N. 97 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 luglio 2022

Ordinanza del 1º luglio 2022  del  Consiglio  di  Stato  sul  ricorso
proposto da I.A. I.G. contro Ministero  dell'interno  -  Questura  di
Brescia. 
 
Straniero - Ordine pubblico e sicurezza - Ingresso e  permanenza  nel
  territorio dello Stato - Previsione che,  nel  richiamare  tutti  i
  reati inerenti agli stupefacenti, dispone che la fattispecie di cui
  all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente  della  Repubblica
  n. 309 del 1990 sia automaticamente ostativa al rilascio ovvero  al
  rinnovo del titolo di soggiorno. 
- Decreto legislativo 25 luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
  disposizioni concernenti la disciplina  dell'immigrazione  e  norme
  sulla condizione dello straniero), art. 4, comma 3. 
(GU n.38 del 21-9-2022 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
               in sede giurisdizionale (Sezione Terza) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 5875 del 2019, proposto dal signor  I.  G.  I.  A.,
rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Marchese, con domicilio
digitale come da pec da registri di giustizia; 
    Contro il Ministero dell'interno e la  Questura  di  Brescia,  in
persona   dei   rispettivi   legali   rappresentanti   pro   tempore,
rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato e
con questi elettivamente domiciliati in Roma, via dei  Portoghesi  n.
12; 
    Per  la  riforma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo
regionale Lombardia, sezione  staccata  di  Brescia,  n.  39  del  17
gennaio 2019, che ha respinto il ricorso proposto avverso il  diniego
di rinnovo del permesso di soggiorno per  lavoro  subordinato  emesso
dalla Questura di Brescia il 26 settembre 2018. 
    Visto il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visto  l'atto  di  costituzione   in   giudizio   del   Ministero
dell'interno e della Questura di Brescia; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica  del  giorno  16  giugno  2022  il
consigliere  Giulia  Ferrari  e  uditi  per  le  parti  gli  avvocati
presenti, come da verbale; 
    Ritenuto e considerato, in fatto e diritto, quanto segue. 
 
                                Fatto 
 
    l. Il signor  I.,  cittadino  egiziano,  ha  fatto  ingresso  sul
territorio italiano  in  data  ...,  all'eta'  di  ...,  come  minore
straniero non accompagnato. 
    In favore del medesimo, in  data  ...,  e'  stato  rilasciato  il
permesso di soggiorno n. ... per motivi di affidamento. 
    In data ...  la  Direzione  generale  dell'immigrazione  e  delle
politiche di integrazione del Ministero del lavoro  ha  espresso,  ai
sensi dell'art. 32, comma 1-bis, decreto legislativo 25 luglio  1998,
n.  286  (Testo  unico   dell'immigrazione),   parere   positivo   al
proseguimento del soggiorno  in  Italia  del  minore  anche  dopo  il
raggiungimento della maggiore eta', in considerazione  del  «positivo
percorso di inserimento nel contesto sociale del nostro Paese». 
    In favore del ricorrente e' stato pertanto rilasciato un permesso
di soggiorno per motivi di famiglia valido dal ..., di  cui  in  data
... e' stato chiesto il rinnovo per motivi di lavoro subordinato. 
    2. Con decreto del  ...,  il  Questore  di  Brescia  ha  respinto
l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato
di cui era titolare il sig. I. G. I. A. Il provvedimento  di  diniego
era motivato sul  presupposto  che  l'odierno  appellante  era  stato
condannato alla pena di mesi cinque e giorni dieci  di  reclusione  e
euro 600 di multa per il reato previsto e punito dall'art. 73,  comma
5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. 
    3.  Il  decreto  e'  stato   impugnato   dinanzi   al   Tribunale
amministrativo  regionale  Brescia   chiedendone   annullamento   per
violazione di legge e, in particolare, degli articoli 4 e 5,  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286  (Testo  unico  dell'immigrazione)
perche' il reato non sarebbe  sintomatico  di  pericolosita'  sociale
nonche' dell'art. 10-bis, legge n. 241 del 1990 in quanto, qualora il
preavviso di rigetto fosse stato ritualmente notificato, egli avrebbe
potuto proporre le necessarie osservazioni per dimostrare l'efficacia
del radicamento nel tessuto sociale. 
    4.  Con  sentenza  n.  39  del  17  gennaio  2019  il   Tribunale
amministrativo regionale Brescia ha respinto il  ricorso  per  essere
stato  lo  straniero  condannato   per   reato   ostativo,   pertanto
automaticamente preclusivo al rilascio del rinnovo. 
    5. Avverso tale pronuncia e' insorto il sig. I.  G.  I.  A.,  con
appello notificato il 2 luglio 2019  e  depositato  il  successivo  9
luglio, riproponendo le medesime censure dedotte in primo grado. 
    6. Si e' costituito in giudizio il Ministero dell'interno,  senza
espletare difese scritte. 
    7. Con l'ordinanza cautelare 30 agosto 2019, n.  4361,  e'  stata
respinta l'istanza  cautelare  di  sospensione  dell'efficacia  della
sentenza appellata, per carenza di fumus. 
    8. Alla pubblica udienza del 16 giugno 2022, la  causa  e'  stata
trattenuta in decisione. 
 
                               Diritto 
 
    l.  Il  Collegio  ritiene  di  dover   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 3, decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286 per contrasto con agli articoli 3,  117  primo
comma della Costituzione  in  riferimento  all'  art.  8  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali nella parte in cui, richiamando tutti «i reati  inerenti
gli stupefacenti», prevede che la fattispecie di cui  all'  art.  73,
comma 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, sia
automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo  di
soggiorno. 
1.1. Sulla rilevanza. 
    Ritiene il  Collegio  che  la  questione  sia  rilevante  per  le
seguenti ragioni. 
    Con decreto del ..., la Questura di Brescia ha respinto l'istanza
di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro  subordinato  di  cui
era titolare l'appellante per  essere  stato  questi  condannato  per
detenzione e cessione illecita di sostanze stupefacenti in  concorso,
reato ostativo ex art. 73, comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del 1990 commesso il .... 
1.2. Sui presupposti processuali e sulle condizioni  dell'azione  del
giudizio a quo. 
    La    giurisprudenza    costituzionale    sotto    il     profilo
dell'accertamento dei  presupposti  processuali  e  delle  condizioni
dell'azione, si e' costantemente orientata nel senso di ritenere  che
una tale verifica debba essere rimessa alla valutazione  del  giudice
rimettente. I presupposti  processuali  sono,  infatti,  oggetto  del
giudizio di rilevanza dell'incidente di costituzionalita' e,  ove  la
loro  ritenuta  sussistenza  sia  sorretta  da  una  motivazione  non
implausibile, non sono suscettibili di  riesame  (ex  plurimis  della
Corte costituzionale n. 262 del 2015; n. 200 del 2014). 
    Il Collegio ritiene  che  la  questione  oggetto  della  presente
ordinanza rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo.  Il
giudizio di cui trattasi, infatti,  e'  stato  incardinato  ai  sensi
dell'art. 100 c.p.a. ed  e'  un  procedimento  ordinario  di  appello
avverso un provvedimento amministrativo di  diniego  di  permesso  di
soggiorno per lavoro subordinato. 
    Il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi  di
lavoro sono riservati alla cognizione del giudice  amministrativo  in
quanto costituiscono provvedimenti discrezionali rispetto ai quali il
cittadino  straniero  e'  titolare  di  una  posizione  di  interesse
legittimo. 
    Nessuna   eccezione   in   rito   e'   stata   sollevata    dalle
amministrazioni appellate che si sono costituite con  atto  meramente
formale. 
    L'appello, stante  la  ritualita'  delle  notifiche  e,  piu'  in
generale,  il  rispetto  dei  termini  processuali,  deve   ritenersi
ammissibile. 
1.3. Sull'applicabilita' della disciplina censurata al caso in esame. 
    La vicenda di cui si discute trae origine  dal  provvedimento  di
mancato rinnovo del  permesso  di  soggiorno  per  motivi  di  lavoro
subordinato di cui era titolare l'odierno appellante. 
    Il sig. I. G. I. A. faceva ingresso sul territorio italiano a  16
anni, come minore straniero non accompagnato, in data .... 
    In favore  del  medesimo,  in  data  ...,  veniva  rilasciato  il
permesso di soggiorno n. ... dalla per motivi di affidamento. 
    In data ..., la  Direzione  generale  dell'immigrazione  e  delle
politiche di integrazione del  Ministero  del  lavoro  esprimeva,  ai
sensi dell'art. 32 comma 1-bis del decreto legislativo  n.  286/1998,
parere positivo al proseguimento del soggiorno in Italia  del  minore
anche dopo il raggiungimento della maggiore eta',  in  considerazione
del «positivo percorso di inserimento nel contesto sociale del nostro
Paese». La  questura,  di  conseguenza,  rilasciava  un  permesso  di
soggiorno per motivi di famiglia valido dal ..., di cui lo stesso, in
data ... chiedeva il rinnovo per motivi di lavoro subordinato. 
    Tale richiesta veniva respinta  perche'  il  cittadino  straniero
aveva riportato una  condanna  passata  in  giudicato  per  un  reato
ostativo: art. 73, comma 5 decreto del Presidente della Repubblica n.
309/1990. 
    L'appellante, in particolare, era stato arrestato in flagranza di
reato e tradotto dinanzi alla competente autorita' giudiziaria per la
convalida dell'arresto e l'applicazione di idonea misura cautelare in
quanto imputato «in concorso con  altro  cittadino  straniero,  senza
l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori  dalle  ipotesi  previste
dagli articoli  75  e  76,  detenevano  illecitamente  gr.  19,00  di
sostanza stupefacente di tipo hascisch, sostanza di cui alla  tabella
II dell'art.  14  del  medesimo  D.P.R.,  che  per  le  modalita'  di
conservazione   (quantita',   frazionamento)   e    le    circostanze
dell'azione, appare destinata ad uso  non  strettamente  personale  e
cedevano grammi 1,50 della  medesima  sostanza  a  V.  A.  C..  Reato
commesso in ....» 
    Il sig. I. G. I. A. e' stato condannato, in via  definitiva,  per
il reato di cui all'art. 73, comma 5, decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990, spaccio di lieve entita', come risulta  dalla
sentenza n. 2222/2017, pronunciata dal Tribunale ordinario di Milano,
in composizione monocratica. 
    L'appellante non ha legami familiari sul territorio italiano.  Di
tale  circostanza  ha  dato  correttamente   atto   l'amministrazione
competente nel provvedimento impugnato in questa sede. 
    In tema di reato ostativo e  assenza  di  vincoli  familiari  sul
territorio italiano, viene in rilievo nel caso in esame, il combinato
disposto di cui agli articoli 4 e 5  decreto  legislativo  25  luglio
1998, n. 286. L'art.  4  del  TU  immigrazione  pone  un  automatismo
secondo cui «non e' ammesso in Italia lo straniero che  non  soddisfi
tali requisiti o  che  sia  considerato  una  minaccia  per  l'ordine
pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi  con  i  quali
l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei  controlli
alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone  o  che
risulti condannato,  anche  con  sentenza  non  definitiva,  compresa
quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta  ai
sensi dell'art.  444  del  codice  di  procedura  penale,  per  reati
previsti dall'art. 380, commi 1 e 2, del codice di  procedura  penale
ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la liberta' sessuale,  il
favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina  verso   l'Italia   e
dell'emigrazione clandestina dall'Italia  verso  altri  Stati  o  per
reati  diretti  al  reclutamento  di  persone   da   destinare   alla
prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori  da
impiegare in attivita' illecite».  Tale  automatismo  viene  mitigato
dalla disposizione di cui al  comma  5  dell'articolo  immediatamente
successivo: 
      «nell'adottare il provvedimento di  rifiuto  del  rilascio,  di
revoca o di diniego  di  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno  dello
straniero, che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare
ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi  dell'art.  29,  si  tiene
anche conto della natura e della effettivita' dei  vincoli  familiari
dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e  sociali  con
il suo Paese d'origine, nonche', per lo straniero gia'  presente  sul
territorio nazionale,  anche  della  durata  del  suo  soggiorno  nel
medesimo territorio nazionale». 
    Le norme recate dagli articoli 4  e  5,  decreto  legislativo  25
luglio 1998, n.  286,  come  da  costante  giurisprudenza  di  questo
Consiglio, «mirano, infatti, ad assicurare la  tutela  dell'ordine  e
della sicurezza  pubblica:  nell'esercizio  di  tale  potere,  pero',
l'amministrazione e' tenuta a valutare la condizione familiare  dello
straniero  in  quanto  l'interesse  collettivo  alla   tutela   della
sicurezza pubblica deve essere bilanciato con l'interesse  alla  vita
familiare dell'immigrato e dei suoi congiunti, trattandosi di diritti
fondamentali, aventi  copertura  convenzionale,  in  particolar  modo
l'art.  8  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali» (Consiglio di  Stato.,  sez.
III, n. 6699 del 2018). L'automatismo di cui all'art. 4 cede il passo
ad una valutazione discrezionale dell'Amministrazione che, in caso di
condanna per uno dei reati ostativi,  deve  tenere  in  debito  conto
l'effettivita' dei vincoli familiari,  il  legame  effettivo  con  il
Paese  di  origine,  la  durata   del   soggiorno.   La   valutazione
discrezionale  dell'amministrazione  e'  sindacabile  allorquando  la
stessa risulti viziata da manifesti deficit di ragionevolezza. 
    Da questa premessa emerge chiaramente  che  l'unica  disposizione
applicabile al  caso  controverso  sottoposto  al  vaglio  di  questo
Collegio e' l'art. 4, comma 3, decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286. 
    L'automatismo ha come unica eccezione la presenza sul  territorio
di legami familiari in assenza dei quali,  quindi,  l'amministrazione
non deve valutare la pericolosita' in concreto  e  non  e'  tenuta  a
operare alcun bilanciamento. 
    Come si e' detto, l'odierno appellante e' un cittadino straniero,
condannato in via definitiva per un reato ostativo, l'art. 73,  comma
5 decreto del Presidente della Repubblica n.  309/1990  senza  legami
familiari sul territorio italiano. 
    Date le suesposte premesse, il cittadino straniero  non  potrebbe
automaticamente soggiornare sul territorio italiano. 
    La  Corte   costituzionale   ha   costantemente   affermato   che
«l'applicabilita'  della  disposizione  al  giudizio  principale   e'
sufficiente  a  radicare  la  rilevanza   della   questione»   (Corte
costituzionale, sentenza  n.  174  del  2016)  e  che  «il  nesso  di
pregiudizialita'  tra  il   giudizio   principale   e   il   giudizio
costituzionale implica che la norma censurata  debba  necessariamente
essere applicata nel primo e  che  l'eventuale  illegittimita'  della
stessa incida sul  procedimento  principale»  (Corte  Costituzionale,
sentenza n. 91 del 2013). 
    Questo Collegio ritiene che nessun  dubbio  residui  in  tema  di
necessaria applicabilita' dell'art. 4, comma 3,  decreto  legislativo
n. 286 del 1998 al caso di specie. 
    Dall'applicabilita' della norma derivano conseguenze specifiche e
immediate in capo all'appellante. Invero,  la  tenuta  costituzionale
della disposizione censurata - e, quindi,  l'automatico  diniego  del
rilascio ovvero rinnovo del  permesso  di  soggiorno  per  motivi  di
lavoro subordinato in caso di reato  ostativo  di  cui  all'art.  73,
comma 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309  del  1990  -
determinerebbe inevitabilmente una pronuncia di rigetto dell'appello,
con contestuale conferma della sentenza di primo  grado,  tanto  piu'
per l'irrilevanza della pure lamentata  violazione  dell'art.  10-bis
legge n. 241/1990. Sotto questo ultimo profilo, infatti,  trattandosi
di atto vincolato,  neppure  potrebbe  applicarsi  l'art.  21-octies,
legge n. 241 del 1990. 
    Al contrario, qualora la disposizione fosse ritenuta dalla  Corte
costituzionale in contrasto con la Costituzione - nei termini che  si
avra' modo di specificare - la decisione determinerebbe una pronuncia
favorevole all'odierno  appellante,  specificatamente  con  l'obbligo
dell'amministrazione di rivalutare la sua posizione giuridica. 
1.4. Sulla possibilita'  di  una  interpretazione  costituzionalmente
conforme. 
    Rilevato un potenziale vulnus di  costituzionalita'  rispetto  ai
parametri di cui agli articoli 3, 117, comma  l,  della  Costituzione
(quest'ultimo in riferimento all'art. 8 Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali) nei
termini che si avra' modo di specificare in punto  di  non  manifesta
infondatezza,  il   Collegio   giudicante   si   e'   preliminarmente
interrogato circa la possibilita', allo stato, di  un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma censurata. 
    Una interpretazione  costituzionalmente  orientata  dell'art.  4,
comma 3, decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286,  pure  talvolta
percorsa da questa  stessa  sezione  rimettente,  sarebbe  quella  di
valorizzare la pericolosita' in concreto del fatto delittuoso. 
    In casi di reato ostativi - sub specie art. 474 codice  penale  -
si e' sostenuto che in determinate ipotesi, la tenuita' del fatto  di
reato non sia idonea, secondo l'id quod plerumque accidit, a superare
la soglia di pericolosita' sociale che attiva l'automatismo  previsto
dalla norma. Secondo questo orientamento, al giudice  spetterebbe  un
giudizio in concreto sulla pericolosita' sociale (cosi', ex plurimis,
Consiglio di Statoato, sez. III, n. 4385 del 2016; n. 1637 del 2014). 
    La ratio di questa prospettiva - che, potrebbe essere  estesa  in
astratto anche al reato di cui all' art. 73,  comma  5,  decreto  del
Presidente  della  Repubblica  n.  309  del  1990  -  risiede   nella
convinzione che sarebbe irragionevole pretendere dal legislatore  una
differenziazione di sanzione in base  alla  gravita'  di  reati  che,
sebbene non partecipino della stessa natura perche' non offensivi del
medesimo bene giuridico, tuttavia sono idonei a mettere  in  pericolo
la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico  e,  piu'  in  generale,  la
convivenza  civile.  Spetterebbe,  secondo  questo  orientamento,  al
giudice, nella valutazione della determinazione  dell'amministrazione
rispetto al caso concreto, stabilire se l'automatismo previsto  dalla
legge sia applicabile o meno. 
    Ritiene il Collegio che questa operazione ermeneutica, seppur  di
notevole pregio, non possa essere  percorribile  per  due  ordini  di
ragione. 
    Anzitutto un limite di  natura  letterale.  Il  tenore  letterale
della norma, anche  nella  sua  portata  applicativa  piu'  ampia  in
aderenza  con  la  giurisprudenza  costituzionale   in   termini   di
proporzionalita', esclude che vi sia differenza tra le fattispecie di
reato richiamate. Nel giudizio  sulla  compatibilita'  del  soggiorno
dello straniero che ha commesso uno dei reati  considerati  ostativi,
non vengono in rilievo ne' il principio di offensivita'  -  tanto  in
astratto che in concreto - ne' l'art. 133 codice penale. 
    Del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato piu' volte
che si tratta di un automatismo, superabile unicamente in presenza di
legami familiari. La  formulazione  dell'art.  4,  comma  3,  decreto
legislativo n. 286 del 1998 non delinea un  diverso  trattamento  tra
fattispecie di reato ivi richiamate ma le pone sullo stesso piano. 
    D'altra parte, tale norma neppure assegna al giudice il potere di
operare una valutazione in concreto della fattispecie che, in assenza
di  una  previa  valutazione  dell'amministrazione   competente   (si
ribadisce, vietata dall'automatismo previsto  dalla  norma),  sarebbe
peraltro in contrasto con il divieto  di  esprimersi  su  poteri  non
ancora esercitati di cui all'art.  34,  comma  2,  c.p.a.  e  con  il
divieto di pronuncia estesa al merito, come noto, operazioni precluse
al giudice. 
    Il  tentativo   di   rileggere   la   norma   tendendo   ad   una
interpretazione  «costituzionalmente  orientata»  porterebbe  ad   un
fenomeno di produzione normativa che risulta, a parere del  Collegio,
non percorribile. 
    La materia dell'immigrazione e' il risultato di un delicato punto
di equilibrio tra il diritto fondamentale di soggiornare  liberamente
in uno Stato straniero e il diritto dei cittadini dello stesso  Stato
alla sicurezza nazionale. La ricerca di questo  punto  di  equilibrio
resta, a parere del Collegio, sempre precluso al giudice e quindi  di
competenza esclusiva del legislatore. 
1.5. Sulla compatibilita' con il diritto dell'Unione  europea  e  sul
rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale. 
    Neppure e' permesso a questo Collegio percorrere la strada  della
disapplicazione  della  norma   per   contrasto   con   l'ordinamento
dell'Unione europea. 
    Nella specifica materia dell'immigrazione vengono in  rilievo  le
norme  di  cui  al  capo  secondo  del  titolo  V  del  Trattato  sul
funzionamento dell'Unione Europea, articoli 77 - 80. 
    Si tratta  di  un  tipico  caso  di  competenza  concorrente  tra
l'Unione europea e gli Stati membri.  Ferma  restando  la  competenza
della prima nell'adozione di atti di armonizzazione nel rispetto  dei
principi di proporzionalita' e di sussidiarieta',  il  singolo  Stato
membro e'  competente  nell'adozione  di  misure  volte  alla  tutela
dell'ordine pubblico e della  sicurezza  e  ha  competenza  esclusiva
nella fissazione del numero  massimo  di  lavoratori  provenienti  da
Paesi terzi (art. 79, par. 5, TFUE). 
    Questa divisione di competenze spinge a  collocare  la  questione
oggetto  del  presente  incidente  costituzionale  nella   sfera   di
competenza dello Stato italiano,  in  qualita'  di  Stato  membro  e,
quindi,  nella   necessita'   di   proposizione   del   giudizio   di
legittimita', non potendo disapplicare direttamente la norma. 
    Il perimetro di  competenza  e  di  interazione  tra  il  diritto
interno e il diritto eurounitario, specie nella materia  dei  diritti
fondamentali, come quelli che vengono in rilievo nel caso che  occupa
il Collegio, e' stato il risultato di un'operazione di dialogo tra le
corti e di numerosi interventi della Corte costituzionale. 
    Occorre distinguere la fattispecie in cui venga  in  rilievo  una
fonte di diritto comunitario «self executing» da quella in cui vi sia
concorrenza,  tra  norme  precettive  ma  che  necessitano   di   una
positivizzazione legislativa di diritto interno. 
    Nel primo caso, il giudice  a  quo  e'  dotato  di  un  sindacato
diffuso. Qualora ravvisi una manifesta incompatibilita'  della  norma
interna   con   l'ordinamento    comunitario    puo'    disapplicarla
direttamente, senza l'intermediazione di altro organo costituzionale,
operazione questa preclusa nel caso di incompatibilita'  della  norma
con la Convenzione europea  dei  diritti  dell'uomo.  In  tale  caso,
infatti, il sindacato e'  accentrato  e  competente  sara'  la  Corte
costituzionale  per  il  tramite  dell'art.  117,  comma   1,   della
Costituzione. 
    La posizione della Corte, in caso di giudizi  aventi  ad  oggetto
diritti protetti tanto  dalla  Costituzione  quanto  dalle  norme  di
diritto eurounitario, ha subito una evoluzione. 
    Secondo  un  primo  orientamento,  il  giudice  delle  leggi   ha
sostenuto che questo caso fosse assimilabile a quello in cui la norma
interna era contraria alla Convenzione europea  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  di  tal  che  il
giudice era  obbligato  a  sollevare  prioritariamente  questione  di
legittimita' costituzionale (Corte costituzionale,  sentenza  n.  269
del 2017). 
    Tale posizione e' stata rimeditata con  la  sentenza  n.  20  del
2019, in materia di rapporto tra diritto di accesso e rispetto  della
liberta' privata (privacy), la Corte pur dalle premesse di  cui  alla
sentenza appena richiamata e che  quindi  «i  principi  e  i  diritti
enunciati nella CDFUE intersecano in larga  misura  i  principi  e  i
diritti  garantiti  dalla  Costituzione  italiana  (e   dalle   altre
costituzioni  nazionali  degli  Stati  membri),  e   che   la   prima
costituisce  pertanto  «parte  del  diritto  dell'Unione  dotata   di
caratteri  peculiari  in  ragione  del  suo  contenuto  di   impronta
tipicamente costituzionale», afferma che «resta fermo che  i  giudici
comuni  possono  sottoporre  alla  Corte  di  giustizia   dell'Unione
europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale
a loro  avviso  necessaria.  In  generale,  la  sopravvenienza  delle
garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della  Costituzione
italiana genera, del resto, un concorso  di  rimedi  giurisdizionali,
arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali  e,  per
definizione, esclude ogni preclusione.  Questa  Corte  deve  pertanto
esprimere  la  propria  valutazione,  alla  luce   innanzitutto   dei
parametri costituzionali interni, su disposizioni  che,  come  quelle
ora in esame, pur  soggette  alla  disciplina  del  diritto  europeo,
incidono  su  principi  e   diritti   fondamentali   tutelati   dalla
Costituzione italiana  e  riconosciuti  dalla  stessa  giurisprudenza
costituzionale. Cio' anche allo scopo di contribuire, per la  propria
parte, a rendere effettiva la possibilita', di cui ragiona  l'art.  6
del Trattato sull'Unione europea (TUE), firmato  a  Maastricht  il  7
febbraio  1992,  entrato  in  vigore  il  l0  novembre  1993,  che  i
corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo,  e
in particolare dalla CDFUE, siano  interpretati  in  armonia  con  le
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate  anche
dall'art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti». 
    Intervenuta immediatamente dopo sul punto con la sentenza  n.  63
del 2019, la Corte ha ritenuto che «occorre in questa sede ribadire -
sulla scorta dei principi gia' affermati nelle sentenze  n.  269  del
2017 e n. 20 del 2019  -  che  a  questa  Corte  non  puo'  ritenersi
precluso  l'esame  nel  merito  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate con riferimento  sia  a  parametri  interni,
anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia - per  il
tramite degli articoli 11 e 117, comma 1, della Costituzione  -  alle
norme corrispondenti della Carta  che  tutelano,  nella  sostanza,  i
medesimi diritti; e cio' fermo restando il potere del giudice  comune
di procedere egli  stesso  al  rinvio  pregiudiziale  alla  Corte  di
giustizia UE, anche dopo  il  giudizio  incidentale  di  legittimita'
costituzionale, e - ricorrendone i presupposti -  di  non  applicare,
nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame,  la  disposizione
nazionale in contrasto con i diritti  sanciti  dalla  Carta.  Laddove
pero' sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di
legittimita' costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta,
questa  Corte  non  potra'  esimersi,  eventualmente  previo   rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta  a
tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra  i
quali  si  annovera  anche   la   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la  Carta
(e pertanto con gli articoli 11 e 117, comma l, della  Costituzione),
con  conseguente  eliminazione  dall'ordinamento,  con  effetti  erga
omnes,  di  tale   disposizione.»   Cosi'   ricostruito   il   quadro
giurisprudenziale  in  punto  di  pregiudizialita',  questo   giudice
ritiene di dover investire preliminarmente la Corte costituzionale. 
    Da ultimo, con la sentenza 10  maggio  2022,  n.  149,  la  Corte
costituzionale ha ribadito i principi sopra espressi, precisando  che
comunque, i due rimedi disapplicazione  e  giudizio  di  legittimita'
costituzionale - rimangono concorrenti. 
    Nella recente pronuncia, i giudici  costituzionali  hanno  invero
precisato   che:    «secondo    un'ormai    copiosa    giurisprudenza
costituzionale, l'eventuale effetto diretto negli  ordinamenti  degli
Stati membri dei diritti riconosciuti dalla Carta (e delle  norme  di
diritto derivato attuative di tali diritti) non  rende  inammissibili
le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  che   denuncino   il
contrasto tra una disposizione di legge  nazionale  e  quei  medesimi
diritti, i quali intersecano in larga misura i principi e  i  diritti
garantiti dalla stessa Costituzione italiana. Questioni siffatte, una
volta sollevate, debbono  invece  essere  scrutinate  nel  merito  da
questa Corte, cui unicamente spetta il  compito  di  dichiarare,  con
effetti   erga   omnes,   l'illegittimita'    costituzionale    delle
disposizioni che risultassero contrarie alla Carta,  in  forza  degli
articoli 11 e 117, comma 1, della Costituzione (sentenze  n.  54  del
2022; n. 182 del 2021; n. 49 del 2021; n. 11  del  2020,  n.  63  del
2019; n. 20 del 2019 e n. 269 del 2017; ordinanze n. 182 del  2020  e
n. 117 del 2019). Tale rimedio non si sostituisce, ma si  aggiunge  a
quello rappresentato dalla disapplicazione nel singolo caso concreto,
da parte del giudice comune, della disposizione contraria a una norma
della Carta avente effetto diretto (sentenza  n.  67  del  2022:  "il
sindacato accentrato di costituzionalita', configurato dall'art.  134
della Costituzione, non e' alternativo a  un  meccanismo  diffuso  di
attuazione  del  diritto  europeo").   E   cio'   in   un'ottica   di
arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali che,
'per definizione, esclude ogni preclusione' (ancora, sentenza  n.  20
del 2019), e che vede tanto il giudice  comune  quanto  questa  Corte
impegnati  a  dare  attuazione   al   diritto   dell'Unione   europea
nell'ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno
nell'ambito delle rispettive competenze». 
    E' vero che  le  norme  censurate  si  appalesano  viziate  tanto
rispetto  alla  Carta   Costituzionale   quanto   al   Trattato   sul
funzionamento dell'Unione europea ma la questione all'attenzione  del
Collegio investe la porzione di competenza del legislatore  nazionale
e all'ordinamento comunitario e' precluso entrare  nel  merito  della
discrezionalita' del legislatore nazionale in materia di sicurezza  e
ordine pubblico. 
1.6. Sulla non infondatezza. 
    Oltre che rilevante, nei termini appena esplicitati, la questione
non e' manifestamente infondata. 
    Acclarata l'impossibilita' di  addivenire  ad  un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma al vaglio  del  Collegio  e,
prima   di   procedere   puntualmente   all'analisi   dei   parametri
costituzionali di riferimento,  occorre  soffermarsi  brevemente  sul
principio di proporzionalita' in via generale e,  poi,  in  relazione
alla materia dell'immigrazione. 
    Il principio di proporzionalita' ha anzitutto radici nel  diritto
eurounitario.  Da  canone  ermeneutico  utilizzato  dalla  Corte   di
giustizia (ex  plurimis,  C-8/1955  Federation  Charbonniere,  C-  5-
11-13-15/1962 Societa' acciaierie San Michele) ha assunto sempre  una
maggiore  preminenza  nel  panorama  dei  principi  fondamentali  del
diritto  europeo,  sino  a  trovare  positivizzazione  nel   Trattato
dell'Unione europea, all'art. 5. Il  principio  di  proporzionalita',
inteso quale limite all'azione delle istituzioni dell'Unione a quanto
e' strettamente necessario per il conseguimento degli  obiettivi  del
Trattato, e' al tempo stesso criterio di predisposizione  degli  atti
normativi e amministrativi e parametro di valutazione degli stessi. 
    Tale principio e' stato declinato secondo due modelli, un modello
trifasico e un modello bifasico. 
    Secondo il primo, la proporzionalita' si compone di tre elementi:
idoneita', necessarieta' e  proporzionalita'  in  senso  stretto.  E'
idonea  la  misura  che  permette  il  raggiungimento  del  fine,  il
conseguimento  del  risultato  prefissato.  La  misura  deve   essere
pubblico ministero necessaria, vale a dire l'unica possibile  per  il
raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalita' in senso
stretto  richiede,  invece,  che  la  scelta  amministrativa   ovvero
legislativa non  rappresenti  un  sacrificio  eccessivo  nella  sfera
giuridica del privato. 
    Nel modello bifasico,  il  requisito  della  proporzionalita'  in
senso stretto e' contenuto nella idoneita' e  nella  necessita'  come
fine ultimo del principio, come obiettivo che si persegue  attraverso
le scelte, siano esse legislative ovvero amministrative. 
    Nella   giurisprudenza   della    Corte    di    giustizia,    la
proporzionalita' e' stata declinata  nella  maggior  parte  dei  casi
secondo  il  modello  bifasico.  Qualunque  sia  il  modello  a   cui
l'interprete aderisca, il principio  di  proporzionalita',  nell'idea
della Corte, rimane comunque un concetto duttile che  si  concretizza
volta per volta in base agli scopi perseguiti dai Trattati. 
    Anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
ha avuto modo di occuparsi del principio di proporzionalita'  che  ha
una portata non meno rilevante. 
    La Corte in particolare, si e' soffermata piu'  volte  su  quello
che viene definito il «margin of appreciation» degli Stati membri, lo
spazio di manovra che  l'Istituzione  garantisce  agli  stessi  nella
protezione delle liberta'  prevista  nella  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    Pur ribadendo che gli Stati godono di un margine di apprezzamento
nell'individuazione  delle  misure  idonee  a  tutelare  le  liberta'
previste dalla Convenzione, la Corte ha stabilito che, nella  scelta,
dette misure fossero ragionevolmente necessarie. 
    Nella case law, Z. contro Finland, al paragrafo 94, la Corte  ha,
invero, avuto modo di  precisare  che  «in  determining  whether  the
impugned measures were "necessary in a democratic society", the Court
will consider whether, in the light of  the  case  as  a  whole,  the
reasons adduced to justify them  were  relevant  and  sufficient  and
whether the  measures  were  proportionate  to  the  legitimate  aims
pursued». 
    E' necessario,  quindi,  una  misura  che,  pur  incidendo  sulle
liberta' fondamentali  dell'individuo,  corrisponda  all'esigenza  di
tutelare un bene giuridico che, nel bilanciamento tra i  contrapposti
interessi,  risulti  prevalente  e  che  comunque   la   stessa   sia
proporzionata al fine perseguito. 
    Accanto alla proporzionalita' viene in  rilievo  il  concetto  di
ragionevolezza. Il rapporto tra i due valori  e'  ancora  oggetto  di
dibattito tra gli interpreti. 
    Per lungo tempo, proporzionalita'  e  ragionevolezza  sono  stati
considerati sinonimi ma, attualmente, il dibattito  giurisprudenziale
e dottrinale sul punto converge verso il  riconoscimento  della  loro
autonomia. 
    Per essere ragionevole, la norma deve essere coerente con il fine
perseguito,  ne  deve  essere  deduzione   logica,   rappresentazione
pratica. Oltre che soluzione proporzionata - nel senso  di  idonea  e
necessaria - deve rispondere ad una precisa esigenza di tutela. 
    Il principio di ragionevolezza comprende a monte  la  valutazione
dei fatti che  hanno  determinano  la  decisione  legislativa  e  che
perimetrano  il  bene  della  vita  che  si  intende  proteggere.  La
ragionevolezza e la proporzionalita', quindi, non  possono  definirsi
sinonimi ma sono in un rapporto di interdipendenza. Il legislatore  -
o   l'amministrazione   nell'esercizio   del   proprio    potere    -
preliminarmente opera una indagine e una valutazione degli interessi.
In  secondo  luogo  deve  predisporre   una   misura   che   risponda
all'interesse  da  perseguire  e  che  abbia  il  corretto  punto  di
bilanciamento tra interessi inevitabilmente  confliggenti.  Anche  la
Corte europea dei diritti dell'uomo, in alcune pronunce, ha  distinto
i due concetti statuendo che «what is necessary is more than what  is
desirable or reasonable» (Dudgeon verso the United Kingdom, paragrafi
51-53). 
    Nella  specifica  materia  dell'immigrazione,  la  stessa   Corte
costituzionale (sentenza n. 148 del 2008), ha avuto modo di  ribadire
che  «la  regolamentazione  dell'ingresso  e  del   soggiorno   dello
straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione  di
svariati interessi pubblici, quali, ad esempio,  la  sicurezza  e  la
sanita'  pubblica,  l'ordine  pubblico,  i   vincoli   di   carattere
internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale
ponderazione spetta in via  primaria  al  legislatore  ordinario,  il
quale possiede in materia un'ampia discrezionalita', limitata,  sotto
il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che
le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli». 
    La  stessa  Corte  quindi,  nonostante  l'ampia  discrezionalita'
riconosciuta al legislatore nella subietta materia,  non  la  esclude
dal sindacato di proporzionalita'. 
1.7. Della incompatibilita' con l'art. 3 della Costituzione. 
    Secondo l'art. 4, comma 3, decreto legislativo n. 286  del  1998,
«ferme restando le disposizioni di cui all'art. 3, comma 4, l'Italia,
in armonia con  gli  obblighi  assunti  con  l'adesione  a  specifici
accordi internazionali, consentira' l'ingresso nel proprio territorio
allo  straniero  che  dimostri  di  essere  in  possesso  di   idonea
documentazione atta  a  confermare  lo  scopo  e  le  condizioni  del
soggiorno,  nonche'  la  disponibilita'  di  mezzi   di   sussistenza
sufficienti per la durata del soggiorno  e,  fatta  eccezione  per  i
permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno  nel
Paese di provenienza.  I  mezzi  di  sussistenza  sono  definiti  con
apposita direttiva emanata dal Ministro dell'interno, sulla base  dei
criteri indicati nel documento di programmazione di cui  all'art.  3,
comma 1. Non e' ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi  tali
requisiti o che sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico  o
la sicurezza dello Stato o di uno dei  Paesi  con  i  quali  l'Italia
abbia sottoscritto accordi per la  soppressione  dei  controlli  alle
frontiere interne e  la  libera  circolazione  delle  persone  o  che
risulti condannato,  anche  con  sentenza  non  definitiva,  compresa
quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta  ai
sensi dell'art. 444 codice di procedura penale,  per  reati  previsti
dall'art. 380, commi 1 e 2, codice di  procedura  penale  ovvero  per
reati  inerenti  gli   stupefacenti,   la   liberta'   sessuale,   il
favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina  verso   l'Italia   e
dell'emigrazione clandestina dall'Italia  verso  altri  Stati  o  per
reati  diretti  al  reclutamento  di  persone   da   destinare   alla
prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori  da
impiegare in attivita' illecite. Impedisce l'ingresso dello straniero
in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per  uno  dei
reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo  III,  sezione
II, legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di
autore, e degli articoli 473 e 474 codice penale nonche' dall'art. 1,
decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66,  e  dall'art.  24,  regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773». 
    Con tale disposizione  il  legislatore  ha  stabilito  i  casi in
presenza dei quali il soggiorno del cittadino straniero  nello  Stato
italiano  non  risulta  essere   compatibile   perche'   lo   stesso,
commettendo uno dei reati elencati, ha violato  il  patto  di  civile
convivenza, ha disobbedito alle  regole  ed  e',  per  tale  ragione,
considerato una minaccia per la sicurezza pubblica. 
    L'art. 4, comma 3, del TU immigrazione e', quindi,  il  punto  di
equilibrio raggiunto dal legislatore per la protezione del bene della
sicurezza pubblica di fronte al quale la liberta'  di  soggiorno  del
singolo diviene recessiva. 
    La violazione  del  patto  di  civile  convivenza  con  lo  Stato
italiano comporta, da un punto di vista amministrativo,  l'automatico
diniego di riconoscimento del permesso di soggiorno ovvero la  revoca
del titolo, qualora il cittadino straniero ne  fosse  gia'  titolare,
con contestuale allontanamento dello stesso dal territorio  nazionale
in quanto sprovvisto di un valido titolo di soggiorno. 
    Ai  fini  della  compatibilita',  in  termini  di  liceita',  del
soggiorno  del  cittadino  straniero  sul  territorio  nazionale   e'
necessario che lo stesso non  abbia  riportato  condanne,  anche  con
sentenza non definitiva, compresa quella in applicazione  della  pena
su richiesta delle parti per i reati richiamati dall' art. 380, commi
1 e 2, codice di procedura penale, reati,  quindi,  per  i  quali  e'
previsto l'arresto  obbligatorio  in  flagranza;  tutti  i  reati  in
materia di stupefacenti,  a  prescindere  dalle  differenziazioni  in
termini di condotta e di trattamento sanzionatorio previsti dall'art.
73, decreto del Presidente della Repubblica n. 309  del  1990;  reati
inerenti la liberta' sessuale; reati che  favoriscano  l'immigrazione
clandestina;   reati   che   favoriscano   lo   sfruttamento    della
prostituzione; reati che coinvolgano minori e, in particolar modo, lo
sfruttamento  dei  minori  nelle   attivita'   illecite;   reato   di
contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero
di brevetti, modelli e disegni (art. 473 codice penale)  e  reato  di
introduzione nello Stato e commercio  di  prodotti  con  segni  falsi
(art. 474 codice penale); reati contro la circolazione (chiunque,  al
fine di impedire od  ostacolare  la  libera  circolazione,  depone  o
abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una  strada
ordinaria o ferrata  o  comunque  ostruisce  o  ingombra  una  strada
ordinaria o ferrata, ad eccezione dei casi previsti dall'art.  1-bis,
e' punito con la reclusione da uno a sei anni) e reato di rifiuto  di
scioglimento di riunione in luogo pubblico. 
    Si tratta, a ben vedere, di fattispecie criminose disomogenee tra
loro in termini di condotta, di bene giuridico  protetto,  di  limiti
edittali di trattamento sanzionatorio e di allarme sociale. 
    L'art. 380 codice di procedura penale, ad esempio, contempla, tra
le altre le seguenti ipotesi di reato: reati per i quali sia prevista
la  pena  detentiva  dell'ergastolo  ovvero  della   reclusione   non
inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo  a  venti  anni.  Al
comma 2, il legislatore ha preso in considerazione i reati contro  la
personalita' dello Stato, reati contro l'incolumita' pubblica,  reati
di intermediazione illecita  e  sfruttamento  del  lavoro,  reati  di
violenza sessuale e atti sessuali  con  minorenni,  reati  contro  il
patrimonio nella forma aggravata  (tra  gli  altri  furto  aggravato,
ricettazione aggravata). 
    La ratio di una siffatta previsione normativa  risiede(va)  nella
necessita'  di  tutela  della  sicurezza  pubblica  da  condotte  che
interrompessero la pacifica convivenza tra cives, che  violassero  le
regole fondamentali tra cittadino e Stato. 
    Il Collegio dubita della tenuta costituzionale  della  norma  con
riferimento all'art.  73,  comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica  n.  309  del  1990  e,  quindi,  all'applicabilita'   del
meccanismo di automatismo ivi previsto, in applicazione dei  principi
di ragionevolezza e proporzionalita' sopra richiamati. 
1.8. Sui canoni di proporzionalita' e ragionevolezza. 
    La Corte costituzionale  ha  piu'  volte  chiarito  quale  e'  il
perimetro del proprio sindacato in materia di immigrazione. 
    In particolare, nella sentenza 3 luglio 2013, n. 202, la Corte ha
stabilito   che   «al   legislatore    e'    riconosciuta    un'ampia
discrezionalita' nella regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno
dello straniero nel territorio  nazionale,  in  considerazione  della
pluralita' degli interessi che tale regolazione  riguarda;  peraltro,
si deve altresi' sottolineare che la medesima Corte  ha  regolarmente
ribadito che  tale  discrezionalita'  legislativa  non  e'  assoluta,
dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento  di
tutti i diritti e gli  interessi  coinvolti,  soprattutto  quando  la
disciplina dell'immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti
fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente  nei  confronti
del cittadino e del non cittadino (sentenze n. 172 del 2012;  n.  245
del 2011; n. 299 e 249 del 2010; n. 148 del 2008; n. 206 del 2006; n.
78 del 2005). 
    Nell'ambito di questa discrezionalita', il legislatore puo' anche
prevedere casi in cui, di fronte alla commissione  di  reati  di  una
certa gravita', ritenuti particolarmente pericolosi per la  sicurezza
e l'ordine pubblico, l'amministrazione sia tenuta a revocare o negare
il  permesso  di  soggiorno   automaticamente   e   senza   ulteriori
considerazioni. Questa Corte ha gia' avuto modo di rimarcare che,  in
linea generale, statuizioni  di  tal  genere  non  sono  di  per  se'
manifestamente irragionevoli «costituendo l'automatismo espulsivo  un
riflesso del principio  di  stretta  legalita'  che  permea  l'intera
disciplina  dell'immigrazione  e  che  costituisce,  anche  per   gli
stranieri presidio ineliminabile dei  loro  diritti,  consentendo  di
scongiurare  arbitrii   da   parte   dell'autorita'   amministrativa»
(sentenza n. 148 del 2008). 
    Ai sensi della giurisprudenza pregressa, dunque, la condanna  per
determinati  reati  di  uno  straniero  non  appartenente  all'Unione
europea  ben  puo'  giustificare  la  previsione  di  un  automatismo
ostativo al rilascio o al  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,  ma
occorre pur sempre  che  una  simile  previsione  possa  considerarsi
rispettosa di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai  sensi
dell'art. 3 della  Costituzione,  tra  l'esigenza,  da  un  lato,  di
tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i
flussi migratori e, dall'altro,  di  salvaguardare  i  diritti  dello
straniero, riconosciutigli dalla Costituzione (sentenza  n.  172  del
2012). 
    Pertanto,  questa  Corte  e'  chiamata  a  verificare   che   gli
automatismi  disposti  dal  legislatore  rispecchino  un  ragionevole
bilanciamento  tra  tutti  gli  interessi  e  i  diritti  di  rilievo
costituzionale coinvolti nella  disciplina  dell'immigrazione  e  non
puo' esimersi  dal  censurare  quelle  disposizioni  legislative  che
incidano  in  modo  sproporzionato  e   irragionevole   sui   diritti
fondamentali (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n.  249  del  2010).
Nell'ambito di tali valutazioni la Corte  deve  altresi'  considerare
che gli automatismi procedurali, essendo basati  su  una  presunzione
assoluta di  pericolosita',  devono  ritenersi  arbitrari  e  percio'
costituzionalmente  illegittimi,  se  non  rispondono   a   dati   di
esperienza generalizzati, quando cioe' sia agevole - come nel caso in
esame  -  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari   alla
generalizzazione posta alla base della presunzione  stessa  (sentenze
n. 57 del 2013; n. 172 e n. 110 del 2012; n. 231 del 2011; n. 265, n.
164 e n. 139 del 2010).». 
    Tanto premesso, rileva  il  Collegio  che  il  legislatore,  come
verra' meglio chiarito in seguito, ha parificato, dal punto di  vista
della sanzione amministrativa, reati,  quali  ad  esempio  l'omicidio
volontario punito, ai sensi  dell'art.  575  codice  penale,  con  la
reclusione non inferiore ad anni 21 e l'art. 73, comma 5 decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990, punito con la reclusione  da
sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. 
    Il Collegio e' altresi' consapevole che la  Corte  costituzionale
ha avuto modo di esprimersi sulla tenuta costituzionale dell'art.  4,
comma 3,  decreto  legislativo  n.  286  del  1998,  con  particolare
riferimento all'art.  73,  comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del  1990,  precisando  che,  in  questa  specifica
materia in cui viene in rilievo  l'interesse  supremo  alla  pubblica
sicurezza, la scelta del legislatore  di  accumunare  fattispecie  di
reato che sono antologicamente diverse per bene  giuridico  tutelato,
per oggetto, per trattamento sanzionatorio e per grado di allarme non
appare irragionevole. 
    In quella occasione, la  Corte  ha  ritenuto  non  manifestamente
irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero
nel territorio nazionale alla circostanza della  mancata  commissione
di reati di non scarso  rilievo  (...)  in  quanto  «il  rifiuto  del
rilascio  o  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,  previsto   dalle
disposizioni in oggetto, non costituisce sanzione penale, sicche'  il
legislatore ben puo' stabilirlo  per  fatti  che,  sotto  il  profilo
penale, hanno una diversa gravita', valutandolo  misura  idonea  alla
realizzazione dell'interesse pubblico alla sicurezza e tranquillita',
anche se ai fini penali i fatti stessi  hanno  ricevuto  una  diversa
valutazione. Sotto questo aspetto  neppure  puo'  essere  considerata
manifestamente irragionevole la scelta legislativa di non  aver  dato
rilievo alla sussistenza delle  condizioni  per  la  concessione  del
beneficio della  sospensione  della  pena,  a  differenza  di  quanto
avviene per l'espulsione dal  territorio  nazionale  come  misura  di
sicurezza (sentenza n. 58 del 1995). Invero, il fatto che la prognosi
favorevole  in  merito  all'astensione  del  condannato,  nel   tempo
stabilito dalla legge,  dalla  commissione  di  ulteriori  reati  sia
condotta, ai fini  della  non  esecuzione  della  pena,  con  criteri
diversi da quelli che presiedono  al  giudizio  di  indesiderabilita'
dello straniero nel territorio italiano, non  puo'  considerarsi,  di
per se', in contrasto con il principio di razionalità-equita', attesa
la  non  coincidenza  delle  due  suddette  valutazioni.  D'altronde,
l'inclusione  di  condanne  per   qualsiasi   reato   inerente   agli
stupefacenti tra le cause ostative  all'ingresso  e  alla  permanenza
dello straniero in Italia  non  appare  manifestamente  irragionevole
qualora si consideri che  si  tratta  di  ipotesi  delittuose  spesso
implicanti  contatti,  a  diversi  livelli,   con   appartenenti   ad
organizzazioni criminali o che, comunque, sono dirette ad  alimentare
il cosiddetto mercato della droga, il  quale  rappresenta  una  delle
maggiori fonti di reddito della criminalita' organizzata (sentenza n.
333  del  1991).  Del  pari  infondato  e'  il  profilo  di   censura
concernente  il  tipo  di  procedimento  seguito  per  giungere  alla
condanna penale e la natura della sentenza con  la  quale  questa  e'
stata pronunciata. Infatti, da un lato, la sentenza  di  applicazione
della pena su richiesta, salve diverse  disposizioni  di  legge,  "e'
equiparata a una pronuncia di condanna" (art. 445, comma 1, codice di
procedura penale) e, d'altra parte, per le fattispecie - quali quelle
oggetto  dei  giudizi  a  quibus  -  interamente  verificatesi   dopo
l'entrata in vigore della legge n. 189 del  2002,  il  fatto  che  la
condanna  sia  intervenuta  in  sede  di  patteggiamento  non  appare
significativo,  in  quanto  'nell'opzione   del   rito   alternativo,
l'imputato e' posto ex ante nella piena condizione di conoscere tutte
le  conseguenze  scaturenti   dalla   scelta   processuale   operata'
(ordinanza n. 456 del 2007).» 
    L'automatismo  espulsivo,  secondo  la  Corte,  sarebbe  poi  «un
riflesso del principio  di  stretta  legalita'  che  permea  l'intera
disciplina  dell'immigrazione  e  che  costituisce,  anche  per   gli
stranieri, presidio ineliminabile dei loro  diritti,  consentendo  di
scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorita' amministrativa»
(ordinanza n. 146 del 2002)». 
    Cionondimeno, il  Collegio  dubita  della  tenuta  costituzionale
della norma avuto riguardo alla  specificita'  della  fattispecie  in
considerazione dell'evoluzione che  la  stessa  giurisprudenza  della
Corte costituzionale  ha  maturato  negli  ultimi  anni  in  tema  di
proporzionalita' della pena  che  possono  applicarsi,  in  via  piu'
generale, alla proporzionalita' delle sanzioni  amministrative  quale
il provvedimento di espulsione che consegue al diniego  del  permesso
di soggiorno ovvero alla revoca nel caso in  questo  sia  stato  gia'
rilasciato. 
    Ed invero, in una pronuncia successiva, sentenza 2  luglio  2012,
n. 172, la Corte si e' espressa  sulla  tenuta  costituzionale  della
procedura di emersione del 2009. L'art. 1-ter, comma 13, lettera  c),
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 e' stato ritenuto non compatibile
con l'art 3 della Costituzione in quanto limitava il sindacato  della
pubblica  amministrazione,  non  permettendo  la  valutazione   della
pericolosita' in concreto del cittadino straniero. E' corretto, nella
prospettazione della Corte che il legislatore  limiti  la  permanenza
del cittadino nel territorio dello Stato se questo  e'  necessario  a
salvaguardare il bene  superiore  della  sicurezza  pubblica  ma  «la
relativa scelta deve costituire il  risultato  di  un  ragionevole  e
proporzionato bilanciamento  degli  stessi,  soprattutto  quando  sia
suscettibile di incidere sul godimento dei diritti  fondamentali  dei
quali e' titolare anche lo straniero extracomunitario». 
    Proprio in tema di reati in  materia  di  sostanze  stupefacenti,
seppur in  un  contesto  diverso  rispetto  a  quello  oggetto  della
presente ordinanza, la Corte costituzionale, modificando  il  proprio
precedente indirizzo, ha dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art 73, comma l, decreto del Presidente della Repubblica n.  309
del 1990 nella parte in cui prevedeva la pena minima  edittale  della
reclusione nella misura  di  otto  anni  anziche'  di  sei  anni.  La
differenza di quattro anni tra il minimo  di  pena  previsto  per  la
fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della  pena  stabilito
per  quella  di  lieve  entita'  (quattro  anni)  avrebbe  costituito
un'anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza,
proporzionalita',  ragionevolezza  nonche'  con  il  principio  della
funzione rieducativa della pena. 
    Tale declaratoria di incostituzionalita' si e' resa necessaria  -
a fronte di un precedente che aveva ritenuto  invece  sussistente  la
tenuta costituzionale della norma - per due  ragioni:  la  differenza
sproporzionata  in  quanto  non  necessaria  ne'  idonea   a   punire
correttamente, nel senso di  rieducare  correttamente,  e  la  prassi
giudiziaria  che,  nei  casi   «di   confine»,   operava   «forzature
interpretative» volte ad ampliare l'ambito applicativo delle  ipotesi
di lieve entita' di cui al comma quinto  dell'art.  73,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. 
    Sullo stesso piano, in termini di proporzionalita',  si  pongono,
tra le altre, le pronunce sull'ordinamento  penitenziario  (ordinanza
12 maggio  2021)  e  sul  divieto  di  prevalenza  della  circostanza
attenuante di cui all'art. 116, secondo comma, codice  penale,  sulla
recidiva di cui all'art.  99,  quarto  comma,  codice  penale  (Corte
costituzionale, sentenza 25 febbraio 2021, n. 55). 
    In  particolare,  sul  dibattito  delle  scelte  legislative  che
incidono negativamente sui diritti fondamentali, viene in rilievo, da
ultimo, la sopra citata sentenza n. 149 del 2022, secondo cui «non e'
inutile precisare in limine  che  tali  criteri  debbono  essere  qui
declinati in relazione alla logica peculiare del giudizio  innanzi  a
questa  Corte,  il  cui  compito  non  e'  quello  di  verificare  la
sussistenza di violazioni  del  diritto  fondamentale  in  esame  nel
singolo caso concreto, bensi' quello di stabilire  se  il  meccanismo
normativa  disegnato  dal  legislatore  sia   tale   da   determinare
violazioni di tale diritto fondamentale in un numero indeterminato di
casi». 
    Premesso che questo Collegio non ritiene la scelta di  accumunare
fattispecie di reato diverse allo stesso  regime  sanzionario  sempre
contrario al principio di proporzionalita', tuttavia osserva che, nel
preciso caso dell'art.  73  comma  5  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990, questa scelta legislativa e' suscettibile  di
determinare  violazione  dei  diritti  fondamentali  in   un   numero
indeterminato di casi. 
    La Corte costituzionale aveva gia' avuto modo di  sostenere  che,
ai fini del sindacato di proporzionalita' del  giudice  delle  leggi,
gli automatismi  procedurali  devono  ritenersi  arbitrari  e  quindi
costituzionalmente  illegittimi  «se  non  rispondono   a   dati   di
esperienza generalizzati». 
    Questo profilo  e'  stato  valorizzato  anche  nell'ordinanza  12
maggio 2021, n. 97 con la quale - in tema di  ergastolo  ostativo  di
cui agli articoli 4-bis, comma l, e 58-ter, legge 26 luglio 1975,  n.
354  -  la  Corte  costituzionale  ha  «sospeso»   il   giudizio   di
legittimita' costituzionale per lasciare  al  Parlamento  un  congruo
tempo per affrontare la materia. 
    Richiamando la sentenza n. 253 del 2019, la Corte ha ribadito che
anche la presunzione assoluta  di  pericolosita'  a  carico  del  non
collaborante condannato per associazione  per  delinquere  di  stampo
mafioso mostra la propria irragionevolezza, perche' si  basa  su  una
generalizzazione che i dati dell'esperienza possono smentire. 
    Dello stesso avviso e' la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,
secondo cui la scelta di  intervenire  sui  diritti  fondamentali  in
senso negativo e' proporzionata  se  si  ravvisa  l'esistenza  di  un
«pressing social need» (Dudgeon verso the United  Kingdom,  paragrafi
51-53). 
    La condotta di spaccio  di  sostanze  stupefacenti  e'  stata  da
sempre oggetto di generalizzazione perche'  ritenuta  particolarmente
grave in termini di allarme sociale. Nella  previsione  dell'art.  4,
comma 3, decreto legislativo n.  286  del  1998,  il  legislatore  ha
utilizzato un approccio rafforzato. Dopo aver  disposto  che  non  e'
ammesso in Italia il cittadino straniero che ha  commesso  una  delle
ipotesi di reato di cui all'art. 380 codice di procedura penale  che,
esclude dall'arresto in flagranza di reato, l'ipotesi di  spaccio  di
lieve entita' di cui all'art. 73, comma  5,  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309 del 1990, ha  parificato  tutte  le  condotte
inerenti  la   cessione,   la   coltivazione,   la   detenzione,   la
commercializzazione di sostanze stupefacenti. 
    L'art. 4, comma 3 TU immigrazione, facendo riferimento a «i reati
inerenti  gli   stupefacenti»,   rende   automaticamente   tutte   le
fattispecie di reato in materia di stupefacenti ostative alla  lecita
permanenza  del  cittadino  straniero  nel  territorio   italiano   a
prescindere dalla gravita'. 
    La giurisprudenza, anche di questa  sezione,  ha  di  conseguenza
escluso la rilevanza di differenza fra condanne pronunciate in  forza
dell'art. 73, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 309
del 1990 e quelle inflitte «per fatti di lieve entita'» in quanto  la
scelta  del  legislatore  era  indirizzata  alla  protezione  di  una
esigenza di conformazione agli impegni di  «inibitoria»  di  traffici
riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili. 
    Il Collegio, tuttavia, ritiene che  tale  automatismo,  ancorche'
giustificato nel momento in  cui  e'  stato  previsto  per  l'allarme
sociale della condotta  censurata,  debba  essere  ripensato  perche'
contrario al principio di proporzionalita' nei termini che seguono. 
    La forbice edittale di cui all'art.  73,  comma  5,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 prevede  la  possibilita'
di  commisurare  la  pena   a   fattispecie   di   reato   che   sono
ontologicamente diverse perche'  commesse  da  soggetti  diversi  che
hanno personalita' diverse (una cosa e' prendere in considerazione il
delinquente abituale, altra e' il soggetto imputabile che  ha  ceduto
una tantum), che hanno utilizzato mezzi diversi, rendendo la  propria
condotta criminosa piu' o meno grave. 
    Questo Collegio ritiene che, anche nel  caso  della  condotta  di
spaccio  di  sostanza  stupefacente   di   lieve   entita',   privare
l'amministrazione del potere di valutare la  situazione  concreta  il
percorso   di   reinserimento    nella    societa',    l'integrazione
socio-lavorativa, l'assenza di legami familiari anche  nel  Paese  di
origine, la personalita' dell'autore - sia contrario al principio  di
proporzionalita' perche' non necessario. 
    La scelta legislativa di parificare fattispecie di reato  che  si
connotano per violenza, efferatezza, condotte  contrarie  alla  vita,
all'incolumita' fisica e psichica, alla liberta' sessuale (quali, tra
gli altri, reati di omicidio, violenza sessuale,  atti  sessuali  con
minorenni) con un reato che,  ancorche'  suscettibile  di  essere  un
potenziale pericolo per beni di interesse rilevantissimo - la salute,
la sicurezza pubblica, il benessere delle  future  generazioni  -  lo
stesso legislatore, per le modalita' di realizzazione della  condotta
criminosa  nonche'  per  il  minor  grado  di  aggressione  al   bene
giuridico,  ha  ritenuto  meno  grave,  prevedendo  una  collocazione
topografica autonoma, un trattamento sanzionatorio  piu'  mite  e  un
conseguente regime processuale differenziato nei termini che seguono. 
    Anzitutto,  l'ipotesi  di  reato  di  cessione  ovvero,  piu'  in
generale, di detenzione di sostanza stupefacente di modica quantita',
e' previsto e punito nell'autonoma fattispecie sanzionatoria  di  cui
al comma 5 dell'art. 73, decreto del Presidente della  Repubblica  n.
309 del 1990 che delinea in modo differenziato  tale  fattispecie  da
quella aggravata prevista dal comma 1 del medesimo articolo. 
    La Corte di cassazione (sez. VI, 26 marzo  2014,  n.  14288),  ha
avuto modo di precisare che «la nuova  "ipotesi  lieve"  di  condotta
illecita in tema di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 5,  decreto
del Presidente della Repubblica n.  309  del  1990,  come  modificato
dall'art. 2, decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella
legge 21 febbraio 2014, n. 10) dev'essere configurata come figura  di
reato autonoma rispetto a quella delineata dal comma primo  dell'art.
73 decreto del Presidente della Repubblica cit., in base al  criterio
testuale, a quello sistematico e all'intentio legis, non  contrastati
da decisivi argomenti di segno opposto». 
    La differenza  del  trattamento  sanzionatorio,  della  struttura
della norma - condotta, modalita' dell'azione -  e  l'inserimento  di
una clausola di sussidiarieta' «salvo che il fatto  costituisca  piu'
grave reato» conducono l'interprete a ritenere che si tratti  di  una
ipotesi autonoma di reato. 
    Sotto il profilo processuale, da un lato la  scelta  di  inserire
indistintamente, secondo un meccanismo di mero automatismo,  tutti  i
reati  in  materia  di  stupefacenti  a  prescindere  dalla  gravita'
contrasta con la  scelta,  diversa,  operata  in  ambito  processuale
penalistico in materia di arresto in flagranza di reato. 
    Ed invero, ai sensi dell'art. 380  codice  di  procedura  penale,
l'arresto obbligatorio in  flagranza  di  reato  esclude  dall'ambito
della  propria  applicabilita'  l'art.  73,  comma  5,  decreto   del
Presidente della Repubblica n. 309 del  1990.  Secondo  il  comma  2,
lettera  h),  della  disposizione,  infatti,  e'  previsto  l'arresto
obbligatorio in  flagranza  per  i  «delitti   concernenti   sostanze
stupefacenti o psicotrope puniti a norma dell'art. 73 del testo unico
stupefacenti approvato con decreto del Presidente della Repubblica  9
ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma  5  del
medesimo articolo»; 
    L'esigenza di proporzione che emerge dalla scelta del legislatore
di non disperdere sforzi di  sicurezza  pubblica  in  fattispecie  di
reati che,  ancorche'  gravi,  non  meritano  in  via  automatica  la
privazione  della  liberta'  personale,  si  riflette   anche   nella
progressiva apertura verso modifiche normative di alleggerimento  del
trattamento  sanzionatorio  in  quanto,  alcune  condotte  di   reato
inerenti le sostanze stupefacenti, non sono piu' sintomatiche da quel
necessario grado di «pressing social need» che rende proporzionata la
misura. 
    Si fa riferimento al  percorso  legislativo  in  discussione  nel
Parlamento in materia di spaccio di lieve  entita'.  L'art.  3  della
proposta di legge n. 2815 presentata il 4  dicembre  2020,  rubricato
«fatti di lieve entita'», prevede che «il comma 5  dell'art.  73  del
testo unico di cui al  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  9
ottobre 1990, n. 309, e' sostituito dal seguente: "5.  Salvo  che  il
fatto costituisca piu' grave reato, chiunque commette uno  dei  fatti
previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la  modalita'  o  le
circostanze dell'azione, ovvero per la  qualita'  e  quantita'  delle
sostanze, e' di lieve entita', e' punito con le pene della reclusione
da uno a sei anni e della multa da euro 2.064 a  euro  13.000  se  si
tratta di sostanze comprese nelle tabelle I e III previste  dall'art.
14, ovvero con le pene della reclusione da sei  mesi  a  tre  anni  e
della multa da euro 1.032 a euro  6.500  se  si  tratta  di  sostanze
comprese nelle tabelle II e IV previste dall'art. 14".». 
    La proposta dovra' seguire l'iter di discussione parlamentare  ma
e' comunque, al momento sintomatica  di  una  percepita  esigenza  di
differenziazione,  di  necessita'  di  ponderazione  e  di   accurata
valutazione,  esigenza  che,  come   dimostra   il   vigente   regime
sostanziale  e  processuale  sopra  richiamato,  e'   gia'   presente
nell'ordinamento giuridico. 
    La ratio del legislatore, de iure condendo, come  chiarito  nella
presentazione della proposta  di  legge,  e'  quella  di  valorizzare
l'aspetto della «gravita' concreta»  delle  fattispecie  di  reato  e
della proporzionalita' delle pene anche  in  ordine  a  prevenire  il
sovraffollamento della popolazione carceraria per fatti di reato  che
necessitano un differente approccio. 
    L'automatismo in ogni  caso  non  puo'  dirsi  misura  necessaria
ovvero idonea alla tutela della  sicurezza  pubblica.  L'esigenza  di
pubblica sicurezza, come accade  in  altri  casi  non  ostativi,  ben
potrebbe essere tutelata dal potere dell'amministrazione di procedere
alla valutazione in concreto della fattispecie. 
    Non e' neppure proporzionata  in  senso  stretto  perche'  troppo
pregiudizievole della sfera del privato  il  quale  non  puo'  addure
alcun  elemento  relativo  al  proprio   percorso   di   integrazione
socio-lavorativa   che   possa   essere   preso   in   considerazione
dall'amministrazione  la  quale  si  vede   costretta   a   rigettare
l'istanza. 
    Parificare,   in   via   automatica,   sotto   l'unico    profilo
dell'espulsione, la condotta di cessione di una piccola quantita'  di
sostanza stupefacente con reati gravi quali, ad esempio, l'omicidio e
la violenza sessuale, appare, a parere del  Collegio,  sproporzionato
specie con riferimento al  principio  di  proporzionalita'  in  senso
stretto, in quanto, tale discrimine  determina  un  sacrificio  della
posizione giuridica dello straniero che non risponde a  necessita'  e
puo' risultare, in taluni casi, ingiustificatamente discriminatorio. 
    Tali argomentazioni si prestano a giustificare altresi' il vulnus
che la norma censurata arreca, a parere del Collegio, al principio di
ragionevolezza in quanto il «doppio binario sanzionatorio»  riservato
al cittadino straniero che abbia commesso la condotta di cui all'art.
73, comma 5 decreto del Presidente della  Repubblica  n.  309/1990  -
pena e automatismo espulsivo - non sono coerenti con lo  scopo  della
norma che, parificando tutti  «i  reati  inerenti  gli  stupefacenti»
preclude all'amministrazione competente di valutare, in concreto,  la
pericolosita'  del  cittadino  straniero  rilevante  ai  fini   della
permanenza nello  Stato  e  dell'eventuale  rilascio  del  titolo  di
soggiorno. 
1.9. Sul sindacato della Corte costituzionale. 
    Tanto premesso, ritenuta la  disposizione  in  contrasto  con  il
canone di ragionevolezza e con quello  di  proporzionalita',  occorre
indagare la possibilita' di un sindacato della  Corte  costituzionale
sul punto. 
    L'ampiezza, meglio dire il perimetro del  sindacato  del  giudice
costituzionale e' stato  puntualmente  descritto  nella  sentenza  23
gennaio  2019,  n.  40,  secondo   cui   «non   sussistono   ostacoli
all'intervento  della   Corte   costituzionale   quando   le   scelte
sanzionatorie   adottate   dal   legislatore   si   siano    rivelate
manifestamente arbitrarie o irragionevoli e  il  sistema  legislativo
consenta l'individuazione di soluzioni, anche alternative  tra  loro,
che siano tali da (ricondurre a coerenza le scelte gia'  delineate  a
tutela di un determinato bene giuridico, procedendo  puntualmente,  o
ve possibile, all'eliminazione di ingiustificabili  incongruenze»  (§
4.2. del considerato in diritto, che richiama la sentenza n. 233  del
2018), e - ancora - che «non e' necessario che esista,  nel  sistema,
un'unica  soluzione  costituzionalmente   vincolata   in   grado   di
sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per
una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere  assunta
come tertium comparationis, essendo sufficiente che il  (sistema  nel
suo complesso  offra  alla  Corte  precisi  punti  di  riferimento  e
soluzioni gia' esistenti, ancorche' non costituzionalmente obbligate,
che possano  sostituirsi  alla  previsione  sanzionatoria  dichiarata
illegittima». 
    Ebbene, ritiene il Collegio  che  l'ordinamento  giuridico  offra
gia', nel suo complesso, punti di riferimento per una e soluzioni che
potrebbero applicarsi al caso oggetto della presente ordinanza. 
    L'esclusione della fattispecie  di  cui  all'art.  73,  comma  5,
decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del  1990  dal  novero
dei reati ostativi non produrrebbe,  infatti,  l'automatico  rilascio
ovvero rinnovo del titolo di  soggiorno.  Favorirebbe  unicamente  il
rapporto  tra  pubblica  amministrazione   e   cittadino   straniero,
permettendo a quest'ultimo, dinanzi  ad  una  condanna  penale  e  in
assenza di legami familiari, di dimostrare tutte le circostanze a lui
favorevoli, specie con riferimento alla buona  riuscita  del  proprio
percorso di integrazione socio-lavorativa, partecipazione alla  spesa
pubblica. 
    E' proprio in questo spirito di valorizzazione  della  situazione
giuridica dello straniero che la  sezione  rimettente  ha  da  ultimo
pronunciato alcune sentenze in tema di rilevanza delle sopravvenienze
fattuali. Questa sezione, infatti,  ha  sostenuto  che  l'irrilevanza
delle  sopravvenienze  trovava  «conforto  in  una  prospettiva   del
processo amministrativo inteso come giudizio  meramente  impugnatorio
in  cui  al  centro  della  valutazione  del  giudice  sta  solo   la
legittimita' dell'atto al  momento  della  sua  adozione.  In  questa
prospettiva, il sindacato di legittimita' dell'atto  si  limita  alla
verifica  della  ragionevolezza  e   della   proporzionalita'   della
decisione dell'amministrazione secondo quanto conosciuto dalla stessa
al momento in cui aveva maturato la propria determinazione. 
    Questa impostazione,  legata  alla  qualificazione  del  giudizio
amministrativo  come  meramente  impugnatorio,  non  sempre   risulta
adeguata alla  funzione  assegnata  al  giudice  amministrativo  dopo
l'entrata in vigore del codice del  processo  amministrativo  e  alla
luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna. 
    Cio' tanto piu' nelle ipotesi in cui oggetto  del  giudizio  sono
diritti fondamentali della persona umana che possono  trovare  tutela
nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori  essenziali  della
sicurezza e della sostenibilita' dei flussi migratori. 
    Da tempo la giurisprudenza ha dato atto della trasformazione  del
processo amministrativo "da giudizio amministrativo sull'atto, teso a
vagliarne la legittimita' alla stregua dei vizi denunciati in sede di
ricorso e con salvezza del riesercizio del potere  amministrativo,  a
giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a  scrutinare
la fondatezza della pretesa  sostanziale  azionata."»  (Consiglio  di
Stato, A.P., n. 3 del 2011). 
    E' proprio in questi casi in cui il bene della vita  da  tutelare
ha natura personale che oggetto della valutazione giudiziale non puo'
essere solo il provvedimento in se' poiche' essa deve necessariamente
avvolgere la situazione giuridica soggettiva che fa  da  sfondo  alla
vicenda procedimentale» (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III,  1°
giugno 2022, n. 4467). 
    Se non si valorizzassero,  nei  limiti  di  legge,  gli  elementi
positivi della  situazione  giuridica  dei  cittadini  stranieri,  si
produrrebbero gravi pregiudizi a valori fondamentali dell'ordinamento
che, anche  se  non  vengono  direttamente  in  rilievo  rispetto  al
procedimento amministrativo, comunque incidono negativamente. 
    Nessun  rilievo  avrebbe,  ad  esempio,  il   positivo   percorso
rieducativo della pena se a questo non si desse il  congruo  peso  ai
fini  del  reinserimento  del  condannato  nella  societa'.   Se   si
considerasse  automaticamente  ostativo  il  reato,   nessun   valore
avrebbero le eventuali esperienze  di  rieducazione  -  lavorative  e
sociali -  maturate  dal  cittadino  straniero.  Queste  vicende  non
possono ritenersi estranee rispetto al  giudizio  a  quo,  non  fosse
altro per l'esigenza di necessaria coerenza dell'ordinamento. 
    Escludere l'art.  73,  comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del  1990  dal  novero  dei  reati  automaticamente
ostativi non tradirebbe lo spirito della ratio legis, la tutela della
sicurezza collettiva e dell'ordine pubblico. Permetterebbe unicamente
all'amministrazione competente di valutare se la condotta - prendendo
come esempio il caso di specie - di cessione di  gr  19  di  sostanza
stupefacente di tipo hascisch, in assenza di legami familiari,  possa
ritenersi in contrasto con la permanenza del cittadino straniero  sul
territorio italiano. 
    Quello che il Collegio ritiene incompatibile con il principio  di
proporzionalita' e' l'automatica presunzione di  gravita'  del  reato
anche in considerazione  degli  ultimi  approdi  della  stessa  Corte
costituzionale in tema di automatismi. La presunzione e' stata  messa
in discussione, da ultimo, persino nei casi di mancata collaborazione
per i condannati per associazione per delinquere  di  stampo  mafioso
(ordinanza 12 maggio 2021, n. 97 sopra richiamata). 
1.10. Della incompatibilita' con l'art. 117  della  Costituzione  con
riferimento all'art. 8 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali 
    Le  valutazioni  espresse,   specie   le   ultime,   in   materia
valorizzazione della situazione giuridica dell'appellante,  conducono
a formulare un giudizio di dubbia tenuta costituzionale  della  norma
anche  in  riferimento  all'art.  117  della  Costituzione   rispetto
all'art. 8  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    L'art. 8 Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali dispone che: «1. Ogni persona
ha diritto al rispetto della propria vita privata  e  familiare,  del
proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non puo' esservi
ingerenza di una autorita' pubblica nell'esercizio di tale diritto  a
meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge  e  costituisca  una
misura che, in una societa' democratica, e' necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese,
alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione
della salute o della morale, o alla protezione dei  diritti  e  delle
liberta' altrui.». 
    La disposizione, quindi,  distingue  chiaramente  almeno  quattro
diritti fondamentali protetti dalla Convenzione: vita  privata,  vita
familiare, domicilio e corrispondenza. 
    Nel caso all'attenzione del Collegio, in  particolare,  viene  in
rilievo la protezione della vita privata. 
    Il concetto di vita privata,  nella  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo, e' ampio  e  comprende  una  serie  di
sottocategorie. Attiene, in  senso  lato,  all'  identita'  fisica  e
sociale della persona umana e non e' suscettibile di una  definizione
esaustiva (S. e Marper contro Regno Unito, paragrafo 66). 
    Significativa e' la circostanza che  per  «vita  privata»,  nella
concezione enucleata dalla Corte, non si debba  intendere  unicamente
la «cerchia intima», il nucleo di relazioni immediate e  dirette  del
singolo.  Al  contrario,  l'art.  8  Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
tutela il diritto allo sviluppo personale, inteso come personalita' o
autonomia personale comprendendo  il  diritto  ad  una  vita  sociale
privata e, in via  piu'  generale,  il  diritto  a  partecipare  alla
crescita della societa'. 
    Nella sentenza resa nell'ambito del caso «Botta contro Italy», la
Corte, al paragrafo 32,  ha  infatti  avuto  modo  di  precisare  che
«private life, in the Court's view, includes a person's physical  and
psychological integrity; the guarantee afforded by Article 8  of  the
Convention is primarily intended to ensure the  development,  without
outside interference, of the personality of each  individual  in  his
relations  with  other  human  beings  (see,  mutatis  mutandis,  the
Niemietz v. Germany judgment of 16 december 1992, Series A n.  251-B,
p. 33, § 29)». 
    L'automatismo e' contrario alla  Convenzione,  sotto  il  profilo
dell'art. 8, in quanto non risponde piu' a quel necessario  «pressing
social need» che, come detto, e' necessario  per  ritenere  legittima
una compromissione dei diritti fondamentali della persona umana. 
    Il Collegio ravvisa nel meccanismo automatico previsto dall' art.
4, comma  3,  decreto  legislativo  n.  286  del  1998,  testo  unico
immigrazione, con particolare riguardo all'inserimento dell'art.  73,
comma 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990  nel
novero  dei  reati  ostativi,  una  violazione   della   Convenzione.
L'automatismo,  per  le  ragioni  che  precedono,  non  permette   il
necessario bilanciamento tra la condotta penalmente rilevante -  che,
si ribadisce, non presidia piu' correttamente il bene della sicurezza
pubblica - e tutte quelle circostanze che attengono alla vita privata
per come tutelata dall'art. 8 Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  e  interpretata
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    In ipotesi di reati non gravi, quale quello di cui  all'art.  73,
comma 5, decreto del Presidente della Repubblica  n.  309  del  1990,
escludere la valutazione dell'amministrazione rappresenta,  a  parere
del  Collegio,  un  vulnus  di   tutela   non   superabile   in   via
interpretativa. 
    2. Alla stregua delle  precedenti  considerazioni  e  poiche'  la
presente controversia  non  puo'  essere  definita  indipendentemente
dalla  risoluzione  delle   delineate   questioni   di   legittimita'
costituzionale, il giudizio va sospeso e  vanno  rimesse  alla  Corte
costituzionale, ai sensi dell'art. l  della  legge  costituzionale  9
febbraio 1948, n. 1 e dell'art. 23, legge 11 marzo 1953,  n.  87,  le
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  comma  3,
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per  contrasto  con  agli
articoli  3,  117  primo  comma  della  Costituzione  in  riferimento
all'art. 8  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  nella  parte   in   cui,
richiamando tutti «i reati inerenti gli stupefacenti» prevede che  la
fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, decreto del Presidente della
Repubblica n. 309 del 1990, sia automaticamente ostativa al  rilascio
ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Consiglio di Stato in  sede  giurisdizionale  (Sezione  Terza)
visti  gli   articoli   134   della   Costituzione, 1   della   legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
n.  87,  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata,   in
relazione agli articoli 3, 117  primo  comma  della  Costituzione  in
riferimento all'art. 8 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali  la  questione  di
legittimita' costituzionale,  nei  termini  di  cui  in  motivazione,
dell'art. 4, comma 3, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 
    Sospende il giudizio in corso e ordina  l'immediata  trasmissione
degli atti  alla  Corte  costituzionale.  Ordina  che  a  cura  della
Segreteria la presente ordinanza  sia  notificata  alle  parti  e  al
Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti  del
Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. 
    Ritenuto che sussistono i presupposti di cui all'art. 52, commi 1
e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli
5 e 6 del regolamento (UE) 2016/679  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della  dignita'
della  parte  interessata,  manda  alla   Segreteria   di   procedere
all'oscuramento delle generalita' della parte appellante. 
    Ordina che la  presente  decisione  sia  eseguita  dall'Autorita'
amministrativa. 
    Cosi' deciso in Roma nella Camera  di  consiglio  del  giorno  16
giugno 2022 con l'intervento dei magistrati: 
        Michele Corradino, Presidente; 
        Giulia Ferrari, consigliere, estensore; 
        Raffaello Sestini, consigliere; 
        Antonio Massimo Marra, consigliere; 
        Antonella De Miro, consigliere. 
 
                      Il Presidente: Corradino 
 
 
                                                 L'estensore: Ferrari