N. 99 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 giugno 2022

Ordinanza del 23 giugno 2022  del  Consiglio  di  Stato  sul  ricorso
proposto da N.N. contro Ministero dell'interno - Questura di Genova. 
 
Straniero - Ordine pubblico e sicurezza - Ingresso e  permanenza  nel
  territorio dello Stato - Previsione la quale dispone che  il  reato
  di cui all'art. 474 cod. pen., rubricato "Introduzione nello  Stato
  e commercio di  prodotti  con  segni  falsi",  sia  automaticamente
  ostativo al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno. 
- Decreto legislativo 25 luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
  disposizioni concernenti la disciplina  dell'immigrazione  e  norme
  sulla condizione dello straniero), art. 4, comma 3. 
(GU n.38 del 21-9-2022 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
               in sede giurisdizionale (Sezione Terza) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  3666  del  2017,  proposto  dal   sig.   N.   N.,
rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Auditore e Paolo Ghiara
con domicilio digitale  come  da  PEC  da  Registri  di  giustizia  e
domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Stefano Parretta in Roma,
piazzale Clodio n. 12; 
    Contro il Ministero dell'interno e  la  Questura  di  Genova,  in
persona   dei   rispettivi   legali   rappresentanti   pro   tempore,
rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura generale dello  Stato,
domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12; 
    Per la riforma  della  sentenza  del  TAR  Liguria,  Sez.  II,  4
novembre 2016, n. 1082, che ha respinto il ricorso  proposto  avverso
il decreto del 3 ..., con il quale il  questore  della  Provincia  di
Genova ha respinto l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per
lavoro subordinato. 
    Visto il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visto l'atto di costituzione del Ministero dell'interno  e  della
Questura di Genova; 
    Vista l'ordinanza cautelare del 13 luglio 2017, n. 2935,  con  la
quale la sezione  ha  respinto  l'istanza  cautelare  di  sospensione
dell'efficacia della  sentenza  del  TAR  Liguria  di  reiezione  del
ricorso di primo grado; 
    Visti tutti gli atti di causa; 
    Relatore nell'udienza del giorno 19 maggio  2022  il  consigliere
Giulia Ferrari e uditi altresi' i difensori presenti delle  parti  in
causa, come da verbale; 
    Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue. 
 
                              F a t t o 
 
    1. Il sig. N. N., cittadino senegalese, ha impugnato  innanzi  al
TAR Liguria, il decreto n. ... del ...,  con  il  quale  il  questore
della Provincia di  Genova  ha  respinto  l'istanza  di  rinnovo  del
permesso di soggiorno per lavoro subordinato. 
    Tale provvedimento ha tratto  fondamento  dalla  circostanza  che
l'istante fosse stato raggiunto da numerose denunce per  ricettazione
e introduzione nel territorio dello Stato e di commercio di  prodotti
con marchi falsi e da  una  condanna  per  reato  ostativo  ai  sensi
dell'art. 4, comma 3, decreto legislativo n. 286 del  1998.  Il  sig.
N., infatti, era stato condannato, con decreto penale emesso in  data
dal GIP del Tribunale di Imperia, divenuto irrevocabile in data  ...,
alla pena di euro 2.350,00 di multa per i reati di cui agli artt. 474
e 648 c.p. (vendita di merci con marchio contraffatto). 
    2. La Sez. II del TAR Liguria, con sentenza 4 novembre  2016,  n.
1082,  ha  ritenuto  il  provvedimento  di   diniego   legittimo   in
considerazione di quanto  previsto  dall'art.  4,  comma  3,  decreto
legislativo n. 286 del 1998, basandosi da un lato, sulla presenza  di
un  decreto  penale  di  condanna  irrevocabile  per  il   reato   di
ricettazione e di  introduzione  nel  territorio  dello  Stato  e  di
commercio di prodotti con marchi  falsi  e,  dall'altro  lato,  sulla
presenza di numerose denunce per gli  stessi  reati.  Il  giudice  di
prime cure, inoltre, avuto riguardo proprio alle denunce per i  reati
di cui agli artt. 648 e 474 c.p., ha ritenuto logica e  razionale  la
valutazione di pericolosita' del ricorrente  ai  sensi  dell'art.  1,
lettera a), decreto legislativo n. 159 del 2011. 
    3. Con appello notificato il  21  aprile  2017  e  depositato  il
successivo 19 maggio, il sig. N. N. ha impugnato la sentenza n.  1082
del 4 novembre 2016 deducendo la mancata  comunicazione  di  tutti  i
motivi  ostativi  all'accoglimento  nonche'  l'erronea   applicazione
dell'art. 26, decreto legislativo n. 286 del 1998, che  si  riferisce
al lavoro autonomo  e  non  a  quello  subordinato.  L'appellante  ha
inoltre dedotto che il decreto penale di condanna non rientra tra  le
condanne  ostative  di  cui  all'art.  4,   comma   3,   nonche'   la
contraddittorieta' tra la motivazione posta a base del  provvedimento
e la motivazione della sentenza  e,  in  ogni  caso,  il  difetto  di
pericolosita'. 
    4. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'interno e  la
Questura di Genova, senza espletare difese scritte. 
    5. Con l'ordinanza cautelare 13 luglio 2017, n.  2935,  e'  stata
respinta l'istanza  cautelare  di  sospensione  dell'efficacia  della
sentenza appellata. 
    6. All'udienza pubblica del 19 maggio 2022,  la  causa  e'  stata
trattenuta in decisione. 
 
                               Diritto 
 
    1.  Il  Collegio  ritiene  di  dover   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 3, decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui prevede che  il  reato  di
cui all'art. 474 c.p. rubricato «introduzione nello Stato e commercio
di prodotti con segni falsi» sia automaticamente ostativo al rilascio
ovvero  al  rinnovo  del  titolo   di   soggiorno,   ritenendo   tale
disposizione normativa in contrasto con gli artt.  3,  117,  comma  1
della Costituzione (quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU). 
1.1. Sulla rilevanza. 
    La questione e' rilevante, a parere di questo  Collegio,  per  le
seguenti ragioni. 
    Giova, anzitutto, una breve ricostruzione in punto di fatto. 
    Con decreto del ..., il questore della  Provincia  di  Genova  ha
respinto l'istanza di rinnovo del permesso di  soggiorno  per  lavoro
subordinato di cui  era  titolare  N.  N.  cittadino  senegalese.  Il
provvedimento  di  diniego,  n.  ...,   era   motivato   su   plurimi
presupposti. L'appellante era stato segnalato in alcune occasioni per
i reati di cui agli artt. 474 c.p. e 648, comma 1, c.p. 
    In data ..., il giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di Imperia ha condannato il cittadino straniero  alla  pena  di  euro
2.350,00 di multa per i reati di cui agli artt. 474 c.p., 648,  comma
1 c.p., 61 n. 2 c.p. con decreto penale di  condanna  non  opposto  e
percio' divenuto irrevocabile in data ... . 
    Con il ricorso n. 1737 del 2015, proposto dinanzi al TAR Liguria,
l'appellante ha impugnato il provvedimento  di  diniego,  chiedendone
l'annullamento per violazione di legge, sub specie art. 10-bis, legge
n. 241 del 1990 - per avere l'amministrazione inviato il preavviso di
rigetto dell'istanza di rinnovo unicamente riferendosi alla  condanna
passata in giudicato e non anche alle denunce all'autorita' - e artt.
4 e 5 TU immigrazione, in quanto il decreto penale di condanna, nella
prospettazione dell'appellante, per le sue peculiarita', non  sarebbe
ricompreso nel novero delle  «sentenze  di  condanna»  immediatamente
ostative. 
1.2. Sui presupposti processuali e sulle condizioni  dell'azione  del
giudizio a quo. 
    La    giurisprudenza    costituzionale,    sotto    il    profilo
dell'accertamento dei  presupposti  processuali  e  delle  condizioni
dell'azione, si e' costantemente orientata nel senso di ritenere  che
una tale verifica debba essere rimessa alla valutazione  del  giudice
rimettente. I presupposti  processuali  sono,  infatti,  oggetto  del
giudizio di rilevanza dell'incidente di costituzionalita' e,  ove  la
loro  ritenuta  sussistenza  sia  sorretta  da  una  motivazione  non
implausibile, non sono suscettibili di  riesame  (ex  plurimis  Corte
costituzionale n. 262/2015, n. 200/2014). 
    Il   Collegio   ritiene,   anzitutto,   di   essere   munito   di
giurisdizione. Il giudizio di cui trattasi e'  stato  incardinato  ai
sensi dell'art. 100 c.p.a. ed e' un procedimento ordinario di appello
avverso un provvedimento amministrativo di  diniego  di  permesso  di
soggiorno per lavoro subordinato. 
    Il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi  di
lavoro sono riservati alla cognizione del giudice  amministrativo  in
quanto costituiscono provvedimenti discrezionali rispetto ai quali il
cittadino  straniero  e'  titolare  di  una  posizione  di  interesse
legittimo. 
    Nessuna   eccezione   in   rito   e'   stata   sollevata    dalle
amministrazioni appellate che si sono costituite con  atto  meramente
formale. 
    L'appello, stante  la  ritualita'  delle  notifiche  e,  piu'  in
generale,  il  rispetto  dei  termini  processuali,  deve   ritenersi
ammissibile. 
1.3. Sull'applicabilita' della disciplina censurata al caso in esame. 
    La vicenda di cui si discute trae origine  dal  provvedimento  di
mancato rinnovo del  permesso  di  soggiorno  per  motivi  di  lavoro
subordinato di cui era titolare l'odierno appellante. 
    Secondo l'amministrazione, la condotta tenuta in  piu'  occasioni
dall'appellante, destinatario di alcune denunce - tutte per la stessa
tipologia di reato - e  condannato  in  via  definitiva  con  decreto
penale  di  condanna  alla  pena  di  euro  2.350,00  di   multa   e'
automaticamente incompatibile con la possibilita' del soggiorno nello
Stato italiano. 
    Con  specifico  riferimento  alla  condanna,   l'appellante,   in
particolare, era stato tradotto  dinanzi  alla  competente  autorita'
giudiziaria in quanto imputato «per il reato di cui all'art. 474 c.p.
perche', al fine di trarne profitto, poneva  in  vendita  o  comunque
deteneva per vendere oggetti recanti il marchio contraffatto di ditte
varie ed in particolare: n. 6 giubbotti Moncler, n. 2 paia di  scarpe
Adidas, n. 3 magliette F. Perry, n. 8 felpe Napapijri,  n.  2  scarpa
Prada, n. 1 maglietta Napapijri, n. 2 paia  Fred  Perry,  n.  1  paio
scarpe Ralph Laurent, n. 1 giubbotto Kway. 
    Veniva altresi' condannato per il reato di cui agli artt. 648, 61
n. 2 c.p., perche', al fine di procurarsi un profitto e  di  eseguire
il reato sub A) [art. 474 c.p.], acquistava o comunque  riceveva  gli
oggetti  di  cui  al  medesimo  capo  provenienti  del   delitto   di
contraffazione dei relativi marchi. Fatti accertati in ...». 
    Il sig. N. N. e' stato condannato, in via definitiva, per i reati
di introduzione di cui all'art. 474 c.p. e ricettazione,  secondo  il
combinato disposto di cui agli artt. 648 c.p. e 61 n.  2  c.p.,  come
risulta  dal  decreto  penale  di  condanna  allegato  al   fascicolo
processuale. L'appellante non  ha  legami  familiari  sul  territorio
italiano. 
    Viene in rilievo, nel caso in esame, il combinato disposto di cui
agli artt. 4 e 5, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.  L'art.
4 del TU immigrazione pone un automatismo secondo cui «non e' ammesso
in Italia lo straniero che non soddisfi  tali  requisiti  o  che  sia
considerato una minaccia per l'ordine pubblico o la  sicurezza  dello
Stato o di uno dei Paesi con  i  quali  l'Italia  abbia  sottoscritto
accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e  la
libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con
sentenza non  definitiva,  compresa  quella  adottata  a  seguito  di
applicazione della pena su  richiesta  ai  sensi  dell'art.  444  del
codice di procedura penale, per reati previsti dall'art. 380, commi 1
e 2 del codice di procedura penale  ovvero  per  reati  inerenti  gli
stupefacenti,    la    liberta'    sessuale,    il    favoreggiamento
dell'immigrazione  clandestina  verso  l'Italia  e   dell'emigrazione
clandestina dall'Italia verso altri Stati  o  per  reati  diretti  al
reclutamento di  persone  da  destinare  alla  prostituzione  o  allo
sfruttamento  della  prostituzione  o  di  minori  da  impiegare   in
attivita'  illecite».   Tale   automatismo   viene   mitigato   dalla
disposizione  di  cui  al  comma   5   dell'articolo   immediatamente
successivo: «nell'adottare il provvedimento di rifiuto del  rilascio,
di revoca o di diniego di rinnovo del  permesso  di  soggiorno  dello
straniero, che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare
ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi  dell'art.  29,  si  tiene
anche conto della natura e della effettivita' dei  vincoli  familiari
dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e  sociali  con
il suo Paese d'origine, nonche', per lo straniero gia'  presente  sul
territorio nazionale,  anche  della  durata  del  suo  soggiorno  nel
medesimo territorio nazionale». 
    Le norme recate dagli artt. 4 e 5, decreto legislativo 25  luglio
1998, n. 286, come da costante giurisprudenza  di  questo  Consiglio,
«mirano,  infatti,  ad  assicurare  la  tutela  dell'ordine  e  della
sicurezza   pubblica:   nell'esercizio   di   tale   potere,   pero',
l'amministrazione e' tenuta a valutare la condizione familiare  dello
straniero  in  quanto  l'interesse  collettivo  alla   tutela   della
sicurezza pubblica deve essere bilanciato con l'interesse  alla  vita
familiare dell'immigrato e dei suoi congiunti, trattandosi di diritti
fondamentali, aventi  copertura  convenzionale,  in  particolar  modo
l'art. 8 CEDU» (Cons. St., Sez. III, n. 6699 del 2018). L'automatismo
di cui all'art. 4 cede il  passo  ad  una  valutazione  discrezionale
dell'amministrazione che, in caso  di  condanna  per  uno  dei  reati
ostativi, deve tenere in  debito  conto  l'effettivita'  dei  vincoli
familiari, il legame effettivo con il Paese di origine, la durata del
soggiorno.  La  valutazione  discrezionale  dell'amministrazione   e'
sindacabile  allorquando  la  stessa  risulti  viziata  da  manifesti
deficit di ragionevolezza. 
    Da questa premessa emerge chiaramente  che  l'unica  disposizione
applicabile al  caso  controverso  sottoposto  al  vaglio  di  questo
Collegio e' l'art. 4, comma 3, decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286. 
    L'automatismo ha come unica eccezione la presenza sul  territorio
di legami familiari in assenza dei quali,  quindi,  l'amministrazione
non e' tenuta a operare alcun bilanciamento. 
    Come si e' detto, l'odierno appellante e' un cittadino straniero,
condannato in via definitiva per un reato ostativo, l'art. 474  c.p.,
senza legami familiari sul territorio italiano. 
    La condanna per il contestato reato di ricettazione di  cui  agli
artt. 648 e 61, n. 2 c.p., non e' annoverabile invero tra le  ipotesi
di reato ostativo. Ai sensi dell'art. 380, comma 2,  lettera  f-bis),
infatti, e' automaticamente ostativo al rilascio  ovvero  al  rinnovo
del permesso di soggiorno il delitto  di  ricettazione,  nell'ipotesi
aggravata di cui all'art. 648, comma 1,  secondo  periodo,  c.p.  E',
quindi, ostativo il delitto di ricettazione «quando il fatto riguarda
denaro o cose provenienti da delitti di  rapina  aggravata  ai  sensi
dell'art. 628, comma 3, di estorsione aggravata  ai  sensi  dell'art.
629, comma 2, ovvero di furto aggravato ai sensi dell'art. 625, comma
1, n. 7-bis», ipotesi che non ricorre nel caso di specie. 
    Date le suesposte premesse, il cittadino straniero  non  potrebbe
automaticamente soggiornare sul territorio italiano. 
    La  Corte   costituzionale   ha   costantemente   affermato   che
«l'applicabilita'  della  disposizione  al  giudizio  principale   e'
sufficiente a radicare la rilevanza della questione» (sentenza n. 174
del 2016) e  che  «il  nesso  di  pregiudizialita'  tra  il  giudizio
principale  e  il  giudizio  costituzionale  implica  che  la   norma
censurata debba necessariamente essere  applicata  nel  primo  e  che
l'eventuale  illegittimita'  della  stessa  incida  sul  procedimento
principale» (n. 91 del 2013). 
    Questo Collegio ritiene che nessun  dubbio  residui  in  tema  di
necessaria applicabilita' dell'art. 4, comma 3,  decreto  legislativo
n. 286 del 1998 al caso di specie. 
    Dall'applicabilita' della norma derivano conseguenze specifiche e
immediate in capo all'appellante. Invero,  la  tenuta  costituzionale
della disposizione censurata -  e,  quindi,  automatico  diniego  del
rilascio ovvero rinnovo del  permesso  di  soggiorno  per  motivi  di
lavoro subordinato in caso di reato ostativo di cui all'art. 474 c.p.
-   determinerebbe   inevitabilmente   una   pronuncia   di   rigetto
dell'appello, con contestuale conferma della sentenza di primo grado,
tanto  piu'  per  l'irrilevanza  della  pure   lamentata   violazione
dell'art. 10-bis. Sotto questo ultimo profilo,  infatti,  trattandosi
di atto vincolato,  neppure  potrebbe  applicarsi  l'art.  21-octies,
legge n. 241 del 1990. 
    Al contrario, qualora la disposizione fosse ritenuta dalla  Corte
costituzionale in contrasto con la Costituzione - nei termini che  si
avra' modo di specificare - la decisione determinerebbe una pronuncia
favorevole all'odierno  appellante,  specificatamente  con  l'obbligo
dell'amministrazione di rivalutare la sua posizione giuridica. 
1.4. Sulla possibilita'  di  una  interpretazione  costituzionalmente
conforme. 
    Rilevato un potenziale vulnus di  costituzionalita'  rispetto  ai
parametri di cui agli  artt.  3,  117,  comma  1  della  Costituzione
(quest'ultimo in riferimento all'art. 8  CEDU)  nei  termini  che  si
avra' modo di specificare in punto di non manifesta infondatezza,  il
Collegio  giudicante  si  e'  preliminarmente  interrogato  circa  la
possibilita', allo stato,  di  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata della norma censurata. 
    Una interpretazione  costituzionalmente  orientata  dell'art.  4,
comma 3, decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286,  pure  talvolta
percorsa da questa  stessa  sezione  rimettente,  sarebbe  quella  di
valorizzare la pericolosita' in concreto del fatto delittuoso. 
    Partendo dal presupposto che il reato di cui  all'art.  474  c.p.
sia ostativo ex lege, si e' sostenuto che in determinate ipotesi - id
est, detenzione di n. 3 paia di jeans contraffatti - la tenuita'  del
fatto di reato non sia idonea, secondo l'id quod plenimque accidit, a
superare la soglia di pericolosita' sociale che attiva  l'automatismo
previsto  dalla  norma.  Secondo  questo  orientamento,  al   giudice
spetterebbe un  giudizio  in  concreto  sulla  pericolosita'  sociale
(cosi', ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, n. 4385 del 2016; n. 1637
del 2014). 
    La ratio di questa  prospettiva  risiede  nella  convinzione  che
sarebbe irragionevole pretendere dal legislatore una differenziazione
di  sanzione  in  base  alla  gravita'  di  reati  che,  sebbene  non
partecipino della stessa natura perche' non  offensivi  del  medesimo
bene giuridico,  tuttavia  sono  idonei  a  mettere  in  pericolo  la
sicurezza  pubblica,  l'ordine  pubblico  e,  piu'  in  generale,  la
convivenza  civile.  Spetterebbe,  secondo  questo  orientamento,  al
giudice, nella valutazione della determinazione  dell'amministrazione
rispetto al caso concreto, stabilire se l'automatismo previsto  dalla
legge sia applicabile o meno. 
    Ritiene il Collegio che questa operazione ermeneutica, seppur  di
notevole pregio, non possa essere  percorribile  per  due  ordini  di
ragione. 
    Anzitutto un limite di  natura  letterale.  Il  tenore  letterale
della norma, anche  nella  sua  portata  applicativa  piu'  ampia  in
aderenza  con  la  giurisprudenza  costituzionale   in   termini   di
proporzionalita', esclude che vi sia differenza tra le fattispecie di
reato richiamate. Nel giudizio  sulla  compatibilita'  del  soggiorno
dello straniero che ha commesso uno dei reati  considerati  ostativi,
non vengono in rilievo ne' il principio di offensivita'  -  tanto  in
astratto che in concreto - ne' l'art. 133 c.p. 
    Del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato piu' volte
che si tratta di un automatismo, superabile unicamente in presenza di
legami familiari. La  formulazione  dell'art.  4,  comma  3,  decreto
legislativo n. 286 del 1998 non delinea un  diverso  trattamento  tra
fattispecie di reato ivi richiamate ma le pone sullo stesso piano. 
    D'altra parte, tale norma neppure assegna al giudice il potere di
operare una valutazione in concreto della fattispecie che, in assenza
di  una  previa  valutazione  dell'amministrazione   competente   (si
ribadisce, vietata dall'automatismo previsto  dalla  norma),  sarebbe
peraltro in contrasto con il divieto  di  esprimersi  su  poteri  non
ancora esercitati di cui all'art. 34, comma 2 c.p.a. e con il divieto
di pronuncia estesa al merito,  come  noto,  operazioni  precluse  al
giudice. 
    Il  tentativo   di   rileggere   la   norma   tendendo   ad   una
interpretazione  «costituzionalmente  orientata»  porterebbe  ad   un
fenomeno di produzione normativa che risulta, a parere del  Collegio,
non percorribile. 
    La materia dell'immigrazione e' il risultato di un delicato punto
di equilibrio tra il diritto fondamentale di soggiornare  liberamente
in uno Stato straniero e il diritto dei cittadini dello stesso  Stato
alla sicurezza nazionale. La ricerca di questo  punto  di  equilibrio
resta, a parere del Collegio, sempre precluso al giudice e quindi  di
competenza esclusiva del legislatore. 
1.5. Sulla compatibilita' con il diritto dell'Unione  europea  e  sul
rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale. 
    Neppure e' permesso a questo Collegio percorrere la strada  della
disapplicazione  della  norma   per   contrasto   con   l'ordinamento
dell'Unione europea. 
    Nella specifica materia dell'immigrazione vengono in  rilievo  le
norme di cui al capo II del titolo V del Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione europea, artt. 77 - 80. 
    Si tratta  di  un  tipico  caso  di  competenza  concorrente  tra
l'Unione europea e gli Stati membri.  Ferma  restando  la  competenza
della prima nell'adozione di atti di armonizzazione nel rispetto  dei
principi di proporzionalita' e di sussidiarieta',  il  singolo  Stato
membro e'  competente  nell'adozione  di  misure  volte  alla  tutela
dell'ordine pubblico e della  sicurezza  e  ha  competenza  esclusiva
nella fissazione del numero  massimo  di  lavoratori  provenienti  da
Paesi terzi (art. 79, par. 5, TFUE). Questa divisione  di  competenze
spinge a  collocare  la  questione  oggetto  del  presente  incidente
costituzionale nella sfera di competenza  dello  Stato  italiano,  in
qualita' di Stato membro e, quindi, nella necessita' di  proposizione
del giudizio di legittimita', non potendo  disapplicare  direttamente
la norma. 
    Il perimetro di  competenza  e  di  interazione  tra  il  diritto
interno e il diritto eurounitario, specie nella materia  dei  diritti
fondamentali, come quelli che vengono in rilievo nel caso che  occupa
il Collegio, e' stato il risultato di un'operazione di dialogo tra le
Corti e di numerosi interventi della Corte costituzionale. 
    Occorre distinguere la fattispecie in cui venga  in  rilievo  una
fonte di diritto comunitario «self executing» da quella in cui vi sia
concorrenza,  tra  norme  precettive  ma  che  necessitano   di   una
positivizzazione legislativa di diritto interno. 
    Nel primo caso, il giudice  a  quo  e'  dotato  di  un  sindacato
diffuso. Qualora ravvisi una manifesta incompatibilita'  della  norma
interna   con   l'ordinamento    comunitario    puo'    disapplicarla
direttamente, senza l'intermediazione di altro organo costituzionale,
operazione questa preclusa nel caso di incompatibilita'  della  norma
con la Convenzione europea  dei  diritti  dell'uomo.  In  tale  caso,
infatti, il sindacato e'  accentrato  e  competente  sara'  la  Corte
costituzionale  per  il  tramite  dell'art   117,   comma   1   della
Costituzione. 
    La posizione della Corte, in caso di giudizi  aventi  ad  oggetto
diritti protetti tanto  dalla  Costituzione  quanto  dalle  norme  di
diritto eurounitario, ha subito una evoluzione. 
    Secondo  un  primo  orientamento,  il  giudice  delle  leggi   ha
sostenuto che questo caso fosse assimilabile a quello in cui la norma
interna era contraria alla CEDU di tal che il giudice era obbligato a
sollevare prioritariamente questione di  legittimita'  costituzionale
(sentenza n. 269 del 2017). 
    Tale posizione e' stata rimeditata con  la  sentenza  n.  20  del
2019, in materia di rapporto tra diritto di accesso e rispetto  della
liberta' privata (privacy), la Corte pur dalle premesse di  cui  alla
sentenza appena richiamata e  che  quindi  i  principi  e  i  diritti
enunciati nella CDFUE intersecano in larga  misura  i  principi  e  i
diritti  garantiti  dalla  Costituzione  italiana  (e   dalle   altre
Costituzioni  nazionali  degli  Stati  membri),  e   che   la   prima
costituisce  pertanto  «parte  del  diritto  dell'Unione  dotata   di
caratteri  peculiari  in  ragione  del  suo  contenuto  di   impronta
tipicamente costituzionale», afferma che «resta fermo che  i  giudici
comuni  possono  sottoporre  alla  Corte  di  giustizia   dell'Unione
europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale
a loro  avviso  necessaria.  In  generale,  la  sopravvenienza  delle
garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della  Costituzione
italiana genera, del resto, un concorso  di  rimedi  giurisdizionali,
arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali  e,  per
definizione, esclude ogni preclusione.  Questa  Corte  deve  pertanto
esprimere  la  propria  valutazione,  alla  luce   innanzitutto   dei
parametri costituzionali interni, su disposizioni  che,  come  quelle
ora in esame, pur  soggette  alla  disciplina  del  diritto  europeo,
incidono  su  principi  e   diritti   fondamentali   tutelati   dalla
Costituzione italiana  e  riconosciuti  dalla  stessa  giurisprudenza
costituzionale. Cio' anche allo scopo di contribuire, per la  propria
parte, a rendere effettiva la possibilita', di cui ragiona  l'art.  6
del Trattato sull'Unione europea (TUE), firmato  a  Maastricht  il  7
febbraio  1992,  entrato  in  vigore  il  1°  novembre  1993,  che  i
corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo,  e
in particolare dalla CDFUE, siano  interpretati  in  armonia  con  le
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate  anche
dall'art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti». 
    Intervenuta immediatamente dopo sul punto con la sentenza  n.  63
del 2019, la Corte ha ritenuto che «occorre in questa sede ribadire -
sulla scorta dei principi gia' affermati nelle sentenze  n.  269  del
2017 e n. 20 del 2019  -  che  a  questa  Corte  non  puo'  ritenersi
precluso  l'esame  nel  merito  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate con riferimento  sia  a  parametri  interni,
anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia - per  il
tramite degli artt. 11 e 117, comma 1 della Costituzione - alle norme
corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza,  i  medesimi
diritti; e cio' fermo  restando  il  potere  del  giudice  comune  di
procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
UE,   anche   dopo   il   giudizio   incidentale   di    legittimita'
costituzionale, e - ricorrendone i presupposti -  di  non  applicare,
nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame,  la  disposizione
nazionale in contrasto con i diritti  sanciti  dalla  Carta.  Laddove
pero' sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di
legittimita' costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta,
questa  Corte  non  potra'  esimersi,  eventualmente  previo   rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta  a
tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra  i
quali  si  annovera  anche   la   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la  Carta
(e pertanto con gli artt. 11 e 117, comma 1 della Costituzione),  con
conseguente eliminazione dall'ordinamento, con effetti erga omnes, di
tale disposizione». Cosi' ricostruito il quadro giurisprudenziale  in
punto di pregiudizialita', questo giudice ritiene di dover  investire
preliminarmente la Corte costituzionale. 
    Da ultimo, con la sentenza 10  maggio  2022,  n.  149,  la  Corte
costituzionale ha ribadito i principi sopra espressi, precisando  che
comunque, i due rimedi - disapplicazione e giudizio  di  legittimita'
costituzionale - rimangono concorrenti. 
    Nella recente pronuncia, i giudici  costituzionali  hanno  invero
precisato   che:    «secondo    un'ormai    copiosa    giurisprudenza
costituzionale, l'eventuale effetto diretto negli  ordinamenti  degli
Stati membri dei diritti riconosciuti dalla Carta (e delle  norme  di
diritto derivato attuative di tali diritti) non  rende  inammissibili
le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  che   denuncino   il
contrasto tra una disposizione di legge  nazionale  e  quei  medesimi
diritti, i quali intersecano in larga misura i principi e  i  diritti
garantiti dalla stessa Costituzione italiana. Questioni siffatte, una
volta sollevate, debbono  invece  essere  scrutinate  nel  merito  da
questa Corte, cui unicamente spetta il  compito  di  dichiarare,  con
effetti   erga   omnes,   l'illegittimita'    costituzionale    delle
disposizioni che risultassero contrarie alla Carta,  in  forza  degli
artt. 11 e 117, comma l della Costituzione (sentenze n. 54 del  2022;
n. 182 del 2021; n. 49 del 2021; n. 11 del 2020; n. 63 del  2019;  n.
20 del 2019 e n. 269 del 2017; ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del
2019). Tale rimedio non si  sostituisce,  ma  si  aggiunge  a  quello
rappresentato dalla disapplicazione nel  singolo  caso  concreto,  da
parte del giudice comune, della disposizione contraria  a  una  norma
della Carta avente effetto diretto (sentenza  n.  67  del  2022:  "il
sindacato accentrato di costituzionalita', configurato dall'art.  134
della Costituzione, non e' alternativo a  un  meccanismo  diffuso  di
attuazione  del  diritto  europeo").   E   cio'   in   un'ottica   di
arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali che,
"per definizione, esclude ogni preclusione" (ancora, sentenza  n.  20
del 2019), e che vede tanto il giudice  comune  quanto  questa  Corte
impegnati  a  dare  attuazione   al   diritto   dell'Unione   europea
nell'ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno
nell'ambito delle rispettive competenze». 
    E' vero che  le  norme  censurate  si  appalesano  viziate  tanto
rispetto  alla  Carta   costituzionale   quanto   al   Trattato   sul
funzionamento dell'Unione europea ma la questione all'attenzione  del
Collegio investe la porzione di competenza del legislatore  nazionale
e all'ordinamento comunitario e' precluso entrare  nel  merito  della
discrezionalita' del legislatore nazionale in materia di sicurezza  e
ordine pubblico. 
1.6. Sulla non infondatezza. 
    Oltre che rilevante, nei termini appena esplicitati, la questione
non e' manifestamente infondata. 
    Acclarata l'impossibilita' di  addivenire  ad  un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma al vaglio  del  Collegio  e,
prima   di   procedere   puntualmente   all'analisi   dei   parametri
costituzionali di riferimento,  occorre  soffermarsi  brevemente  sul
principio di proporzionalita' in via generale e,  poi,  in  relazione
alla materia dell'immigrazione. 
    Il principio di proporzionalita' ha anzitutto radici nel  diritto
eurounitario.  Da  canone  ermeneutico  utilizzato  dalla  Corte   di
giustizia   (ex   plurimis,    C-8/1955    Federation    Charbonnere,
C-5-11-13-15/1962 Societa' acciaierie San Michele) ha assunto  sempre
una maggiore preminenza nel panorama dei  principi  fondamentali  del
diritto  europeo,  sino  a  trovare  positivizzazione  nel   Trattato
dell'Unione europea, all'art. 5. Il  principio  di  proporzionalita',
inteso quale limite all'azione delle istituzioni dell'Unione a quanto
e' strettamente necessario per il conseguimento degli  obiettivi  del
trattato, e' al tempo stesso criterio di predisposizione  degli  atti
normativi e amministrativi e parametro di valutazione degli stessi. 
    Tale principio e' stato declinato secondo due modelli, un modello
trifasico e un modello bifasico. 
    Secondo il primo, la proporzionalita' si compone di tre elementi:
idoneita', necessarieta' e  proporzionalita'  in  senso  stretto.  E'
idonea  la  misura  che  permette  il  raggiungimento  del  fine,  il
conseguimento del risultato prefissato. La  misura  deve  essere  poi
necessaria, vale a dire l'unica possibile per il  raggiungimento  del
risultato prefissato. La proporzionalita' in senso stretto  richiede,
invece,  che  la  scelta  amministrativa   ovvero   legislativa   non
rappresenti  un  sacrificio  eccessivo  nella  sfera  giuridica   del
privato. 
    Nel modello bifasico,  il  requisito  della  proporzionalita'  in
senso stretto e' contenuto nella idoneita' e  nella  necessita'  come
fine ultimo del principio, come obiettivo che si persegue  attraverso
le scelte, siano esse legislative ovvero amministrative. 
    Nella   giurisprudenza   della    Corte    di    giustizia,    la
proporzionalita' e' stata declinata  nella  maggior  parte  dei  casi
secondo  il  modello  bifasico.  Qualunque  sia  il  modello  a   cui
l'interprete aderisca, il principio  di  proporzionalita',  nell'idea
della Corte, rimane comunque un concetto duttile che  si  concretizza
volta per volta in base agli scopi perseguiti dai trattati. 
    Anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
ha avuto modo di occuparsi del principio di proporzionalita'  che  ha
una portata non meno rilevante. 
    La Corte, in particolare, si e' soffermata piu' volte  su  quello
che viene definito il «margin of appreciation» degli Stati membri, lo
spazio di manovra che  l'istituzione  garantisce  agli  stessi  nella
protezione delle liberta'  prevista  nella  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    Pur ribadendo che gli Stati godono di un margine di apprezzamento
nell'individuazione  delle  misure  idonee  a  tutelare  le  liberta'
previste dalla Convenzione, la Corte ha stabilito che, nella  scelta,
dette misure fossero ragionevolmente necessarie. 
    Nella case law, Z. c. Finland, al  paragrafo  94,  la  Corte  ha,
invero, avuto modo di  precisare  che  «In  determining  whether  the
impugned measures were "necessary in a democratic society", the Court
will consider whether, in the light of  the  case  as  a  whole,  the
reasons adduced to justify them  were  relevant  and  sufficient  and
whether the  measures  were  proportionate  to  the  legitimate  aims
pursued». 
    E' necessario,  quindi,  una  misura  che,  pur  incidendo  sulle
liberta' fondamentali  dell'individuo,  corrisponda  all'esigenza  di
tutelare un bene giuridico che, nel bilanciamento tra i  contrapposti
interessi,  risulti  prevalente  e  che  comunque   la   stessa   sia
proporzionata al fine perseguito. 
    Accanto alla proporzionalita' viene in  rilievo  il  concetto  di
ragionevolezza. Il rapporto tra i due valori  e'  ancora  oggetto  di
dibattito tra gli interpreti. 
    Per lungo tempo, proporzionalita'  e  ragionevolezza  sono  stati
considerati sinonimi ma, attualmente, il dibattito  giurisprudenziale
e dottrinale sul punto converge verso il  riconoscimento  della  loro
autonomia. 
    Per essere ragionevole, la norma deve essere coerente con il fine
perseguito,  ne  deve  essere  deduzione   logica,   rappresentazione
pratica. Oltre che soluzione proporzionata - nel senso  di  idonea  e
necessaria - deve rispondere ad una precisa esigenza di tutela. 
    Il principio di ragionevolezza comprende a monte  la  valutazione
dei fatti che  hanno  determinano  la  decisione  legislativa  e  che
perimetrano  il  bene  della  vita  che  si  intende  proteggere.  La
ragionevolezza e la proporzionalita', quindi, non  possono  definirsi
sinonimi ma sono in un rapporto di interdipendenza. Il legislatore  -
o   l'amministrazione   nell'esercizio   del   proprio    potere    -
preliminarmente opera una indagine e una valutazione degli interessi.
In  secondo  luogo  deve  predisporre   una   misura   che   risponda
all'interesse  da  perseguire  e  che  abbia  il  corretto  punto  di
bilanciamento tra interessi inevitabilmente  confliggenti.  Anche  la
Corte europea dei diritti dell'uomo, in alcune pronunce, ha  distinto
i due concetti statuendo che «what is necessary is more than what  is
desirable or reasonable» (Dudgeon v. the  United  Kingdom,  paragrafi
51-53). 
    Nella  specifica  materia  dell'immigrazione,  la  stessa   Corte
costituzionale (n. 148 del 2008), ha in piu' occasioni avuto modo  di
ribadire che «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello
straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione  di
svariati interessi pubblici, quali, ad esempio,  la  sicurezza  e  la
sanita'  pubblica,  l'ordine  pubblico,  i   vincoli   di   carattere
internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale
ponderazione spetta in via  primaria  al  legislatore  ordinario,  il
quale possiede in materia un'ampia discrezionalita', limitata,  sotto
il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che
le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli». 
    La  stessa  Corte  quindi,  nonostante  l'ampia  discrezionalita'
riconosciuta al legislatore nella subietta materia,  non  la  esclude
dal sindacato di proporzionalita'. 
1.7. Della incompatibilita' con l'art. 3 della Costituzione. 
    Secondo l'art. 4, comma 3, decreto legislativo n. 286  del  1998,
«ferme restando le disposizioni di cui all'art. 3, comma 4, l'Italia,
in armonia con  gli  obblighi  assunti  con  l'adesione  a  specifici
accordi internazionali, consentira' l'ingresso nel proprio territorio
allo  straniero  che  dimostri  di  essere  in  possesso  di   idonea
documentazione atta  a  confermare  lo  scopo  e  le  condizioni  del
soggiorno,  nonche'  la  disponibilita'  di  mezzi   di   sussistenza
sufficienti per la durata del soggiorno  e,  fatta  eccezione  per  i
permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno  nel
Paese di provenienza.  I  mezzi  di  sussistenza  sono  definiti  con
apposita direttiva emanata dal Ministro dell'interno, sulla base  dei
criteri indicati nel documento di programmazione di cui  all'art.  3,
comma 1. Non e' ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi  tali
requisiti o che sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico  o
la sicurezza dello Stato o di uno dei  Paesi  con  i  quali  l'Italia
abbia sottoscritto accordi per  la  soppressone  dei  controlli  alle
frontiere interne e  la  libera  circolazione  delle  persone  o  che
risulti condannato,  anche  con  sentenza  non  definitiva,  compresa
quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta  ai
sensi dell'art. 444 c.p.p., per reati previsti dall'art. 380, commi 1
e 2 c.p.p., ovvero per reati inerenti gli stupefacenti,  la  liberta'
sessuale,  il  favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina  verso
l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati
o per reati diretti al reclutamento  di  persone  da  destinare  alla
prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori  da
impiegare in attivita' illecite. Impedisce l'ingresso dello straniero
in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per  uno  dei
reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo  III,  sezione
II, legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di
autore, e degli artt. 473 e 474 c.p.  nonche'  dall'art.  1,  decreto
legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'art. 24, regio decreto  18
giugno 1931, n. 773. 
    Con tale disposizione il  legislatore  ha  stabilito  i  casi  in
presenza dei quali il soggiorno del cittadino straniero  nello  Stato
italiano  non  risulta  essere   compatibile   perche'   lo   stesso,
commettendo uno dei reati elencati, ha violato  il  patto  di  civile
convivenza, ha disobbedito alle  regole  ed  e',  per  tale  ragione,
considerato una minaccia per la sicurezza pubblica. 
    L'art. 4, comma 3, del TU immigrazione e', quindi,  il  punto  di
equilibrio raggiunto dal legislatore per la protezione del bene della
sicurezza pubblica di fronte al quale la liberta'  di  soggiorno  del
singolo diviene recessiva. 
    La violazione  del  patto  di  civile  convivenza  con  lo  Stato
italiano comporta, da un punto di vista amministrativo,  l'automatico
diniego di riconoscimento del permesso di soggiorno ovvero la  revoca
del titolo, qualora il cittadino straniero ne  fosse  gia'  titolare,
con contestuale allontanamento dello stesso dal territorio  nazionale
in quanto sprovvisto di un valido titolo di soggiorno. 
    Ai  fini  della  compatibilita',  in  termini  di  liceita',  del
soggiorno  del  cittadino  straniero  sul  territorio  nazionale   e'
necessario che lo stesso non  abbia  riportato  condanne,  anche  con
sentenza non definitiva, compresa quella in applicazione  della  pena
su richiesta delle parti per i reati richiamati dall'art. 380,  commi
1 e 2 c.p.p., reati,  quindi,  per  i  quali  e'  previsto  l'arresto
obbligatorio in flagranza; tutti i reati in materia di  stupefacenti,
a prescindere dalle differenziazioni in  termini  di  condotta  e  di
trattamento  sanzionatorio  previsti  dall'art.   73,   decreto   del
Presidente della Repubblica  n.  309  del  1990;  reati  inerenti  la
liberta' sessuale; reati che favoriscano l'immigrazione  clandestina;
reati che favoriscano lo sfruttamento della prostituzione; reati  che
coinvolgano minori e, in particolar modo, lo sfruttamento dei  minori
nelle attivita' illecite; reato di contraffazione, alterazione o  uso
di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti,  modelli  e  disegni
(art. 473 c.p.) e reato di introduzione nello Stato  e  commercio  di
prodotti con segni falsi (art. 473);  reati  contro  la  circolazione
(chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera  circolazione,
depone o abbandona congegni o altri oggetti di  qualsiasi  specie  in
una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce  o  ingombra  una
strada ordinaria o ferrata, ad eccezione dei casi previsti  dall'art.
1-bis, e' punito con la reclusione da uno a  sei  anni)  e  reato  di
rifiuto di scioglimento di riunione in luogo pubblico. 
    Si tratta, a ben vedere, di fattispecie criminose disomogenee tra
loro in termini di condotta, di bene giuridico  protetto,  di  limiti
edittali di trattamento sanzionatorio e di allarme sociale. 
    L'art. 380  c.p.p.,  ad  esempio,  contempla,  tra  le  altre  le
seguenti ipotesi di reato: reati per i quali  sia  prevista  la  pena
detentiva dell'ergastolo ovvero della reclusione  non  inferiore  nel
minimo a cinque anni e nel massimo a  venti  anni.  Al  comma  2,  il
legislatore ha preso in considerazione i reati contro la personalita'
dello  Stato,  reati  contro   l'incolumita'   pubblica,   reati   di
intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, reati di violenza
sessuale e atti sessuali con minorenni, reati  contro  il  patrimonio
nella forma aggravata (tra gli altri  furto  aggravato,  ricettazione
aggravata). 
    La ratio di una siffatta previsione normativa  risiede(va)  nella
necessita'  di  tutela  della  sicurezza  pubblica  da  condotte  che
interrompessero la pacifica convivenza tra cives, che  violassero  le
regole fondamentali tra cittadino e Stato. 
    Il Collegio dubita della tenuta costituzionale  della  norma  con
riferimento  all'art.  474  c.p.  e,  quindi  all'applicabilita'  del
meccanismo di automatismo ivi previsto, in applicazione dei  principi
di ragionevolezza e proporzionalita' sopra richiamati. 
1.8. Sul canone di proporzionalita'. 
    La Corte costituzionale  ha  piu'  volte  chiarito  quale  e'  il
perimetro del proprio sindacato in materia di immigrazione. 
    In particolare, nella sentenza 3 luglio 2013, n. 202, la Corte ha
stabilito   che   «al   legislatore    e'    riconosciuta    un'ampia
discrezionalita' nella regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno
dello straniero nel territorio  nazionale,  in  considerazione  della
pluralita' degli interessi che tale regolazione  riguarda;  peraltro,
si deve altresi' sottolineare che la medesima Corte  ha  regolarmente
ribadito che  tale  discrezionalita'  legislativa  non  e'  assoluta,
dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento  di
tutti i diritti e gli  interessi  coinvolti,  soprattutto  quando  la
disciplina dell'immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti
fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente  nei  confronti
del cittadino e del non cittadino (sentenze n. 172 del 2012;  n.  245
del 2011; n. 299 e n. 249 del 2010; n. 148 del 2008; n. 206 del 2006;
n. 78 del 2005). 
    Nell'ambito di questa discrezionalita', il legislatore puo' anche
prevedere casi in cui, di fronte alla commissione  di  reati  di  una
certa gravita', ritenuti particolarmente pericolosi per la  sicurezza
e l'ordine pubblico, l'amministrazione sia tenuta a revocare o negare
il  permesso  di  soggiorno   automaticamente   e   senza   ulteriori
considerazioni. Questa Corte ha gia' avuto modo di rimarcare che,  in
linea generale, statuizioni  di  tal  genere  non  sono  di  per  se'
manifestamente irragionevoli «costituendo l'automatismo espulsivo  un
riflesso del principio  di  stretta  legalita'  che  permea  l'intera
disciplina  dell'immigrazione  e  che  costituisce,  anche  per   gli
stranieri presidio ineliminabile dei  loro  diritti,  consentendo  di
scongiurare  arbitrii   da   parte   dell'autorita'   amministrativa»
(sentenza n. 148 del 2008). 
    Ai sensi della giurisprudenza pregressa, dunque, la condanna  per
determinati  reati  di  uno  straniero  non  appartenente  all'Unione
europea  ben  puo'  giustificare  la  previsione  di  un  automatismo
ostativo al rilascio o al  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,  ma
occorre pur sempre  che  una  simile  previsione  possa  considerarsi
rispettosa di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai  sensi
dell'art. 3 della  Costituzione,  tra  l'esigenza,  da  un  lato,  di
tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i
flussi migratori e, dall'altro,  di  salvaguardare  i  diritti  dello
straniero, riconosciutigli dalla Costituzione (sentenza  n.  172  del
2012). 
    Pertanto,  questa  Corte  e'  chiamata  a  verificare   che   gli
automatismi  disposti  dal  legislatore  rispecchino  un  ragionevole
bilanciamento  tra  tutti  gli  interessi  e  i  diritti  di  rilievo
costituzionale coinvolti nella  disciplina  dell'immigrazione  e  non
puo' esimersi  dal  censurare  quelle  disposizioni  legislative  che
incidano  in  modo  sproporzionato  e   irragionevole   sui   diritti
fondamentali (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n.  249  del  2010).
Nell'ambito di tali valutazioni la Corte  deve  altresi'  considerare
che gli automatismi procedurali, essendo basati  su  una  presunzione
assoluta di  pericolosita',  devono  ritenersi  arbitrari  e  percio'
costituzionalmente  illegittimi,  se  non  rispondono   a   dati   di
esperienza generalizzati, quando cioe' sia agevole - come nel caso in
esame  -  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari   alla
generalizzazione posta alla base della presunzione  stessa  (sentenze
n. 57 del 2013; n. 172 e n. 110 del 2012; n. 231 del 2011; n. 265, n.
164 e n. 139 del 2010). 
    Tanto premesso, rileva  il  Collegio  che  il  legislatore,  come
verra' meglio chiarito in seguito, ha parificato, dal punto di  vista
della sanzione amministrativa, reati,  quali  ad  esempio  l'omicidio
volontario punito, ai sensi dell'art. 575 c.p., con la reclusione non
inferiore ad anni ventuno e l'art. 474 c.p. punito con la  reclusione
da uno a quattro anni e con la multa da euro 3.500 ad euro 35.000. 
    Il Collegio e' altresi' consapevole che la  Corte  costituzionale
ha avuto modo di esprimersi sulla tenuta costituzionale dell'art.  4,
comma 3,  decreto  legislativo  n.  286  del  1998,  con  particolare
riferimento all'art.  73,  comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del  1990,  precisando  che,  in  questa  specifica
materia in cui viene in rilievo  l'interesse  supremo  alla  pubblica
sicurezza, la scelta del legislatore  di  accumunare  fattispecie  di
reato che sono ontologicamente diverse per bene  giuridico  tutelato,
per oggetto, per trattamento sanzionatorio, non appare irragionevole. 
    In quella occasione, la  Corte  ha  ritenuto  non  manifestamente
irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero
nel territorio nazionale alla circostanza della  mancata  commissione
di reati di non  scarso  rilievo  (..)  in  quanto  «Il  rifiuto  del
rilascio  o  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,  previsto   dalle
disposizioni in oggetto, non costituisce sanzione penale, sicche'  il
legislatore ben puo' stabilirlo  per  fatti  che,  sotto  il  profilo
penale, hanno una diversa gravita', valutandolo  misura  idonea  alla
realizzazione dell'interesse pubblico alla sicurezza e tranquillita',
anche se ai fini penali i fatti stessi  hanno  ricevuto  una  diversa
valutazione. Sotto questo aspetto  neppure  puo'  essere  considerata
manifestamente irragionevole la scelta legislativa di non  aver  dato
rilievo alla sussistenza delle  condizioni  per  la  concessione  del
beneficio della  sospensione  della  pena,  a  differenza  di  quanto
avviene per l'espulsione dal  territorio  nazionale  come  misura  di
sicurezza (sentenza n. 58 del 1995). Invero, il fatto che la prognosi
favorevole  in  merito  all'astensione  del  condannato,  nel   tempo
stabilito dalla legge,  dalla  commissione  di  ulteriori  reati  sia
condotta, ai fini  della  non  esecuzione  della  pena,  con  criteri
diversi da quelli che presiedono  al  giudizio  di  indesiderabilita'
dello straniero nel territorio italiano, non  puo'  considerarsi,  di
per se', in contrasto con il principio di razionalità-equita', attesa
la  non  coincidenza  delle  due  suddette  valutazioni.  D'altronde,
l'inclusione  di  condanne  per   qualsiasi   reato   inerente   agli
stupefacenti tra le cause ostative  all'ingresso  e  alla  permanenza
dello straniero in Italia  non  appare  manifestamente  irragionevole
qualora si consideri che  si  tratta  di  ipotesi  delittuose  spesso
implicanti  contatti,  a  diversi  livelli,   con   appartenenti   ad
organizzazioni criminali o che, comunque, sono dirette ad  alimentare
il cosiddetto mercato della droga, il  quale  rappresenta  una  delle
maggiori fonti di reddito della criminalita' organizzata (sentenza n.
333  del  1991).  Del  pari  infondato  e'  il  profilo  di   censura
concernente  il  tipo  di  procedimento  seguito  per  giungere  alla
condanna penale e la natura della sentenza con  la  quale  questa  e'
stata pronunciata. Infatti, da un lato, la sentenza  di  applicazione
della pena su richiesta, salve diverse  disposizioni  di  legge,  "e'
equiparata a una pronuncia di condanna" (art. 445, comma  1,  c.p.p.)
e, d'altra parte, per le  fattispecie  -  quali  quelle  oggetto  dei
giudizi a quibus - interamente verificatesi dopo l'entrata in  vigore
della legge n. 189 del 2002, il fatto che la condanna sia intervenuta
in  sede  di  patteggiamento  non  appare  significativo,  in  quanto
"nell'opzione del rito alternativo, l'imputato e' posto ex ante nella
piena condizione di conoscere tutte le conseguenze  scaturenti  dalla
scelta processuale operata" (ordinanza n. 456 del 2007)». 
    L'automatismo  espulsivo,  secondo  la  Corte,  sarebbe  poi  «un
riflesso del principio  di  stretta  legalita'  che  permea  l'intera
disciplina  dell'immigrazione  e  che  costituisce,  anche  per   gli
stranieri, presidio ineliminabile dei loro  diritti,  consentendo  di
scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorita'  amministrativa
(ordinanza n. 146 del 2002)». 
    Cionondimeno, il  Collegio  dubita  della  tenuta  costituzionale
della norma avuto riguardo alla specificita' della fattispecie  e  in
considerazione   soprattutto   dell'evoluzione    che    la    stessa
giurisprudenza della Corte costituzionale ha  maturato  negli  ultimi
anni in tema di proporzionalita' della pena che  possono  applicarsi,
in  via  piu'  generale,   alla   proporzionalita'   delle   sanzioni
amministrative quale il provvedimento di espulsione che  consegue  al
diniego del permesso di soggiorno ovvero  alla  revoca  nel  caso  in
questo sia stato gia' rilasciato. 
    Ed invero, in una pronuncia successiva, sentenza 2  luglio  2012,
n. 172, la Corte si e' espressa  sulla  tenuta  costituzionale  della
procedura di emersione del 2009. L'art. 1-ter, comma 13, lettera  c),
decreto-legge  1°  luglio  2009,  n.  78,  e'  stato   ritenuto   non
compatibile con l'art. 3 della Costituzione  in  quanto  limitava  il
sindacato  della  pubblica  amministrazione,   non   permettendo   la
valutazione della pericolosita' in concreto del cittadino  straniero.
E' corretto, nella prospettazione  della  Corte  che  il  legislatore
limiti la permanenza del cittadino  nel  territorio  dello  Stato  se
questo  e'  necessario  a  salvaguardare  il  bene  superiore   della
sicurezza  pubblica  ma  «la  relativa  scelta  deve  costituire   il
risultato di  un  ragionevole  e  proporzionato  bilanciamento  degli
stessi, soprattutto quando sia suscettibile di incidere sul godimento
dei diritti fondamentali dei quali e'  titolare  anche  lo  straniero
extracomunitario». 
    Proprio in tema di reati in  materia  di  sostanze  stupefacenti,
seppur in  un  contesto  diverso  rispetto  a  quello  oggetto  della
presente ordinanza, la Corte costituzionale, modificando  il  proprio
precedente indirizzo, ha dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 73, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 309
del 1990 nella parte in cui prevedeva la pena minima  edittale  della
reclusione nella misura  di  otto  anni  anziche'  di  sei  anni.  La
differenza di quattro anni tra il minimo  di  pena  previsto  per  la
fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della  pena  stabilito
per  quella  di  lieve  entita'  (quattro  anni)  avrebbe  costituito
un'anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza,
proporzionalita',  ragionevolezza  nonche'  con  il  principio  della
funzione rieducativa della pena. 
    Tale declaratoria di incostituzionalita' si e' resa necessaria  -
a fronte di un precedente che aveva ritenuto  invece  sussistente  la
tenuta costituzionale della norma - per due  ragioni:  la  differenza
sproporzionata  in  quanto  non  necessaria  ne'  idonea   a   punire
correttamente, nel senso di  rieducare  correttamente,  e  la  prassi
giudiziaria  che,  nei  casi   «di   confine»,   operava   «forzature
interpretative» volte ad ampliare l'ambito applicativo delle  ipotesi
di lieve entita' di cui al comma quinto  dell'art.  73,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. 
    Sullo stesso piano, in termini di proporzionalita',  si  pongono,
tra le  altre,  le  pronunce  sull'ordinamento  penitenziario  e  sul
divieto di prevalenza della circostanza attenuante  di  cui  all'art.
116, comma 2, c.p., sulla recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p. 
    In  particolare,  sul  dibattito  delle  scelte  legislative  che
incidono negativamente sui diritti fondamentali, viene in rilievo, da
ultimo, la sopra citata sentenza n. 149 del 2022, secondo cui «non e'
inutile precisare in limine  che  tali  criteri  debbono  essere  qui
declinati in relazione alla logica peculiare del giudizio  innanzi  a
questa  Corte,  il  cui  compito  non  e'  quello  di  verificare  la
sussistenza di violazioni  del  diritto  fondamentale  in  esame  nel
singolo caso concreto, bensi' quello di stabilire  se  il  meccanismo
normativo  disegnato  dal  legislatore  sia   tale   da   determinare
violazioni di tale diritto fondamentale in un numero indeterminato di
casi». 
    Premesso che, questo Collegio non ritiene la scelta di accumunare
fattispecie di reato diverse allo stesso  regime  sanzionario  sempre
contrario al principio di proporzionalita', tuttavia osserva che, nel
preciso  caso  dell'art.  474  c.p.,  questa  scelta  legislativa  e'
suscettibile di determinare violazione dei diritti fondamentali in un
numero indeterminato di casi. 
    La Corte costituzionale aveva gia' avuto modo di  sostenere  che,
ai fini del sindacato di proporzionalita' del  giudice  delle  leggi,
gli automatismi  procedurali  devono  ritenersi  arbitrari  e  quindi
costituzionalmente  illegittimi  «se  non  rispondono   a   dati   di
esperienza generalizzati». 
    Questo profilo  e'  stato  valorizzato  anche  nell'ordinanza  12
maggio 2021, n. 97, con la quale - in tema di ergastolo  ostativo  di
cui agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter, legge  26  luglio  1975,  n.
354,  -  la  Corte  costituzionale  ha  «sospeso»  il   giudizio   di
legittimita' costituzionale per lasciare  al  Parlamento  un  congruo
tempo per affrontare la materia. 
    Richiamando la sentenza n. 253 del 2019, la Corte ha ribadito che
anche la presunzione assoluta  di  pericolosita'  a  carico  del  non
collaborante condannato per associazione  per  delinquere  di  stampo
mafioso mostra la propria irragionevolezza, perche' si  basa  su  una
generalizzazione che i dati dell'esperienza possono smentire. 
    Dello stesso avviso e' la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,
secondo cui la scelta di  intervenire  sui  diritti  fondamentali  in
senso negativo e' proporzionata  se  si  ravvisa  l'esistenza  di  un
«pressing social need» (Dudgeon  v.  the  United  Kingdom,  paragrafi
51-53). 
    Nel momento in cui  il  reato  di  «introduzione  nello  Stato  e
commercio di prodotti con segni falsi» e' stato inserito nel catalogo
delle  fattispecie  automaticamente   ostative,   l'allarme   sociale
rispetto a questa condotta era molto alto perche' oltre a  ledere  il
bene giuridico della proprieta' industriale, presupponeva  una  serie
di comportamenti percepiti dalla collettivita' come molesti che,  pur
non essendo penalmente rilevanti, erano idonei a  arrecare  un  grave
turbamento alla pubblica quiete. 
    Ritiene il Collegio che l'esigenza di sicurezza  e  tranquillita'
pubblica, sia progressivamente venuta meno rispetto al reato  di  cui
all'art. 474 c.p. 
    Anzitutto i  dati  relativi  al  numero  dei  delitti  denunciati
all'autorita' giudiziaria dalle Forze di  polizia,  consultabili  sul
sito del Ministero dell'interno. 
    Le denunce, quindi non le condanne passate in giudicato,  per  il
reato        di         cui         all'art.         474         c.p.
erano settemilasettecentocinquantacinque   (7.755) nel   2016    (tra
cittadini italiani e cittadini stranieri), sono  piu'  che  dimezzate
nel 2020, anno nel quale se ne  sono  registrate  duemilanovecentouno
(2.901). 
    Non solo. L'ostativita'  del  reato  di  cui  all'art.  474  c.p.
rischia  di  rimanere  comunque  un'ipotesi  residuale   in   quanto,
astrattamente, rientra nel  perimetro  applicativo  di  cui  all'art.
131-bis c.p. 
    Il reato di cui all'art. 474 c.p.,  infatti,  e'  punito  con  la
reclusione da uno a quattro anni e con pena  pecuniaria  da  3.500  a
35.000. 
    A mente dell'art. 131-bis c.p., la punibilita' e' esclusa quando,
per le modalita' della condotta e per l'esiguita'  del  danno  o  del
pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p. l'offesa  e'
di particolare tenuita' e  il  comportamento  risulta  non  abituale,
avuto riguardo ai reati per i quali e' prevista la pena detentiva non
superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria,  sola
o congiunta alla predetta pena. 
    Se il legislatore penale ha previsto  l'applicazione,  almeno  in
astratto, per  questa  fattispecie  dell'art.  131-bis  c.p.  con  la
conseguente pronuncia di non doversi procedere per essere il reato di
lieve entita',  e'  irragionevole  sostenere  che  sia  connotata  da
particolare allarme sociale, tale da essere, seppur in un  differente
ambito, automaticamente ostativo al rilascio ovvero  al  rinnovo  del
permesso di soggiorno. 
    Anche a voler  prescindere  dalle  pronunce  ai  sensi  dell'art.
131-bis c.p., i dati statistici sopra richiamati che,  si  ribadisce,
attengono alle sole denunce e  non  alle  condanne  e  comprendono  i
delitti  commessi  da  cittadini  italiani  e  cittadini   stranieri,
comunque implicano un minor numero  di  condanne  nei  casi  in  cui,
all'esito del bilanciamento operato dal giudice penale,  comunque  si
sia pervenuti ad un giudizio di colpevolezza, condanne  che  tuttavia
non sono idonee a sorreggere  il  giudizio  di  ragionevolezza  della
disposizione. 
    Tanto premesso il Collegio ritiene che la scelta  legislativa  di
parificare fattispecie  di  reato  che  si  connotano  per  violenza,
efferatezza, condotte contrarie alla vita, all'incolumita'  fisica  e
psichica, alla liberta' sessuale (quali,  tra  gli  altri,  reati  di
omicidio, violenza sessuale, atti  sessuali  con  minorenni)  con  un
reato «minore» quale e' quello previsto e punito all'art.  474  c.p.,
sia  contrario  al  canone  della  proporzionalita'  per  come  sopra
delineato. 
    La misura non e' necessaria ne' piu'  idonea  alla  tutela  della
sicurezza  pubblica,  essendosi  ridotti  sensibilmente  i  casi   di
commissione del reato e non potendo  questo  essere  parificato  alle
fattispecie ben piu' gravi sopra richiamate. L'esigenza  di  pubblica
sicurezza, come accade in altri casi non ostativi quali ad esempio il
reato di ricettazione ex art. 648 c.p. nella forma non aggravata, ben
potrebbe essere tutelato dal potere dell'amministrazione di procedere
alla valutazione in concreto della fattispecie. 
    Non e' neppure proporzionato  in  senso  stretto  perche'  troppo
pregiudizievole della sfera del privato  il  quale  non  puo'  addure
alcun  elemento  relativo  al  proprio   percorso   di   integrazione
socio-lavorativa   che   possa   essere   preso   in   considerazione
dall'amministrazione  la  quale  si  vede   costretta   a   rigettare
l'istanza. 
    Parificare il commercio di pochi capi  di  abbigliamento,  seppur
contraffatti, per i quali il cittadino  straniero  ha  riportato  una
condanna penale a reati di omicidio,  violenza  sessuale,  appare,  a
parere del Collegio, eminentemente sproporzionato. 
1.9. Sul canone di ragionevolezza. 
    Se per  ragionevolezza  si  intende  la  coerenza  della  misura,
rectius della norma,  con  il  fine  da  perseguire,  per  tutti  gli
argomenti gia' richiamati in punto di sproporzione, la norma  risulta
anche irragionevole. Mancano il necessario grado di  allarme  sociale
nonche' la sussistenza di un concreto e generalizzato pericolo per la
sicurezza pubblica (circostanza deducibile dai  dati  empirici  sopra
richiamati) per ritenere aderente tale sanzione allo scopo perseguito
dal legislatore. 
1.10. Sul sindacato della Corte costituzionale. 
    Tanto premesso, ritenuta la  disposizione  in  contrasto  con  il
canone di ragionevolezza e con quello  di  proporzionalita',  occorre
indagare la possibilita' di un sindacato della  Corte  costituzionale
sul punto. 
    L'ampiezza, meglio dire il perimetro del  sindacato  del  giudice
costituzionale e' stato  puntualmente  descritto  nella  sentenza  23
gennaio  2019,  n.  40,  secondo   cui   «non   sussistono   ostacoli
all'intervento  della   Corte   costituzionale   quando   le   scelte
sanzionatorie   adottate   dal   legislatore   si   siano    rivelate
manifestamente arbitrarie o irragionevoli e  il  sistema  legislativo
consenta l'individuazione di soluzioni, anche alternative  tra  loro,
che siano tali da "ricondurre a coerenza le scelte gia'  delineate  a
tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove
possibile, all'eliminazione  di  ingiustificabili  incongruenze"»  (§
4.2. del considerato in diritto, che richiama la sentenza n. 233  del
2018), e - ancora - che «non e' necessario che esista,  nel  sistema,
un'unica  soluzione  costituzionalmente   vincolata   in   grado   di
sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per
una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere  assunta
come tertium comparationis, essendo sufficiente che  il  sistema  nel
suo complesso  offra  alla  Corte  precisi  punti  di  riferimento  e
soluzioni gia' esistenti, ancorche' non costituzionalmente obbligate,
che possano  sostituirsi  alla  previsione  sanzionatoria  dichiarata
illegittima». 
    Ebbene, ritiene il Collegio  che  l'ordinamento  giuridico  offra
gia', nel suo complesso, punti di riferimento per una e soluzioni che
potrebbero applicarsi al caso oggetto della presente ordinanza. 
    L'esclusione della fattispecie  di  cui  all'art.  474  c.p.  dal
novero dei reati  ostativi  non  produrrebbe,  infatti,  l'automatico
rilascio  ovvero  rinnovo  del  titolo  di   soggiorno.   Favorirebbe
unicamente il  rapporto  tra  pubblica  amministrazione  e  cittadino
straniero, permettendo a quest'ultimo, dinanzi ad una condanna penale
e in assenza di legami familiari, di dimostrare tutte le  circostanze
a lui favorevoli, specie con  riferimento  alla  buona  riuscita  del
proprio percorso  di  integrazione  socio-lavorativa,  partecipazione
alla spesa pubblica. 
    E' proprio in questo spirito di valorizzazione  della  situazione
giuridica dello straniero che la  sezione  rimettente  ha  da  ultimo
pronunciato alcune sentenze in tema di rilevanza delle sopravvenienze
rispetto alla situazione giuridica. 
    Questa sezione, infatti, ha  sostenuto  che  l'irrilevanza  delle
sopravvenienze trovava  conforto  in  una  prospettiva  del  processo
amministrativo inteso come giudizio meramente impugnatorio in cui  al
centro  della  valutazione  del  giudice  sta  solo  la  legittimita'
dell'atto al momento della sua adozione. In  questa  prospettiva,  il
sindacato di legittimita' dell'atto si  limita  alla  verifica  della
ragionevolezza   e    della    proporzionalita'    della    decisione
dell'amministrazione  secondo  quanto  conosciuto  dalla  stessa   al
momento in cui aveva maturato la propria determinazione. 
    Questa impostazione,  legata  alla  qualificazione  del  giudizio
amministrativo  come  meramente  impugnatorio,  non  sempre   risulta
adeguata alla  funzione  assegnata  al  giudice  amministrativo  dopo
l'entrata in vigore del codice del  processo  amministrativo  e  alla
luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna. 
    Cio' tanto piu' nelle ipotesi in cui oggetto  del  giudizio  sono
diritti fondamentali della persona umana che possono  trovare  tutela
nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori  essenziali  della
sicurezza e della sostenibilita' dei flussi migratori. 
    Da tempo la giurisprudenza ha dato atto della trasformazione  del
processo amministrativo «da giudizio amministrativo sull'atto, teso a
vagliarne la legittimita' alla stregua dei vizi denunciati in sede di
ricorso e con salvezza del riesercizio del potere  amministrativo,  a
giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a  scrutinare
la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.» (Cons. St.,  A.P.,
n. 3 del 2011). 
    E' proprio in questi casi in cui il bene della vita  da  tutelare
ha natura personale che oggetto della valutazione giudiziale non puo'
essere solo il provvedimento in se' poiche' essa deve necessariamente
avvolgere la situazione giuridica soggettiva che fa  da  sfondo  alla
vicenda procedimentale (Cons. St.,  Sez.  III,  1°  giugno  2022,  n.
4467). 
    Se non si valorizzassero,  nei  limiti  di  legge,  gli  elementi
positivi della  situazione  giuridica  dei  cittadini  stranieri,  si
produrrebbero gravi pregiudizi a valori fondamentali dell'ordinamento
che, anche  se  non  vengono  direttamente  in  rilievo  rispetto  al
procedimento amministrativo, comunque incidono negativamente. 
    Nessun  rilievo  avrebbe,  ad  esempio,  il   positivo   percorso
rieducativo della pena se a questo non si desse il  congruo  peso  ai
fini  del  reinserimento  del  condannato  nella  societa'.   Se   si
considerasse  automaticamente  ostativo  il  reato,   nessun   valore
avrebbero le eventuali esperienze  di  rieducazione  -  lavorative  e
sociali -  maturate  dal  cittadino  straniero.  Queste  vicende  non
possono ritenersi estranee rispetto al giudizio a quo, non foss'altro
per l'esigenza di necessaria coerenza dell'ordinamento. 
    Escludere l'art. 474 c.p. dal novero  dei  reati  automaticamente
ostativi non tradirebbe lo spirito della ratio legis, la tutela della
sicurezza collettiva e dell'ordine pubblico. Permetterebbe unicamente
all'amministrazione competente di valutare se la condotta - prendendo
come esempio il caso di specie - di  detenzione  di  alcuni  capi  di
abbigliamento  con  marchi  contraffatti,  in   assenza   di   legami
familiari,  possa  ritenersi  in  contrasto  con  la  permanenza  del
cittadino straniero sul territorio italiano. 
    Quello che il Collegio ritiene incompatibile con il principio  di
proporzionalita' e' l'automatica presunzione di  gravita'  del  reato
anche in considerazione  degli  ultimi  approdi  della  stessa  Corte
costituzionale in tema di automatismi. La presunzione e' stata  messa
in discussione, da ultimo, persino nei casi di mancata collaborazione
per i condannati per associazione per delinquere  di  stampo  mafioso
(ordinanza 12 maggio 2021, n. 97). 
1.11. Della incompatibilita' con l'art. 117  della  Costituzione  con
riferimento all'art. 8 CEDU. 
    Le  valutazioni  espresse,   specie   le   ultime,   in   materia
valorizzazione della situazione giuridica dell'appellante,  conducono
a formulare un giudizio di dubbia tenuta costituzionale  della  norma
anche  in  riferimento  all'art.  117  della  Costituzione   rispetto
all'art. 8 CEDU. 
    L'art. 8 CEDU  dispone  che:  «1.  Ogni  persona  ha  diritto  al
rispetto  della  propria  vita  privata  e  familiare,  del   proprio
domicilio e della propria corrispondenza. 
    2.  Non  puo'  esservi  ingerenza  di  una   autorita'   pubblica
nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
dalla  legge  e  costituisca  una  misura  che,   in   una   societa'
democratica, e' necessaria alla sicurezza  nazionale,  alla  pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa  dell'ordine
e alla prevenzione dei reati, alla protezione della  salute  o  della
morale, o alla protezione dei diritti e delle liberta' altrui.». 
    La disposizione, quindi,  distingue  chiaramente  almeno  quattro
diritti fondamentali protetti dalla Convenzione: vita  privata,  vita
familiare, domicilio e corrispondenza. 
    Nel caso all'attenzione del Collegio, in  particolare,  viene  in
rilievo la protezione della vita privata. 
    Il concetto di vita privata,  nella  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo, e' ampio  e  comprende  una  serie  di
sottocategorie.  Attiene,  in  senso  lato,  all'identita'  fisica  e
sociale della persona umana e non e' suscettibile di una  definizione
esaustiva (S. e Marper c. Regno Unito, paragrafo 66). 
    Significativa e' la circostanza che  per  «vita  privata»,  nella
concezione enucleata dalla Corte, non si debba  intendere  unicamente
la «cerchia intima», il nucleo di relazioni immediate e  dirette  del
singolo. Al contrario, l'art. 8 CEDU tutela il diritto allo  sviluppo
personale,   inteso   come   personalita'   o   autonomia   personale
comprendendo il diritto ad una vita sociale privata e,  in  via  piu'
generale, il diritto a partecipare alla crescita della societa'. 
    Nella sentenza resa nell'ambito del caso  «Botta  c.  Italy»,  la
Corte, al paragrafo 32,  ha  infatti  avuto  modo  di  precisare  che
«private life, in the Court's view, includes a person's physical  and
psychological integrity; the guarantee afforded by Article 8  of  the
Convention is primarily intended to ensure the  development,  without
outside interference, of the personality of each  individual  in  his
relations  with  other  human  beings  (see,  mutatis  mutandis,  the
Niemietz v. Germany judgment of 16 December 1992, Series A no. 251-B,
p. 33, § 29)». 
    L'automatismo e' contrario alla  Convenzione,  sotto  il  profilo
dell'art. 8, in quanto non risponde piu' a quel necessario  «pressing
social need» che, come detto, e' necessario  per  ritenere  legittima
una compromissione dei diritti fondamentali della persona umana. 
    Il Collegio ravvisa nel meccanismo automatico previsto  dall'art.
4, comma 3, decreto legislativo n. 286 del 1998, TU immigrazione, con
particolare riguardo all'inserimento dell'art. 474  c.p.  nel  novero
dei reati ostativi, una violazione della Convenzione.  L'automatismo,
per  le  ragioni  che   precedono,   non   permette   il   necessario
bilanciamento  tra  la  condotta  penalmente  rilevante  -  che,   si
ribadisce, non presidia piu' correttamente il  bene  della  sicurezza
pubblica - e tutte quelle circostanze che attengono alla vita privata
per come tutelata dall'art. 8 CEDU e interpretata dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo. 
    In ipotesi di reati non gravi, quale quello di cui  all'art.  474
c.p., escludere la valutazione  dell'amministrazione  rappresenta,  a
parere del Collegio, un  vulnus  di  tutela  non  superabile  in  via
interpretativa. 
    2. Alla stregua delle  precedenti  considerazioni  e  poiche'  la
presente controversia  non  puo'  essere  definita  indipendentemente
dalla  risoluzione  delle   delineate   questioni   di   legittimita'
costituzionale, il giudizio va sospeso e  vanno  rimesse  alla  Corte
costituzionale, ai sensi dell'art. 1  della  legge  costituzionale  9
febbraio 1948, n. 1 e dell'art. 23, legge 11 marzo 1953,  n.  87,  le
questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  comma  3,
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per  contrasto  con  agli
artt. 3, 117 primo comma della Costituzione in riferimento all'art. 8
CEDU nella parte in cui prevede che il  reato  di  cui  all'art.  474
c.p., rubricato «introduzione nello Stato e commercio di prodotti con
segni falsi», sia automaticamente  ostativo  al  rilascio  ovvero  al
rinnovo del titolo di soggiorno. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Consiglio di Stato in sede  giurisdizionale  (Sezione  Terza),
visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge  costituzionale
9 febbraio 1948, n. 1, e  23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione  agli
artt. 3, 117 primo comma della Costituzione in riferimento all'art. 8
CEDU la questione di legittimita' costituzionale, nei termini di  cui
in motivazione, dell'art. 4, comma 3, decreto legislativo  25  luglio
1998, n. 286. 
    Sospende il giudizio in corso e ordina  l'immediata  trasmissione
degli atti  alla  Corte  costituzionale.  Ordina  che  a  cura  della
segreteria la presente ordinanza  sia  notificata  alle  parti  e  al
Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti  del
Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. 
    Ritenuto che sussistono i presupposti di cui all'art. 52, commi 1
e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli artt.  5
e 6 del regolamento  (UE)  2016/679  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della  dignita'
della  parte  interessata,  manda  alla   segreteria   di   procedere
all'oscuramento delle generalita' della parte appellante. 
    Cosi' deciso in Roma nella Camera  di  consiglio  del  giorno  19
maggio 2022 con l'intervento dei magistrati: 
        Michele Corradino, Presidente; 
        Giulio Veltri, consigliere; 
        Giovanni Pescatore, consigliere; 
        Giulia Ferrari, consigliere, estensore; 
        Ezio Fedullo, consigliere. 
 
                      Il Presidente: Corradino 
 
 
                                                 L'estensore: Ferrari