N. 258 SENTENZA 22 novembre - 20 dicembre 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Previdenza - Indennita'  di  fine  rapporto  -  Trattamento  di  fine
  servizio - Potere di rettifica dell'ente previdenziale - Errore nel
  calcolo   dell'importo   liquidato,   imputabile   alla    pubblica
  amministrazione - Previsione di un termine di decadenza annuale,  a
  far   data   dall'emanazione   del   provvedimento   -   Denunciata
  irragionevole disparita' di trattamento e violazione del  principio
  di buona amministrazione, quale buona gestione del pubblico  danaro
  - Non fondatezza delle questioni. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n.  1032,
  art. 30, primo comma, lettera b). 
- Costituzione, artt. 3 e 97. 
(GU n.51 del 21-12-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Daria de PRETIS; 
Giudici :Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo  BUSCEMA,  Emanuela  NAVARRETTA,
  Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  30,  commi
primo, lettera b),  e  secondo,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione  del  testo  unico
delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore  dei  dipendenti
civili e militari dello Stato), promosso  dalla  Corte  d'appello  di
Roma, quarta sezione lavoro, nel procedimento vertente tra  A.  P.  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS),  con  ordinanza
del 27 aprile 2021, iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  35,  prima
serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  dell'INPS,  nonche'  l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  22  novembre  2022  il  Giudice
relatore Maria Rosaria San Giorgio; 
    uditi l'avvocato Piera Messina  per  l'INPS  e  l'avvocato  dello
Stato  Giammario  Rocchitta  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 22 novembre 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021,
la Corte d'appello di Roma, quarta sezione lavoro, ha  sollevato,  in
riferimento agli artt.  3  e  97  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 30, commi primo, lettera b),  e
secondo, del decreto del  Presidente  della  Repubblica  29  dicembre
1973, n.  1032  (Approvazione  del  testo  unico  delle  norme  sulle
prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili  e  militari
dello Stato), «nella parte  in  cui  sia  applicabile  all'errore  di
calcolo  determinato  da  fatto  imputabile  all'amministrazione   di
appartenenza del pubblico dipendente». 
    Il Collegio rimettente riferisce di dover decidere, in  grado  di
appello, sulla domanda azionata da A. P., gia'  professore  associato
presso l'Universita' «La Sapienza» di Roma,  che  ha  contestato  una
pretesa restitutoria  avanzata,  nei  suoi  confronti,  dall'Istituto
nazionale per la previdenza sociale (INPS). Cessato dal  servizio  in
data 1° novembre 2011, A. P. aveva ottenuto dall'INPS la liquidazione
del trattamento di fine servizio con provvedimenti dell'8 febbraio  e
del 1° marzo 2012. Successivamente, con lettera del 12  aprile  2017,
l'INPS  gli  aveva  tuttavia  comunicato  di  aver   proceduto   alla
riliquidazione del trattamento, con conguaglio a suo debito  pari  ad
euro 75.509,64, in quanto l'Universita' (come da missive in data 1° e
10 marzo 2017) aveva  dovuto  rideterminare  i  compensi  erogati  in
costanza del rapporto di lavoro. 
    Nel contestare la pretesa restitutoria  dell'INPS,  A.  P.  aveva
sostenuto, preliminarmente, l'intervenuta  decadenza  del  potere  di
modifica, per effetto della scadenza  del  termine  annuale  previsto
dall'art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del  1973.  In  primo
grado,  tuttavia,  il  Tribunale  di  Roma   aveva   rigettato   tale
«eccezione», sostenendo che il dies a quo di quel termine si  sarebbe
dovuto  individuare,  per  il  caso  in  esame,  nel  giorno  in  cui
l'amministrazione di appartenenza aveva comunicato all'INPS  i  nuovi
dati retributivi rettificati. Con il primo motivo di appello,  A.  P.
si e' doluto pertanto dell'errata  individuazione  del  dies  a  quo,
sostenendo che il termine annuale decorre (come  precisa  il  dettato
normativo) «dalla data di emanazione» del provvedimento errato. 
    Richiamato il contenuto delle  norme  sottoposte  a  censura  (le
quali, precisa il rimettente, avrebbero «valore di  legge  ordinaria,
in quanto emanat[e] ai sensi dell'art. 6 della L.  n.  775/1970,  che
delego' il Governo ad emanare testi unici [...] espressamente "aventi
valore di leggi  ordinarie"»),  il  giudice  a  quo  ricostruisce  il
panorama normativo di riferimento, osservando che, ai sensi dell'art.
26, secondo comma, del  d.P.R.  n.  1032  del  1973,  ai  fini  della
liquidazione  dell'indennita'  di  buonuscita,  l'amministrazione  di
appartenenza  del  dipendente  trasmette  all'ente  previdenziale  un
«progetto di liquidazione». Nel caso in cui «vi sia stato errore  nel
computo dei servizi o nel calcolo del contributo di  riscatto  o  nel
calcolo  dell'indennita'  di  buonuscita  o  dell'assegno  vitalizio»
(cosi' l'art. 30, primo  comma,  lettera  b,  del  medesimo  d.P.R.),
l'art.  30,  secondo  comma,  stabilisce  che  «il  provvedimento  e'
revocato, modificato o rettificato non oltre il termine  di  un  anno
dalla data di emanazione». 
    Osserva il rimettente che il terzo comma dell'art. 30  individua,
poi, un diverso termine di decadenza (pari a «sessanta  giorni  dalla
ricevuta comunicazione dell'amministrazione statale»)  per  l'ipotesi
prevista dall'art. 26, sesto  comma,  del  medesimo  d.P.R.,  che  si
riferisce  alle  «[e]ventuali  modifiche  relative  a   provvedimenti
dell'amministrazione statale, che comportino  variazioni  concernenti
l'indennita' di buonuscita gia' erogata» (modifiche che,  precisa  la
norma,  «saranno  comunicate   all'amministrazione   del   Fondo   di
previdenza, ai fini  del  pagamento  di  supplementi  dell'indennita'
predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento  di
quiescenza, delle somme non dovute»). La fattispecie cosi'  descritta
dall'art. 26, sesto comma, tuttavia, non  corrisponderebbe  a  quella
oggetto del giudizio a quo, perche' essa - a  giudizio  del  Collegio
rimettente  -  si  riferirebbe   «a   modifiche   dei   provvedimenti
dell'amministrazione  di  appartenenza  adottati  come   "datore   di
lavoro"», destinati cioe' ad incidere «sul  rapporto  di  lavoro  (ad
esempio una ricostruzione di carriera)», dai quali derivi una diversa
quantificazione dell'indennita' di buonuscita.  Tale  interpretazione
sarebbe  suffragata   dal   verbo   «comportino»   utilizzato   dalla
disposizione in esame. 
    Nel  caso  di  specie,  osserva  il  rimettente,  l'errore  nella
liquidazione «e' dipeso proprio da un errore  commesso  a  suo  tempo
dall'Universita' - a rapporto  di  lavoro  del  P.  ormai  estinto  -
nell'elaborazione del "progetto di liquidazione" del t.f.s.». Esso e'
derivato, si precisa, da un'errata quantificazione dell'indennita' di
perequazione, di cui all'art. 31 del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato  giuridico  del  personale
delle unita' sanitarie locali). In altri  termini,  il  provvedimento
correttivo  adottato  dall'Universita'  costituirebbe   «un   diverso
"progetto  di  liquidazione"»,  al   quale   tornerebbe   ad   essere
applicabile il regime previsto dai primi due commi dell'art.  30  del
d.P.R.  n.  1032  del  1973,  con  conseguente  termine  annuale   di
decadenza. 
    Ne',  secondo  il  rimettente,  potrebbe  accedersi  alla   tesi,
«sostenuta da una parte della giurisprudenza capitolina  di  merito»,
secondo cui il potere di rettifica dell'INPS, di cui al predetto art.
30, sarebbe limitato ai soli "errori di  fatto",  con  esclusione  di
quelli "di  diritto"  (i  quali  resterebbero,  pertanto,  imputabili
all'INPS senza possibilita' di rimedio). Cio' in quanto  la  «nozione
omnicomprensiva» dell'art. 30 abbraccerebbe, secondo  il  rimettente,
tutti gli errori «"a valle"»,  indipendentemente  dalle  ragioni  «"a
monte"» (di fatto o di diritto) che possano averli determinati. 
    Ne deriverebbe  la  rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale, «in quanto dalla  [loro]  soluzione  dipende  l'esito
dell'appello  e,  in  particolare,  del  suo  primo  motivo,   avente
carattere preliminare e assorbente». 
    Cosi' ricostruita «l'astratta applicabilita'» del citato art. 30,
il  giudice  a  quo  passa  a  esporre  i  dubbi  di   illegittimita'
costituzionale che fonderebbero  il  requisito  della  non  manifesta
infondatezza. 
    La prima censura involge l'art. 3 Cost., sotto il  profilo  della
disparita' di trattamento rispetto al lavoro  subordinato  privato  e
alle «altre tipologie previste  per  il  pubblico  impiego».  Per  le
fattispecie  cosi'  richiamate,  assume  il  rimettente,   troverebbe
applicazione la disciplina dell'indebito  oggettivo  (art.  2033  del
codice civile),  sottoposta  all'ordinario  termine  di  prescrizione
decennale (e non, dunque, al termine di decadenza annuale). Ed anzi -
sottolinea il rimettente - assumerebbe rilevanza la circostanza  che,
nel pubblico impiego, non vi e' coincidenza tra soggetto obbligato  a
pagare  il  trattamento  di  fine  servizio  e   datore   di   lavoro
(coincidenza che,  invece,  sussiste  nel  lavoro  privato),  sicche'
l'imposizione di un termine di decadenza a carico  del  primo,  ossia
l'ente previdenziale, per eventuali rettifiche disposte  tardivamente
dal secondo, «si rivela irragionevole, in  quanto  pone  il  debitore
(INPS) alla merce' dei possibili errori e/o omissioni del  datore  di
lavoro». Nonostante l'inerzia rilevante, ai fini della decadenza, sia
quella di quest'ultimo, la conseguenza ricade a danno dell'INPS,  che
non e' messo nelle condizioni «di recuperare l'eccedenza  corrisposta
illegittimamente per errore, anche di diritto, dipeso da un fatto  ad
esso non imputabile». In tal  caso,  pur  essendo  salvo  il  diritto
dell'istituto previdenziale di chiedere  il  risarcimento  del  danno
all'amministrazione di appartenenza dell'ex dipendente, tale rimedio,
«pur laddove configurabile, non escluderebbe l'irragionevolezza della
disparita' di  trattamento  e,  quindi,  la  violazione  dell'art.  3
Cost.». 
    Il rimettente passa poi ad esporre il  dubbio  di  illegittimita'
costituzionale  incentrato  sull'art.   97   Cost.,   sostenendo   la
violazione del «principio di buona amministrazione» - «e, quindi,  di
buona  gestione  del  pubblico  danaro»  istituzionalmente   affidato
all'ente previdenziale - derivante da  un  regime,  quale  quello  in
esame, «che tuteli esclusivamente l'affidamento del beneficiario  del
t.f.s., senza alcuna giustificazione legata alle peculiarita' del suo
rapporto di pubblico impiego». Si evidenzia nuovamente che «per altre
categorie di pubblici dipendenti (come  quelli  degli  enti  locali),
nonche' per i dipendenti privati, l'ordinamento giuridico non prevede
alcun  termine  di   decadenza,   ma   solo   quello   ordinario   di
prescrizione». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, concludendo per l'inammissibilita' e,  comunque,  per  la  non
fondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale. 
    La difesa erariale, preliminarmente, eccepisce l'inammissibilita'
della questione sollevata  in  riferimento  all'art.  97  Cost.,  per
difetto di motivazione sulla non  manifesta  infondatezza.  Cio',  in
quanto  il  ritenuto  contrasto  con  tale  parametro  costituzionale
sarebbe  affermato  dal  giudice  remittente  in  maniera  del  tutto
generica, in particolare senza  specificare  «se  la  violazione  del
principio di buon andamento  sia  riferibile  all'organizzazione  dei
pubblici  uffici  sub  specie  degli  uffici  previdenziali,   ovvero
all'apparato burocratico». L'ordinanza di rimessione non  chiarirebbe
«a quale  norma  contenuta  nell'art.  97  Cost.»  essa  intenda  far
riferimento,  cio'  che  impedirebbe  «l'immediata   percezione   dei
precetti costituzionali che  si  assumono  violati».  In  ogni  caso,
risulterebbero richiamati in modo del tutto generico  i  principi  di
buon andamento e imparzialita' della pubblica amministrazione. 
    Un'ulteriore eccezione di inammissibilita' coinvolge poi entrambi
i profili di censura sollevati dal  rimettente  in  riferimento  agli
artt. 3 e 97 Cost. Secondo la difesa erariale, il giudice  rimettente
avrebbe omesso la ricerca  di  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata della disciplina in esame, non avendo affrontato, se non in
modo estremamente sommario, l'esame di «diverse opzioni ermeneutiche»
della  norma,  ed  anzi,  pur  avendo  richiamato   un   orientamento
giurisprudenziale  «all'apparenza   consolidato»,   se   ne   sarebbe
discostato,   tuttavia   omettendo   «di   esplorare   anche    altre
interpretazioni, per cercarne una piu' aderente ai parametri stessi».
In particolare, si rimprovera al Collegio rimettente di  aver  omesso
di accertare «la natura  e  la  funzione  dell'ipotesi  di  decadenza
prevista dall'art. 26, sesto comma, d.P.R. n. 1032 del 1973» e di non
aver esplicitato il ragionamento che l'ha  condotto  a  ritenere  che
l'utilizzo, da parte della norma, della forma verbale «comportino» si
riferisca   solo   alle   modifiche   dei   provvedimenti    adottati
dall'amministrazione come "datore di lavoro", e che, quindi, incidono
sul rapporto  di  lavoro.  Quest'ultima  conclusione,  «all'apparenza
contraria alla lettera della legge», non sembrerebbe «corroborata  da
alcun chiarimento ulteriore rispetto all'argomento  supra  riferito»,
in definitiva rimanendo sorretta da un iter logico-argomentativo poco
chiaro. 
    Nel  merito,  le  censure  sollevate  dal  rimettente   sarebbero
comunque non fondate. 
    Quanto a  quella  ex  art.  3  Cost.,  sarebbe  la  stessa  Corte
rimettente a costruire  una  possibile  soluzione,  laddove  essa  ha
enunciato  l'ipotesi  che  l'INPS   chieda   all'amministrazione   di
appartenenza  dell'ex  dipendente  il  risarcimento  del  danno:   si
tratterebbe di «un'alternativa  alla  tutela  del  diritto  dell'ente
previdenziale  al  recupero  di  quanto  indebitamente   corrisposto,
diversa dalla declaratoria di incostituzionalita' della  disposizione
comminante la decadenza». 
    Inoltre,  l'identificazione,  quale  tertium  comparationis,  del
rapporto di lavoro subordinato  privato  non  si  confronterebbe  con
l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale  quella  tipologia  di
lavoro non puo' completamente  assimilarsi  al  lavoro  pubblico.  Il
principio di uguaglianza -  osserva  la  difesa  erariale  -  postula
l'omogeneita' delle situazioni giuridiche messe  a  confronto  e  non
potrebbe,  pertanto,  essere  invocato  in  presenza  di   situazioni
intrinsecamente eterogenee. Ne'  -  sotto  altro  profilo  -  sarebbe
riscontrabile una  piena  coincidenza  tra  il  trattamento  di  fine
servizio e  l'indennita'  premio  di  servizio  che  e'  corrisposta,
all'atto della cessazione dal  servizio,  ai  dipendenti  degli  enti
locali, del Servizio sanitario nazionale e degli altri enti  iscritti
al fondo di previdenza ex Istituto nazionale per i  dipendenti  degli
enti locali (INADEL). 
    Quanto,  poi,  alla  censura  ex  art.   97   Cost.,   a   parere
dell'Avvocatura generale dello Stato le  argomentazioni  addotte  dal
rimettente ridondano nella violazione dell'art. 3 Cost.,  e,  dunque,
per esse possono valere le medesime osservazioni di cui  si  e'  gia'
riferito. Di seguito, comunque, la difesa erariale passa a  confutare
l'argomento dell'ordinanza di rimessione secondo cui (come  si  legge
nell'atto di intervento) «la decadenza disposta  dalla  norma  tutela
esclusivamente l'affidamento del beneficiario del tfs», e osserva che
simile  ragionamento  non  si   confronta   con   la   giurisprudenza
costituzionale «che  ha  costantemente  riconosciuto  il  valore  del
legittimo affidamento, che trova copertura costituzionale nell'art. 3
Cost.». Tale giurisprudenza -  evidenzia  la  difesa  erariale  -  ha
escluso che l'interesse al  contenimento  della  spesa  pubblica  sia
sufficiente, da solo, a sacrificare l'affidamento  del  privato.  Nel
caso di specie, non emergerebbero «situazioni di  gravita'»  tali  da
imporre la prevalenza del principio di buona amministrazione. 
    Infine, si osserva (con argomento che e' comune  ad  entrambe  le
censure di illegittimita' costituzionale),  che  la  Corte  d'appello
rimettente sarebbe incorsa in un'errata interpretazione dell'art. 26,
sesto comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973,  che  andrebbe  inteso  nel
senso di riferirsi a «un qualunque provvedimento dell'amministrazione
cui  appartiene  il  dipendente  che  abbia  come   conseguenza   una
variazione dell'indennita'  di  buonuscita».  In  aderenza  a  quanto
sostenuto anche dalla giurisprudenza  amministrativa  (e'  citata  la
sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 26  giugno  2012,  n.
3748), quella disposizione e' applicabile al caso di  specie  poiche'
il termine  decadenziale  puo'  iniziare  a  decorrere  soltanto  dal
momento in cui l'ente previdenziale acquisisce i  dati  corretti  per
effettuare i calcoli ai fini della determinazione dell'indennita'  di
buonuscita. 
    3.- Nel giudizio di legittimita' costituzionale si e'  costituito
l'INPS,  concludendo  per  l'ammissibilita'  e  la  fondatezza  delle
questioni sollevate dalla Corte d'appello di Roma. 
    L'Istituto ricostruisce anzitutto i fatti oggetto del giudizio  a
quo,  evidenziando  che,  con  un  primo  prospetto  di  liquidazione
(comunicato, nel 2011, dall'Universita' di Roma), era stata indicata,
quale parametro stipendiale, utile ai  fini  della  liquidazione,  la
somma di euro 100.428,16, con conseguente importo dell'indennita'  di
buonuscita pari ad euro 260.882,49. Successivamente,  a  seguito  del
nuovo prospetto di liquidazione  (comunicato  nel  2017),  era  stata
fornita ad esso una nuova e diversa base contributiva dell'indennita'
spettante a A. P., come rielaborata a seguito di nuovi dati acquisiti
in  data  13  febbraio  2017,  che  risultava  inferiore   a   quella
precedentemente   comunicata.    A    seguito    della    conseguente
riliquidazione dell'indennita' di buonuscita, era emerso  un  importo
negativo pari ad euro 75.509,64. 
    In  diritto,  l'INPS  ritiene  condivisibili  le   argomentazioni
dell'ordinanza  di  rimessione.  Al  caso  di  specie   non   sarebbe
applicabile l'art. 26, sesto comma, del  d.P.R.  n.  1032  del  1973,
trattandosi di norma «riferibile  unicamente  a  provvedimenti  della
amministrazione di appartenenza dell'iscritto, adottati  in  qualita'
di datore di lavoro,  e  che  quindi  incidano  in  modo  diretto  ed
immediato  sul  rapporto  di   servizio   come,   ad   esempio,   una
ricostruzione di carriera». Il raggio di applicazione di tale  norma,
in altri termini, sarebbe limitato solo alle «ipotesi  in  cui  venga
modificato non il prospetto di liquidazione quanto  un  provvedimento
datoriale che a sua volta comporti  una  modifica  del  prospetto  di
liquidazione della indennita' di buonuscita». Tale sarebbe  «il  solo
significato logico, prima ancora che giuridico, del predicato verbale
"comportino" contenuto nella disposizione in rassegna».  Al  caso  di
specie, piuttosto, sarebbe applicabile l'art. 30 del medesimo d.P.R.,
con il termine di decadenza annuale. 
    Cio' premesso,  a  parere  dell'INPS  la  censura  riferita  alla
violazione dell'art. 3 Cost. troverebbe il tertium comparationis  «in
tutte le altre  prestazioni  previdenziali  di  Trattamento  di  fine
servizio  e/o  di  fine  rapporto  previste  dal  nostro  ordinamento
giuridico», per le quali l'azione di recupero di somme  indebitamente
corrisposte  e'  sempre   assoggettata   all'ordinario   termine   di
prescrizione. Cio' varrebbe anche per i dipendenti del comparto Stato
assunti dopo la data del 31 dicembre 2000, per  i  quali  trova  oggi
applicazione il regime del trattamento di fine rapporto ai sensi  del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri  20  dicembre  1999
(Trattamento di fine rapporto e istituzione dei  fondi  pensione  dei
pubblici dipendenti). Di conseguenza, emergerebbe una  disparita'  di
trattamento anche tra i  dipendenti  statali  assunti  prima  del  31
dicembre  2000  (per  i  quali  vale  il  regime  dell'indennita'  di
buonuscita di cui al d.P.R. n. 1032  del  1973,  con  il  termine  di
decadenza) e quelli assunti successivamente  (per  i  quali,  invece,
vale il diverso regime del trattamento di fine rapporto, senza alcuna
decadenza, ma solo con il termine  ordinario  di  prescrizione).  Ne'
tale disparita' potrebbe ritenersi  giustificata  dal  solo  naturale
fluire del tempo. 
    In tale quadro, la previsione del termine  di  decadenza  annuale
sarebbe irrazionale e illogica, posto  che  l'istituto  previdenziale
vede preclusa la propria azione di ripetizione per  fatto  imputabile
solo all'amministrazione statale datrice di lavoro. Del resto, si  fa
notare, l'INPS, nel calcolare la liquidazione dei trattamenti di fine
servizio, provvede sulla scorta dei dati economici  e  giuridici  che
gli sono forniti dall'amministrazione (che trasmette il «progetto  di
liquidazione», ai sensi dell'art. 26, secondo comma,  del  d.P.R.  n.
1032 del 1973). 
    Fondata sarebbe anche la censura di cui  all'art.  97  Cost.,  in
quanto  l'azione  di  recupero   di   somme   indebitamente   erogate
«rappresenta il corollario del fondamentale interesse  alla  corretta
gestione del pubblico denaro che, a sua volta,  e'  l'estrinsecazione
del principio costituzionale di  buona  amministrazione»,  come  piu'
volte sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La  Corte  d'appello  di  Roma,  quarta  sezione  lavoro,  ha
sollevato questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  30,
commi primo, lettera b), e secondo, del  d.P.R.  n.  1032  del  1973,
«nella parte in cui sia applicabile all'errore di calcolo determinato
da fatto imputabile all'amministrazione di appartenenza del  pubblico
dipendente», per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 
    Le disposizioni censurate consentono  all'istituto  previdenziale
di revocare, modificare o rettificare d'ufficio  i  provvedimenti  di
liquidazione, afferenti alle prestazioni  previdenziali  disciplinate
dal testo unico del 1973, e ne fissano, all'uopo, sia le  condizioni,
sia la tempistica. In particolare, a norma del primo comma  dell'art.
30, la revoca, la modifica o la rettifica sono consentite quando: «a)
vi sia stato errore di fatto o  si  sia  omesso  di  tener  conto  di
elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato  errore  nel  computo
dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto  o  nel  calcolo
dell'indennita' di buonuscita  o  dell'assegno  vitalizio;  c)  siano
stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione  del  provvedimento;
d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti
o dichiarati falsi». Per le ipotesi di cui alle lettere a) e  b),  il
secondo comma dell'art. 30 stabilisce che la revoca, la modifica o la
rettifica possono intervenire «non oltre il termine di un anno  dalla
data di emanazione». Per le ipotesi di cui  alle  lettere  c)  e  d),
invece, la medesima disposizione stabilisce che  «il  termine  e'  di
sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o  dalla  notizia
della riconosciuta o dichiarata falsita' dei documenti». 
    A  giudizio  del  rimettente,   dette   previsioni   violerebbero
anzitutto l'art.  3  Cost.,  sotto  il  profilo  di  un'irragionevole
disparita' di trattamento che  si  verrebbe  a  determinare  tra  gli
impiegati pubblici in regime di trattamento di fine  servizio  (TFS),
per i quali vale il regime di rettifica appena menzionato, e le altre
categorie di lavoratori che risultano assoggettate al diverso  regime
del trattamento di fine rapporto (TFR), nonche' di impiegati pubblici
che beneficiano di diverse tipologie di indennita' di  fine  servizio
(come ad esempio l'indennita' premio di servizio dei dipendenti degli
enti  locali).  Per  tali  categorie  di  lavoratori,  indicate   dal
rimettente quali  tertia  comparationis,  l'ordinanza  di  rimessione
osserva che l'eventuale eccedenza dell'importo liquidato, rispetto  a
quello effettivamente spettante a  seguito  di  un  provvedimento  di
rettifica, «puo' sempre essere chiest[a] in  ripetizione  secondo  la
disciplina  dell'indebito  oggettivo  (art.  2033  c.c.),  sottoposto
unicamente all'ordinario termine decennale di prescrizione». 
    Sotto un diverso profilo, il rimettente  denuncia  la  violazione
dell'art. 97 Cost., in quanto il descritto regime  di  rettifica  del
TFS, che tutela esclusivamente  l'affidamento  del  beneficiario,  si
paleserebbe «contrario al principio di buona  amministrazione  di  un
ente  pubblico  previdenziale,  e,  quindi,  di  buona  gestione  del
pubblico danaro, istituzionalmente affidato a quell'ente», senza  che
cio' possa trovare «alcuna giustificazione legata  alle  peculiarita'
del rapporto di pubblico impiego. 
    2.- L'Avvocatura generale dello Stato, per conto  del  Presidente
del Consiglio dei  ministri,  ha  eccepito  l'inammissibilita'  della
questione sollevata in riferimento all'art. 97 Cost. per  difetto  di
motivazione sul requisito della non manifesta infondatezza, in quanto
l'ordinanza di rimessione sarebbe, sul punto, «del  tutto  generica»,
omettendo di  precisare  se  la  violazione  del  principio  di  buon
andamento debba riferirsi all'organizzazione dei pubblici uffici, sub
specie degli uffici previdenziali, «ovvero all'apparato burocratico».
La difesa erariale ha,  inoltre,  eccepito  l'inammissibilita'  delle
questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. per omessa
ricerca, da parte  della  Corte  d'appello,  di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata della disciplina della cui  legittimita'
costituzionale si dubita  e,  in  particolare,  per  aver  omesso  di
accertare la natura e la funzione dell'ipotesi di decadenza  prevista
dall'art. 26, sesto comma, d.P.R. n. 1032 del 1973  (ipotesi  che,  a
parere della difesa erariale, dovrebbe trovare applicazione nel  caso
di specie). 
    2.1.- Nessuna delle due eccezioni e' fondata. 
    2.1.1.- Sotto il primo profilo, non appare  affatto  generica  la
motivazione resa dal rimettente sul  parametro  di  cui  all'art.  97
Cost.  Egli  si  e'  riferito,  invero,   al   principio   di   buona
amministrazione dell'ente previdenziale e  ha  richiamato  la  «buona
gestione  del   pubblico   danaro,   istituzionalmente   affidato   a
quell'ente».   Tali   riferimenti   sono   compiuti   con   immediato
collegamento alla tematica del legittimo affidamento di colui che  ha
gia' percepito le somme liquidate dall'amministrazione e sono volti a
sottolineare la (ritenuta) esclusiva protezione, da parte delle norme
censurate, dell'interesse del  percettore,  a  totale  discapito  del
contrapposto interesse pubblico, ritenuto insito nell'art. 97  Cost.,
volto al recupero delle somme indebite.  I  contorni  della  censura,
pertanto, sono ben chiari. 
    2.1.2.-  Sotto  il  secondo  profilo,  vi  e'  da  rilevare   che
l'ordinanza   di   rimessione   ha   considerato   espressamente   la
possibilita' di applicare, nel caso di specie, la  diversa  causa  di
decadenza collegata alla  disposizione  di  cui  all'art.  26,  sesto
comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973 (che si riferisce al provvedimento
di  rettifica  dell'INPS   derivante   da   «modifiche   relative   a
provvedimenti dell'amministrazione statale, che comportino variazioni
concernenti  l'indennita'  di  buonuscita  gia'  erogata»  e  che  si
produce, come prevede l'art. 30,  ultimo  comma,  alla  scadenza  del
termine di sessanta giorni decorrente «dalla  ricevuta  comunicazione
dell'amministrazione statale»), ma l'ha esclusa  sulla  base  di  una
motivazione non implausibile. In punto di rilevanza, il rimettente ha
infatti ritenuto che la previsione dell'art.  26,  sesto  comma,  «si
riferisce  a  modifiche  dei  provvedimenti  dell'amministrazione  di
appartenenza adottati come "datore  di  lavoro"»,  come  tali  quindi
incidenti in via immediata e diretta  «sul  rapporto  di  lavoro  (ad
esempio, una ricostruzione  di  carriera),  dai  quali  deriva,  come
conseguenza ulteriore, una diversa quantificazione dell'indennita' di
buonuscita». Ha pertanto ritenuto applicabile, al caso di specie,  la
fattispecie di  rettifica  dell'errore  di  calcolo,  quale  prevista
dall'art. 30, primo comma, lettera b), del d.P.R. n. 1032  del  1973,
e, con essa, il termine di decadenza annuale previsto  dall'art.  30,
secondo comma, decorrente dalla data dell'originario provvedimento di
liquidazione, salvo poi dubitare della legittimita' costituzionale di
tali disposizioni. 
    La diversa interpretazione propugnata dalla difesa  erariale  non
risulta,  del  resto,  supportata  da  orientamenti   univoci   della
giurisprudenza,  tale  da  farla  assurgere  al  rango  di   "diritto
vivente". Non puo', pertanto, rimproverarsi al giudice rimettente  di
non averla seguita. 
    3.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    3.1.- In linea generale, va ricordato che, come gia' precisato da
questa Corte, «[l]e indennita' di fine rapporto, pur nella differente
configurazione  che  hanno  assunto  nel  volgere  degli   anni,   si
atteggiano come "una categoria unitaria  connotata  da  identita'  di
natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque  tipo  di
rapporto di lavoro subordinato e a qualunque  ipotesi  di  cessazione
del medesimo" (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato  in
diritto). L'evoluzione  normativa,  "stimolata  dalla  giurisprudenza
costituzionale" (sentenza n. 243 del 1993, punto 4.  del  Considerato
in diritto), ha ricondotto le indennita' di fine rapporto erogate nel
settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con
concorrente funzione previdenziale, nell'ambito  di  un  percorso  di
tendenziale assimilazione alle regole  dettate  nel  settore  privato
dall'art.  2120  del  codice  civile  (decreto  del  Presidente   del
Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante "Trattamento di fine
rapporto e istituzione dei fondi pensione dei  pubblici  dipendenti"»
(sentenza n. 159 del 2019). 
    Tale processo di  armonizzazione,  contraddistinto  anche  da  un
ruolo rilevante dell'autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018),
rispecchia la finalita' unitaria dei trattamenti  di  fine  rapporto,
che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella  delicata  fase
dell'uscita dalla vita lavorativa attiva. 
    Tuttavia la comune matrice non implica necessariamente una totale
uniformita' di disciplina. Ciascuna figura di indennita',  ritagliata
nel  settore  lavoristico  cui  accede,  non   puo'   che   mantenere
caratteristiche proprie e  peculiari,  legate  a  quel  settore,  con
conseguente coesistenza «di diverse  regolamentazioni  riguardanti  i
meccanismi  di  provvista,  nonche'  i  soggetti  gravati  dall'onere
contributivo e quelli tenuti ad erogare il trattamento» (sentenza  n.
458 del 2005), senza che cio' naturalmente trasmodi  nella  negazione
dei tratti fondamentali teste' indicati. 
    3.2.- L'odierno rimettente, di fronte a  una  disciplina  (quella
della decadenza dal potere di rettifica dell'ente previdenziale)  che
si riferisce a  un  aspetto  del  tutto  particolare  della  materia,
chiede, mediante la censura ai sensi dell'art.  3  Cost.,  che  siano
uniformati  i  regimi  giuridici  del  potere  di  rettifica  rimesso
all'INPS. In particolare, viene prospettata l'estensione al TFS della
regola, che risulta attualmente vigente per il TFR e per altre figure
di indennita' di fine rapporto (viene richiamata l'indennita'  premio
di fine servizio, prevista  per  i  dipendenti  degli  enti  locali),
secondo  la  quale  la  rettifica  puo'  essere  disposta   dall'ente
previdenziale entro il piu' largo termine di prescrizione  ordinario,
anziche' entro il termine di decadenza imposto  attualmente,  per  il
solo TFS, dall'art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 1032  del  1973.
Tale estensione,  qualora  operata,  determinerebbe  un  abbassamento
della soglia di protezione del beneficiario del trattamento, il quale
si troverebbe maggiormente esposto alle azioni di recupero  dell'ente
previdenziale. 
    Cosi' posta la questione, il rimettente non considera,  tuttavia,
che le figure messe a  raffronto  -  il  TFS,  da  un  lato,  tuttora
previsto  per  determinate  categorie  di  lavoratori   del   settore
pubblico, e il TFR, dall'altro lato, che  costituisce  l'istituto  di
applicazione  generale  sia  per  i  lavoratori   privati   sia,   in
prospettiva, per gli stessi lavoratori del  settore  pubblico  -  non
sono tra di  loro  comparabili  quanto  alla  disciplina  che,  negli
aspetti di dettaglio,  regolamenta  le  modalita'  di  calcolo  e  di
erogazione   dei   relativi   assegni.   La   disciplina   del   TFS,
caratterizzata anche da sostanziali differenze rispetto a quella  del
TFR, e' stata dal legislatore  introdotta  -  e,  attualmente,  viene
ancora mantenuta -  in  considerazione  sia  della  peculiarita'  del
settore lavoristico cui accede,  sia  soprattutto  della  non  ancora
compiuta  armonizzazione  con  la  disciplina  generale  del  settore
privato. 
    3.3.- Nel descritto quadro, questa Corte - nello  scrutinare  una
questione di legittimita' costituzionale riguardante i diversi  tempi
di liquidazione previsti, rispettivamente, per il TFS e per il TFR  -
ha gia' sottolineato «la peculiarita' del regime applicabile in  tale
materia al  settore  pubblico,  in  considerazione  della  preminente
esigenza di ordinata e trasparente programmazione nell'impiego  delle
limitate risorse disponibili», peculiarita' che, di per se', e'  tale
da «rendere ragione delle differenze censurate» tra le due discipline
poste a raffronto e, conseguentemente, e' sufficiente «per  escludere
la denunciata violazione dell'art. 3 Cost.  sotto  il  profilo  della
dedotta disparita' di trattamento» (sentenza n. 159 del 2019, punto 6
del Considerato in diritto). Analogamente, questa  Corte  ha  escluso
che i diversi regimi del TFS e del TFR possano  essere  tra  di  loro
equiparati relativamente alla questione degli  adeguamenti  economici
necessari ad assistere il passaggio dall'uno all'altro: si e'  quindi
esclusa la violazione dell'art. 3  Cost.,  anche  allora  prospettata
dall'autorita' rimettente,  proprio  perche'  «l'eterogeneita'  della
struttura, della base di calcolo e della disciplina  dei  regimi  del
TFR  e  del  TFS,  confermata  anche  dal   laborioso   processo   di
armonizzazione e dalla necessaria gradualita' che  lo  ha  governato,
preclude  la  valutazione  comparativa  sollecitata  dal  rimettente»
(sentenza n. 213 del 2018). 
    In definitiva, secondo la giurisprudenza  di  questa  Corte,  non
puo'  che  spettare  al  legislatore  la  previsione  di   discipline
ragionevolmente differenziate delle singole figure di  indennita'  di
fine rapporto, in considerazione del complessivo contesto in cui esse
vanno  a  inserirsi  e  dell'evoluzione  normativa   che   punta   ad
armonizzarle, ferma restando, in una prospettiva  piu'  generale,  la
loro  riconduzione  a  una  comune  matrice   unitaria,   di   natura
previdenziale, che questa Corte  ha  costantemente  riconosciuto.  La
conseguente   discrezionalita'   del    legislatore    si    apprezza
particolarmente   proprio   nel   settore   del   lavoro    pubblico,
caratterizzato, come gia'  accennato,  da  un  percorso  di  graduale
passaggio dal precedente regime di TFS, che ancor oggi sopravvive,  e
che risulta regolato proprio dalle norme dettate dal d.P.R.  n.  1032
del 1973, a quello  del  TFR,  «tuttora  ritagliato  all'interno  del
medesimo regime pubblicistico che connotava  il  rapporto  di  lavoro
alle  dipendenze  delle   pubbliche   amministrazioni   prima   della
privatizzazione dello stesso» (sentenza n. 244 del 2020, punto 4.1.2.
del Considerato in diritto). 
    3.4.- Nel caso di specie, la censurata  disciplina  dell'art.  30
del d.P.R. n. 1032 del 1973 che regola, per il TFS, i tempi  entro  i
quali   l'ente   previdenziale   puo'   procedere   alla    rettifica
dell'originario assegno  di  liquidazione,  pur  differenziandosi  da
quella dettata per il TFR o per altre figure  affini  di  indennita',
non e' tale da  intaccare  la  funzione  fondamentale  dell'istituto.
Essa,  anzi,  si  svela  pienamente  in   linea   con   la   funzione
previdenziale dell'indennita' - da intendersi, come detto, «in  tutta
la pregnanza delle sue implicazioni» (sentenza n.  159  del  2019)  -
posto  che  circoscrive  ragionevolmente  il  potere   di   rettifica
dell'INPS mediante la previsione di due diversi termini di  decadenza
(annuale o di sessanta giorni), cui corrispondono due diversi dies  a
quibus (calibrati a seconda della  tipologia  di  errore  oggetto  di
emenda). In tal modo la disciplina  risulta  opportunamente  ispirata
alla ratio della tutela dell'affidamento, meritevole  di  particolare
attenzione nel settore delle prestazioni previdenziali. La  normativa
scrutinata, sotto questo aspetto, opera un ragionevole  bilanciamento
tra  le  ragioni  dell'Erario  e  l'interesse  del  beneficiario  del
trattamento. 
    La opzione per la eliminazione di siffatta disciplina allo  scopo
di favorire il complessivo percorso di riavvicinamento del  TFS  alle
regole attualmente dettate per il  settore  privato,  ovvero  per  il
mantenimento della stessa, in quanto  ritenuta  piu'  rispondente  al
perseguimento  della  finalita'   previdenziale   dell'istituto,   ed
eventualmente estesa  al  TFR  o  alle  altre  figure  di  indennita'
esistenti nel nostro ordinamento, e' una valutazione che, per  quanto
sopra rilevato, non puo' che spettare al prudente  apprezzamento  del
legislatore (sentenza n. 148 del 2017, riferita a questione del tutto
sovrapponibile a quella all'odierno esame,  relativa  alla  lamentata
disparita' di trattamento tra i lavoratori  del  settore  pubblico  e
quelli del settore privato quanto alla decadenza  dalla  possibilita'
di  rettifica  dei  provvedimenti  di  liquidazione  definitiva   del
trattamento di quiescenza). 
    4.- Le suesposte argomentazioni danno conto, altresi', della  non
fondatezza della censura incentrata sull'art. 97 Cost. 
    La violazione del principio  di  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione non puo', infatti, essere invocata se non  attraverso
la denuncia di arbitrarieta' e di  manifesta  irragionevolezza  della
disciplina censurata, combinandosi,  sotto  questo  profilo,  con  il
riferimento all'art. 3 Cost.  ed  implicando  lo  svolgimento  di  un
giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata (sentenze n. 208 del
2014, n. 243 del 2005, n. 306 e n. 63 del 1995 e  n.  250  del  1993;
ordinanze n. 100 e n. 47 del 2013). 
    Come questa Corte ha  gia'  avuto  occasione  di  affermare,  con
riguardo  a  una  fattispecie  parzialmente  assimilabile  a   quella
odierna,  il  termine  decadenziale  di  cui  si  tratta   (un   anno
dall'adozione dell'originario provvedimento di  liquidazione),  lungi
dal porsi in contrasto con il  principio  del  buon  andamento  della
pubblica amministrazione, rappresenta uno strumento volto,  sia  pure
indirettamente,    ad     accrescere     l'efficienza     dell'azione
amministrativa, «senza incidere, ovviamente, nel caso di  errore  non
tempestivamente   rettificato,   sulle   eventuali    responsabilita'
individuali» (sentenza n. 191 del 2005). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 30, commi primo, lettera b), e  secondo,  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n.  1032  (Approvazione
del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a  favore
dei  dipendenti  civili  e  militari  dello  Stato),  sollevate,   in
riferimento agli  artt.  3  e  97  della  Costituzione,  dalla  Corte
d'appello di Roma, quarta sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2022. 
 
                                F.to: 
                     Daria de PRETIS, Presidente 
                Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore 
                   Igor DI BERNARDINI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2022. 
 
                           Il Cancelliere 
                      F.to: Igor DI BERNARDINI