N. 157 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 maggio 2022

Ordinanza del 18 maggio 2022 del Tribunale di  Nocera  Inferiore  nel
procedimento penale a carico di G.R. ed altri. 
 
Processo penale  -  Provvedimenti  sulla  composizione  collegiale  o
  monocratica del tribunale - Inosservanza delle  disposizioni  sulla
  composizione collegiale o monocratica del  tribunale  -  Previsione
  che l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei
  reati alla cognizione del tribunale in  composizione  collegiale  o
  monocratica e delle disposizioni processuali collegate e'  rilevata
  o  eccepita,  a  pena  di  decadenza,   prima   della   conclusione
  dell'udienza preliminare o,  se  questa  manca,  entro  il  termine
  previsto dall'art. 491, comma 1, cod. proc. pen. -  Previsione  che
  entro  tale  ultimo  termine  deve  essere  riproposta  l'eccezione
  respinta nell'udienza preliminare. 
- Codice di procedura penale, art. 33-quinquies. 
(GU n.2 del 11-1-2023 )
 
                  IL TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE 
                           Sezione penale 
 
    Il Tribunale di Nocera  Inferiore,  in  composizione  collegiale,
nelle persone dei giudici del Iª Collegio della Sezione Penale: 
      dott.ssa Cinzia Apicella, Presidente; 
      dott. Giuseppe Palumbo, giudice; 
      dott. Federico Noschese, giudice; 
    all'udienza del  18  maggio  2022,  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza  nel  procedimento  penale  a  carico  di  D.D.   +53,   in
riferimento alle posizioni dei seguenti imputati ed imputazioni,  che
si riportano integralmente: 
      R.G., nata a... il... e residente a... alla via... - difesa  di
fiducia dagli  avvocati  Maria  Rosaria  Crispo  e  Generoso  Bloise,
chiamata a rispondere del Capo CC; 
      CAPO CC) del delitto p. e  p.  dall'art.  81  cpv.  del  codice
penale e dall'art. 2, decreto legislativo  n.  74/2000  perche',  con
piu' azioni esecutive del medesimo  disegno  criminoso,  al  fine  di
evadere le imposte sul valore aggiunto, in qualita' di rappresentante
legale della «...», avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti
indicava nelle dichiarazioni relative all'anno  d'imposta...  e...  i
seguenti elementi passivi fittizi ed in particolare: 
        Anno...; 
        fatture emesse  dalla  societa'...  per  un  totale  di  euro
398.029,16; 
        Anno...; 
        fatture emesse  dalla  societa'...  per  un  totale  di  euro
56.013,13; 
        fatture  emesse  dalla  ditta...  per  un  totale   di   euro
1.007.694,56; 
        per un totale di euro 1.461.736,85. 
    In... dal... al... 
 

              Parte di provvedimento in formato grafico

 
    per i quali si e' disposta la separazione del processo  ai  sensi
dell'art. 18 lettera b) del codice di procedura penale,  al  fine  di
sollevare  questione   di   legittimita'   costituzionale   dell'art.
33-quinquies del del codice di procedura penale nella  parte  in  cui
prevede che  l'inosservanza  delle  disposizioni  sulla  composizione
collegiale  o  monocratica  del  tribunale  deve  essere  rilevata  o
eccepita, a pena di decadenza, prima della  conclusione  dell'udienza
preliminare, consentendo solo in tal  caso  la  riproposizione  della
questione entro  il  termine  di  cui  all'art.  491  del  codice  di
procedura penale, per contrasto con gli articoli 3, 24, 101 comma  2,
111 comma 2  -  117  comma  1  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU;. 
 

              Parte di provvedimento in formato grafico

 
    Il  Collegio,  dopo  aver  acquisito   in   visione   i   verbali
dell'udienza preliminare tenutasi in data 1°  marzo  2019,  29  marzo
2019, 10 maggio 2019, 24 maggio 2019, 27 giugno 2019,  ha  verificato
che la questione non era stata mai sollevata dai  difensori  in  tale
fase  procedimentale,  (1)   e  ha  constatato  pertanto   l'astratta
decadenza dall'eccezione (e dalla  rilevazione  d'ufficio)  ai  sensi
dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale 
    La dichiarazione concreta di inammissibilita' della doglianza  e'
tuttavia     oggi     preclusa     dal     rilievo     ex     officio
dell'incostituzionalita' della norma citata, per plausibile contrasto
con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3  CEDU,
nella parte in cui, prevedendo un'esplicita decadenza  dall'eccezione
qualora non sollevata o rilevata nel corso dell'udienza  preliminare,
non  consente  alle  parti  e  al  giudice  di  eccepire  o  rilevare
l'inosservanza del  riparto  di  attribuzioni  tra  il  tribunale  in
composizione monocratica e collegiale nelle ipotesi, analoghe al caso
di specie, in cui il vizio si sia palesato con il decreto che dispone
il giudizio, e dunque dopo la conclusione dell'udienza preliminare. 
II. La rilevanza della questione. 
    La questione prospettata ha sicura rilevanza nel giudizio  a  quo
non potendo essere definito indipendentemente dalla sua  risoluzione,
cosi' come previsto  dall'art.  23,  comma  2,  legge  n.  87/1953  e
dall'elaborazione giurisprudenziale del requisito. 
    La rilevanza, secondo lo statuto pretorio  forgiato  dalla  Corte
Costituzionale,  esprime  «un  effettivo  e  concreto   rapporto   di
strumentalita' fra la risoluzione  della  questione  di  legittimita'
costituzionale e  la  definizione  del  giudizio  principale»  (Corte
costituzionale ordinanza n. 282/1998), un nesso  di  pregiudizialita'
tale che il processo a quo non possa avanzare  senza  il  superamento
dell'incidente di costituzionalita' (Corte costituzionale sentenza n.
180/2018: la pregiudizialita' implica che «la relativa  questione  si
ponga come antecedente logico  di  altra  questione  che  il  giudice
rimettente deve decidere»; e «cio' comporta che il giudice  non  puo'
definire l'attivita' processuale fin quando la Corte non abbia deciso
la questione pregiudicante»). 
    Da tale nesso derivano due  implicazioni:  da  un  lato,  che  la
questione abbia ad oggetto norme che il  rimettente  e'  chiamato  ad
applicare (Corte costituzionale sentenza  n.  343/1993;  sentenza  n.
10/1979); dall'altro, che un'eventuale sentenza di  accoglimento  sia
in grado di spiegare un'influenza sul processo principale, provocando
un cambiamento nel quadro normativo divisato dal giudice a quo (Corte
costituzionale sentenza n. 92/2013). 
    In senso piu'  ampio,  «la  rilevanza,  presupponendo,  ai  sensi
dell'art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, un  rapporto
di strumentalita' necessaria tra la risoluzione della questione e  la
decisione del giudizio principale, deve ritenersi sussistente  quando
la norma della cui  legittimita'  costituzionale  il  giudice  dubiti
debba essere applicata nel giudizio a  quo  per  decidere  il  merito
della controversia  o  una  questione  processuale  o  pregiudiziale,
oppure  quando  la  decisione  della  Corte  costituzionale  comunque
influisca sul percorso argomentativo che il rimettente  deve  seguire
per  rendere  la  decisione»  (Corte   costituzionale   sentenza   n.
250/2021). 
    Lo scrutinio di rilevanza si  articola  pertanto  in  un  duplice
accertamento da parte del giudice  rimettente,  tenuto  a  sincerarsi
dell'applicabilita'  della  norma  sospetta  di  illegittimita'   nel
giudizio a quo e  degli  effetti  sulle  sorti  dello  stesso  di  un
possibile accoglimento della questione (Corte costituzionale sentenza
n. 91/2013: «Il nesso di pregiudizialita' tra il giudizio  principale
e il giudizio costituzionale implica che  la  norma  censurata  debba
necessariamente  essere  applicata  nel  primo  e   che   l'eventuale
illegittimita' della stessa incida sul procedimento principale»). 
    Entrambe le verifiche, rapportate al caso di specie, danno  esito
positivo. 
    All'udienza del 1° dicembre  2021,  l'avv.  Generoso  Bloise,  in
difesa di R. G., ha eccepito la violazione  dell'art.  33-quater  del
codice di  procedura  penale,  sostenendo  l'appartenenza  dei  reati
contestati alla  sua  assistita  alla  cognizione  del  tribunale  in
composizione monocratica e paventando l'insussistenza di  ragioni  di
connessione con le fattispecie di competenza collegiale. 
    Nello specifico, al Capo CC) dell'editto accusatorio il  P.M.  ha
ascritto a R. G. plurimi reati di dichiarazione fraudolenta  mediante
uso  di  fatture  per  operazioni  inesistenti  ex  art.  2,  decreto
legislativo n. 74/2000, in continuazione tra loro ex art. 81, comma 2
del codice penale, e commessi in ... dal... al... 
    L'art. 2, decreto  legislativo  n.  74/2000,  nella  formulazione
vigente   all'epoca   dei   fatti,   anteriori   all'emanazione   del
decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con  modificazioni,
nella legge 19 dicembre 2019, n. 157, prevedeva che: 
      «1. E' punito con la reclusione da un anno e  sei  mesi  a  sei
anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, avvalendosi di fatture o  altri  documenti  per  operazioni
inesistenti, indica in  una  delle  dichiarazioni  relative  a  dette
imposte elementi passivi fittizi. 
      2. Il fatto si considera  commesso  avvalendosi  di  fatture  o
altri documenti per operazioni  inesistenti  quando  tali  fatture  o
documenti sono registrati nelle scritture contabili  obbligatorie,  o
sono detenuti a fine  di  prova  nei  confronti  dell'amministrazione
finanziaria.» 
    Sul versante procedurale, la fattispecie (anche nella sua attuale
struttura) appartiene alla cognizione del tribunale  in  composizione
monocratica, in forza del criterio residuale di cui al comma  secondo
dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, trattandosi di reato
punito con la reclusione non superiore a dieci anni nel massimo. 
    L'esercizio dell'azione penale postula  il  passaggio  attraverso
l'udienza preliminare, e onera il P.M. di procedere  nelle  forme  di
cui  all'art.  416  del  codice  di  procedura  penale,  non  essendo
possibile, per limiti edittali, la citazione diretta  a  giudizio  ai
sensi dell'art. 550 del codice di procedura penale 
    Nel caso di specie, il P.M. ha correttamente esercitato  l'azione
penale con richiesta di rinvio a  giudizio,  depositata  in  data  10
gennaio 2019, per i reati di cui all'art. 2, decreto  legislativo  n.
74/2000 contestati a R. G. e, all'esito dell'udienza preliminare,  il
G.U.P. ha emesso decreto ex art. 429 del codice di procedura  penale,
rinviando  tuttavia  l'imputata  innanzi  al  Tribunale   di   Nocera
Inferiore in composizione collegiale e non monocratica. 
    La disposizione del G.U.P. e' stata condizionata dall'unitarieta'
della richiesta di rinvio a giudizio, riferita a plurimi imputati  ed
imputazioni, di cui una di cognizione del collegio, che  ha  attratto
per connessione  le  attribuzioni  monocratiche  ai  sensi  dell'art.
33-quater del codice di procedura penale (2) 
    In  particolare,  a  determinare   la   composizione   collegiale
dell'organo giudicante e' stata la contestazione di cui al  Capo  A),
relativa al delitto di  cui  all'art.  416  del  codice  penale  che,
secondo quanto immaginato dal P.M. e dal G.U.P., avrebbe  catalizzato
per connessione tutte le altre imputazioni, aventi ad  oggetto  reati
di cognizione monocratica (fattispecie ex articoli 640-bis del codice
penale, 2 e 8 decreto legislativo n. 74/2000). 
    La difesa di R. G., non condividendo la prospettazione del P.M. e
del G.U.P., ha eccepito la violazione dell'art. 33-quater del  codice
di procedura penale, sostenendo che i  fatti  ascritti  all'imputata,
chiamata  a  rispondere  del  Capo  CC)  non  presenterebbero  alcuna
connessione con  la  fattispecie  associativa,  costituendo  autonome
violazioni  dell'art.  2,  decreto  legislativo  n.  74/2000  da  far
giudicare al Tribunale  in  composizione  monocratica.  Pertanto,  ha
chiesto  emettersi  ordinanza  ex  art.  33-septies  del  codice   di
procedura penale con trasmissione degli atti al giudice competente  a
decidere sui reati contestati. 
    Alla medesima eccezione si sono associati  i  seguenti  difensori
per i rispettivi  assistiti,  esprimendo  le  stesse  doglianze  (con
trascrizione integrale, in  epigrafe,  delle  imputazioni  elevate  a
carico di ciascun coimputato, nel  rispetto  del  principio  di  c.d.
«autosufficienza» dell'ordinanza di rimessione; cfr., tra  le  tante,
Corte costituzionale ordinanze nn. 136/2021, n. 108/2020, 64/2019): 
      l'avv. Provenza per R. M., chiamata a rispondere del Capo  VV),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal...; 
      l'avv. Ferrante per T. R., chiamato a rispondere del Capo NNN),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale -  2
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; 
      l'avv. Moreno per A. U., chiamato a rispondere dei Capi ZZ:)  e
AAA), relativi ai reati di cui  agli  articoli  81  cpv.  del  codice
penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, rispettivamente  commessi
in... il... e...; 
      l'avv. Moreno per C. M., chiamato a rispondere del  Capo  HHH),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; 
      l'avv. Malecchi per S. S., chiamato a rispondere del Capo CCC),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; 
      l'avv. Striano per D. D., chiamato a rispondere del  Capo  FF),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. n. 74/2000, commessi in... dal...; 
      l'avv. Calvanico per C. L.,  chiamata  a  rispondere  del  Capo
PPP), relativo ai reati di cui  agli  articoli  81  cpv.  del  codice
penale - 2, decreto legislativo  n.  74/2000,  commessi  in...  il...
e...; 
      l'avv. Crescenzo per P. A., chiamato a rispondere del Capo DD),
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal... al...; 
      l'avv. Calabrese per C. G. e C. A., chiamati  a  rispondere  in
concorso ex art. 110 del codice penale, dei Capi HH) e  II)  relativi
ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,  decreto
legislativo  n.  74/2000,  rispettivamente  commessi  in...  il...  e
dal...; 
      l'avv. Calabrese per A. G., chiamato a rispondere del Capo  EE)
relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2,
decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal... al... 
    L'avv. Iovino, in difesa di D. C., e l'avv. Gallo, in  difesa  di
C. R., hanno poi sollevato la medesima  eccezione  ma  in  ordine  ai
reati di cui all'art. 8, decreto legislativo n. 74/2000, ascritti  in
concorso ai lori assistiti al Capo AAAA) dell'editto  accusatorio,  e
parimenti rientranti nelle attribuzioni del Tribunale in composizione
monocratica ex articoli  33-bis  comma  2  -  33-ter  del  codice  di
procedura penale 
    L'art. 8  decreto  legislativo  n.  74/2000,  nella  formulazione
vigente ratione temporis, prevedeva che: 
      «1. E' punito con la reclusione da un anno e  sei  mesi  a  sei
anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte
sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o  altri
documenti per operazioni inesistenti. 
      2. Ai fini dell'applicazione della  disposizione  prevista  dal
comma 1, l'emissione o il rilascio di piu' fatture  o  documenti  per
operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di  imposta  si
considera come un solo reato». 
    Guardando al massimo edittale, la  fattispecie  apparteneva  alla
cognizione del Tribunale  monocratico,  (e  vi  appartiene  tutt'ora,
considerato che, come visto in ordine all'art. 2 decreto  legislativo
n. 74/2000, le modifiche apportate  dal  decreto-legge  n.  124/2019,
convertito  dalla  legge  n.  157/2019,  pur  avendo  determinato  un
inasprimento  sanzionatorio,   non   hanno   inciso   sugli   assetti
procedurali) con esercizio dell'azione  penale  nelle  forme  di  cui
all'art. 416 del codice di procedura penale 
    Analogamente a quanto avvenuto in merito alle imputazioni  per  i
delitti di dichiarazione fraudolenta  mediante  uso  di  fatture  per
operazioni inesistenti, il P.M. in data 10 gennaio 2019 ha presentato
la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di  D.  C.  e  C.  R.
nell'ambito dell'unico procedimento avente ad oggetto la  fattispecie
associativa, e il G.U.P. con decreto del 27 giugno 2019  ha  disposto
il giudizio innanzi al Tribunale in composizione collegiale anche per
le contestazioni  relative  ai  reati  di  cui  all'art.  8,  decreto
legislativo n. 74/2000. 
    I difensori di D. C. e  C.  R.  hanno  allora  sostenuto  che  la
disposizione del giudizio sia avvenuta in violazione del  riparto  di
attribuzione degli affari tra Tribunale monocratico e collegiale, non
ravvisando una connessione tra il delitto fondante la cognizione  del
collegio e quelli contestati  ai  loro  assistiti,  e  hanno  chiesto
disporsi con ordinanza ex art. 33-septies  del  codice  di  procedura
penale la trasmissione degli atti al giudice monocratico competente. 
    Il Collegio, chiamato a decidere  sulle  eccezioni  indicate,  di
analogo  contenuto,  ha  dovuto  interrogarsi  preliminarmente  della
tempestivita'  delle  stesse,  essendo  state  sollevate  alla  prima
udienza   dibattimentale   utile,   ovvero    successivamente    alla
regolarizzazione della costituzione  delle  parti  ex  art.  484  del
codice di procedura penale, e nel termine di  cui  all'art.  491  del
codice di procedura penale. 
    La questione non era stata invece eccepita nel corso dell'udienza
preliminare  celebratasi  innanzi  al  G.U.P.  di  Nocera  Inferiore,
essendo emersa a seguito del rinvio a giudizio di tutti i  coimputati
innanzi al tribunale in composizione collegiale. 
    In questa fase il  Collegio  rimettente  si  e'  imbattuto  nella
disposizione sospetta di  incostituzionalita',  destinata  a  trovare
necessaria applicazione  per  valutare  la  tempestivita',  e  dunque
l'ammissibilita', delle eccezioni  di  inosservanza  del  riparto  di
attribuzioni monocratiche e collegiali. 
    L'art. 33-quinquies del codice  penale,  introdotto  dal  decreto
legislativo n. 51/1998, stabilisce che: 
      «L'inosservanza delle  disposizioni  relative  all'attribuzione
dei reciti alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o
monocratica e delle disposizioni processuali collegate e' rilevala  o
eccepita, o pena di decadenza, prima della  conclusione  dell'udienza
preliminare o, ve questa manca, entro il termine  previsto  dall'art.
491, comma 1. 
    Entro quest'ultimo termine  deve  essere  riproposta  l'eccezione
respinta nell'udienza preliminare». 
    La   norma   pone   un   onere   di   eccezione   o   rilevazione
dell'inosservanza del riparto di attribuzioni tra giudice monocratico
e giudice collegiale distinguendo due possibili scenari: 
      qualora  il  procedimento  passi  attraverso  la   celebrazione
dell'udienza  preliminare,  la  questione  deve  essere  eccepita   o
rilevata prima della conclusione della stessa a pena di decadenza,  e
solo se sollevata e  rigettata  dal  G.U.P.  puo'  essere  riproposta
innanzi al giudice del dibattimento; 
      qualora  il  procedimento  non  prevede  la  fase  dell'udienza
preliminare, la questione puo' essere sollevata per  la  prima  volta
innanzi  al  giudice  del  dibattimento  entro  il  termine  previsto
dall'art. 491, comma 1 del codice penale. 
    La possibilita' per le parti  di  eccepire  l'inosservanza  degli
articoli 33-bis e ss.  del  codice  penale  innanzi  al  giudice  del
dibattimento (e per quest'ultimo di rilevarla d'ufficio) sussiste nei
soli moduli processuali in cui manchi l'udienza preliminare (giudizio
direttissimo, giudizio immediato,  decreto  di  citazione  diretta  a
giudizio), restando invece subordinata  ad  un  onere  di  tempestiva
eccezione (o rilevazione)  nelle  ipotesi  in  cui  tale  fase  venga
celebrata. 
    Stando al tenore letterale della disposizione, le parti  che  non
abbiano eccepito  l'inosservanza  del  riparto  di  attribuzioni  tra
tribunale  in  composizione  monocratica  e  collegiale  prima  della
conclusione dell'udienza preliminare decadono dall'eccezione, che non
puo' essere sollevata per la  prima  volta  innanzi  al  giudice  del
dibattimento, sebbene siano ancora nel termine di cui  all'art.  491,
comma 1 del codice penale. 
    La regola varrebbe anche nelle ipotesi, pressoche' costanti e ove
si annidano i dubbi di incostituzionalita' del  Collegio  rimettente,
in cui le  parti  abbiano  potuto  accorgersi  dell'attribuzione  del
procedimento   ad   un   tribunale   erroneamente    composto    solo
successivamente alla conclusione dell'udienza preliminare, ovvero con
la comunicazione del decreto ex art. 429 del codice penale. 
    E' con tale  atto  infatti  che  il  G.U.P.  indica  il  «giudice
competente per il giudizio» (art. 429, comma 1, lettera e) del codice
penale), pertanto prima che  lo  stesso  venga  emesso  e  portato  a
conoscenza delle parti (mediante lettura o notificazione ex art. 429,
comma 4 del codice penale), queste non possono sapere se vi sia stata
un'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico
e collegiale. 
    Cio' nonostante,  giunti  innanzi  al  giudice  del  dibattimento
indicato dal G.U.P., le parti non potrebbero sollevare  la  questione
perche', in  base  al  disposto  dell'art.  33-quinquies  del  codice
penale, sarebbe comunque maturata la decadenza per non aver  eccepito
il  vizio  prima  della  conclusione  dell'udienza   preliminare,   a
prescindere  dal  fatto  che  in  quella  fase  non  si  era   ancora
manifestato. Tale situazione ricorre nel  presente  procedimento:  le
difese di R. G., R. M., T. R., A. U., C. M., S. S., D. D., C. L.,  D.
C., C. R., P. A., C. G.,  C.  A.  e  A.  G.  non  hanno  eccepito  la
violazione  dell'art.  33-quater  del  codice  penale,  e   l'erronea
attribuzione dei reati ascritti ai propri assistiti  alla  cognizione
del Tribunale collegiale nel corso dell'udienza  preliminare,  avendo
sollevato per la prima volta la  questione  innanzi  al  giudice  del
dibattimento ai sensi dell'art. 491, comma 1 del codice penale. 
    Pertanto,   vista   l'espressa   decadenza   prevista   dall'art.
33-quinquies  del  codice  penale,  al  Collegio  giudicante  sarebbe
preclusa  la  valutazione  di  merito  delle   questioni,   dovendosi
piuttosto  dichiarare   l'inammissibilita'   per   tardivita'   delle
eccezioni. 
    Da qui l'evidente rilevanza dell'incidente  di  costituzionalita'
che si solleva con la presente ordinanza, posto che dalla risoluzione
dello stesso  dipende  concretamente  la  decisione  in  ordine  alle
questioni preliminari prospettate dalle parti: se  infatti  la  Corte
adita riterra'  la  decadenza  prevista  dall'art.  33-quinquies  del
codice penale illegittima, condividendo le perplessita' del  Collegio
rimettente, quest'ultimo potra' considerare tempestive  le  eccezioni
sollevate nel termine di cui all'art. 491, comma 1 del codice  penale
e valutarne il merito, disponendo, nel caso in cui risultino fondate,
la trasmissione  al  giudice  monocratico  competente;  diversamente,
qualora   la   Corte   costituzionale   non   riterra'   fondate   le
preoccupazioni dei  giudici  rimettenti,  ribadendo  la  legittimita'
dell'art.  33-quinquies  del  codice  penale,  la   decisione   sara'
inevitabilmente di inammissibilita' delle eccezioni  per  tardivita',
senza alcun esame di merito, e con prosecuzione del processo  innanzi
al tribunale collegiale. 
    La  prova  di  necessaria  pregiudizialita'  della  questione  di
legittimita' costituzionale e' data dall'attuale  stallo  in  cui  si
trova il giudizio a quo: in attesa della pronuncia  della  Corte,  il
Collegio non potrebbe avanzare  con  il  procedimento  relativo  alle
posizioni degli imputati  che  hanno  eccepito  l'inosservanza  degli
articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale  se  non  dando
applicazione alla norma  sospetta  di  incostituzionalita'  (e  cosi'
dichiarando la decadenza delle  parti)  o,  viceversa,  disapplicando
arbitrariamente la stessa nonostante  la  sua  vigenza  ordinamentale
(ritenendo cosi' le eccezioni tempestive e valutandone il merito). 
    Risultano  allora  lampanti   gli   effetti   di   un   eventuale
accoglimento  delle  doglianze   di   incostituzionalita'   dell'art.
33-quinquies del codice  penale  per  la  prosecuzione  del  processo
principale,    dipendendo    dalla    soluzione    della     Consulta
l'ammissibilita'  tout   court   delle   eccezioni   preliminari   e,
conseguentemente,  la  loro  delibazione  nel  merito  da  parte  del
Collegio giudicate. 
    In quest'ottica, deve osservarsi come  le  denunciate  violazioni
del riparto cli attribuzioni, per insussistenza di effettive  ragioni
di  connessione  idonee  a   giustificare   l'instaurazione   di   un
simultaneus processus innanzi al  tribunale  collegiale  (cosi'  come
previsto  dall'art.  33-quater  del  codice  penale)   non   appaiano
manifestamente infondate, almeno in questa  fase  e  salva  una  piu'
approfondita valutazione  che  potra'  essere  abilitata  solo  dalla
rimozione dell'ostacolo di  inammissibilita'  da  parte  della  Corte
adita. 
    E' noto che l'art. 33-quater del codice penale, nel  disciplinare
l'attrazione  della  competenza  innanzi  al  tribunale   collegiale,
rimanda alle  ipotesi  di  connessione  tra  i  procedimenti  di  cui
all'art. 12 del codice penale. 
    Nel   caso   di   specie,   per    affermare    la    correttezza
dell'attribuzione  di  tutte  le  contestazioni   al   tribunale   in
composizione collegiale, occorrera' riscontrare una  connessione  (ai
sensi della lettera b) o della lettera c)  dell'art.  12  del  codice
penale) tra il reato associativo, che fonda la competenza collegiale,
e i reati riservati alla cognizione monocratica, con la  fondamentale
premessa  che  a  nessuno  degli  imputati  che  hanno  eccepito   la
violazione dell'art. 33-quater del codice  penale  e'  contestata  la
partecipazione all'associazione criminosa, composta da D. D., B.  A.,
S. A., A. S., C. O.  e  C.  V.  (indicati  tutti  come  promotori  ed
organizzatori ai sensi dell'art. 416, comma 1 del codice penale). 
    Guardando  alla  costruzione  del  Capo   A),   incriminante   la
fattispecie associativa, sicuramente puo' ravvisarsi una  connessione
con i delitti ex art. 640-bis del codice penale, sia  in  termini  di
continuazione (art. 12, lettera  b)  del  codice  penale)  che  nesso
teleologico (art. 12, lettera c) del codice penale). 
    Posto che, secondo la prospettazione accusatoria,  l'associazione
aveva come scopo la costituzione di una serie di  ditte  inesistenti,
al fine di rappresentare all'INPS  fittizi  rapporti  di  lavoro  per
ottenere indebitamente prestazioni previdenziali, puo' ritenersi  sia
che esista un vincolo di continuazione tra il reato ex art.  416  del
codice penale e le fattispecie ex  art.  640-bis  del  codice  penale
(commesse in concorso con i singoli lavoratori  falsamente  assunti),
come invocato dal P.M. che ha  indicato  l'art.  81  cpv  del  codice
penale, sia una connessione teleologica tra le suddette  imputazioni,
considerando  le  truffe  ai  danni  dello  Stato  come   i   delitti
finalisticamente     espressivi     del     programma      delittuoso
dell'associazione; e dunque, in altre parole,  il  reato  associativo
sarebbe stato organizzato e posto in essere proprio per commettere  i
successivi episodi di truffa, cosi' da avvincere i vari delitti in un
nesso autenticamente funzionale. 
    Decisamente piu' intricata e'  la  questione  relativa  ai  reati
tributari, dal momento che non  tutte  le  contestazioni  presentano,
prima facie, un legame cosi' stretto con la fattispecie  associativa.
L'associazione a delinquere di cui  al  Capo  A),  stando  al  tenore
dell'editto accusatorio, risultava finalizzata  alla  commissione  di
«una  pluralita'  di  violazioni  di  natura  tributaria  consistenti
nell'emissione   ed   utilizzazione   di   fatture   per   operazioni
inesistenti»; e, sotto il profilo operativo, gli associati  «al  fine
di dare una parvenza di reale esistenza e operativita'  delle  stesse
ditte, emettevano ed  utilizzavano  fatture  relative  ad  operazione
commerciali inesistenti nei confronti delle medesime  ditte  da  loro
fittiziamente  costituite  e  nei  confronti   di   ditte   realmente
operanti».  Rispetto  a  tale  costruzione  del  capo   d'imputazione
relativo al delitto associativo, potrebbe immaginarsi una connessione
qualificata con i reati di cui all'art.  8,  decreto  legislativo  n.
74/2000,  considerando  l'emissione   di   fatture   per   operazioni
inesistenti  come  attivita'  finalizzata  a  vestire  di   apparente
effettivita' le societa' fittiziamente create dal  gruppo  criminale,
cosi'  da   simularne   l'operativita'   commerciale;   si   potrebbe
ipotizzare, per i reati ex art. 8, decreto  legislativo  n.  74/2000,
inerenti a fatture emesse da societa' direttamente  o  indirettamente
riconducibili ai membri del sodalizio, un  nesso  ipotattico  con  il
delitto di cui all'art. 416 del codice penale,  reputandoli  commessi
al duplice e speculare scopo di occultare l'inesistenza  delle  ditte
riconducibili all'associazione  a  delinquere  e  dunque  l'esistenza
della stessa. Da tale interpretazione deriverebbe l'individuazione di
una connessione rilevante ex art. 33-quater del codice penale tra  il
delitto associativo, fondante l'attribuzione collegiale, e i reati ex
art. 8, decreto legislativo n. 74/2000 di cognizione monocratica, che
renderebbe infondata l'eccezione sollevata nell'interesse di D. C.  e
C. R. in ordine al Capo AAAA). 
    Diverse  potrebbero  essere  invece  le  considerazioni  per   le
contestazioni aventi ad oggetto il reato di cui all'art.  2,  decreto
legislativo n. 74/2000. 
    La  fattispecie  incrimina  un  diverso  segmento  di   condotta,
relativo all'utilizzo delle false fatture nelle dichiarazioni fiscali
dei coimputati allo scopo di  rappresentare  fittizie  passivita'  da
porre in deduzione sul reddito imponibile o da cui  maturare  importi
di I.V.A. a credito da portare in compensazione con quelli a debito. 
    Nell'impostazione accusatoria al vaglio, puo'  supporsi  che  gli
utilizzatori, con la presentazione  della  dichiarazione  fraudolenta
non abbiano realizzato un reato strumentale a quello associativo  che
attrae la competenza collegiale,  ma  che  abbiano  posto  in  essere
un'attivita' illecita  a  loro  esclusivo  vantaggio;  considerazione
avvalorata dall'irrilevanza dei reati  di  cui  all'art.  2,  decreto
legislativo n. 74/2000 per l'esistenza in  vita  e  il  funzionamento
dell'ente criminoso, dal momento che i singoli imputati  estranei  al
sodalizio  avrebbero  potuto  scegliere  di  non   utilizzare   nelle
rispettive dichiarazioni fiscali le false fatture senza recare  alcun
pregiudizio   per    l'associazione,    agevolata    sufficientemente
dall'emissione di tale fittizia documentazione. (3) 
    Sarebbe difficile anche immaginare una connessione teleologica in
senso  contrario,  ovvero  ritenere  che  l'associazione  sia   stata
costituita al fine di  consentire  la  presentazione  di  fraudolente
dichiarazioni da parte  di  soggetti  cui  non  ne  erano  partecipi,
potendosi piuttosto ipotizzare che questi si siano limitati a  trarre
profitto dall'attivita' della  societas  sceleris  (giovandosi  della
costruzione di un apparato fittizio di ditte disposte ad emettere  in
loro favore fatture false). 
    Il nesso tra il reato ex art. 416 del codice penale e  quelli  ex
art. 2, decreto legislativo n. 74/2000, guardati in quest'ordine, non
sarebbe  tuttavia  ne'  quello  teleologico  ne'  quello   ipotattico
immaginato in merito alle fattispecie art. 8, decreto legislativo  n.
74/2000  bensi'  quello  paratattico,  legato  al  conseguimento  del
profitto, e tale legame non rientra nelle ipotesi di  connessione  di
cui all'art. 12, lettera c) del codice penale, atteso  che  la  norma
non riproduce fedelmente tutte le ipotesi di cui all'art.  61  n.  2)
del codice penale 
    Tra la contestazione associativa e  quelle  ex  art.  2,  decreto
legislativo n. 74/2000 si  potrebbe  cogliere  un  collegamento  solo
probatorio ex art. 371 lettera b) del codice penale,  inidoneo,  come
noto, a  determinare  uno  spostamento  della  sia  della  competenza
territoriale  che  del  riparto  di  attribuzioni  tra   composizione
collegiale e monocratica del tribunale. 
    Una connessione qualificata ex art. 12,  lettera  c)  del  codice
penale potrebbe immaginarsi con la vicina fattispecie di cui all'art.
8, decreto legislativo n. 74/2000, concependo l'emissione delle false
fatture  come  finalizzata  alla  presentazione  delle  dichiarazioni
fraudolente,  ma  il  legame  con  l'associazione  sarebbe   comunque
indiretto,  e  la  «connessione  della  connessione»   non   potrebbe
giustificare spostamenti di competenza o di attribuzione. 
    Ugualmente arduo sarebbe ravvisare una ragione di connessione per
continuazione, posto che il richiamo del P.M. all'art.  81  cpv.  del
codice penale nei capi d'imputazione per i quali e' stata eccepita la
questione, appare un riferimento ad un vincolo interno  omogeneo  tra
piu' episodi ex art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 e non  con  il
delitto associativo; ed inoltre, il criterio di connessione  ex  art.
12, lettera b) del codice  penale  non  potrebbe  operare  tra  reati
commessi da soggetti diversi. 
    Ne consegue che un eventuale esito di accoglimento dell'incidente
di  costituzionalita',  rimuovendo  la  decadenza  di  cui   all'art.
33-quinquies del codice penale, ormai maturata sia per le  parti  che
per  i  giudici  del  dibattimento  (cui  e'  parimenti  preclusa  la
rilevazione ex officio,  visto  il  tenore  letterale  della  norma),
restituirebbe a questi ultimi un sindacato di  merito  sulle  dedotte
questioni dell'inosservanza delle disposizioni di cui  agli  articoli
33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale; questioni che,  per  le
motivazioni esposte, non appaiono  manifestamente  infondate  e  che,
laddove accolte, in  tutto  o  in  parte,  porterebbero  il  Collegio
rimettente a disporre la separazione del processo nei confronti degli
imputati chiamati a  rispondere  dei  reati  non  connessi  a  quello
associativo, con  conseguente  trasmissione  degli  atti  al  giudice
monocratico ai sensi dell'art. 33-septies del codice penale. 
    Una tale pronuncia e' allo  stato  preclusa  al  Tribunale  dalla
vigenza della disposizione tacciata di incostituzionalita', e  questo
palesa l'attualita' della questione rispetto al momento in cui  viene
sollevata, a conferma della rilevanza della stessa. 
    Il processo a quo versa nella fase delle questioni preliminari ex
art. 491 del codice penale, e la riserva  assunta  dal  Collegio,  in
ordine alle proposte eccezioni di inosservanza degli articoli 33-bis,
33-ter e 33-quater del codice penale, non puo' essere sciolta poiche'
l'emissione dell'ordinanza decisoria passa inevitabilmente attraverso
l'applicazione della norma della cui legittimita'  costituzionale  si
dubita. 
    Cio' rende l'incidente di costituzionalita' quanto  mai  attuale,
non ipotetico o prematuro - non  ricorrendo  le  ipotesi  piu'  volte
stigmatizzate dalla giurisprudenza costituzionale,  secondo  cui  «la
questione  incidentale  e'  inammissibile,  in  quanto  ipotetica   o
prematura, se l'applicazione della norma censurata e' solo  eventuale
e successiva»  (cfr.  Corte  costituzionale  sentenze  nn.  139/2020,
217/2019) - ne'  tardivo  rispetto  all'ormai  avvenuta  applicazione
della  norma  tacciata  di   illegittimita'   (Corte   costituzionale
ordinanza n. 104/1997). 
    La questione viene infatti sollevata d'ufficio nel momento in cui
il Tribunale e' chiamato ad emettere un  provvedimento  decisorio  il
cui  esito  di  ammissibilita'  o   inammissibilita'   dell'eccezione
formulata dalle parti dipende pregiudizialmente dalla risoluzione del
quesito portato all'attenzione della Corte costituzionale. 
    La rilevanza  della  questione  non  puo'  essere  esclusa  dalla
semplicistica considerazione delle maggiori  garanzie  offerte  dalla
cognizione collegiale  in  luogo  di  quella  monocratica,  cosicche'
nessun concreto pregiudizio deriverebbe per gli imputati dall'erronea
celebrazione del giudizio innanzi  al  tribunale  collegiale  per  un
reato di competenza del tribunale monocratico. 
    La deduzione, volta a  sostenere  una  carenza  di  interesse  ad
eccepire l'inosservanza per eccesso delle regole di cui agli articoli
33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale, e' palesemente smentita
dal tenore letterale dell'art. 33-quinquies  del  codice  penale  che
consente l'eccezione (o la rilevazione  d'ufficio)  del  vizio  senza
alcuna distinzione. 
    Escludere che le parti possano dolersi dell'erronea instaurazione
del giudizio innanzi al tribunale  collegiale  per  reati  attribuiti
alla cognizione del tribunale monocratico significherebbe ignorare la
volonta'  del  legislatore   che   ha   riconosciuto   l'operativita'
dell'eccezione sia per difetto che per eccesso. E la  voluntas  legis
e' chiara anche dalla lettura dell'art. 33-septies del codice  penale
che prevede la possibile trasmissione degli atti da una  composizione
all'altra del tribunale senza limitazioni di direzione. 
    Del resto, se si negasse  alle  parti  la  facolta'  di  eccepire
innanzi al tribunale collegiale l'appartenenza del  reato  contestato
alle attribuzioni monocratiche, per coerenza ordinamentale,  dovrebbe
parimenti escludersi la possibilita'  per  il  collegio  di  disporre
d'ufficio la trasmissione degli atti  al  giudice  monocratico  nelle
ipotesi in cui il reato portato alla sua cognizione sia di competenza
di quest'ultimo. 
    Inoltre,  deve  considerarsi  come  le  parti  possano  avere  un
interesse concreto e giuridicamente apprezzabile a far rispettare  la
competenza del tribunale monocratico in luogo di  quello  collegiale:
non appare strumentale la richiesta dell'imputato a  che  la  propria
posizione sia definita con un rito piu' celere,  evitando,  come  nel
caso di specie, di trovarsi coinvolto  in  un  dibattimento  lungo  e
complesso - spesso destinato a durare anni, con  conseguente  ritardo
nella decisione della vicenda a proprio carico e maggiorazione  delle
spese processuali e di assistenza legale  -  quando  sia  chiamato  a
rispondere di un unico o di singoli reati di competenza del tribunale
monocratico che non presentano evidenti ragioni  di  connessione  con
quelli di attribuzione collegiale. 
    Allo   stesso   modo,   nell'ottica    dell'organo    giudicante,
l'automatica  devoluzione  al  collegio  di  plurime  fattispecie  di
attribuzione  monocratica  che  non  presentano  chiare  ragioni   di
connessione, produrrebbe un effetto  antieconomico  per  il  processo
principale,  appesantendo   di   gran   lunga   gli   adempimenti   e
l'istruttoria, con conseguente dilatazione dei tempi  di  durata  del
giudizio  e  incremento  del  rischio  di  prescrizione   dei   reati
contestati. 
III. La non manifesta infondatezza. 
    La  questione  sollevata  d'ufficio  non   appare   al   Collegio
rimettente  manifestamente  infondata,  nutrendosi  seri   dubbi   di
compatibilita' della disposizione di cui  all'art.  33-quinquies  del
codice  penale,  nella  sua  attuale  formulazione,  con  i  principi
costituzionali di seguito esposti. 
    Preliminarmente, si reputa necessaria una premessa  di  carattere
storico-sistematico, utile a comprendere i motivi della  sopravvenuta
irrazionalita' della norma censurata. 
    L'art. 33-quinquies e' stato introdotto nel codice  di  procedura
penale, unitamente alle altre disposizioni del capo VI-bis, dall'art.
170 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51,  recante  «Norme
in materia di istituzione del giudice unico di  primo  grado»,  e  si
inscriveva  nel  piu'  ampio  disegno  riformatore   dell'ordinamento
giudiziario,   finalizzato   alla    soppressione    delle    preture
circondariali, sostituite per  talune  competenze  dal  tribunale  in
composizione monocratica. 
    Si ricorda che la disciplina del libro VIII del codice  di  rito,
dedicata al procedimento innanzi al pretore - la cui  competenza  era
limitata ai reati indicati dall'allora  vigente  art.  7  del  codice
penale (4) - prevedeva quale unico modulo  di  esercizio  dell'azione
penale l'emissione del decreto di citazione  diretta  a  giudizio  da
parte del P.M., essendo l'udienza preliminare riservata ai soli reati
attribuiti al tribunale. 
    Vi era un'esatta simmetria tra forme procedimentali e riparto  di
attribuzioni: i reati per i quali era prevista l'udienza  preliminare
erano tutti  destinati  alla  cognizione  del  tribunale  collegiale;
viceversa, i reati per i quali era prevista la  citazione  diretta  a
giudizio confluivano tutti innanzi alla pretura. 
    Non potevano dunque verificarsi, secondo  l'impianto  codicistico
ante riforma  del  1998,  ipotesi  in  cui  il  giudice  dell'udienza
preliminare disponesse il rinvio del processo innanzi ad  un  giudice
che non fosse il tribunale in composizione collegiale. 
    E  il  sistema  aveva  una  propria  coerenza,   posto   che   le
attribuzioni del pretore ex art.  7  del  codice  penale  rientravano
nella competenza  per  materia,  rilevabile  nei  piu'  ampi  termini
previsti dagli articoli 21 - 23 del codice penale. 
    Anche a seguito dell'abolizione delle preture e  dell'istituzione
del   giudice   unico,   nel   periodo   immediatamente    successivo
all'emanazione   del   decreto   legislativo   n.    51/1998,    tale
corrispondenza   risultava   rispettata,   essendosi   mantenuta   la
previsione dell'udienza preliminare per i soli  reati  attribuiti  al
tribunale  in  composizione  collegiale,  e  stabilita  la  citazione
diretta a giudizio ex art. 550 del codice penale per  tutti  i  reati
affidati al giudice monocratico. 
    In questo contesto normativo -  durato  sino  alla  promulgazione
della legge 16 dicembre  1999,  n.  479  -  la  disposizione  di  cui
all'art. 33-quinquies del codice  penale  trovava  un  proprio  senso
logico-normativo, sebbene alquanto limitato:  la  previsione  di  una
decadenza dall'eccezione (o dalla rilevazione) dell'inosservanza  del
riparto di cui agli articoli 33-bis, 33-ter, e 33-quater  del  codice
penale, si giustificava con la nettezza del  binomio  attribuzione  -
forma dell'azione penale, cosicche' le parti,  trovatesi  in  udienza
preliminare, gia' potevano sapere che l'eventuale rinvio  a  giudizio
del  G.U.P.  sarebbe  stato  disposto   innanzi   al   tribunale   in
composizione  collegiale,  e  dunque  poteva  esigersi  un  onere  di
eccezione del vizio entro il termine di cui all'art. 421  del  codice
penale. 
    Ad onta della sua ampia formulazione, la regola  decadenziale  di
cui  all'art.  33-quinquies  del  codice  penale  poteva  validamente
operare nell'unica evenienza processuale in cui fosse stata celebrata
l'udienza preliminare per reati attribuiti al tribunale  monocratico,
dovendo in tal caso le parti (o il G.U.P. d'ufficio) preventivare  il
successivo rinvio innanzi al  tribunale  collegiale  ed  eccepire  (o
rilevare)  tempestivamente  il  vizio  di   inosservanza,   chiedendo
l'adozione dei provvedimenti di cui  all'art.  33-sexies  del  codice
penale («Inosservanza dichiarata nell'udienza preliminare»). 
    Con la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. «Legge  Carotti»)  si
e'  assistito  ad  un  disallineamento  tra  modalita'  di  esercizio
dell'azione  penale  e  riparto  di  cognizione  tra   tribunale   in
composizione   collegiale   o   monocratica:    l'estensione    delle
attribuzioni del giudice monocratico ad un ampio novero di  reati  ha
fatto si' che si spezzasse quel legame di corrispondenza univoca  tra
udienza  preliminare  e   tribunale   collegiale,   introducendo   la
possibilita' di procedimenti  monocratici  instaurati  a  seguito  di
richiesta di rinvio a giudizio. 
    L'art. 33-quinquies  del  codice  penale  ha  iniziato  allora  a
mostrare un chiaro difetto di coordinamento, non essendo stata incisa
dalla riforma del 1999, che ha invece modificato gli articoli  33-bis
e 33-ter del codice penale, disciplinanti  i  presupposti  sulle  cui
basi  la  norma  censurata  e'  destinata   ad   operare.   L'udienza
preliminare e' divenuta uno snodo  filtrante  sostanzialmente  neutro
sotto il profilo del riparto di  attribuzioni,  dipendendo  solo  dal
titolo di reato contestato, e cio' pone le parti in una condizione di
ignoranza incolpevole durante il suo svolgimento: la conoscenza della
composizione tribunale che sara' chiamato a celebrare il dibattimento
matura dopo l'emissione del decreto di cui all'art.  429  del  codice
penale, e dunque in un momento successivo  alla  decadenza  stabilita
dall'art. 33-quinquies del codice penale. 
    E' solo nel decreto dispositivo del giudizio che  viene  indicato
il tribunale innanzi al quale si terra' il dibattimento,  trattandosi
infatti di  un  requisito  espressamente  previsto  alla  lettera  e)
dell'art. 429 del codice penale, e solo a seguito della sua emissione
le parti possono rendersi  conto  di  un'eventuale  inosservanza  del
riparto di attribuzioni, qualora il G.U.P. abbia rinviato innanzi  ad
un tribunale erroneamente composto rispetto a reati in contestazione. 
    Ne  consegue  l'illogicita'  della  regola   prevista   dall'art.
33-quinquies  del  codice  penale,  che  colloca   le   parti   nella
paradossale  situazione  di  dover  eccepire  l'inosservanza  di  una
disposizione prima ancora di  averla  conosciuta,  e  finanche  prima
ancora che sia avvenuta, posto che e' con il decreto ex art. 429  del
codice penale che il  G.U.P.  indica  il  giudice  del  dibattimento,
potendo   correggere   eventuali   vizi   nell'individuazione   della
composizione sino alla sua emissione. 
    In  passato,  si  e'  gia'  dubitato  della  legittimita'   della
decadenza  prevista  dall'art.  33-quinquies   del   codice   penale,
focalizzandosi tuttavia  l'attenzione  sulla  dialettica  processuale
instaurata dalla richiesta di rinvio a giudizio del P.M.,  situazione
parzialmente diversa da quella affrontata nel presente  incidente  di
costituzionalita'. 
    Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, con  ordinanza
n. 728 del 29 settembre  2000,  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
articoli 3, 24 e 111 della Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale del combinato disposto  degli  articoli  33-quinquies,
416 e 417 del codice penale, nella parte in cui non prevedeva che  la
sanzione  processuale  della  decadenza,  conseguente  alla   mancata
proposizione,  prima  della  conclusione  dell'udienza   preliminare,
dell'eccezione concernente  l'erronea  attribuzione  dei  reati  alla
cognizione del tribunale in composizione  monocratica  o  collegiale,
fosse «correlata allo specifico obbligo  del  pubblico  ministero  di
indicazione  del  giudice  davanti  al  quale  chiede  il  rinvio   a
giudizio». 
    La Corte costituzionale, con ordinanza  n.  395  del  3  dicembre
2001,  ha  dichiarato  la  questione   manifestamente   inammissibile
stigmatizzando la mancanza di motivazione da parte del rimettente  in
ordine  all'impraticabilita'  di'  un'interpretazione   conforme   ai
principi costituzionali (testualmente: «il rimettente avrebbe  dovuto
dare atto delle ragioni per cui non ha ritenuto  possibile  riservare
alla  disciplina  censurata  un'interpretazione  nello  stesso  tempo
coerente con i presupposti logico-giuridici che informano il  sistema
dei termini posti a pena di decadenza e  rispettosa  del  diritto  di
difesa e, quindi, conforme a Costituzione;»). 
    Il dispositivo di inammissibilita' non esaurisce la portata della
decisione,   potendosi    cogliere    nella    lettura    complessiva
dell'ordinanza  n.  395/2001   alcuni   passaggi   fondamentali   del
ragionamento  della   Consulta   che   avvalorano   i   sospetti   di
incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies del  codice  di  procedura
penale. 
    I giudici costituzionali, dopo aver constatato -  al  pari  degli
odierni rimettenti - che «nelle ipotesi in cui e' prevista  l'udienza
preliminare,  la  difesa  e'  posta  in   grado   di   conoscere   la
composizione, collegiale  o  monocratica,  del  tribunale  che  sara'
chiamato  a  celebrare  il  dibattimento  solo  dopo  che,   conclusa
l'udienza preliminare, sia stato emesso il  decreto  che  dispone  il
giudizio, e cioe'  in  un  momento  successivo  al  termine  previsto
dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale»,  e  rimarcato
l'interpretazione del giudice a  quo,  secondo  cui  «il  termine  di
decadenza di cui all'art. 33quinquies del codice di procedura  penale
dovrebbe  continuare  ad  essere  riferito  all'udienza  preliminare,
malgrado nel caso in esame l'inosservanza delle disposizioni relative
all'attribuzione dei reati sia concretamente eccepibile, analogamente
alle ipotesi nelle quali manca l'udienza preliminare,  solo  dopo  la
vocatio in ius e, cioe', in un momento in  cui  il  termine  indicato
dalla disciplina censurata e' ormai decorso», non hanno potuto fare a
meno di chiosare «che, cosi' interpretata, la norma censurata risulta
priva di significato logico e razionale" (cfr.  Corte  costituzionale
ordinanza n. 395/2001). 
    Pertanto, gia' nel 2001. la Corte  costituzionale  ha  denunciato
senza mezzi termini l'illogicita'  della  regola  prevista  dall'art.
33-quinquies del codice penale, limitandosi tuttavia a dichiarare  la
manifesta  inammissibilita'  della  questione  senza  indicare  quale
avrebbe potuto essere una possibile  interpretazione  adeguatrice  ai
precetti costituzionali. 
    Le perplessita' manifestate dal Tribunale monocratico di Roma non
sono apparse infondate ai giudici della Consulta, come  non  lo  sono
agli  occhi  dell'odierno  Collegio  rimettente,  ma  l'incidente  di
costituzionalita' non ha fatto breccia poiche' il giudice a quo da un
lato non ha dato atto del fallimento dei tentativi di interpretazione
conforme, dall'altro ha diretto le proprie censure su un reticolo  di
norme collaterali all'unica che realizza il vulnus costituzionale. 
    Ampliando il fuoco di tiro al combinato disposto con gli articoli
416 e 417 del codice di procedura penale, l'originario rimettente non
ha centrato il bersaglio, da individuarsi nell'irrazionale  onere  di
decadenza previsto dall'art. 33 quinquies  del  codice  di  procedura
penale. 
    Ed  infatti,   un'eventuale   operazione   ermeneutica   additiva
dell'art. 417 del codice di procedura  penale,  volta  ad  introdurre
nella norma un requisito non previsto, ovvero l'obbligo per  il  P.M.
di specificare nella richiesta ex art. 416 del  codice  di  procedura
penale la composizione del giudice innanzi a cui richiede il rinvio a
giudizio, non restituirebbe compatibilita' costituzionale alla regola
prevista dall'art. 33 quinquies del codice di  procedura  penale:  la
violazione del riparto di attribuzioni tra  tribunale  monocratico  e
collegiale non puo' mai manifestarsi con la  richiesta  di  rinvio  a
giudizio del P.M., trattandosi di atto prodromico alla  decisione  di
un    altro    organo    giurisdizionale    proceduralmente    tenuto
all'individuazione del giudice che celebrera' il dibattimento. 
    Solo con l'emissione del decreto di cui all'art. 429  del  codice
di procedura penale puo' consumarsi una  violazione  del  riparto  di
attribuzioni tracciato dagli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater  del
codice di procedura  penale;  prima  di  tale  momento,  un'eventuale
indicazione da parte del P.M. della composizione  del  tribunale  che
intende adire per il dibattimento, se  per  un  verso  potrebbe  dare
giustificare  un  onere  di  eccezione   della   difesa   nel   corso
dell'udienza  preliminare,  per  un  altro  non  giustificherebbe  la
decadenza della parte nell'ipotesi in cui il vizio si  manifesti  con
il rinvio a giudizio disposto dal G.U.P. Ben potrebbe accadere che il
P.M. indichi in modo corretto la composizione del tribunale innanzi a
cui  chiede  il  rinvio,  e  che  il  G.U.P.,  non  condividendo   la
prospettazione dell'accusa, disponga il giudizio davanti al tribunale
erroneamente composto; e in questo caso,  la  formulazione  letterale
dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale,  precluderebbe
comunque l'eccezione (o la rilevazione d'ufficio) del  vizio  innanzi
al giudice del dibattimento. 
    Per  questi  motivi,  si  comprende  l'osservazione  della  Corte
costituzionale nella citata  ordinanza  n.  395/2001:  «la  soluzione
proposta  dal  rimettente,  che  vorrebbe   collegare   la   sanzione
processuale della decadenza "ad  uno  specifico  obbligo  imposto  al
pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale chiede
il rinvio a giudizio" si rivela  del  tutto  inadeguata,  posto  che,
quale che sia il contenuto della richiesta  del  pubblico  ministero,
spetta comunque al giudice dell'udienza preliminare  individuare  nel
decreto che dispone il  giudizio  l'organo  avanti  al  quale  verra'
celebrato il dibattimento». 
    Ed allora l'illegittimita' costituzionale della norma puo' essere
emendata solo rimuovendo in toto la decadenza  correlata  all'udienza
preliminare, consentendo per tutti i procedimenti, a prescindere  dal
modulo introduttivo, l'eccezione e la  rilevazione  dell'inosservanza
del riparto di attribuzioni tra tribunale  monocratico  e  collegiale
entro il termine  fissato  dall'art.  491  del  codice  di  procedura
penale; termine che appare fisiologico, in quanto  primo  sbarramento
processuale successivo al manifestarsi del vizio e  parimenti  idoneo
ad assicurare una cristallizzazione del giudizio prima  dell'apertura
del dibattimento. 
  III.1. Il contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Il primo profilo di incostituzionalita' del regime  di  decadenza
previsto dall'art. 33-quinquies del codice di  procedura  penale,  si
rileva dal contrasto con l'art. 3 della Costituzione, illuminato  sia
dal giudizio ternario di eguaglianza, sia dal  controllo  binario  di
ragionevolezza, che si  concludono  entrambi  con  esito  negativo  a
parere dei rimettenti. 
    La Corte  costituzionale  ha  piu'  volte  chiarito  che  «se  il
principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione  in  virtu'
del  quale  a  situazioni  eguali   deve   corrispondere   l'identica
disciplina  e,   all'inverso,   discipline   differenziate   andranno
coniugate a situazioni differenti, cio' equivale a postulare  che  la
disamina della  conformita'  di  una  norma  a  quel  principio  deve
svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul  "perche'"
una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario
dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e  quindi  trarne  le
debite conclusioni in punto di corretto  uso  del  potere  normativo»
(cfr.  Corte  costituzionale  sentenze  n.  89/1996,  n.  5/2000,  n.
241/2014, n. 276/2020, n. 43/2022). 
    Una verifica effettiva del rispetto del principio di  eguaglianza
non puo' mantenersi asettica, limitandosi a constatare l'esistenza di
elementi differenziali o di comunanza tra situazioni  rispettivamente
disciplinate in modo  diverso  o  analogo,  ma  deve  scendere  nelle
profondita' speculative, accertando la sussistenza  di  una  ragione,
costituzionalmente valida,  che  giustifichi  la  differenziazione  o
l'omologazione di trattamento. 
    Tale precisazione e' importante per comprendere  la  contrarieta'
della  decadenza  prevista  dall'art.  33-quinquies  del  codice   di
procedura penale al principio invocato,  nella  duplice  declinazione
prospettata. 
    Prendendo  come  tertium  comparationis  la   regola   normativa,
contemplata dallo stesso art. 33 quin.quies del codice  di  procedura
penale, che consente, nei casi in cui manchi  l'udienza  preliminare,
l'eccezione (o la rilevazione d'ufficio) del  vizio  di  attribuzione
entro il termine di cui all'art. 491 del codice di procedura  penale,
si coglie un'ingiustificata disparita' di trattamento con le  ipotesi
in cui il procedimento passi attraverso l'udienza preliminare. 
     Fermandosi ad un raffronto statico non puo' negarsi che  le  due
situazioni processuali appaiono differenti e dunque la previsione  di
un   diverso   regime   di   decadenze   risulterebbe   giustificata.
Diversamente, il confronto dinamico tra le fattispecie -  cosi'  come
predicato dalla richiamata  giurisprudenza  costituzionale  -  ne  fa
emergere la  sostanziale  omogeneita'  teleologica,  circostanza  che
rende irragionevole la disparita'  di  trattamento:  la  ratio  dello
spostamento  del   termine   di   eccepibilita'   (o   rilevabilita')
dell'inosservanza  del  riparto   di   attribuzioni   tra   tribunale
monocratico e collegiale alla fase di cui all'art. 491 del codice  di
procedura penale, nei moduli procedimentali in cui  manchi  l'udienza
preliminare, e' quella di consentire alle  parti  (e  al  giudice  ex
officio) di sollevare la questione alla prima  occasione  processuale
utile successiva alla conoscenza del  vizio;  ed  infatti,  nei  riti
instaurati con citazione  diretta  giudizio,  giudizio  immediato,  o
giudizio  direttissimo,  la  fase  delle  questioni  preliminari   al
dibattimento rappresenta la  sede  naturale  in  cui  far  valere  le
doglianze che non  hanno  potuto  esprimere  nel  corso  dell'udienza
preliminare, essendosi saltato  tale  snodo  (come  confermato  anche
dalle lettura sistematica degli articoli 21, 80, 181  del  codice  di
procedura penale). 
    Il senso di tale previsione e' evidente:  qualora  le  parti  non
abbiano avuto la possibilita' di sollevare le proprie  questioni  nel
corso  dell'udienza  preliminare,  deve  essere  loro  assicurata  la
facolta' di dedurle entro il termine fissato dall'art. 491 del codice
di  procedura  penale,  ovvero  al  primo  contatto  con  un   organo
giurisdizionale deputato a conoscere dell'eventuale violazione  delle
regole processuali in posizione di terzieta' e imparzialita'. 
    Ebbene, il fisiologico sviluppo della fase di cui  agli  articoli
416 e ss. del codice di procedura penale,  in  precedenza  esaminato,
rende  la  situazione  derivante  dall'inosservanza  del  riparto  di
attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale analoga  sia  nel
caso in cui sia stata celebrata l'udienza preliminare, sia  nel  caso
in cui la stessa sia mancata: in entrambe le  evenienze  processuali,
le parti conoscono del vizio di attribuzione con l'atto di vocatio in
iudicium,   e   appare   assolutamente   ingiustificato    precludere
l'eccezione (o la rilevazione) della violazione  innanzi  al  giudice
del dibattimento nel caso in  cui  lo  stesso  assuma  la  forma  del
decreto che dispone il giudizio. 
    Le diversita' tra il decreto ex art. 429 del codice di  procedura
penale, e il decreto di giudizio immediato, o il decreto di citazione
diretta  a  giudizio,  o  anche  la  presentazione  per  il  giudizio
direttissimo, si azzerano nell'ottica della violazione  delle  regole
dettate dagli artt. 33  bis,  33  ter  e  33  quater  del  codice  di
procedura penale, poiche' in tutti i casi il  vizio  non  emerge  nel
corso dell'udienza  preliminare  ma  con  la  successiva  vocatio  in
iudicium    dell'imputato;    pertanto,     risulta     assolutamente
ingiustificato un regime differenziato  di  decadenze,  quale  quello
tracciato dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale,  tra
situazioni in cui il presupposto di fatto da cui dipende  l'onere  di
eccezione (o rilevazione) si manifesta per tutte nello stesso momento
processuale. 
    Confrontando la disciplina dell'art. 33-quinquies del  codice  di
procedura penale con il regime dell'incompetenza per territorio e per
connessione,  si  rileva  invece  un'illegittima  parificazione   tra
situazioni profondamente diverse. 
    Il secondo e il terzo comma dell'art. 21 del codice di  procedura
penale stabiliscono che: 
      «2. L'incompetenza per territorio e'  rilevata  o  eccepita,  a
pena di decadenza, prima della conclusione  dell'udienza  preliminare
o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'art.  491,  comma
1. Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta  l'eccezione  di
incompetenza respinta nell'udienza preliminare. 
      3.  L'incompetenza  derivante  da  connessione  e'  rilevata  o
eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal comma 2». 
    Sullo stesso stampo e' stato  forgiato  l'art.  33-quinquies  del
codice di procedura penale dal legislatore del 1998,  senza  tuttavia
tener  conto  delle   differenze   sussistenti   tra   gli   istituti
processuali: l'anticipazione, a pena di decadenza, dell'eccezione  (o
della rilevazione) dell'incompetenza territoriale o  per  connessione
all'udienza preliminare  e'  giustificata  dalla  manifestazione  del
vizio  gia'  in  quella  fase,   potendolo   riconoscere   le   parti
dall'imputazione formulata dal P.M. nella richiesta ex art.  416  del
codice di  procedura  penale,  nonche'  dal  G.U.P.  territorialmente
adito. 
    Ed infatti, tra i requisiti espliciti, previsti anche a  pena  di
nullita'  della   richiesta   di   rinvio   a   giudizio,   vi   sono
«l'enunciazione,  in  forma  chiara  e  precisa,  del  fiato,   delle
circostanze  aggravanti  e   di   quelle   che   possono   comportare
l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi
articoli di legge» (art. 417, lettera  b)  del  codice  di  procedura
penale), e «la domanda  al  giudice  di  emissione  del  decreto  che
dispone il giudizio» (art. 417, lettera d) del  codice  di  procedura
penale), elementi che consentono alle parti  di  percepire  eventuali
violazioni  di  competenza,  e  che  giustificano  la  configurazione
dell'onere  di  eccepirle  a  pena  di  decadenza  gia'   nel   corso
dell'udienza preliminare. 
    Tale condizione, come visto, non  ricorre  affatto  nei  casi  di
inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico  e
collegiale, in cui un possibile vizio non puo' essere  desunto  dalla
richiesta di rinvio a  giudizio  formulata  dal  P.M.,  e  dunque  la
previsione   di   un'analoga   decadenza,   anticipata    all'udienza
preliminare,  si  risolve   in   un'illegittima   parificazione   tra
fattispecie diverse, che appare in  chiaro  contrasto  con  l'art.  3
della Costituzione. 
    Una situazione simile a quanto si verifica per le violazioni  del
riparto  di  attribuzioni  tra  tribunale  monocratico  e  collegiale
potrebbe al piu' ravvisarsi nell'ambito della competenza distrettuale
per i reati previsti dall'art. 51, commi 3-bis e ss.  del  codice  di
procedura penale: per  tali  procedimenti,  il  giudice  dell'udienza
preliminare  funzionalmente  competente  viene  individuato  su  base
distrettuale  (art.  328,  commi  1-bis  e  1-quater  del  codice  di
procedura penale), mentre la competenza per  la  fase  dibattimentale
resta attribuita ai giudici territorialmente competenti in base  alle
regole generali di cui agli articoli 8 e 9 del  codice  di  procedura
penale. 
    Puo' allora accadere che il G.U.P. distrettuale,  competente  per
la celebrazione dell'udienza preliminare,  disponga  erroneamente  il
rinvio  a  giudizio   innanzi   ad   un   tribunale   del   distretto
territorialmente incompetente, e in tal caso le  parti,  analogamente
alle ipotesi di violazione degli articoli 33-bis, 33-ter e  33-quater
del codice di procedura  penale,  conosceranno  del  vizio  solo  con
l'emissione del decreto ex art. 429 del codice di procedura penale. 
    Quest'eventualita',  rappresentando  una  peculiare   successione
diacronica tra regole di competenza funzionale  e  territoriale,  non
giustifica affatto l'identita' del regime previsto dagli articoli  21
commi 2 e 3 e 33-quinquies del codice  di  procedura  penale,  semmai
porta ad interrogarsi sulla  legittimita'  costituzionale  anche  del
combinato disposto degli articoli 21 -  51-bis  e  ss. -  328,  commi
1-bis e 1-quater del codice  di  procedura  penale,  laddove  non  si
consente alle  parti  di  eccepire  l'incompetenza  territoriale  del
giudice del dibattimento qualora non lo  abbiano  fatto  prima  della
conclusione  dell'udienza  preliminare,  anche  se  la  sua   erronea
individuazione e'  avvenuta  solo  con  il  decreto  che  dispone  il
giudizio. 
    Ancora una  volta,  si  e'  posti  di  fronte  ad  un'irrazionale
decadenza da un'eccezione che le parti non hanno  avuto  la  concreta
possibilita' di sollevare nel termine  indicato,  poiche'  lo  stesso
precede illogicamente il manifestarsi del vizio. 
    Viene cosi' alla luce il secondo profilo di  contrasto  dell'art.
33-quinquies del codice  di  procedura  penale  con  l'art.  3  della
Costituzione, palesandosi l'irrazionalita' della scelta normativa. 
    Il  principio  di  ragionevolezza,   divenuto   ormai   «criterio
onnipervasivo di misurazione  della  legalita'  e  della  adeguatezza
della  scelta  politica  consacrata  nell'atto»,  come  icasticamente
affermato dalla dottrina, tra  le  sue  molteplici  declinazioni,  si
dirama  in  un  controllo   di   coerenza   logica,   teleologica   e
storico-cronologica della legge (cfr. Corte  costituzionale  sentenza
n. 86/2017: «Dall'art. 3 della Costituzione si desume  un  canone  di
"razionalita'" della legge svincolato da una normativa di  raffronto,
rintracciato nell'esigenza di conformita' dell'ordinamento a  criteri
di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica.  Il  principio
di ragionevolezza e' dunque leso quando si accerti l'esistenza di una
irrazionalita' intra legem, intesa come contraddittorieta' intrinseca
tra la complessiva finalita' perseguita dal legislatore  e  la  norma
espressa dalla disposizione censurata.»); controllo che, applicato al
regime di decadenze previste dall'art.  33-quinquies  del  codice  di
procedura  penale,  ne  illumina  la  contrarieta'   ai   canoni   di
razionalita'. 
    E' chiaramente illogico porre carico  delle  parti  la  decadenza
dall'esercizio di una facolta' processuale in una fase in cui non  si
sia ancora avverato il presupposto di fatto cui e' collegata,  ovvero
l'inosservanza delle norme di cui, attraverso l'eccezione, si  chiede
il rispetto:  sino  alla  conclusione  dell'udienza  preliminare,  si
ribadisce,  non  puo'  esservi  una   violazione   del   riparto   di
attribuzioni  tra  tribunale  monocratico  e   collegiale,   che   si
concretizza solo con il decreto che dispone  il  giudizio;  non  puo'
pertanto pretendersi, a pena di decadenza, che le parti sollevino una
doglianza  che  sarebbe  oggettivamente  precoce  e   soggettivamente
inesigibile, non essendo il vizio ancora percepibile. 
    E l'irragionevolezza intrinseca della  norma  appare  ancor  piu'
evidente immaginando gli scenari processuali che conseguirebbero alla
sua   applicazione   letterale:   le   parti   dovrebbero    eccepire
preventivamente nel  corso  dell'udienza  preliminare  una  futura  e
ipotetica violazione degli articoli 33-bis, 33-ter  e  33-quater  del
codice di procedura penale, ma il G.U.P. non potrebbe far  altro  che
dichiarare l'eccezione inammissibile per carenza del presupposto, non
essendosi  ancora  verificata  alcuna  inosservanza  del  riparto  di
attribuzioni;   dichiarata   l'inammissibilita'    della    prematura
eccezione, nulla esclude che il G.U.P. possa comunque incorrere nella
violazione con l'emissione del decreto ex  art.  429  del  codice  di
procedura  penale,  disponendo  il  giudizio  innanzi  al   tribunale
erroneamente composto. 
    L'unica utilita' derivante dalla configurazione di  un  onere  di
eccezione  preventiva  a  carico  delle  parti  sarebbe   quello   di
garantirsi la possibilita' di riproposizione innanzi al  giudice  del
dibattimento. 
    Qui  la  norma  mostra  anche   un'incoerenza   teleologica:   se
l'anticipazione  dell'onere  di  eccezione  del   vizio   alla   fase
dell'udienza preliminare risponde ad un'esigenza acceleratoria, volta
a  favorire   l'esaurimento   delle   questioni   preliminari   prima
dell'approdo al dibattimento, il fine non  puo'  dirsi  adeguatamente
perseguito dall'art. 33-quinquies del  codice  di  procedura  penale,
poiche' la disposizione, cosi' come formulata, obbligherebbe le parti
ad una sterile eccezione preventiva, che il G.U.P. non  potrebbe  che
dichiarare  inammissibile,  differendosi  la  decisione  innanzi   al
giudice del dibattimento, laddove riproposta. 
    Di fatto, la fase processuale in cui la questione potrebbe essere
seriamente sollevata e risolta, sarebbe  pur  sempre  quella  di  cui
all'art. 491 del codice di procedura penale, senza alcuna  differenza
tra  procedimenti  che  prevedono  l'udienza  preliminare  o  che  la
saltano; anzi obbligare le parti ad una fittizia  eccezione  al  solo
fine di conservare il diritto di riproporla eventualmente innanzi  al
giudice del dibattimento finirebbe  per  appesantire  inutilmente  lo
svolgimento dell'udienza preliminare. 
    E in proposito, deve ricordarsi il  monito  della  giurisprudenza
costituzionale,  risalente  ma  che  risuona  ancora   attuale:   «va
riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore  per  quanto
attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel
rispetto  del  principio  di   ragionevolezza   perche'   non   venga
compromessa, di fatto, la nozione stessa del processo. Si'  che  sono
da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa,
istituti o regole quando si prestino a un uso distorto, recando cosi'
lesione dell'efficiente svolgimento della  finzione  giurisdizionale»
(Corte costituzionale sentenza n. 10/1997). 
    La disposizione  di  cui  all'art.  33-quinquies  del  codice  di
procedura  penale  denota  inoltre  una  sproporzione  tra  il   fine
perseguito  e  la  sanzione  processuale   prescelta   per   il   suo
raggiungimento: appare eccessivo porre a carico delle parti (ed anche
del giudice, a cui sarebbe preclusa  la  rilevazione  officiosa)  una
decadenza dall'eccezione nell'ottica di uno scopo  acceleratorio  che
l'applicazione  testuale  della  norma,  per  come  immaginata,   non
assicurerebbe affatto. 
    Alla frizione con il principio  di  proporzionalita',  canone  di
ragionevolezza interna alle norme, si affianca poi una valutazione di
incoerenza   storico-cronologica,   in   parte    gia'    anticipata:
l'incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies del codice di  procedura
penale dipende anche dal mancato raccordo normativo con le  modifiche
apportate dalla legge n. 479/1999 agli articoli 33-bis e  33-ter  del
codice di  procedura  penale  che,  come  visto,  hanno  ampliato  le
competenze del tribunale in  composizione  monocratica,  rompendo  il
legame univoco tra udienza preliminare e attribuzioni  del  tribunale
collegiale. 
    L'udienza preliminare puo' oggi  indifferentemente  precedere  un
successivo  giudizio  dibattimentale   sia   innanzi   al   tribunale
collegiale sia innanzi al tribunale monocratico,  dipendendo  la  sua
celebrazione dal titolo di reato contestato e dal modulo di esercizio
dell'azione  penale  prescelto  dal   P.M.   L'individuazione   della
composizione  del  tribunale  innanzi  al  quale  viene  disposto  il
giudizio e' affidata al G.U.P., e si palesa per i destinatari con  il
decreto  ex  art.  429  del  codice  di   procedura   penale;   prima
dell'emissione di tale provvedimento le parti non possono valutare la
correttezza dell'indicazione effettuata dal G.U.P.  rispetto  riparto
di attribuzioni tracciato dagli articoli 33-bis, 33-ter  e  33-quater
del codice di procedura penale, e pertanto l'anticipazione dell'onere
di eccezione (o di rilevazione)  del  vizio  alla  fase  dell'udienza
preliminare risulta anacronistica, in quanto  non  piu'  giustificata
dalla  quella  precedente  corrispondenza  tra  forma  di   esercizio
dell'azione  penale  e  composizione  del  tribunale  che  consentiva
astrattamente alle parti di pronosticare  un  possibile  inosservanza
nel riparto di attribuzioni. 
    Infine,  un'ulteriore  profilo  di  irragionevolezza  si   coglie
ponendosi nell'ottica del giudice  del  dibattimento,  deprivato  dal
tenore letterale  della  norma  della  possibilita'  di  rilevare  ex
officio la violazione  del  riparto  di  attribuzioni  tra  tribunale
monocratico  e  collegiale  nelle  ipotesi  in  cui  il  procedimento
provenga da un'udienza preliminare in cui il vizio non sia stato gia'
dedotto  o  rilevato:  maturerebbe   infatti   anche   per   l'organo
successivamente adito una preclusione del  tutto  incolpevole,  posto
che la  necessaria  diversita'  di  persona  fisica  tra  il  giudice
dell'udienza preliminare e il giudice del dibattimento (art.  34  del
codice di procedura penale)  fa  si'  che  quest'ultimo  conosca  del
procedimento,  e  dell'eventuale  errore  nell'individuazione   della
composizione del tribunale, in una fase in cui non gli  sarebbe  piu'
consentita la rilevazione dello stesso. 
  III.2. La violazione  del  diritto  di  difesa  ex  art.  24  della
Costituzione. 
    Il Collegio rimettente dubita  della  compatibilita'  del  regime
decadenziale previsto dall'art. 33-quinquies del codice di  procedura
penale con il principio di effettivita'  del  diritto  di  difesa  in
giudizio, sancito dall'art. 24 della Costituzione. 
    Il precetto non assicura solo formalmente l'accesso  alla  tutela
giurisdizionale, ma garantisce che la stessa sia effettiva, ritenendo
illegittima qualsiasi condizione o limitazione che renda  impossibile
o altamente difficoltoso l'esercizio delle facolta' difensive. 
    La giurisprudenza costituzionale,  pronunciatasi  in  riferimento
all'art. 24 della Costituzione, ha costantemente affermato che  «cio'
che conta e' che  non  vengano  imposti  oneri  tali  o  non  vengano
prescritte modalita'  tali  da  rendere  impossibile  o  estremamente
difficile  l'esercizio  del  diritto  di  difesa  o  lo   svolgimento
dell'attivita' processuale» (cfr., tra le tante, Corte costituzionale
sentenze n. 199/2017, n. 121/2016, n. 44/2016); e  ha  precisato  che
«l'effettivita' dei diritti fondamentali, tra i quali  va  certamente
annoverato il diritto di difesa di cui all'art.  24,  secondo  comma,
della Costituzione, viene meno  non  soltanto  se  le  norme  vigenti
consentono che sia  radicalmente  impedito  il  loro  esercizio,  pur
formalmente riconosciuto, ma anche se e'  possibile  che  si  creino,
senza la previsione di adeguati rimedi, situazioni  tali  da  rendere
eccessivamente   difficile   l'esercizio    stesso»    (cfr.    Corte
costituzionale sentenza n. 142/2009). 
    Tali  coordinate  ermeneutiche   contrassegnano   il   vizio   di
incostituzionalita' che affligge l'art. 33-quinquies  del  codice  di
procedura penale, laddove rende concretamente impossibile l'esercizio
della facolta' di eccepire il mancato rispetto delle attribuzioni del
tribunale monocratico  o  collegiale  nei  procedimenti  che  passano
attraverso l'udienza preliminare. 
    La  previsione  di  una  sanzione  processuale  forte  quale   la
decadenza dall'eccezione, qualora la difesa non la sollevi  entro  il
termine di cui all'art. 421 del codice di procedura penale -  termine
in cui, come ampiamente visto, la parte non puo' ancora sapere  della
futura inosservanza del riparto di attribuzioni - rende di fatto  non
esercitabile la facolta' che la norma comunque riconosce.  Il  limite
della  decadenza,  anticipato  alla  fase  dell'udienza  preliminare,
svuota di contenuto effettivo la facolta' di eccezione del  vizio  di
cui all'art. 33-quinquies del codice di procedura  penale,  al  punto
che il suo riconoscimento normativo diviene solo apparente. 
    E non vi e'  dubbio  che  il  diritto  di  difesa,  calato  nella
dinamica processuale, trovi esplicazione attraverso  la  facolta'  di
eccepire l'inosservanza delle regole procedurali,  essendo  anch'essa
oggetto  di  necessario  contraddittorio.  Il  rispetto  delle  norme
processuali, categoria a cui appartengono gli articoli 33-bis, 33-ter
e 33-quater del codice di procedura penale, rientra  a  pieno  titolo
nella materia del contendere, e pertanto deve  essere  assicurato  il
confronto dialettico tra le parti sul punto. 
    Da  cio'  deriva  che  i  termini   processuali   devono   essere
congruamente  e  logicamente   fissati   dal   legislatore,   e   che
l'interessato sia posto in grado di conoscere per tempo i presupposti
di fatto  su  cui  si  fonda  una  facolta'  che  lo  stesso  sistema
processuale gli attribuisce, poiche'  riconoscere  un  diritto  senza
garantirne l'esercizio significa non riconoscerlo affatto. 
    Eloquenti, in proposito, le  parole  della  Corte  costituzionale
nella  sentenza  n.  89/1992:  «La  sola  previsione  di  un  rimedio
difensivo non e' sufficiente per far ritenere adempiuto  il  precetto
costituzionale dell'art. 24 della Costituzione, se tale  rimedio  non
produce alcun effetto utile per la conservazione  o  la  affermazione
del diritto di cui si e' titolari». 
    La  garanzia  offerta  dall'art.  33-quinquies  del   codice   di
procedura penale e' formale ma non effettiva, e il diritto di  difesa
in parte qua ne risulta  inevitabilmente  frustrato:  la  regola  del
contraddittorio,   che   innerva   il   dinamismo   della    funzione
giurisdizionale,  esige  una  partecipazione  "attiva"  delle  parti,
ovvero che alle stesse sia consentito di  influire  sulla  formazione
della decisione del giudice formulando deduzioni e controdeduzioni, e
tale fondamentale facolta' risulta sterilizzata da  una  norma,  come
quella al vaglio,  che  fa  maturare  a  loro  carico  una  decadenza
incolpevole. 
    Ne'  potrebbe  sostenersi  che  il   regime   fissato   dall'art.
33-quinquies del codice di procedura penale sia frutto di una  scelta
normativa discrezionale, e in quanto tale sottratto al  sindacato  di
costituzionalita': la Consulta, pur avendo piu' volte  affermato  che
il legislatore gode di  ampia  discrezionalita'  nella  conformazione
degli istituti processuali,  ha  sempre  ribadito  «il  limite  della
manifesta irragionevolezza della disciplina ogni  qual  volta  emerga
un'ingiustificata compressione del diritto di agire,  costituito  dal
sostanziale impedimento all'esercizio  di  azione  o  dall'aver  reso
oltremodo  difficoltosa  la  tutela  giurisdizionale»   (cfr.   Corte
costituzionale sentenze n. 102/2021, n. 45/2021, n. 95/2020, 80/2020,
271/2019). 
    E il limite della  ragionevolezza,  guardando  alla  formulazione
dell'art.  33-quinquies  del  codice  di  procedura  penale,  e  alle
ricadute  applicative  sul  relativo  segmento  di  esplicazione  del
diritto di difesa, appare ampiamente oltrepassato. 
    L'assunto trova conferma nella disciplina dell'incompetenza (art.
21  -  23  del  codice  di  procedura  penale),  della  richiesta  di
esclusione della parte  civile  (art.  80  del  codice  di  procedura
penale), o delle nullita' relative (art. 181, comma 2 del  codice  di
procedura penale). Dalla lettura sistematica di queste  norme  emerge
un principio costante che fa apparire la previsione di  cui  all'art.
33-quinquies  del  codice  di   procedura   penale   un'irragionevole
menomazione del diritto di difesa: il termine di reazione  a  vicende
processuali che si verificano, o che si rendono  manifeste,  dopo  la
conclusione  dell'udienza  preliminare  (come  ad  esempio   per   la
costituzione della parte civile  in  dibattimento,  le  nullita'  che
colpiscono il decreto che dispone il  giudizio)  deve  essere  sempre
quello  delle  questioni  preliminari  ex  art.  491  del  codice  di
procedura penale,  dovendosi  garantire  alla  difesa  il  tempo  per
esplicare le proprie prerogative. 
  III.3. La violazione dell'art. 101, comma 2 della Costituzione. 
    La disposizione  censurata,  nella  parte  in  cui  non  consente
neanche  al  giudice  del  dibattimento  di   rilevare   ex   officio
l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale  monocratico
e collegiale, denota un probabile attrito con  l'art.  101,  comma  2
della Costituzione, norma che stabilisce l'esclusiva soggezione della
funzione giurisdizionale alla legge. 
    L'art. 33-quinquies del codice  di  procedura  penale  nella  sua
formulazione letterale, riferisce la sanzione della  decadenza  anche
al rilievo officioso del vizio («e' rilevata o eccepita,  a  pena  di
decadenza, prima della conclusione  dell'udienza  preliminare,  o  se
questa manca, entro il termine  previsto  dall'art.  491,  comma  1»)
precluso al giudice innanzi al quale e' disposto il giudizio, qualora
la questione non  sia  stata  preventivamente  affrontata  nel  corso
dell'udienza preliminare. 
    Cio' costringe il giudice chiamato a celebrare il dibattimento  a
sottostare  ad  un'eventuale   erronea   individuazione   della   sua
composizione da parte del G.U.P.,  non  piu'  sindacabile  una  volta
spirato il termine di  cui  all'art.  421  del  codice  di  procedura
penale. 
    Ne consegue la paradossale  situazione  in  cui  il  giudice  del
dibattimento, pur riconoscendo un difetto di composizione rispetto ai
reati contestati, non vi potrebbe rimediare d'ufficio, disponendo  la
trasmissione degli atti innanzi al tribunale  correttamente  composto
(cosi' come previsto dall'art. 33-septies  del  codice  di  procedura
penale), ma sarebbe vincolato all'indicazione  del  G.U.P.  ancorche'
contraria alle regole di riparto di cui agli articoli 33-bis,  33-ter
e 33-quater del codice di procedura penale. 
    Ecco allora che si palesa la violazione dell'art.  101,  comma  2
della Costituzione, posto che la norma contempla un'ipotesi in cui il
giudice sarebbe tenuto a dar seguito  ad  un  precedente  ed  erroneo
provvedimento giurisdizionale anziche'  dare  attuazione  alla  legge
inosservata, ovvero costretto a rimanere inerte pure a fronte  di  un
vizio procedurale percepibile ed ancora emendabile. 
    E le ripercussioni della violazione del riparto  di  attribuzioni
sulla  validita'  degli  atti  emanati  dal  tribunale   erroneamente
composto, qualificate alla stregua di nullita'  dalla  giurisprudenza
di legittimita'  nelle  ipotesi  di  inosservanza  per  difetto,  (5)
porterebbero una rigida applicazione della  regola  di  cui  all'art.
33-quinquies del codice di procedura penale a conclusioni ancora piu'
assurde:  il  tribunale  in  composizione  monocratica.  laddove   si
accorresse che i reati per il (mali e'  stato  disposto  il  giudizio
innanzi a se' appartengono alla cognizione collegiale,  non  potrebbe
rilevare  d'ufficio  il  vizio  qualora  non  sollevato   nel   corso
dell'udienza  preliminare,  e  sarebbe  costretto  a   celebrare   il
dibattimento  nella  consapevolezza  che  la  futura  sentenza  sara'
affetta da nullita'. 
    In  altri  termini,  il  giudice  del  dibattimento  pur  potendo
prevenire una  causa  di  nullita'  della  sentenza  -  ordinando  la
trasmissione degli atti ex art. 33-septies c.p.p. entro il termine di
cui all'art. 491 c.p.p. - si ritroverebbe con le mani legate, e  cio'
nonostante sia  ancora  possibile  eliminare  il  vizio  senza  alcun
pregiudizio per l'attivita' processuale svolta e per i diritti  delle
parti. 
    Ancora  una  volta  si  rivela  la   palese   illogicita'   della
costruzione normativa di cui all'art. 33-quinquies c.p.p., che per un
mal riposto senso di economia  processuale  rischia  di  divenire  in
realta' antieconomica guardando all'intero esito del procedimento. 
III.4. La  contrarieta'  ai  principi  del  giusto  processo  sanciti
dall'art. 111, comma 2 Cost. e dall'art. 6, par. 3 CEDU. 
    Si rileva, infine, un possibile contrasto dell'art.  33-quinquies
c.p.p. con i principi  del  giusto  processo,  consacrati  dal  comma
secondo dell'art.  111  Cost.  e  dal  paragrafo  terzo  dell'art.  6
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali firmata Roma il 4 novembre 1950,  ratificata  e
resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848,  con  conseguente
violazione dell'art. 117 comma 1 Cost. 
    In particolare,  l'irragionevole  regime  di  decadenza  previsto
dalla norma, di  fatto,  sottrae  al  contraddittorio  tra  le  parti
l'osservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico  e
collegiale nei procedimenti che passano per l'udienza preliminare. 
    La dinamica processuale in precedenza analizzata,  che  porta  le
parti a conoscere di  un  eventuale  errore  nella  composizione  del
tribunale chiamato a celebrare il dibattimento in un momento  in  cui
e' ormai maturata la decadenza dell'eccezione a loro carico, priva le
stesse della possibilita' di  contraddire  sul  punto,  lasciando  al
G.U.P. una decisione solitaria e non contestabile. 
    Il principio del contraddittorio, nel cui oggetto  rientra  anche
la corretta applicazione delle norme processuali, presuppone che alle
parti sia sempre assicurata la possibilita' (a priori o differita) di
esprimere le proprie ragioni innanzi ad un organo terzo ed imparziale
e di influenzarne cosi'  la  deliberazione,  nonche'  di  azionare  i
relativi rimedi impugnatori quando le proprie doglianze  non  vengano
ascoltate. 
    La previsione di cui all'art. 33-quinquies c.p.p. stride con tale
modello  dialogico,  poiche'  costringe   le   parti   a   sottostare
all'individuazione fatta dal G.U.P. della composizione del  tribunale
innanzi  a  cui  e'  disposto  il  giudizio  senza  aver   avuto   la
possibilita' di interloquire preventivamente sulla stessa e senza  la
possibilita' di dolersene  successivamente  davanti  al  giudice  del
dibattimento,  arrivando   innanzi   ad   esso   con   lo   strumento
dell'eccezione ormai precluso. 
    Un siffatto sistema di decadenze  si  pone  in  aperto  contrasto
anche con l'accezione soggettiva contraddittorio,  nell'articolazione
prevista dall'art. 6, paragrafo 3, lettera b) CEDU, che riconosce  ad
ogni accusato «il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni
necessarie a preparare  la  sua  difesa».  Diritto  che  non  risulta
chiaramente  rispettato  dall'art.  33-quinquies  c.p.p.,   dovendosi
rimarcare come la norma non consenta  alla  difesa  alcun  tempo  per
valutare una  possibile  eccezione  di  inosservanza  degli  articoli
33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p., ponendo a suo carico un  onere  di
preconizzazione del vizio procedurale e una decadenza incolpevole. 
    Il sacrificio delle facolta' difensive, in parte  qua,  non  puo'
dirsi  giustificato  dall'esigenza  di   concentrazione   dei   tempi
processuali  -  che  il  legislatore  sembra  perseguire  anticipando
l'onere di eccezione alla fase dell'udienza preliminare  -  dovendosi
ribadire  le  considerazioni  della  Corte  EDU  nell'interpretazione
dell'articolo 6, par, 3 1. b) secondo cui, benche' sia importante che
la procedura si svolga entro un termine adeguato, occorre che non  ne
risentano i diritti procedurali di una delle parti (cfr.  Corte  EDU,
sentenza 31  luglio  2014,  OAO  Neftyanaya  Kompaniya  Yukos  contro
Russia). 
IV. L'impraticabilita' di un'interpretazione adeguatrice. 
    I  dubbi  di  costituzionalita'  appena  evidenziati  onerano  il
Collegio   rimettente   a    sperimentare    la    possibilita'    di
un'interpretazione della norma in senso conforme ai principi  che  si
assumono  violati,  nella  consapevolezza  della  necessarieta'   del
tentativo a pena di inammissibilita' della questione (cfr.  C.  cost.
ordinanze n. 177/2016, n. 97/2017). 
    La ricerca di  un  senso  conforme  alla  Costituzione  non  puo'
tuttavia tracimare in un'operazione ermeneutica  sganciata  dal  dato
letterale della disposizione che si cerca di  interpretare,  ne'  dal
suo significato teleologico, dovendosi pur sempre mantenere  entro  i
limiti  fissati  dalla   lettera   della   legge   e   dal   contesto
logico-normativo entro cui si colloca. 
    La giurisprudenza costituzionale, in proposito, ha precisato  che
«l'obbligo  di  addivenire  ad   un'interpretazione   conforme   alla
Costituzione   cede   il   passo   all'incidente   di    legittimita'
costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto
letterale della disposizione e  si  riveli  del  tutto  eccentrica  e
bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la  disposizione
si colloca» (cfr. C. cost. sentenze n. 1/2013 e n. 219/2008);  e  che
«l'interpretazione secondo Costituzione e' doverosa ed ha un'indubbia
priorita' su ogni altra ma appartiene pur sempre alla famiglia  delle
tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice  nell'esercizio
della funzione giurisdizionale,  che  hanno  carattere  dichiarativo.
Ove, percio', sulla base di tali tecniche, non sia  possibile  trarre
dalla  disposizione  alcuna  norma  conforme  alla  Costituzione,  il
giudice e' tenuto ad investire questa Corte della relativa  questione
di legittimita' costituzionale» (cfr. C. cost. sentenza n. 36/2016). 
    L'esperimento dei tentativi  di  interpretazione  adeguatrice  da
parte del giudice a quo deve essere condotto nei limiti dell'area  di
significanza  tracciata  dal  senso  letterale   della   disposizione
sospetta di incostituzionalita', e non puo' spingersi sino  alla  sua
sostanziale disapplicazione: «la lettera della  norma  impugnata,  il
cui  significato  non  puo'  essere  valicato   neppure   per   mezzo
dell'interpretazione costituzionalmente conforme, non consente in via
interpretativa di conseguire l'effetto  che  solo  una  pronuncia  di
illegittimita' costituzionale puo' produrre» (cfr. C. cost.  sentenza
n. 110/2012). 
    In tal senso, si sono espresse incidentalmente anche  le  Sezioni
unite della Corte di cassazione  «l'interpretazione  adeguatrice  dei
giudici  ha  possibilita'  di   esplicazione   soltanto   quando   un
disposizione abbia carattere "polisenso" e da essa  sia  enucleabile,
senza manipolare contenuto della disposizione, una norma  compatibile
con la  Costituzione  attraverso  l'impiego  dei  canoni  ermeneutici
prescritti dagli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla  legge  in
generale: di talche', nell'impossibilita' di conformare la  norma  in
termini non incostituzionali, il giudice non puo'  disapplicarla,  ma
deve rimettere la questione di legittimita' costituzionale al  vaglio
del Giudice delle leggi» (cfr. Cass., SS.UU. n. 23016/2004; SS.UU. n,
40986/2018). 
    Il dato letterale dell'art. 33-quinquies c.p.p. non offre margini
di interpretazione alternativa laddove  afferma  che  «l'inosservanza
delle  disposizioni  relative   all'attribuzione   dei   reati   alle
cognizione del tribunale in composizione collegiale o  monocratica  e
delle disposizione processuali collegate e' rilevata  o  eccepita,  a
pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare». 
    La formulazione, del  resto,  e'  coerente  con  lo  scopo  della
disposizione, volta ad introdurre una sanzione processuale  quale  la
decadenza, e dunque necessariamente rigida e tassativa. 
    Una decadenza sussiste o non sussiste, tertium non datur. 
    Lo spazio ermeneutico ritagliato dall'enunciato  e'  estremamente
ridotto non potendosi  intendere  il  richiamo  alla  sanzione  della
decadenza  se  non  in  quanto  tale,  salvo  travalicare  del  tutto
l'orizzonte di senso e ritenere  che  il  termine  fissato  sia  solo
ordinatorio. 
    Tale interpretazione consentirebbe alle parti e  al  giudice  del
dibattimento di eccepire e rilevare  l'inosservanza  del  riparto  di
attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale sino alla fase di
cui  all'art.  491  c.p.p.,  ma  si  tratterebbe  di   una   torsione
ermeneutica non solo esulante dal dato letterale della  norma  bensi'
addirittura antitetica allo stesso. 
    Permettere alle parti e al giudice  di  esercitare  una  facolta'
oltre  lo  spirare  di  un  termine  tassativamente   indicato   come
perentorio, con esplicito riferimento alla sanzione decadenziale  nel
caso di mancato rispetto, significa di fatto disapplicarlo, e cio' va
ben oltre i limiti dell'interpretazione  costituzionalmente  conforme
che deve rimanere  interpretazione  adeguatrice  della  norma  e  non
abrogante. 
    L'unica  strada  ermeneutica  per  ricomporre  le   fratture   di
costituzionalita', adeguando l'art. 33-quinquies c.p.p,  ai  principi
con cui contrasta, sarebbe quella di ignorare la decadenza prevista e
spostare il termine per l'eccezione (o la rilevazione) del  vizio  di
attribuzione alla fase ex art. 491 c.p.p.,  in  cui  le  parti  e  il
giudice del  dibattimento  possono  conoscere  dello  stesso,  ma  si
ricadrebbe in una chiara disapplicazione dell'enunciato normativo. 
    Ne'  si  potrebbe   salvare   la   disposizione   interpretandola
additivamente nel senso di rimettere in termini le parti per eccepire
l'inosservanza degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p. nelle
ipotesi  in  cui  queste  dimostrino  di  non  averlo   potuto   fare
tempestivamente, poiche' la decadenza non sarebbe maturata  per  caso
fortuito o forza maggiore bensi' per fisiologico  sviluppo  dell'iter
processuale. 
    In altre parole, la causa non imputabile che avrebbe  determinato
lo spirare del termine sarebbe il termine stesso. 
    Inoltre, non si  tratterebbe  di  un'interpretazione  adeguatrice
dell'art.  33-quinquies  c.p.p.  poiche'  il  senso   conforme   alla
Costituzione non verrebbe trovato internamente alla disposizione,  ma
solo attingendo ad un salvacondotto processuale esterno, quale quello
previsto dall'art. 175 c.p.p., rimedio casistico la cui  operativita'
generalizzata porterebbe pur sempre a disapplicare la parte di  norma
che prevede la decadenza. 
    Allo stesso  modo,  l'illegittimita'  della  norma  non  potrebbe
evitarsi ricorrendo ad un'interpretazione restrittiva, reputando  che
la  sanzione  della  decadenza  operi  nelle  sole  ipotesi  in   cui
l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale  monocratico
e collegiale sia gia' percepibile nel corso dell'udienza  preliminare
e che sia consentita l'eccezione (o la rilevazione) del  vizio  entro
il termine di cui all'art. 491 c.p.p. negli altri casi:  la  dinamica
della Case disciplinata dagli articoli 416 e ss. c.p.p.  fa  si'  che
un'eventuale violazione delle regole previste dagli articoli  33-bis,
33-ter e 33-quater c.p.p. puo' aversi solo con l'atto che la  chiude,
ovvero  con  l'emissione  del  decreto  che  dispone   il   giudizio,
risultando eventuali doglianze anticipate del tutto ipotetiche. 
    Non e' poi percorribile la strada  di  un'applicazione  analogica
delle regole previste dall'art. 516,  commi  1-bis  e  1-ter  c.p.p.,
posto che la norma disciplina una situazione processuale diversa, che
anzi   avvalora   i   sospetti   di   incostituzionalita'   dell'art.
33-quinquies c.p.p. 
    L'art. 516 c.p.p. prevede che: 
        «1. Se nel  corso  dell'istruzione  dibattimentale  il  fatto
risulta diverso da come e'  descritto  nel  decreto  che  dispone  il
giudizio, e non appartiene alla competenza di un  giudice  superiore,
il pubblico ministero modifica l'imputazione e procede alla  relativa
contestazione. 
        1-bis.  Se  a  seguito  della  modifica  il   reato   risulta
attribuito alla cognizione del tribunale in  composizione  collegiale
anziche'  monocratica,  l'inosservanza   delle   disposizioni   sulla
composizione del giudice e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza,
immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei casi  indicati
dagli articoli 519, comma 2 e 520, comma 2, prima del  compimento  di
ogni altro atto nella nuova udienza  fissata  a  norma  dei  medesimi
articoli. 
        1-ter. Se a seguito della modifica risulta un  reato  per  il
quale e' prevista l'udienza preliminare, e questa non si  e'  tenuta,
l'inosservanza delle relative disposizioni e'  eccepita,  a  pena  di
decadenza, entro il termine indicato dal comma 1-bis.». 
    La disposizione consente alle parti e al giudice  di  eccepire  o
rilevare l'appartenenza del reato alla cognizione  del  tribunale  in
composizione  monocratica  o  collegiale  subito  dopo  la   modifica
dell'imputazione da parte del P.M., e introduce un  rimedio  coerente
con  il  momento  in  cui  il  vizio  si  manifesta,  trattandosi  di
un'inosservanza non originaria  bensi'  sopravvenuta  a  seguito  del
mutamento della contestazione. 
    Dalla formulazione della norma si  trae  conferma  del  principio
secondo cui  alle  parti  e  al  giudice  deve  essere  garantita  la
possibilita' di eccepire o rilevare il vizio  procedurale  nel  primo
termine utile successivo alla sua emersione, potendosi  solo  in  tal
caso concepire una decadenza. 
    La  regola,  tuttavia,   non   puo'   estendersi   analogicamente
all'interpretazione dell'art. 33-quinquies c.p.p. che disciplina  una
ipotesi diversa, in cui l'inosservanza del  riparto  di  attribuzioni
tra giudice collegiale e monocratico non dipende da una  sopravvenuta
modifica dell'imputazione nel corso del giudizio,  ma  e'  frutto  di
un'erronea individuazione originaria da  parte  del  G.U.P.,  la  cui
eccezione o rilevazione per la prima volta  innanzi  al  giudice  del
dibattimento  costituirebbe  un  aggiramento  della   decadenza   ivi
previsto. 
    Allo  stesso  modo,   l'evoluzione   normativa   dell'ordinamento
giudiziario,  e  il  conseguente  passaggio  da  una   divisione   di
competenze per materia tra tribunale  e  pretore  ad  un  riparto  di
attribuzioni tra composizione monocratica e collegiale, non  consente
un'interpretazione analogica che si  tradurrebbe  in  un  ritorno  al
passato. 
    Il  sistema  previgente  appariva  maggiormente  coerente  con  i
principi  costituzionali  che  l'art.  33-quinquies   c.p.p.   sembra
disattendere, poiche' la  cognizione  del  pretore  era  disciplinata
dall'art. 7 c.p.p. sotto forma di competenza per materia, e  pertanto
assoggettata al regime di rilevabilita' o eccepibilita' di  cui  agli
articoli 21 - 23 c.p.p.. 
    Dal combinato disposto  delle  due  disposizioni  si  ricava  che
l'incompetenza per materia puo' essere rilevata, anche d'ufficio,  in
ogni stato e grado del processo (art. 21, comma 1 c.p.p.);  tuttavia,
se il reato apparteneva alla cognizione di un giudice  di  competenza
inferiore, l'incompetenza deve essere rilevata o eccepita, a pena  di
decadenza, entro il termine di cui all'art. 491, comma 1 c.p.p. (art.
23, comma 2 c.p.p.). 
    Tale  assetto  attua  un  adeguato  bilanciamento  tra   garanzie
difensive e procedurali ed esigenze  di  speditezza,  consentendo  la
rilevazione del vizio per difetto in ogni stato e grado del  processo
e l'eccezione (o rilevazione) del vizio per eccesso entro il  termine
di cui all'art. 491, comma 1 c.p.p.; termine, si badi bene,  previsto
indifferentemente sia per i procedimenti che transitano per l'udienza
preliminare che per quelli che ne prescindono. 
    Un siffatto regime di rilevabilita' (ed eccepibilita')  non  puo'
estendersi alle ipotesi contemplate  dall'art.  33-quinquies  c.p.p.,
adeguando la norma ai precetti costituzionali,  poiche'  l'operazione
analogica   sarebbe   finirebbe    con    l'equiparare    fattispecie
ontologicamente diverse, disattendendo un'esplicita  voluntas  legis:
la    giurisprudenza    di    legittimita'    esclude     apertamente
l'assimilabilita'  tra   riparto   di   competenze   e   riparto   di
attribuzioni, considerando quest'ultimo un «mero criterio interno  di
assegnazione  dei  procedimenti   tra   tribunale   in   composizione
monocratica e  collegiale»  (cfr.,  in  motivazione,  Cass.,  SS.UU.,
sentenza n. 48590/2019 (6)  );  e  il  legislatore,  da  un  lato  ha
espressamente negato che il vizio di attribuzione rientri tra  quelli
concernenti la capacita' del  giudice  (art.  33,  comma  3  c.p.p.),
dall'altro ha inserito l'art. 33-quinquies c.p.p. nell'autonomo  Capo
VI bis del Libro I, titolo I, scegliendo una collocazione sistematica
indicativa della volonta' di non trattare l'inosservanza del  riparto
di attribuzioni alla stregua di una divisione di competenze. 
    Del resto, anche la giurisprudenza costituzionale  ha  affermato,
con orientamento costante, che i criteri di attribuzione interna  dei
procedimenti non incidono sul principio del giudice naturale (cfr. C.
cost. sentenza n. 419/1998). 
    Infine, non puo' ignorarsi la  scelta  espressa  dal  legislatore
che, nel formulare l'art. 33-quinquies c.p.p., ha chiaramente  deciso
di ricalcare il regime di rilevabilita' previsto  per  l'incompetenza
per territorio o per connessione (art. 21, commi 2 e 3 c.p.p.) e  non
quello  dell'incompetenza  per  materia,  pur   avendone   l'evidente
possibilita',    e    questo    conferma    l'insostenibilita'     di
un'interpretazione analogica che soverchi la volonta' legislativa. 
V. Il quesito rivolto alla Corte costituzionale. 
    Le motivazioni sin qui esposte portano il Collegio  rimettente  a
dubitare  concretamente  della  legittimita'  dell'art.  33-quinquies
c.p.p., e a chiedere che la Corte adita ne valuti  la  compatibilita'
con i principi costituzionali richiamati. 
    Laddove  la  Consulta  ritenga  di  condividere  le  perplessita'
espresse, stigmatizzando i  plurimi  profili  di  contrasto  con  gli
articoli 3, 24, 101 comma  2,  111  comma  2 -  117  comma  1  Cost.,
quest'ultimo in  relazione  all'art.  6  paragrafo  3  CEDU,  con  la
declaratoria di parziale incostituzionalita' della norma,  si  chiede
che dichiari l'illegittimita'  dell'art.  33-quinquies  c.p.p.  nella
parte in cui prevede che «l'inosservanza delle disposizioni  relative
all'attribuzione  dei  reati  alla  cognizione   del   tribunale   in
composizione  collegiale   o   monocratica   e   delle   disposizioni
processuali collegate e' rilevata o eccepita, a  pena  di  decadenza,
prima della conclusione dell'udienza preliminare», consentendo  cosi'
alle parti di eccepire il vizio, e al  giudice  del  dibattimento  di
rilevarlo d'ufficio, entro il primo termine utile successivo  al  suo
manifestarsi, ovvero nella fase di cui all'art. 491 c.p.p., anche nei
procedimenti che passano attraverso l'udienza preliminare. 
    Si chiede, al tempo stesso o in subordine, che la Corte  dichiari
la parziale  illegittimita'  dell'art.  33-quinquies  c.p.p.,  ultima
parte («Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione
respinta nell'udienza  preliminare»),  laddove  consente  l'eccezione
relativa all'inosservanza delle  disposizioni  sull'attribuzione  dei
reati in al tribunale in composizione collegiale  o  monocratica  nel
piu'  ampio  termine  di   cui   all'art.   491   c.p.p.,   solo   se
originariamente proposta nell'udienza preliminare. 
    L'intervento  della  Corte  costituzionale   si   sollecita,   in
particolare, sull'irragionevole decadenza posta dalla norma censurata
a carico delle parti e del giudice, che puo' essere rimossa  solo  da
una  pronuncia  di  incostituzionalita'  che  elimini   la   sanzione
processuale anticipata all'udienza preliminare, parificando il regime
di eccepibilita' e rilevabilita'  dell'inosservanza  del  riparto  di
attribuzioni tracciato dagli  articoli  33-bis,  33-ter  e  33-quater
c.p.p. entro l'unico termine plausibile di cui all'art.  491  c.p.p.,
previsto dall'attuale formulazione dell'art. 33-quinquies c.p.p.  per
i soli giudizi in cui manchi l'udienza preliminare, con  irreparabile
pregiudizio per quelli in cui venga celebrata. 

(1) Nel corso dell'udienza preliminare (celebratasi in data 29  marzo
    2019) sono state sollevate e decise dal G.U.P., con ordinanza del
    27 giugno  2019,  solo  le  seguenti  questioni:  L'eccezione  di
    incompetenza territoriale sollevata dall'avv.  Stefano  Lucci  in
    difesa  di  L.  M.,  relativa  al  Capo  QQQ);   L'eccezione   di
    incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Antonio Perlini  in
    difesa  di  R.  P.,  relativa  al  Capo   BB);   L'eccezione   di
    incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Santolo  La  Pietra
    in difesa di L. P.  J.,  relativa  al  Capo  M);  L'eccezione  di
    nullita' della richiesta di rinvio  a  giudizio  per  genericita'
    delle  imputazioni  di  cui   ai   Capi   ZZ),   AAA)   e   HHH),
    rispettivamente ascritti a A. U. e  C.  M.,  sollevata  dall'Avv.
    Teresa  Moreno;  la  doglianza  di  omessa  notifica  dell'avviso
    conclusioni indagini preliminari ex art. 415-bis  del  codice  di
    procedura penale, eccepita dall'Avv. Alfonso Abagnale  in  difesa
    di A. G.;  L'eccezione  di  incompetenza  territoriale  sollevata
    dall'avv. Carmine Iovino in difesa di C.  F.,  relativa  al  Capo
    GGG); La doglianza di  omessa  notifica  dell'avviso  conclusioni
    indagini preliminari ex art.  415-bis  del  codice  di  procedura
    penale, eccepita dall'avv. Carmine Iovino in difesa di R. G.;  La
    doglianza  di   omessa   notifica   dell'avviso   di   fissazione
    dell'udienza preliminare, eccepita dall'avv.  Carmine  Iovino  in
    difesa di D. L., R. G.  e  F.  V.;  L'eccezione  di  incompetenza
    territoriale  sollevate   dall'avv.   Giovanni   Napolitano,   in
    relazione ai reati ascritti a D. C.,  V.  A.,  A.  A.  e  A.  G.;
    L'eccezione di nullita' della richiesta di rinvio a giudizio  per
    genericita' dell'imputazione di cui al Capo Q), ascritto a D. A.,
    sollevata dall'avv. Giovanni  Palumbo;  L'eccezione  di  nullita'
    della richiesta di rinvio a giudizio  per  genericita'  dei  capi
    d'imputazione ascritti a  B.  A.o,  sollevata  dall'avv.  Gaetano
    Rosanova 

(2) Si riporta il testo dell'art. 33-quater del codice  di  procedura
    penale: se alcuni dei  procedimenti  connessi  appartengono  alla
    cognizione del tribunale in composizione collegiale  ed  altri  a
    quella del tribunale in composizione monocratica, si applicano le
    disposizioni  relative  al  procedimento   davanti   al   giudice
    collegiale,  al  quale  sono  attribuiti  tutti  i   procedimenti
    connessi. 

(3) Non a caso, l'art. 9,  decreto  legislativo  n.  74/2000  esclude
    espressamente il concorso tra l'emittente della falsa  fattura  e
    il soggetto che se ne avvale nella dichiarazione fiscale. 

(4) L'art. 7 del codice penale, abrogato dal decreto  legislativo  n.
    51/1998, individuava la competenza pretorile  sulla  base  di  un
    duplice criterio, quantitativo e qualitativo, stabilendo che:  1.
    Il pretore e' competente  per  i  reati  per  i  quali  la  legge
    stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro
    anni ovvero una pena pecuniaria sola o  congiunta  alla  predetta
    pena detentiva;  2.  Il  pretore  e'  inoltre  competente  per  i
    seguenti reati: a) violenza o minaccia a  un  pubblico  ufficiale
    prevista dall'art. 336, comma 1 del codice penale; b)  resistenza
    a un pubblico ufficiale prevista dall'art. 337 del codice penale;
    c) oltraggio  a  un  magistrato  in  udienza  aggravato  a  norma
    dell'art. 343, comma  2  del  codice  penale;  d)  violazione  di
    sigilli aggravata a norma  dell'art.  349,  comma  2  del  codice
    penale; e)  favoreggiamento  reale  previsto  dall'art.  379  del
    codice penale; f) maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli,
    quando non ricorre l'aggravante prevista dall'art. 572,  comma  2
    del codice penale; g) rissa  aggravata  a  norma  dell'art.  588,
    comma 2 del codice penale, con esclusione delle  ipotesi  in  cui
    nella rissa l'alzino sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni
    gravi o gravissime; h) omicidio colposo  previsto  dall'art.  589
    del codice penale; i) violazione di domicilio aggravata  a  norma
    dell'art. 614, comma 4 del codice penale; l)  furto  aggravato  a
    norma dell'art. 625 del codice  penale;  m)  truffa  aggravata  a
    norma dell'art. 640 ,comma 2 del codice penale;  n)  ricettazione
    prevista dall'art. 648 del codice penale. 

(5) Cfr., tra le varie, Cass. pen., Sez. 2, sentenza  n.  11649/2019:
    «L'inosservanza delle disposizioni  sull'attribuzione  dei  reati
    alla cognizione del tribunale in composizione collegiale comporta
    la nullita' sia della sentenza di primo grado emessa dal  Giudice
    monocratico che,  ritenuta  la  sussistenza  di  una  circostanza
    aggravante in fatto contestata, abbia deciso  in  merito  ad  una
    fattispecie non piu'  attribuita  alla  sua  cognizione  anziche'
    procedere alla trasmissione degli atti all'organo collegiale, sia
    della sentenza di secondo grado con la quale sia stata  disattesa
    la  relativa  eccezione  di  nullita'   proposta   in   sede   di
    impugnazione della sentenza monocratica». 

(6) Corte di cassazione, Sezioni Unite  penali,  sentenza  18  aprile
    2019 n.  48590:  «La  nozione  di  riparto  di  attribuzione  e',
    pertanto,  un  concetto  che  solo  in   via   descrittiva   puo'
    assimilarsi alla nozione di competenza, atteso  che  quest'ultima
    contraddistingue esclusivamente i rapporti tra uffici  giudiziari
    diversi e non all'interno del medesimo ufficio  (vedi,  Sez.  un.
    civ., n. 1374 del 10 febbraio  1994,  Rv.  485275).  L'ontologica
    differenza  fra  competenza  ed  attribuzione  trova  del   resto
    conferma nel disposto dell'art. 33, comma 3, c.p.p., che  esclude
    espressamente il vizio di attribuzione tra quelli concernenti  la
    capacita' del giudice,  nonche'  nella  collocazione  sistematica
    degli articoli 33-bis e seg. c.p.p., inseriti  in  Capi  separati
    (VI e VI bis)  e  non  all'interno  di  quello  disciplinante  il
    riparto di competenza (Capo II). La  disciplina  del  riparto  di
    attribuzione e' dunque un mero criterio interno  di  assegnazione
    dei procedimenti tra  tribunale  in  composizione  monocratica  e
    collegiale, basato sul dichiarato principio per cui dove sussiste
    la connessione tra piu' procedimenti, alcuni  dei  quali  rimessi
    alla cognizione del tribunale collegiale, a  quest'ultimo  organo
    spetta la cognizione dell'intero  procedimento,  sul  presupposto
    della necessaria attrazione delle imputazioni meno gravi a quelle
    piu' gravi.». 
 
                                P.Q.M. 
 
    Visti gli articoli 134 e 137  Cost.,  1  legge  costituzionale  9
febbraio 1948, n. 1, 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara d'ufficio rilevante  nel  presente  procedimento  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale nella parte  in
cui prevede che l'inosservanza delle disposizioni sulla  composizione
collegiale  o  monocratica  del  tribunale  deve  essere  rilevata  o
eccepita, a pena di decadenza, prima della  conclusione  dell'udienza
preliminare, consentendo solo in tal  caso  la  riproposizione  della
questione entro il termine di cui all'art. 491 c.p.p., per  contrasto
con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1 Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU; 
    Sospende il  giudizio  nei  confronti  di  R.  G.  ,  chiamata  a
rispondere del Capo CC), R. M., chiamata a rispondere del  Capo  VV),
T. R., chiamato a  rispondere  del  Capo  NNN),  A.  U.,  chiamato  a
rispondere dei Capi ZZ) e AAA), C. M., chiamato a rispondere del Capo
HHH), S. S., chiamato a rispondere del Capo CCC), D. D.,  chiamato  a
rispondere del Capo FF), C. L., chiamata a rispondere del Capo  PPP),
P. A., chiamato a rispondere del Capo DD), C. G. e C. A., chiamati  a
rispondere in concorso ex art. 110 c.p., dei Capi HH) e II),  A.  G.,
chiamato a rispondere del Capo  EE),  D.  C.  e  C.  R.,  chiamati  a
rispondere dei reati a loro ascritti in concorso al Capo AAAA),  sino
al termine del giudizio di legittimita' costituzionale. 
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata,  a  cura  della
cancelleria,  alle  parti  in  causa  non  presenti  in  udienza,  al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  nonche'   comunicato   al
presidente del Senato e al presidente della Camera dei deputati. 
    Ordina l'immediata trasmissione alla Corte  costituzionale  della
presente ordinanza e degli atti del fascicolo  processuale,  compresa
la prova del regolare  adempimento  delle  predette  notificazioni  e
comunicazioni. 
    Da' atto che la presente ordinanza e' stata letta  in  udienza  e
che, pertanto, deve intendersi notificata a coloro che  sono,  o  che
devono reputarsi, presenti, cosi' come previsto dall'art. 148,  comma
5 c.p.p.. 
        Nocera Inferiore, 18 maggio 2022 
 
                       Il Presidente: Apicella 
 
 
                                        I Giudici: Palumbo - Noschese