatura,   senza   mai   confondersi   con   il    patrimonio
dell'Amministrazione  patrocinata»,  con  la  conseguenza   che   non
dovrebbero essere sottoposti al  tetto  retributivo.  Ne'  a  diversa
soluzione potrebbe giungersi considerando le spese di lite  liquidate
in favore di avvocati  e  procuratori  dello  Stato  come  potenziali
entrate, anche perche'  la  loro  «imprevedibilita'»  impedirebbe  di
iscriverle come «attivita' in bilancio e di impiegarle ai fini  della
programmazione dell'attivita' economico-finanziaria dello stato». 
    In conclusione,  l'amicus  curiae  osserva  che  non  vi  sarebbe
«alcuna ragione giustificatrice per sottrarre quelle somme alla  loro
naturale destinazione, che  e'  quella  dell'incentivazione  premiale
alla migliore performance del particolarissimo plesso  amministrativo
qui in esame». Proprio perche' il  riparto  del  cosiddetto  riscosso
integrerebbe  una  «misura  premiale  incentivante»,   non   potrebbe
essergli riconosciuta «una finalita' perequativa». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, sezione quinta, dubita, in riferimento
agli artt. 3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione, della  legittimita'
costituzionale del combinato  disposto  dell'art.  9,  comma  1,  del
decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti   per   la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n.  114,  e  dell'art.  23-ter  del  decreto-legge  6
dicembre  2011,  n.  201,  (Disposizioni  urgenti  per  la  crescita,
l'equita' e il consolidamento dei conti  pubblici),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella  parte  in
cui  computa  i  compensi  professionali  corrisposti  al   personale
dell'Avvocatura dello Stato - costituiti dagli onorari e dalle  spese
di lite liquidati in sentenza a carico delle controparti  -  ai  fini
del raggiungimento del tetto retributivo previsto dalla  legislazione
vigente. 
    L'art. 9, comma 1, del d.l. n.  90  del  2014,  come  convertito,
prevede   che   «[i]   compensi   professionali   corrisposti   dalle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive  modificazioni,  [al]
personale dell'Avvocatura dello Stato, sono  computati  ai  fini  del
raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni». 
    Quest'ultima  disposizione  definisce  il  trattamento  economico
annuo onnicomprensivo di chiunque  riceva,  a  carico  delle  finanze
pubbliche, retribuzioni o emolumenti comunque denominati  nell'ambito
di  rapporti  di  lavoro  dipendente   o   autonomo   con   pubbliche
amministrazioni statali,  ivi  incluso  il  personale  in  regime  di
diritto  pubblico  (cosiddetto  personale   non   contrattualizzato),
stabilendo come  parametro  massimo  di  riferimento  il  trattamento
economico spettante al primo presidente  della  Corte  di  cassazione
(art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n.  66,  recante
«Misure urgenti  per  la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale»,
convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89). 
    Il combinato disposto delle due norme violerebbe, ad  avviso  del
giudice rimettente, gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto,  fornendo  una
«lettura  onnicomprensiva  [dell']art.  23-ter,  non  incentrata  sul
contenimento della spesa pubblica ma indistintamente  comprensiva  di
qualsiasi attribuzione retributiva a carico di un  soggetto  pubblico
formalmente proveniente dalla pubblica amministrazione», lederebbe il
principio generale di «proporzionalita' tra  lavoro  e  retribuzione,
alla luce della quantita' e  qualita'  del  primo»  e  creerebbe  una
«manifesta disparita' di trattamento  con  i  livelli  elevati  della
dirigenza privata, non sottoposta ad analogo limite». 
    Le questioni sarebbero, poi,  non  manifestamente  infondate  con
riferimento all'art. 3 Cost., in quanto le norme censurate - colpendo
i  compensi  professionali  costituiti  dalle  somme   effettivamente
versate dalle controparti soccombenti in giudizio, che non comportano
alcun onere economico a carico dello  Stato  -  introdurrebbero  «uno
speciale prelievo tributario ad personam»,  che  inciderebbe  su  una
voce remunerativa del «reddito lavorativo complessivo», che pero'  e'
gia' «sottoposto a prelievo tributario, in condizioni di parita'  con
tutti gli altri percettori di reddito di lavoro». 
    Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto con gli artt.
3 e 53 Cost., perche', introducendo «un elemento  di  discriminazione
[...] in danno di una particolare categoria di dipendenti statali non
contrattualizzati»,  colpirebbero  «piu'  gravemente,  a  parita'  di
capacita' contributiva  per  redditi  di  lavoro,  la  categoria  cui
appartiene  l'appellante»  nel  giudizio  a  quo,  ledendo  cosi'  il
principio di uguaglianza tributaria  e  creando  una  discriminazione
qualitativa  che  «aggrava  [...]  gli  effetti  della   progressione
tributaria». 
    Le questioni sarebbero non  manifestamente  infondate  anche  con
riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., perche' la definitivita' del
prelievo fiscale operato dalle norme censurate, nonche' la sua  forma
«anomala ed implicita», contraddirebbe il principio per  cui  nessuna
prestazione personale o patrimoniale puo' essere imposta  se  non  in
base alla legge. 
    L'art. 3 Cost. sarebbe violato, inoltre, perche' «la  scelta  del
legislatore di computare i compensi di cui trattasi [...] ai fini del
raggiungimento del c.d. "tetto stipendiale" [sarebbe] incoerente  con
la natura premiale (sulla base del "rendimento individuale") impressa
a tali compensi dal successivo comma 5 del medesimo art. 9, con  cio'
contraddicendo il principio di ragionevolezza». 
    Le norme censurate sarebbero, infine, in contrasto con l'art.  81
Cost., perche' «ci si troverebbe di fronte ad un  ulteriore  prelievo
dissimulatamente tributario [che] prescinde, nel modus  operandi,  da
adeguamenti alle mutate condizioni del ciclo economico». 
    2.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  intervenuto  in
giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, ha  eccepito
l'inammissibilita' della questione sollevata in riferimento  all'art.
81 Cost., per difetto di motivazione. 
    L'eccezione e' fondata,  in  quanto  la  censura  e'  carente  di
un'adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni per  le  quali  le
norme  oggetto  del  giudizio  integrerebbero  una   violazione   del
parametro costituzionale evocato (ex plurimis, sentenze n.  87  e  30
del 2021, n. 54 del 2020, n. 33 del 2019 e n. 240 del 2017). 
    Per  costante  giurisprudenza   costituzionale,   l'insufficiente
motivazione  in  punto  di  non  manifesta   infondatezza   determina
l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale (ex
multis, sentenze n. 114, n. 87 e n. 39 del 2021). 
    3.- Le questioni sollevate in riferimento  agli  altri  parametri
costituzionali sono ammissibili, nonostante  l'atto  di  promovimento
abbia la veste formale della sentenza (non definitiva). 
    Respinto il secondo motivo di appello, il Consiglio  di  Stato  -
dopo la positiva  valutazione  concernente  la  rilevanza  e  la  non
manifesta infondatezza delle questioni in relazione al  primo  motivo
di  impugnazione  -  ha  disposto  la  sospensione  del  procedimento
principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa
Corte. 
    Sicche' all'atto di promovimento, anche se assunto con  la  forma
di sentenza,  deve  essere  riconosciuta  sostanzialmente  natura  di
ordinanza, in conformita' a quanto previsto dall'art. 23 della  legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione  e  sul  funzionamento
della Corte costituzionale) (ex multis, sentenze n. 153 del 2020;  n.
208 del 2019, n. 86 del 2017, n. 256 del 2010, n. 151 e 94 del 2009 e
n. 452 del 1997). 
    4.-  Questa  Corte  ritiene  opportuno  ricostruire   il   quadro
normativo di riferimento. 
    L'art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ha  modificato
la  disciplina  relativa  alla  percezione  dei  compensi   variabili
(cosiddette propine) del personale dell'Avvocatura dello Stato e,  in
genere, degli avvocati dipendenti della pubblica  amministrazione  in
conseguenza delle prestazioni professionali  rese  nel  difendere  in
giudizio le amministrazioni di riferimento 
    Il trattamento economico degli avvocati e dei  procuratori  dello
Stato si compone, infatti, di due diverse voci.  Una  prima  voce  e'
quella  retributiva  fissa,  costituita  dallo  stipendio  tabellare,
rapportato a quello goduto dai magistrati (art.  12  della  legge  24
maggio 1951, n. 392, recante «Distinzione dei magistrati  secondo  le
funzioni.  Trattamento  economico  della  Magistratura  nonche'   dei
magistrati del Consiglio di  Stato,  della  Corte  dei  conti,  della
Giustizia militare e degli  avvocati  e  procuratori  dello  Stato»).
Un'altra componente di detto trattamento  e'  quella  modificata  dal
citato  art.  9  e  attiene   ai   compensi   maturati   in   ragione
dell'attivita' difensiva svolta  in  giudizio,  di  natura  variabile
perche' dipendenti dalla sorte del contenzioso. 
    Con riferimento agli avvocati e ai procuratori  dello  Stato,  la
novella legislativa ha proceduto ad una  decurtazione  del  pregresso
trattamento economico legato alla voce  retributiva  variabile,  oggi
limitato alla  sola  ipotesi  della  condanna  della  controparte  al
pagamento delle spese del giudizio (il cosiddetto "riscosso", perche'
legato all'effettiva esazione delle somme  in  questione).  E'  stato
inoltre delimitato il relativo perimetro  quantitativo,  riconosciuto
dalla novella solo in misura pari  al  50  per  cento  degli  importi
recuperati dal  soccombente  (a  seguito  della  modifica  introdotta
dall'art. 1, comma 486, lettere a) e  b),  della  legge  27  dicembre
2017, n. 205, recante «Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020» il
suddetto limite e' stato aumentato al 75 per cento). Per il personale
dell'Avvocatura dello Stato e'  stato  poi  espunto  dal  sistema  il
diritto  ad  ottenere  la  liquidazione  di  emolumenti  in  caso  di
compensazione delle  spese  o  di  lite  transatta  senza  spese  (il
cosiddetto "compensato"). 
    Questa Corte, con la sentenza n. 236  del  2017,  ha  escluso  la
difformita' a Costituzione della disciplina dettata dall'art.  9  del
d.l.  n.  90  del  2014,  come  convertito;  mentre   ha   dichiarato
inammissibile la questione relativa al comma 1 del medesimo  art.  9,
perche' «[n]ell'ordinanza di rimessione, il rimettente non ha dedotto
ed esplicitato se nel giudizio  principale  veniva  in  questione  il
superamento del limite di cui al citato art. 23-ter». 
    Tale disposizione - censurata nuovamente con le odierne questioni
di  legittimita'  costituzionale  -   stabilisce   che   i   compensi
professionali corrisposti al personale dell'Avvocatura dello Stato  -
costituiti dagli onorari e dalle spese di lite liquidati in  sentenza
a carico delle controparti - debbano essere computati  «ai  fini  del
raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni». 
    5.- Quest'ultima norma  -  anch'essa  oggetto  delle  censure  di
legittimita' costituzionale prospettate dal Consiglio di Stato  -  si
inserisce nella serie di interventi normativi  che  hanno  introdotto
limitazioni  agli  emolumenti  a  carico  delle  finanze   pubbliche,
demandando a un decreto del Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
previo  parere  delle   commissioni   parlamentari   competenti,   la
definizione  del  trattamento  economico  annuo  onnicomprensivo   di
chiunque  riceva  a  carico  delle  finanze  pubbliche  emolumenti  o
retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o  autonomo
con pubbliche amministrazioni statali, ivi incluso  il  personale  in
regime di diritto pubblico. Il «parametro massimo di riferimento»  e'
identificato nel «trattamento economico del  primo  presidente  della
Corte di cassazione» (art. 13, comma 1, del d.l.  n.  66,  del  2014,
come convertito). 
    Con riferimento all'art. 23-ter, comma 1, del  d.l.  n.  201  del
2011, come convertito, questa Corte ha  gia'  evidenziato  che  «[l]a
disciplina del limite massimo,  sia  alle  retribuzioni  nel  settore
pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in  un
contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in  maniera
congrua e trasparente [...]. Il  limite  delle  risorse  disponibili,
immanente al  settore  pubblico,  vincola  il  legislatore  a  scelte
coerenti,  preordinate  a  bilanciare  molteplici  valori  di   rango
costituzionale, come la parita' di trattamento  (art.  3  Cost.),  il
diritto a  una  retribuzione  proporzionata  alla  quantita'  e  alla
qualita' del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza
libera e dignitosa (art.  36,  primo  comma,  Cost.),  il  diritto  a
un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.),  il
buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  (art.  97  Cost.)»
(sentenza n. 124 del 2017). 
    Questa  Corte  ha,  dunque,  «valutato  il  bilanciamento  tra  i
richiamati valori confliggenti effettuato dal legislatore, escludendo
che il limite massimo alle retribuzioni, dettato nel settore pubblico
sulla base di criteri non  uniformi  a  quelli  relativi  al  settore
privato,  ispirati  alle  leggi  di   mercato,   sia   manifestamente
irragionevole (si veda  anche,  con  riguardo  alla  riduzione  delle
tariffe professionali riguardanti incarichi di  natura  pubblicistica
rispetto  a  quelle  relative  ad   attivita'   libero-professionali,
sentenze n. 89 del 2020,  n.  178  del  2017  e  n.  192  del  2015)»
(sentenza n. 27 del 2022). 
    Questa Corte ha, infine, ritenuto che  «il  sacrificio  economico
imposto dalla previsione di un limite massimo alle retribuzioni e  al
cumulo tra retribuzioni e pensioni sia "tale da  non  sacrificare  in
misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro [...]  libero
di esplicarsi nelle  forme  piu'  convenienti"  (sentenza  n.124  del
2017)» (ancora sentenza n. 27 del 2022). Del resto,  e'  stato  anche
ribadito  che  «la  soglia  retributiva  fissata,  commisurata   alla
retribuzione, e, quindi, alle funzioni di una  carica  di  rilievo  e
prestigio indiscussi, qual e' il  primo  presidente  della  Corte  di
cassazione, e' da considerare adeguata» (sentenza n. 27 del 2022). 
    6.- Ai fini della completa ricostruzione  del  quadro  normativo,
occorre rilevare che, dopo l'ordinanza di  rimessione,  il  parametro
cui ragguagliare la soglia del trattamento economico  complessivo  di
cui al censurato art. 23-ter e' parzialmente mutato,  con  decorrenza
dall'anno 2022. 
    Infatti, l'art. 1, comma 68, della legge 30 dicembre 2021, n. 234
(Bilancio di previsione dello Stato per  l'anno  finanziario  2022  e
bilancio pluriennale per il  triennio  2022-2024),  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2021, n. 310, ed entrata in vigore
il 1° gennaio 2022, ha stabilito che «A decorrere dall'anno 2022, per
il personale di  cui  all'articolo  1,  comma  471,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, il limite retributivo di cui all'articolo  13,
comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014,  n.  66,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n.  89,  e'  rideterminato
sulla base della percentuale stabilita  ai  sensi  dell'articolo  24,
comma 2, della legge 23 dicembre 1998,  n.  448,  in  relazione  agli
incrementi medi conseguiti nell'anno precedente  dalle  categorie  di
pubblici dipendenti contrattualizzati, come calcolati  dall'ISTAT  ai
sensi del comma 1 del medesimo articolo 24». 
    Il richiamato art. 24  della  legge  23  dicembre  1998,  n.  448
(Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), ai
commi 1 e 2, prevede che «1. A  decorrere  dal  1  gennaio  1998  gli
stipendi, l'indennita' integrativa speciale e  gli  assegni  fissi  e
continuativi  dei  docenti  e  dei  ricercatori   universitari,   del
personale dirigente della Polizia di  Stato  e  gradi  di  qualifiche
corrispondenti,  dei  Corpi  di  polizia  civili  e   militari,   dei
colonnelli e generali delle Forze  armate,  del  personale  dirigente
della carriera prefettizia,  nonche'  del  personale  della  carriera
diplomatica, sono adeguati di diritto annualmente  in  ragione  degli
incrementi   medi,   calcolati   dall'ISTAT,   conseguiti   nell'anno
precedente dalle categorie di pubblici  dipendenti  contrattualizzati
sulle  voci  retributive,  ivi  compresa   l'indennita'   integrativa
speciale, utilizzate dal medesimo Istituto per  l'elaborazione  degli
indici   delle   retribuzioni   contrattuali.   2.   La   percentuale
dell'adeguamento annuale prevista dal comma 1 e' determinata entro il
30 aprile di ciascun anno con decreto del  Presidente  del  Consiglio
dei ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica.  A  tal  fine,
entro il mese di marzo, l'ISTAT comunica la variazione percentuale di
cui al comma 1. Qualora i dati necessari non siano disponibili  entro
i termini previsti, l'adeguamento e' effettuato nella  stessa  misura
percentuale dell'anno precedente, salvo successivo conguaglio». 
    Come gia'  chiarito  da  questa  Corte,  «la  portata  dello  ius
superveniens richiamato non determina la necessita'  di  disporre  la
restituzione degli atti al giudice  a  quo  affinche'  sia  rinnovato
l'esame   della   rilevanza   delle   questioni    di    legittimita'
costituzionale sollevate,  la  quale  persiste  in  quanto  la  nuova
disposizione  non  esclude  l'applicazione,  medio   tempore,   della
normativa censurata (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021 e  n.  257
del 2017)» (sentenza n. 27 del 2022). 
    Inoltre, la nuova disposizione  non  altera  le  norme  impugnate
nella parte oggetto delle  censure  di  legittimita'  costituzionale.
Infatti, cio' di cui si duole il giudice rimettente e' che, ai  sensi
del  combinato  disposto  delle  norme   censurate,   «[i]   compensi
professionali  corrisposti  dalle  amministrazioni   pubbliche   [al]
personale dell'Avvocatura dello Stato, sono  computati  ai  fini  del
raggiungimento» del tetto retributivo, su cui non ha  inciso  lo  ius
superveniens, se non sul piano quantitativo. 
    7.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    Le censure sollevate dal giudice a quo, in riferimento agli artt.
3, 23 e 53 Cost., sono state gia' decise da questa Corte che, con  la
sentenza n. 27 del 2022, ha escluso che la  previsione  di  un  tetto
retributivo costituisca «un prelievo di  natura  tributaria»,  ovvero
una prestazione patrimoniale imposta. 
    Secondo la giurisprudenza costituzionale,  una  fattispecie  deve
ritenersi   di    natura    tributaria,    indipendentemente    dalla
qualificazione offerta dal legislatore, laddove si  riscontrino  piu'
requisiti:  la  disciplina  legale  deve  essere  diretta,   in   via
prevalente, a procurare una definitiva  decurtazione  patrimoniale  a
carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve  integrare  una
modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse,  connesse  ad  un
presupposto  economicamente  rilevante  e  derivanti  dalla  suddetta
decurtazione, debbono essere destinate a  sovvenire  pubbliche  spese
(sentenze n. 27 del 2022; n. 236 del 2017; n. 96 del 2016; n.  178  e
n. 70 del 2015; n. 154 del 2014; n. 310 e n. 304 del 2013  e  n.  223
del 2012). 
    «Si deve comunque trattare di un prelievo  coattivo,  finalizzato
al concorso alle pubbliche spese e posto  a  carico  di  un  soggetto
passivo in base ad uno specifico indice  di  capacita'  contributiva.
Tale indice, inoltre, deve esprimere l'idoneita' di ciascun  soggetto
all'obbligazione tributaria (sentenze n. 263 del  2020,  n.  240  del
2019, n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017, n. 70  del  2015,  n.
219 del 2014, n. 154 del 2014, n. 102 del 2008, n. 91 del 1972, n. 97
del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964)» (sentenza
n. 27 del 2022). 
    Nel caso di specie non  si  tratta  di  un  prelievo  tributario,
perche'  non  sussistono  i  requisiti  dell'effettiva   decurtazione
patrimoniale  e  della  mancanza  di  una   modifica   del   rapporto
sinallagmatico. 
    La pretesa patrimoniale dell'avvocato  o  del  procuratore  dello
Stato alla partecipazione al "riscosso"  «e'  quantomeno  subordinata
alla condanna della controparte alle spese ovvero  alla  presenza  di
una transazione che ponga su quest'ultima il costo del giudizio: sino
a  quando  non  viene  a  concretarsi  tale  presupposto,  l'avvocato
dipendente puo' dirsi titolare solo di una aspettativa  con  riguardo
alla possibilita' di percepire tali emolumenti, sino a  quel  momento
solo eventuale [...]. La  revisione  quantitativa  del  diritto  alla
ripartizione del  "riscosso"  [...]  incide,  dunque,  su  situazioni
giuridiche soggettive non  ancora  maturate  [...].  E'  pertanto  da
escludere che nel caso possa riscontrarsi una effettiva decurtazione,
la quale, invece, presuppone l'incidenza della novita'  normativa  su
situazioni soggettive di matrice patrimoniale compiutamente  formate»
(sentenza n. 236 del 2017). 
    Inoltre, il comma  5  dell'art.  9  «ha  introdotto  nel  sistema
verifiche di rendimento destinate ad incidere sul quantum del diritto
a godere degli emolumenti in questione in ragione  di  alcuni  filtri
valutativi definiti dalla normazione secondaria» (ancora sentenza  n.
236 del 2017). 
    Le modifiche introdotte dalla novella in tema  di  partecipazione
degli  avvocati  e  dei  procuratori  dello   Stato   al   cosiddetto
"riscosso", soprattutto,  «incidono,  modificandolo,  sul  sinallagma
contrattuale,  perche'  il  diritto  alle  propine   viene   modulato
differentemente in ragione del rendimento degli avvocati  dipendenti:
non  si  risolvono,  dunque,  esclusivamente  in   una   decurtazione
patrimoniale, cosi' da condurre la fattispecie al di fuori  dei  casi
di imposizione tributaria anomala e  implicita,  in  altre  occasioni
riscontrati da questa Corte» (sentenza n. 236 del 2017). 
    Si ricade quindi, nella specie, «in una regola conformativa delle
medesime retribuzioni (sentenza n. 200 del 2018)» (sentenza n. 27 del
2022). 
    8.- Esclusa la natura tributaria della fattispecie, le censure di
violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost. sono dunque non fondate. 
    9.- Le censure sollevate dal giudice a quo, in  riferimento  agli
artt.  3  e  36  Cost.,  si  fondano  su   un   erroneo   presupposto
interpretativo. 
    Il Consiglio di Stato prende atto che i compensi professionali  a
cui fa riferimento l'impugnato art. 9, a seguito della novella  dallo
stesso introdotta, sono corrisposti agli avvocati  e  ai  procuratori
dello Stato solamente «[n]elle ipotesi  di  sentenza  favorevole  con
recupero delle spese legali a carico  delle  controparti».  E'  stato
invece espunto dal sistema, per il  personale  dell'Avvocatura  dello
Stato, il diritto ad ottenere la liquidazione di emolumenti  in  caso
di compensazione delle spese o di lite transatta senza spese. 
    Pertanto, la provvista di questi  compensi,  nonostante  la  loro
natura retributiva, «non [sarebbe] a carico sostanziale del  bilancio
dello Stato, ma  dei  soggetti  soccombenti  in  giustizia  verso  lo
Stato», con la conseguenza che essi sarebbero estranei a obiettivi di
contenimento della finanza pubblica. 
    Non trattandosi di «importi prelevati dai bilanci  di  previsione
delle amministrazioni patrocinate (e, per tali, "a loro carico"),  ma
[di] somme  versate  per  lo  piu'  da  soggetti  privati»,  la  loro
corresponsione ai destinatari non rifletterebbe «una spesa  pubblica,
cioe' un prelievo retributivo a carico delle finanze pubbliche, ma un
semplice passaggio di valuta  proveniente  ab  extra  e  dalla  legge
delegato all'ufficio dell'Avvocatura erariale». 
    10.- Il giudice rimettente muove dall'assunto  che  le  spese  di
lite siano  riscosse  dall'Avvocatura  dello  Stato  «non  per  conto
dell'amministrazione, bensi' nella sua qualita'  di  distrattaria  ex
lege» e che le somme cosi' recuperate siano  vincolate  ex  lege  «in
favore delle persone degli avvocati e dei procuratori dello Stato». 
    In senso contrario,  va  invece  osservato  che  la  condanna  al
pagamento delle spese di lite e' fatta dal «giudice, con la  sentenza
che chiude il processo davanti a lui» a favore della parte (art.  91,
primo comma, cod. proc. civ.) - che e' quindi titolare del diritto di
credito  al  relativo  pagamento  nei  confronti  della   controparte
soccombente - e non, salvo il caso di distrazione  ex  art.  93  cod.
proc. civ., del suo difensore. 
    Nella specie, la parte non e' l'Avvocatura  dello  Stato,  bensi'
l'amministrazione pubblica da essa patrocinata, che,  se  vittoriosa,
ha  diritto  al  rimborso  delle  spese  legali  nei  confronti   del
soccombente. Una parte di queste (il 75 per cento) e'  poi  ripartita
tra gli avvocati  e  i  procuratori  dello  Stato,  come  «componente
retributiva aggiuntiva legata  agli  emolumenti  per  il  "riscosso"»
(sentenza  n.  236  del  2017).  Questi  emolumenti,   quindi,   sono
indubbiamente «a carico delle finanze pubbliche, senza che il vincolo
di destinazione su di essi imposto dall'art. 21 del regio decreto  30
ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo  unico  delle  leggi  e
delle norme giuridiche sulla  rappresentanza  e  difesa  in  giudizio
dello  Stato  e  sull'ordinamento  dell'Avvocatura  dello  Stato)   e
dall'art. 9, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, possa
mutarne la natura. 
    11.- L'incidenza della corresponsione di questi emolumenti  sulle
finanze pubbliche  e'  dimostrata  dalla  circostanza  che  le  somme
riscosse dall'Avvocatura dello Stato confluiscono,  in  entrata,  sul
capitolo 3518 capo X art. 1 del bilancio  dello  Stato,  «per  essere
riassegnate,  con  decreti  del  Ministro  del  tesoro,  ad  apposito
capitolo di spesa [il 4439], da iscrivere nello stato  di  previsione
della Presidenza del Consiglio dei ministri, rubrica 41 -  Avvocatura
dello Stato, al quale sono imputati i relativi  pagamenti»  (art.  1,
comma 1, della legge 23 dicembre 1993, n.  559,  recante  «Disciplina
della soppressione delle gestioni fuori  bilancio  nell'ambito  delle
Amministrazioni dello Stato»). 
    La circostanza stessa che le somme riscosse dall'Avvocatura dello
Stato a titolo di  competenze  e  spese  legali  siano  accertate  in
entrata  nel  bilancio  dello  Stato  comporta  che  debbano   essere
considerate risorse pubbliche e che, una volta erogate, integrino una
spesa a carico delle finanze pubbliche. 
    12.- Infine, l'Avvocatura dello Stato  e'  titolare  di  un  mero
potere di esazione delle spese di  lite,  conferitole  dall'art.  21,
comma 1, del r.d. n 1611 del  1933,  non  ricorrendo  la  fattispecie
disciplinata  dall'art.  93  cod.  proc.  civ.,  in  cui  il  giudice
pronuncia la condanna al pagamento di spese e onorari in  favore  del
difensore. Cio' si desume, oltre  che  dal  chiaro  tenore  letterale
della disposizione, dalla circostanza che, nella specie, non  ricorre
la ratio dell'istituto della distrazione delle spese. 
    Con esso, infatti, «[l]a legge ha inteso offrire al difensore  un
mezzo agevolato di tutela per conseguire gli onorari spettantigli  ed
il rimborso delle  spese  anticipate»  (sentenza  n.  31  del  1973).
Esigenza che, nella specie, non  sussiste,  trattandosi  di  avvocati
dipendenti dall'amministrazione,  ancorche'  esclusi  «dall'area  del
lavoro pubblico contrattualizzato» (sentenza n. 236  del  2017),  che
percepiscono una retribuzione per  la  loro  attivita'  professionale
composta,  oltre  che  dallo  stipendio  tabellare,  da  un  compenso
variabile «in ragione dell'attivita' difensiva  svolta  in  giudizio»
(sentenza n. 236 del 2017) e non anticipano le spese processuali. 
    13.- Alla luce delle considerazioni che precedono,  le  questioni
sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. vanno dichiarate non
fondate. 
    14.- E', infine, non fondata la censura di violazione dell'art. 3
Cost. sollevata, sotto un ulteriore profilo, dal giudice  a  quo.  Ad
avviso  del  collegio  rimettente,  «la  scelta  del  legislatore  di
computare i compensi di cui trattasi [...] ai fini del raggiungimento
del c.d. "tetto  stipendiale"  [sarebbe]  incoerente  con  la  natura
premiale (sulla base del "rendimento individuale")  impressa  a  tali
compensi dal successivo  comma  5  del  medesimo  art.  9,  con  cio'
contraddicendo il principio di ragionevolezza». 
    La  computabilita',  ai  fini  del   raggiungimento   del   tetto
retributivo, anche dei compensi professionali  costituenti  la  parte
variabile del trattamento economico degli avvocati e dei  procuratori
dello Stato non contraddice la loro dedotta natura premiale sul piano
normativo. Questa riguarda, infatti, i criteri di distribuzione degli
stessi, sulla base del rendimento individuale, mentre  la  fissazione
di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche si pone quale misura
di contenimento della spesa  pubblica  che  colpisce  tutte  le  voci
retributive, anche quelle variabili. 
    Questa Corte, peraltro, ha gia' avuto modo di  escludere  che  le
limitazioni e decurtazioni imposte dalla normativa dettata  dall'art.
9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, siano  arbitrarie  e  non
proporzionate, trovando «una incontroversa ratio nelle [...] esigenze
di bilancio e di contenimento della spesa pubblica» (sentenza n.  236
del 2017). 
    Cio' posto, e' «coerente sul piano  sistematico  che  il  "tetto"
colpisca  le  categorie  professionali  che  godono  dei  trattamenti
economici  piu'  elevati»  (sentenza  n.   27   del   2022),   avendo
l'intervento normativo denunciato lo scopo di porre un limite proprio
ai  redditi  piu'   alti   «salvaguardando   comunque   l'adeguatezza
professionale e retributiva della soglia  contemplata»  (sentenza  n.
124 del 2017). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma  1,  del  decreto-legge  24  giugno
2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e  la  trasparenza
amministrativa  e  per   l'efficienza   degli   uffici   giudiziari),
convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, in
combinato disposto con l'art. 23-ter, comma 1,  del  decreto-legge  6
dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,
l'equita' e il consolidamento dei conti  pubblici),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n.  214,  sollevata,  in
riferimento all'art. 81 della Costituzione, dal Consiglio  di  Stato,
sezione quinta, con la sentenza non definitiva in epigrafe indicata; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.l. n. 90  del  2014,  come
convertito, in combinato disposto con l'art.  23-ter,  comma  1,  del
d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevate, in riferimento agli
artt. 3, 23, 36 e 53 Cost., dal Consiglio di Stato,  sezione  quinta,
con la sentenza non definitiva in epigrafe indicata. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 aprile 2022. 
 
                                F.to: 
                     Giuliano AMATO, Presidente 
                 Augusto Antonio BARBERA, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA