N. 157 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 maggio 2022
Ordinanza del 18 maggio 2022 del Tribunale di Nocera Inferiore nel procedimento penale a carico di G.R. ed altri. Processo penale - Provvedimenti sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale - Inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale - Previsione che l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1, cod. proc. pen. - Previsione che entro tale ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione respinta nell'udienza preliminare. - Codice di procedura penale, art. 33-quinquies.(GU n.2 del 11-1-2023 )
IL TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE Sezione penale Il Tribunale di Nocera Inferiore, in composizione collegiale, nelle persone dei giudici del Iª Collegio della Sezione Penale: dott.ssa Cinzia Apicella, Presidente; dott. Giuseppe Palumbo, giudice; dott. Federico Noschese, giudice; all'udienza del 18 maggio 2022, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di D.D. +53, in riferimento alle posizioni dei seguenti imputati ed imputazioni, che si riportano integralmente: R.G., nata a... il... e residente a... alla via... - difesa di fiducia dagli avvocati Maria Rosaria Crispo e Generoso Bloise, chiamata a rispondere del Capo CC; CAPO CC) del delitto p. e p. dall'art. 81 cpv. del codice penale e dall'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 perche', con piu' azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, in qualita' di rappresentante legale della «...», avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti indicava nelle dichiarazioni relative all'anno d'imposta... e... i seguenti elementi passivi fittizi ed in particolare: Anno...; fatture emesse dalla societa'... per un totale di euro 398.029,16; Anno...; fatture emesse dalla societa'... per un totale di euro 56.013,13; fatture emesse dalla ditta... per un totale di euro 1.007.694,56; per un totale di euro 1.461.736,85. In... dal... al... Parte di provvedimento in formato grafico per i quali si e' disposta la separazione del processo ai sensi dell'art. 18 lettera b) del codice di procedura penale, al fine di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 33-quinquies del del codice di procedura penale nella parte in cui prevede che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare, consentendo solo in tal caso la riproposizione della questione entro il termine di cui all'art. 491 del codice di procedura penale, per contrasto con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU;. Parte di provvedimento in formato grafico Il Collegio, dopo aver acquisito in visione i verbali dell'udienza preliminare tenutasi in data 1° marzo 2019, 29 marzo 2019, 10 maggio 2019, 24 maggio 2019, 27 giugno 2019, ha verificato che la questione non era stata mai sollevata dai difensori in tale fase procedimentale, (1) e ha constatato pertanto l'astratta decadenza dall'eccezione (e dalla rilevazione d'ufficio) ai sensi dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale La dichiarazione concreta di inammissibilita' della doglianza e' tuttavia oggi preclusa dal rilievo ex officio dell'incostituzionalita' della norma citata, per plausibile contrasto con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU, nella parte in cui, prevedendo un'esplicita decadenza dall'eccezione qualora non sollevata o rilevata nel corso dell'udienza preliminare, non consente alle parti e al giudice di eccepire o rilevare l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra il tribunale in composizione monocratica e collegiale nelle ipotesi, analoghe al caso di specie, in cui il vizio si sia palesato con il decreto che dispone il giudizio, e dunque dopo la conclusione dell'udienza preliminare. II. La rilevanza della questione. La questione prospettata ha sicura rilevanza nel giudizio a quo non potendo essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione, cosi' come previsto dall'art. 23, comma 2, legge n. 87/1953 e dall'elaborazione giurisprudenziale del requisito. La rilevanza, secondo lo statuto pretorio forgiato dalla Corte Costituzionale, esprime «un effettivo e concreto rapporto di strumentalita' fra la risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e la definizione del giudizio principale» (Corte costituzionale ordinanza n. 282/1998), un nesso di pregiudizialita' tale che il processo a quo non possa avanzare senza il superamento dell'incidente di costituzionalita' (Corte costituzionale sentenza n. 180/2018: la pregiudizialita' implica che «la relativa questione si ponga come antecedente logico di altra questione che il giudice rimettente deve decidere»; e «cio' comporta che il giudice non puo' definire l'attivita' processuale fin quando la Corte non abbia deciso la questione pregiudicante»). Da tale nesso derivano due implicazioni: da un lato, che la questione abbia ad oggetto norme che il rimettente e' chiamato ad applicare (Corte costituzionale sentenza n. 343/1993; sentenza n. 10/1979); dall'altro, che un'eventuale sentenza di accoglimento sia in grado di spiegare un'influenza sul processo principale, provocando un cambiamento nel quadro normativo divisato dal giudice a quo (Corte costituzionale sentenza n. 92/2013). In senso piu' ampio, «la rilevanza, presupponendo, ai sensi dell'art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, un rapporto di strumentalita' necessaria tra la risoluzione della questione e la decisione del giudizio principale, deve ritenersi sussistente quando la norma della cui legittimita' costituzionale il giudice dubiti debba essere applicata nel giudizio a quo per decidere il merito della controversia o una questione processuale o pregiudiziale, oppure quando la decisione della Corte costituzionale comunque influisca sul percorso argomentativo che il rimettente deve seguire per rendere la decisione» (Corte costituzionale sentenza n. 250/2021). Lo scrutinio di rilevanza si articola pertanto in un duplice accertamento da parte del giudice rimettente, tenuto a sincerarsi dell'applicabilita' della norma sospetta di illegittimita' nel giudizio a quo e degli effetti sulle sorti dello stesso di un possibile accoglimento della questione (Corte costituzionale sentenza n. 91/2013: «Il nesso di pregiudizialita' tra il giudizio principale e il giudizio costituzionale implica che la norma censurata debba necessariamente essere applicata nel primo e che l'eventuale illegittimita' della stessa incida sul procedimento principale»). Entrambe le verifiche, rapportate al caso di specie, danno esito positivo. All'udienza del 1° dicembre 2021, l'avv. Generoso Bloise, in difesa di R. G., ha eccepito la violazione dell'art. 33-quater del codice di procedura penale, sostenendo l'appartenenza dei reati contestati alla sua assistita alla cognizione del tribunale in composizione monocratica e paventando l'insussistenza di ragioni di connessione con le fattispecie di competenza collegiale. Nello specifico, al Capo CC) dell'editto accusatorio il P.M. ha ascritto a R. G. plurimi reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ex art. 2, decreto legislativo n. 74/2000, in continuazione tra loro ex art. 81, comma 2 del codice penale, e commessi in ... dal... al... L'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000, nella formulazione vigente all'epoca dei fatti, anteriori all'emanazione del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni, nella legge 19 dicembre 2019, n. 157, prevedeva che: «1. E' punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.» Sul versante procedurale, la fattispecie (anche nella sua attuale struttura) appartiene alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, in forza del criterio residuale di cui al comma secondo dell'art. 33-bis del codice di procedura penale, trattandosi di reato punito con la reclusione non superiore a dieci anni nel massimo. L'esercizio dell'azione penale postula il passaggio attraverso l'udienza preliminare, e onera il P.M. di procedere nelle forme di cui all'art. 416 del codice di procedura penale, non essendo possibile, per limiti edittali, la citazione diretta a giudizio ai sensi dell'art. 550 del codice di procedura penale Nel caso di specie, il P.M. ha correttamente esercitato l'azione penale con richiesta di rinvio a giudizio, depositata in data 10 gennaio 2019, per i reati di cui all'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 contestati a R. G. e, all'esito dell'udienza preliminare, il G.U.P. ha emesso decreto ex art. 429 del codice di procedura penale, rinviando tuttavia l'imputata innanzi al Tribunale di Nocera Inferiore in composizione collegiale e non monocratica. La disposizione del G.U.P. e' stata condizionata dall'unitarieta' della richiesta di rinvio a giudizio, riferita a plurimi imputati ed imputazioni, di cui una di cognizione del collegio, che ha attratto per connessione le attribuzioni monocratiche ai sensi dell'art. 33-quater del codice di procedura penale (2) In particolare, a determinare la composizione collegiale dell'organo giudicante e' stata la contestazione di cui al Capo A), relativa al delitto di cui all'art. 416 del codice penale che, secondo quanto immaginato dal P.M. e dal G.U.P., avrebbe catalizzato per connessione tutte le altre imputazioni, aventi ad oggetto reati di cognizione monocratica (fattispecie ex articoli 640-bis del codice penale, 2 e 8 decreto legislativo n. 74/2000). La difesa di R. G., non condividendo la prospettazione del P.M. e del G.U.P., ha eccepito la violazione dell'art. 33-quater del codice di procedura penale, sostenendo che i fatti ascritti all'imputata, chiamata a rispondere del Capo CC) non presenterebbero alcuna connessione con la fattispecie associativa, costituendo autonome violazioni dell'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 da far giudicare al Tribunale in composizione monocratica. Pertanto, ha chiesto emettersi ordinanza ex art. 33-septies del codice di procedura penale con trasmissione degli atti al giudice competente a decidere sui reati contestati. Alla medesima eccezione si sono associati i seguenti difensori per i rispettivi assistiti, esprimendo le stesse doglianze (con trascrizione integrale, in epigrafe, delle imputazioni elevate a carico di ciascun coimputato, nel rispetto del principio di c.d. «autosufficienza» dell'ordinanza di rimessione; cfr., tra le tante, Corte costituzionale ordinanze nn. 136/2021, n. 108/2020, 64/2019): l'avv. Provenza per R. M., chiamata a rispondere del Capo VV), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal...; l'avv. Ferrante per T. R., chiamato a rispondere del Capo NNN), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2 decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; l'avv. Moreno per A. U., chiamato a rispondere dei Capi ZZ:) e AAA), relativi ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, rispettivamente commessi in... il... e...; l'avv. Moreno per C. M., chiamato a rispondere del Capo HHH), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; l'avv. Malecchi per S. S., chiamato a rispondere del Capo CCC), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il...; l'avv. Striano per D. D., chiamato a rispondere del Capo FF), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. n. 74/2000, commessi in... dal...; l'avv. Calvanico per C. L., chiamata a rispondere del Capo PPP), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... il... e...; l'avv. Crescenzo per P. A., chiamato a rispondere del Capo DD), relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal... al...; l'avv. Calabrese per C. G. e C. A., chiamati a rispondere in concorso ex art. 110 del codice penale, dei Capi HH) e II) relativi ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, rispettivamente commessi in... il... e dal...; l'avv. Calabrese per A. G., chiamato a rispondere del Capo EE) relativo ai reati di cui agli articoli 81 cpv. del codice penale - 2, decreto legislativo n. 74/2000, commessi in... dal... al... L'avv. Iovino, in difesa di D. C., e l'avv. Gallo, in difesa di C. R., hanno poi sollevato la medesima eccezione ma in ordine ai reati di cui all'art. 8, decreto legislativo n. 74/2000, ascritti in concorso ai lori assistiti al Capo AAAA) dell'editto accusatorio, e parimenti rientranti nelle attribuzioni del Tribunale in composizione monocratica ex articoli 33-bis comma 2 - 33-ter del codice di procedura penale L'art. 8 decreto legislativo n. 74/2000, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che: «1. E' punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 2. Ai fini dell'applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l'emissione o il rilascio di piu' fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato». Guardando al massimo edittale, la fattispecie apparteneva alla cognizione del Tribunale monocratico, (e vi appartiene tutt'ora, considerato che, come visto in ordine all'art. 2 decreto legislativo n. 74/2000, le modifiche apportate dal decreto-legge n. 124/2019, convertito dalla legge n. 157/2019, pur avendo determinato un inasprimento sanzionatorio, non hanno inciso sugli assetti procedurali) con esercizio dell'azione penale nelle forme di cui all'art. 416 del codice di procedura penale Analogamente a quanto avvenuto in merito alle imputazioni per i delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, il P.M. in data 10 gennaio 2019 ha presentato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di D. C. e C. R. nell'ambito dell'unico procedimento avente ad oggetto la fattispecie associativa, e il G.U.P. con decreto del 27 giugno 2019 ha disposto il giudizio innanzi al Tribunale in composizione collegiale anche per le contestazioni relative ai reati di cui all'art. 8, decreto legislativo n. 74/2000. I difensori di D. C. e C. R. hanno allora sostenuto che la disposizione del giudizio sia avvenuta in violazione del riparto di attribuzione degli affari tra Tribunale monocratico e collegiale, non ravvisando una connessione tra il delitto fondante la cognizione del collegio e quelli contestati ai loro assistiti, e hanno chiesto disporsi con ordinanza ex art. 33-septies del codice di procedura penale la trasmissione degli atti al giudice monocratico competente. Il Collegio, chiamato a decidere sulle eccezioni indicate, di analogo contenuto, ha dovuto interrogarsi preliminarmente della tempestivita' delle stesse, essendo state sollevate alla prima udienza dibattimentale utile, ovvero successivamente alla regolarizzazione della costituzione delle parti ex art. 484 del codice di procedura penale, e nel termine di cui all'art. 491 del codice di procedura penale. La questione non era stata invece eccepita nel corso dell'udienza preliminare celebratasi innanzi al G.U.P. di Nocera Inferiore, essendo emersa a seguito del rinvio a giudizio di tutti i coimputati innanzi al tribunale in composizione collegiale. In questa fase il Collegio rimettente si e' imbattuto nella disposizione sospetta di incostituzionalita', destinata a trovare necessaria applicazione per valutare la tempestivita', e dunque l'ammissibilita', delle eccezioni di inosservanza del riparto di attribuzioni monocratiche e collegiali. L'art. 33-quinquies del codice penale, introdotto dal decreto legislativo n. 51/1998, stabilisce che: «L'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reciti alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate e' rilevala o eccepita, o pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, ve questa manca, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1. Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione respinta nell'udienza preliminare». La norma pone un onere di eccezione o rilevazione dell'inosservanza del riparto di attribuzioni tra giudice monocratico e giudice collegiale distinguendo due possibili scenari: qualora il procedimento passi attraverso la celebrazione dell'udienza preliminare, la questione deve essere eccepita o rilevata prima della conclusione della stessa a pena di decadenza, e solo se sollevata e rigettata dal G.U.P. puo' essere riproposta innanzi al giudice del dibattimento; qualora il procedimento non prevede la fase dell'udienza preliminare, la questione puo' essere sollevata per la prima volta innanzi al giudice del dibattimento entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1 del codice penale. La possibilita' per le parti di eccepire l'inosservanza degli articoli 33-bis e ss. del codice penale innanzi al giudice del dibattimento (e per quest'ultimo di rilevarla d'ufficio) sussiste nei soli moduli processuali in cui manchi l'udienza preliminare (giudizio direttissimo, giudizio immediato, decreto di citazione diretta a giudizio), restando invece subordinata ad un onere di tempestiva eccezione (o rilevazione) nelle ipotesi in cui tale fase venga celebrata. Stando al tenore letterale della disposizione, le parti che non abbiano eccepito l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale in composizione monocratica e collegiale prima della conclusione dell'udienza preliminare decadono dall'eccezione, che non puo' essere sollevata per la prima volta innanzi al giudice del dibattimento, sebbene siano ancora nel termine di cui all'art. 491, comma 1 del codice penale. La regola varrebbe anche nelle ipotesi, pressoche' costanti e ove si annidano i dubbi di incostituzionalita' del Collegio rimettente, in cui le parti abbiano potuto accorgersi dell'attribuzione del procedimento ad un tribunale erroneamente composto solo successivamente alla conclusione dell'udienza preliminare, ovvero con la comunicazione del decreto ex art. 429 del codice penale. E' con tale atto infatti che il G.U.P. indica il «giudice competente per il giudizio» (art. 429, comma 1, lettera e) del codice penale), pertanto prima che lo stesso venga emesso e portato a conoscenza delle parti (mediante lettura o notificazione ex art. 429, comma 4 del codice penale), queste non possono sapere se vi sia stata un'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale. Cio' nonostante, giunti innanzi al giudice del dibattimento indicato dal G.U.P., le parti non potrebbero sollevare la questione perche', in base al disposto dell'art. 33-quinquies del codice penale, sarebbe comunque maturata la decadenza per non aver eccepito il vizio prima della conclusione dell'udienza preliminare, a prescindere dal fatto che in quella fase non si era ancora manifestato. Tale situazione ricorre nel presente procedimento: le difese di R. G., R. M., T. R., A. U., C. M., S. S., D. D., C. L., D. C., C. R., P. A., C. G., C. A. e A. G. non hanno eccepito la violazione dell'art. 33-quater del codice penale, e l'erronea attribuzione dei reati ascritti ai propri assistiti alla cognizione del Tribunale collegiale nel corso dell'udienza preliminare, avendo sollevato per la prima volta la questione innanzi al giudice del dibattimento ai sensi dell'art. 491, comma 1 del codice penale. Pertanto, vista l'espressa decadenza prevista dall'art. 33-quinquies del codice penale, al Collegio giudicante sarebbe preclusa la valutazione di merito delle questioni, dovendosi piuttosto dichiarare l'inammissibilita' per tardivita' delle eccezioni. Da qui l'evidente rilevanza dell'incidente di costituzionalita' che si solleva con la presente ordinanza, posto che dalla risoluzione dello stesso dipende concretamente la decisione in ordine alle questioni preliminari prospettate dalle parti: se infatti la Corte adita riterra' la decadenza prevista dall'art. 33-quinquies del codice penale illegittima, condividendo le perplessita' del Collegio rimettente, quest'ultimo potra' considerare tempestive le eccezioni sollevate nel termine di cui all'art. 491, comma 1 del codice penale e valutarne il merito, disponendo, nel caso in cui risultino fondate, la trasmissione al giudice monocratico competente; diversamente, qualora la Corte costituzionale non riterra' fondate le preoccupazioni dei giudici rimettenti, ribadendo la legittimita' dell'art. 33-quinquies del codice penale, la decisione sara' inevitabilmente di inammissibilita' delle eccezioni per tardivita', senza alcun esame di merito, e con prosecuzione del processo innanzi al tribunale collegiale. La prova di necessaria pregiudizialita' della questione di legittimita' costituzionale e' data dall'attuale stallo in cui si trova il giudizio a quo: in attesa della pronuncia della Corte, il Collegio non potrebbe avanzare con il procedimento relativo alle posizioni degli imputati che hanno eccepito l'inosservanza degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale se non dando applicazione alla norma sospetta di incostituzionalita' (e cosi' dichiarando la decadenza delle parti) o, viceversa, disapplicando arbitrariamente la stessa nonostante la sua vigenza ordinamentale (ritenendo cosi' le eccezioni tempestive e valutandone il merito). Risultano allora lampanti gli effetti di un eventuale accoglimento delle doglianze di incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies del codice penale per la prosecuzione del processo principale, dipendendo dalla soluzione della Consulta l'ammissibilita' tout court delle eccezioni preliminari e, conseguentemente, la loro delibazione nel merito da parte del Collegio giudicate. In quest'ottica, deve osservarsi come le denunciate violazioni del riparto cli attribuzioni, per insussistenza di effettive ragioni di connessione idonee a giustificare l'instaurazione di un simultaneus processus innanzi al tribunale collegiale (cosi' come previsto dall'art. 33-quater del codice penale) non appaiano manifestamente infondate, almeno in questa fase e salva una piu' approfondita valutazione che potra' essere abilitata solo dalla rimozione dell'ostacolo di inammissibilita' da parte della Corte adita. E' noto che l'art. 33-quater del codice penale, nel disciplinare l'attrazione della competenza innanzi al tribunale collegiale, rimanda alle ipotesi di connessione tra i procedimenti di cui all'art. 12 del codice penale. Nel caso di specie, per affermare la correttezza dell'attribuzione di tutte le contestazioni al tribunale in composizione collegiale, occorrera' riscontrare una connessione (ai sensi della lettera b) o della lettera c) dell'art. 12 del codice penale) tra il reato associativo, che fonda la competenza collegiale, e i reati riservati alla cognizione monocratica, con la fondamentale premessa che a nessuno degli imputati che hanno eccepito la violazione dell'art. 33-quater del codice penale e' contestata la partecipazione all'associazione criminosa, composta da D. D., B. A., S. A., A. S., C. O. e C. V. (indicati tutti come promotori ed organizzatori ai sensi dell'art. 416, comma 1 del codice penale). Guardando alla costruzione del Capo A), incriminante la fattispecie associativa, sicuramente puo' ravvisarsi una connessione con i delitti ex art. 640-bis del codice penale, sia in termini di continuazione (art. 12, lettera b) del codice penale) che nesso teleologico (art. 12, lettera c) del codice penale). Posto che, secondo la prospettazione accusatoria, l'associazione aveva come scopo la costituzione di una serie di ditte inesistenti, al fine di rappresentare all'INPS fittizi rapporti di lavoro per ottenere indebitamente prestazioni previdenziali, puo' ritenersi sia che esista un vincolo di continuazione tra il reato ex art. 416 del codice penale e le fattispecie ex art. 640-bis del codice penale (commesse in concorso con i singoli lavoratori falsamente assunti), come invocato dal P.M. che ha indicato l'art. 81 cpv del codice penale, sia una connessione teleologica tra le suddette imputazioni, considerando le truffe ai danni dello Stato come i delitti finalisticamente espressivi del programma delittuoso dell'associazione; e dunque, in altre parole, il reato associativo sarebbe stato organizzato e posto in essere proprio per commettere i successivi episodi di truffa, cosi' da avvincere i vari delitti in un nesso autenticamente funzionale. Decisamente piu' intricata e' la questione relativa ai reati tributari, dal momento che non tutte le contestazioni presentano, prima facie, un legame cosi' stretto con la fattispecie associativa. L'associazione a delinquere di cui al Capo A), stando al tenore dell'editto accusatorio, risultava finalizzata alla commissione di «una pluralita' di violazioni di natura tributaria consistenti nell'emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti»; e, sotto il profilo operativo, gli associati «al fine di dare una parvenza di reale esistenza e operativita' delle stesse ditte, emettevano ed utilizzavano fatture relative ad operazione commerciali inesistenti nei confronti delle medesime ditte da loro fittiziamente costituite e nei confronti di ditte realmente operanti». Rispetto a tale costruzione del capo d'imputazione relativo al delitto associativo, potrebbe immaginarsi una connessione qualificata con i reati di cui all'art. 8, decreto legislativo n. 74/2000, considerando l'emissione di fatture per operazioni inesistenti come attivita' finalizzata a vestire di apparente effettivita' le societa' fittiziamente create dal gruppo criminale, cosi' da simularne l'operativita' commerciale; si potrebbe ipotizzare, per i reati ex art. 8, decreto legislativo n. 74/2000, inerenti a fatture emesse da societa' direttamente o indirettamente riconducibili ai membri del sodalizio, un nesso ipotattico con il delitto di cui all'art. 416 del codice penale, reputandoli commessi al duplice e speculare scopo di occultare l'inesistenza delle ditte riconducibili all'associazione a delinquere e dunque l'esistenza della stessa. Da tale interpretazione deriverebbe l'individuazione di una connessione rilevante ex art. 33-quater del codice penale tra il delitto associativo, fondante l'attribuzione collegiale, e i reati ex art. 8, decreto legislativo n. 74/2000 di cognizione monocratica, che renderebbe infondata l'eccezione sollevata nell'interesse di D. C. e C. R. in ordine al Capo AAAA). Diverse potrebbero essere invece le considerazioni per le contestazioni aventi ad oggetto il reato di cui all'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000. La fattispecie incrimina un diverso segmento di condotta, relativo all'utilizzo delle false fatture nelle dichiarazioni fiscali dei coimputati allo scopo di rappresentare fittizie passivita' da porre in deduzione sul reddito imponibile o da cui maturare importi di I.V.A. a credito da portare in compensazione con quelli a debito. Nell'impostazione accusatoria al vaglio, puo' supporsi che gli utilizzatori, con la presentazione della dichiarazione fraudolenta non abbiano realizzato un reato strumentale a quello associativo che attrae la competenza collegiale, ma che abbiano posto in essere un'attivita' illecita a loro esclusivo vantaggio; considerazione avvalorata dall'irrilevanza dei reati di cui all'art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 per l'esistenza in vita e il funzionamento dell'ente criminoso, dal momento che i singoli imputati estranei al sodalizio avrebbero potuto scegliere di non utilizzare nelle rispettive dichiarazioni fiscali le false fatture senza recare alcun pregiudizio per l'associazione, agevolata sufficientemente dall'emissione di tale fittizia documentazione. (3) Sarebbe difficile anche immaginare una connessione teleologica in senso contrario, ovvero ritenere che l'associazione sia stata costituita al fine di consentire la presentazione di fraudolente dichiarazioni da parte di soggetti cui non ne erano partecipi, potendosi piuttosto ipotizzare che questi si siano limitati a trarre profitto dall'attivita' della societas sceleris (giovandosi della costruzione di un apparato fittizio di ditte disposte ad emettere in loro favore fatture false). Il nesso tra il reato ex art. 416 del codice penale e quelli ex art. 2, decreto legislativo n. 74/2000, guardati in quest'ordine, non sarebbe tuttavia ne' quello teleologico ne' quello ipotattico immaginato in merito alle fattispecie art. 8, decreto legislativo n. 74/2000 bensi' quello paratattico, legato al conseguimento del profitto, e tale legame non rientra nelle ipotesi di connessione di cui all'art. 12, lettera c) del codice penale, atteso che la norma non riproduce fedelmente tutte le ipotesi di cui all'art. 61 n. 2) del codice penale Tra la contestazione associativa e quelle ex art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 si potrebbe cogliere un collegamento solo probatorio ex art. 371 lettera b) del codice penale, inidoneo, come noto, a determinare uno spostamento della sia della competenza territoriale che del riparto di attribuzioni tra composizione collegiale e monocratica del tribunale. Una connessione qualificata ex art. 12, lettera c) del codice penale potrebbe immaginarsi con la vicina fattispecie di cui all'art. 8, decreto legislativo n. 74/2000, concependo l'emissione delle false fatture come finalizzata alla presentazione delle dichiarazioni fraudolente, ma il legame con l'associazione sarebbe comunque indiretto, e la «connessione della connessione» non potrebbe giustificare spostamenti di competenza o di attribuzione. Ugualmente arduo sarebbe ravvisare una ragione di connessione per continuazione, posto che il richiamo del P.M. all'art. 81 cpv. del codice penale nei capi d'imputazione per i quali e' stata eccepita la questione, appare un riferimento ad un vincolo interno omogeneo tra piu' episodi ex art. 2, decreto legislativo n. 74/2000 e non con il delitto associativo; ed inoltre, il criterio di connessione ex art. 12, lettera b) del codice penale non potrebbe operare tra reati commessi da soggetti diversi. Ne consegue che un eventuale esito di accoglimento dell'incidente di costituzionalita', rimuovendo la decadenza di cui all'art. 33-quinquies del codice penale, ormai maturata sia per le parti che per i giudici del dibattimento (cui e' parimenti preclusa la rilevazione ex officio, visto il tenore letterale della norma), restituirebbe a questi ultimi un sindacato di merito sulle dedotte questioni dell'inosservanza delle disposizioni di cui agli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale; questioni che, per le motivazioni esposte, non appaiono manifestamente infondate e che, laddove accolte, in tutto o in parte, porterebbero il Collegio rimettente a disporre la separazione del processo nei confronti degli imputati chiamati a rispondere dei reati non connessi a quello associativo, con conseguente trasmissione degli atti al giudice monocratico ai sensi dell'art. 33-septies del codice penale. Una tale pronuncia e' allo stato preclusa al Tribunale dalla vigenza della disposizione tacciata di incostituzionalita', e questo palesa l'attualita' della questione rispetto al momento in cui viene sollevata, a conferma della rilevanza della stessa. Il processo a quo versa nella fase delle questioni preliminari ex art. 491 del codice penale, e la riserva assunta dal Collegio, in ordine alle proposte eccezioni di inosservanza degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale, non puo' essere sciolta poiche' l'emissione dell'ordinanza decisoria passa inevitabilmente attraverso l'applicazione della norma della cui legittimita' costituzionale si dubita. Cio' rende l'incidente di costituzionalita' quanto mai attuale, non ipotetico o prematuro - non ricorrendo le ipotesi piu' volte stigmatizzate dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «la questione incidentale e' inammissibile, in quanto ipotetica o prematura, se l'applicazione della norma censurata e' solo eventuale e successiva» (cfr. Corte costituzionale sentenze nn. 139/2020, 217/2019) - ne' tardivo rispetto all'ormai avvenuta applicazione della norma tacciata di illegittimita' (Corte costituzionale ordinanza n. 104/1997). La questione viene infatti sollevata d'ufficio nel momento in cui il Tribunale e' chiamato ad emettere un provvedimento decisorio il cui esito di ammissibilita' o inammissibilita' dell'eccezione formulata dalle parti dipende pregiudizialmente dalla risoluzione del quesito portato all'attenzione della Corte costituzionale. La rilevanza della questione non puo' essere esclusa dalla semplicistica considerazione delle maggiori garanzie offerte dalla cognizione collegiale in luogo di quella monocratica, cosicche' nessun concreto pregiudizio deriverebbe per gli imputati dall'erronea celebrazione del giudizio innanzi al tribunale collegiale per un reato di competenza del tribunale monocratico. La deduzione, volta a sostenere una carenza di interesse ad eccepire l'inosservanza per eccesso delle regole di cui agli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice penale, e' palesemente smentita dal tenore letterale dell'art. 33-quinquies del codice penale che consente l'eccezione (o la rilevazione d'ufficio) del vizio senza alcuna distinzione. Escludere che le parti possano dolersi dell'erronea instaurazione del giudizio innanzi al tribunale collegiale per reati attribuiti alla cognizione del tribunale monocratico significherebbe ignorare la volonta' del legislatore che ha riconosciuto l'operativita' dell'eccezione sia per difetto che per eccesso. E la voluntas legis e' chiara anche dalla lettura dell'art. 33-septies del codice penale che prevede la possibile trasmissione degli atti da una composizione all'altra del tribunale senza limitazioni di direzione. Del resto, se si negasse alle parti la facolta' di eccepire innanzi al tribunale collegiale l'appartenenza del reato contestato alle attribuzioni monocratiche, per coerenza ordinamentale, dovrebbe parimenti escludersi la possibilita' per il collegio di disporre d'ufficio la trasmissione degli atti al giudice monocratico nelle ipotesi in cui il reato portato alla sua cognizione sia di competenza di quest'ultimo. Inoltre, deve considerarsi come le parti possano avere un interesse concreto e giuridicamente apprezzabile a far rispettare la competenza del tribunale monocratico in luogo di quello collegiale: non appare strumentale la richiesta dell'imputato a che la propria posizione sia definita con un rito piu' celere, evitando, come nel caso di specie, di trovarsi coinvolto in un dibattimento lungo e complesso - spesso destinato a durare anni, con conseguente ritardo nella decisione della vicenda a proprio carico e maggiorazione delle spese processuali e di assistenza legale - quando sia chiamato a rispondere di un unico o di singoli reati di competenza del tribunale monocratico che non presentano evidenti ragioni di connessione con quelli di attribuzione collegiale. Allo stesso modo, nell'ottica dell'organo giudicante, l'automatica devoluzione al collegio di plurime fattispecie di attribuzione monocratica che non presentano chiare ragioni di connessione, produrrebbe un effetto antieconomico per il processo principale, appesantendo di gran lunga gli adempimenti e l'istruttoria, con conseguente dilatazione dei tempi di durata del giudizio e incremento del rischio di prescrizione dei reati contestati. III. La non manifesta infondatezza. La questione sollevata d'ufficio non appare al Collegio rimettente manifestamente infondata, nutrendosi seri dubbi di compatibilita' della disposizione di cui all'art. 33-quinquies del codice penale, nella sua attuale formulazione, con i principi costituzionali di seguito esposti. Preliminarmente, si reputa necessaria una premessa di carattere storico-sistematico, utile a comprendere i motivi della sopravvenuta irrazionalita' della norma censurata. L'art. 33-quinquies e' stato introdotto nel codice di procedura penale, unitamente alle altre disposizioni del capo VI-bis, dall'art. 170 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, recante «Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado», e si inscriveva nel piu' ampio disegno riformatore dell'ordinamento giudiziario, finalizzato alla soppressione delle preture circondariali, sostituite per talune competenze dal tribunale in composizione monocratica. Si ricorda che la disciplina del libro VIII del codice di rito, dedicata al procedimento innanzi al pretore - la cui competenza era limitata ai reati indicati dall'allora vigente art. 7 del codice penale (4) - prevedeva quale unico modulo di esercizio dell'azione penale l'emissione del decreto di citazione diretta a giudizio da parte del P.M., essendo l'udienza preliminare riservata ai soli reati attribuiti al tribunale. Vi era un'esatta simmetria tra forme procedimentali e riparto di attribuzioni: i reati per i quali era prevista l'udienza preliminare erano tutti destinati alla cognizione del tribunale collegiale; viceversa, i reati per i quali era prevista la citazione diretta a giudizio confluivano tutti innanzi alla pretura. Non potevano dunque verificarsi, secondo l'impianto codicistico ante riforma del 1998, ipotesi in cui il giudice dell'udienza preliminare disponesse il rinvio del processo innanzi ad un giudice che non fosse il tribunale in composizione collegiale. E il sistema aveva una propria coerenza, posto che le attribuzioni del pretore ex art. 7 del codice penale rientravano nella competenza per materia, rilevabile nei piu' ampi termini previsti dagli articoli 21 - 23 del codice penale. Anche a seguito dell'abolizione delle preture e dell'istituzione del giudice unico, nel periodo immediatamente successivo all'emanazione del decreto legislativo n. 51/1998, tale corrispondenza risultava rispettata, essendosi mantenuta la previsione dell'udienza preliminare per i soli reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale, e stabilita la citazione diretta a giudizio ex art. 550 del codice penale per tutti i reati affidati al giudice monocratico. In questo contesto normativo - durato sino alla promulgazione della legge 16 dicembre 1999, n. 479 - la disposizione di cui all'art. 33-quinquies del codice penale trovava un proprio senso logico-normativo, sebbene alquanto limitato: la previsione di una decadenza dall'eccezione (o dalla rilevazione) dell'inosservanza del riparto di cui agli articoli 33-bis, 33-ter, e 33-quater del codice penale, si giustificava con la nettezza del binomio attribuzione - forma dell'azione penale, cosicche' le parti, trovatesi in udienza preliminare, gia' potevano sapere che l'eventuale rinvio a giudizio del G.U.P. sarebbe stato disposto innanzi al tribunale in composizione collegiale, e dunque poteva esigersi un onere di eccezione del vizio entro il termine di cui all'art. 421 del codice penale. Ad onta della sua ampia formulazione, la regola decadenziale di cui all'art. 33-quinquies del codice penale poteva validamente operare nell'unica evenienza processuale in cui fosse stata celebrata l'udienza preliminare per reati attribuiti al tribunale monocratico, dovendo in tal caso le parti (o il G.U.P. d'ufficio) preventivare il successivo rinvio innanzi al tribunale collegiale ed eccepire (o rilevare) tempestivamente il vizio di inosservanza, chiedendo l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 33-sexies del codice penale («Inosservanza dichiarata nell'udienza preliminare»). Con la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. «Legge Carotti») si e' assistito ad un disallineamento tra modalita' di esercizio dell'azione penale e riparto di cognizione tra tribunale in composizione collegiale o monocratica: l'estensione delle attribuzioni del giudice monocratico ad un ampio novero di reati ha fatto si' che si spezzasse quel legame di corrispondenza univoca tra udienza preliminare e tribunale collegiale, introducendo la possibilita' di procedimenti monocratici instaurati a seguito di richiesta di rinvio a giudizio. L'art. 33-quinquies del codice penale ha iniziato allora a mostrare un chiaro difetto di coordinamento, non essendo stata incisa dalla riforma del 1999, che ha invece modificato gli articoli 33-bis e 33-ter del codice penale, disciplinanti i presupposti sulle cui basi la norma censurata e' destinata ad operare. L'udienza preliminare e' divenuta uno snodo filtrante sostanzialmente neutro sotto il profilo del riparto di attribuzioni, dipendendo solo dal titolo di reato contestato, e cio' pone le parti in una condizione di ignoranza incolpevole durante il suo svolgimento: la conoscenza della composizione tribunale che sara' chiamato a celebrare il dibattimento matura dopo l'emissione del decreto di cui all'art. 429 del codice penale, e dunque in un momento successivo alla decadenza stabilita dall'art. 33-quinquies del codice penale. E' solo nel decreto dispositivo del giudizio che viene indicato il tribunale innanzi al quale si terra' il dibattimento, trattandosi infatti di un requisito espressamente previsto alla lettera e) dell'art. 429 del codice penale, e solo a seguito della sua emissione le parti possono rendersi conto di un'eventuale inosservanza del riparto di attribuzioni, qualora il G.U.P. abbia rinviato innanzi ad un tribunale erroneamente composto rispetto a reati in contestazione. Ne consegue l'illogicita' della regola prevista dall'art. 33-quinquies del codice penale, che colloca le parti nella paradossale situazione di dover eccepire l'inosservanza di una disposizione prima ancora di averla conosciuta, e finanche prima ancora che sia avvenuta, posto che e' con il decreto ex art. 429 del codice penale che il G.U.P. indica il giudice del dibattimento, potendo correggere eventuali vizi nell'individuazione della composizione sino alla sua emissione. In passato, si e' gia' dubitato della legittimita' della decadenza prevista dall'art. 33-quinquies del codice penale, focalizzandosi tuttavia l'attenzione sulla dialettica processuale instaurata dalla richiesta di rinvio a giudizio del P.M., situazione parzialmente diversa da quella affrontata nel presente incidente di costituzionalita'. Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, con ordinanza n. 728 del 29 settembre 2000, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 33-quinquies, 416 e 417 del codice penale, nella parte in cui non prevedeva che la sanzione processuale della decadenza, conseguente alla mancata proposizione, prima della conclusione dell'udienza preliminare, dell'eccezione concernente l'erronea attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica o collegiale, fosse «correlata allo specifico obbligo del pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale chiede il rinvio a giudizio». La Corte costituzionale, con ordinanza n. 395 del 3 dicembre 2001, ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile stigmatizzando la mancanza di motivazione da parte del rimettente in ordine all'impraticabilita' di' un'interpretazione conforme ai principi costituzionali (testualmente: «il rimettente avrebbe dovuto dare atto delle ragioni per cui non ha ritenuto possibile riservare alla disciplina censurata un'interpretazione nello stesso tempo coerente con i presupposti logico-giuridici che informano il sistema dei termini posti a pena di decadenza e rispettosa del diritto di difesa e, quindi, conforme a Costituzione;»). Il dispositivo di inammissibilita' non esaurisce la portata della decisione, potendosi cogliere nella lettura complessiva dell'ordinanza n. 395/2001 alcuni passaggi fondamentali del ragionamento della Consulta che avvalorano i sospetti di incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale. I giudici costituzionali, dopo aver constatato - al pari degli odierni rimettenti - che «nelle ipotesi in cui e' prevista l'udienza preliminare, la difesa e' posta in grado di conoscere la composizione, collegiale o monocratica, del tribunale che sara' chiamato a celebrare il dibattimento solo dopo che, conclusa l'udienza preliminare, sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio, e cioe' in un momento successivo al termine previsto dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale», e rimarcato l'interpretazione del giudice a quo, secondo cui «il termine di decadenza di cui all'art. 33quinquies del codice di procedura penale dovrebbe continuare ad essere riferito all'udienza preliminare, malgrado nel caso in esame l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati sia concretamente eccepibile, analogamente alle ipotesi nelle quali manca l'udienza preliminare, solo dopo la vocatio in ius e, cioe', in un momento in cui il termine indicato dalla disciplina censurata e' ormai decorso», non hanno potuto fare a meno di chiosare «che, cosi' interpretata, la norma censurata risulta priva di significato logico e razionale" (cfr. Corte costituzionale ordinanza n. 395/2001). Pertanto, gia' nel 2001. la Corte costituzionale ha denunciato senza mezzi termini l'illogicita' della regola prevista dall'art. 33-quinquies del codice penale, limitandosi tuttavia a dichiarare la manifesta inammissibilita' della questione senza indicare quale avrebbe potuto essere una possibile interpretazione adeguatrice ai precetti costituzionali. Le perplessita' manifestate dal Tribunale monocratico di Roma non sono apparse infondate ai giudici della Consulta, come non lo sono agli occhi dell'odierno Collegio rimettente, ma l'incidente di costituzionalita' non ha fatto breccia poiche' il giudice a quo da un lato non ha dato atto del fallimento dei tentativi di interpretazione conforme, dall'altro ha diretto le proprie censure su un reticolo di norme collaterali all'unica che realizza il vulnus costituzionale. Ampliando il fuoco di tiro al combinato disposto con gli articoli 416 e 417 del codice di procedura penale, l'originario rimettente non ha centrato il bersaglio, da individuarsi nell'irrazionale onere di decadenza previsto dall'art. 33 quinquies del codice di procedura penale. Ed infatti, un'eventuale operazione ermeneutica additiva dell'art. 417 del codice di procedura penale, volta ad introdurre nella norma un requisito non previsto, ovvero l'obbligo per il P.M. di specificare nella richiesta ex art. 416 del codice di procedura penale la composizione del giudice innanzi a cui richiede il rinvio a giudizio, non restituirebbe compatibilita' costituzionale alla regola prevista dall'art. 33 quinquies del codice di procedura penale: la violazione del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale non puo' mai manifestarsi con la richiesta di rinvio a giudizio del P.M., trattandosi di atto prodromico alla decisione di un altro organo giurisdizionale proceduralmente tenuto all'individuazione del giudice che celebrera' il dibattimento. Solo con l'emissione del decreto di cui all'art. 429 del codice di procedura penale puo' consumarsi una violazione del riparto di attribuzioni tracciato dagli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale; prima di tale momento, un'eventuale indicazione da parte del P.M. della composizione del tribunale che intende adire per il dibattimento, se per un verso potrebbe dare giustificare un onere di eccezione della difesa nel corso dell'udienza preliminare, per un altro non giustificherebbe la decadenza della parte nell'ipotesi in cui il vizio si manifesti con il rinvio a giudizio disposto dal G.U.P. Ben potrebbe accadere che il P.M. indichi in modo corretto la composizione del tribunale innanzi a cui chiede il rinvio, e che il G.U.P., non condividendo la prospettazione dell'accusa, disponga il giudizio davanti al tribunale erroneamente composto; e in questo caso, la formulazione letterale dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, precluderebbe comunque l'eccezione (o la rilevazione d'ufficio) del vizio innanzi al giudice del dibattimento. Per questi motivi, si comprende l'osservazione della Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 395/2001: «la soluzione proposta dal rimettente, che vorrebbe collegare la sanzione processuale della decadenza "ad uno specifico obbligo imposto al pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale chiede il rinvio a giudizio" si rivela del tutto inadeguata, posto che, quale che sia il contenuto della richiesta del pubblico ministero, spetta comunque al giudice dell'udienza preliminare individuare nel decreto che dispone il giudizio l'organo avanti al quale verra' celebrato il dibattimento». Ed allora l'illegittimita' costituzionale della norma puo' essere emendata solo rimuovendo in toto la decadenza correlata all'udienza preliminare, consentendo per tutti i procedimenti, a prescindere dal modulo introduttivo, l'eccezione e la rilevazione dell'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale entro il termine fissato dall'art. 491 del codice di procedura penale; termine che appare fisiologico, in quanto primo sbarramento processuale successivo al manifestarsi del vizio e parimenti idoneo ad assicurare una cristallizzazione del giudizio prima dell'apertura del dibattimento. III.1. Il contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Il primo profilo di incostituzionalita' del regime di decadenza previsto dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, si rileva dal contrasto con l'art. 3 della Costituzione, illuminato sia dal giudizio ternario di eguaglianza, sia dal controllo binario di ragionevolezza, che si concludono entrambi con esito negativo a parere dei rimettenti. La Corte costituzionale ha piu' volte chiarito che «se il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtu' del quale a situazioni eguali deve corrispondere l'identica disciplina e, all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, cio' equivale a postulare che la disamina della conformita' di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul "perche'" una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo» (cfr. Corte costituzionale sentenze n. 89/1996, n. 5/2000, n. 241/2014, n. 276/2020, n. 43/2022). Una verifica effettiva del rispetto del principio di eguaglianza non puo' mantenersi asettica, limitandosi a constatare l'esistenza di elementi differenziali o di comunanza tra situazioni rispettivamente disciplinate in modo diverso o analogo, ma deve scendere nelle profondita' speculative, accertando la sussistenza di una ragione, costituzionalmente valida, che giustifichi la differenziazione o l'omologazione di trattamento. Tale precisazione e' importante per comprendere la contrarieta' della decadenza prevista dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale al principio invocato, nella duplice declinazione prospettata. Prendendo come tertium comparationis la regola normativa, contemplata dallo stesso art. 33 quin.quies del codice di procedura penale, che consente, nei casi in cui manchi l'udienza preliminare, l'eccezione (o la rilevazione d'ufficio) del vizio di attribuzione entro il termine di cui all'art. 491 del codice di procedura penale, si coglie un'ingiustificata disparita' di trattamento con le ipotesi in cui il procedimento passi attraverso l'udienza preliminare. Fermandosi ad un raffronto statico non puo' negarsi che le due situazioni processuali appaiono differenti e dunque la previsione di un diverso regime di decadenze risulterebbe giustificata. Diversamente, il confronto dinamico tra le fattispecie - cosi' come predicato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale - ne fa emergere la sostanziale omogeneita' teleologica, circostanza che rende irragionevole la disparita' di trattamento: la ratio dello spostamento del termine di eccepibilita' (o rilevabilita') dell'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale alla fase di cui all'art. 491 del codice di procedura penale, nei moduli procedimentali in cui manchi l'udienza preliminare, e' quella di consentire alle parti (e al giudice ex officio) di sollevare la questione alla prima occasione processuale utile successiva alla conoscenza del vizio; ed infatti, nei riti instaurati con citazione diretta giudizio, giudizio immediato, o giudizio direttissimo, la fase delle questioni preliminari al dibattimento rappresenta la sede naturale in cui far valere le doglianze che non hanno potuto esprimere nel corso dell'udienza preliminare, essendosi saltato tale snodo (come confermato anche dalle lettura sistematica degli articoli 21, 80, 181 del codice di procedura penale). Il senso di tale previsione e' evidente: qualora le parti non abbiano avuto la possibilita' di sollevare le proprie questioni nel corso dell'udienza preliminare, deve essere loro assicurata la facolta' di dedurle entro il termine fissato dall'art. 491 del codice di procedura penale, ovvero al primo contatto con un organo giurisdizionale deputato a conoscere dell'eventuale violazione delle regole processuali in posizione di terzieta' e imparzialita'. Ebbene, il fisiologico sviluppo della fase di cui agli articoli 416 e ss. del codice di procedura penale, in precedenza esaminato, rende la situazione derivante dall'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale analoga sia nel caso in cui sia stata celebrata l'udienza preliminare, sia nel caso in cui la stessa sia mancata: in entrambe le evenienze processuali, le parti conoscono del vizio di attribuzione con l'atto di vocatio in iudicium, e appare assolutamente ingiustificato precludere l'eccezione (o la rilevazione) della violazione innanzi al giudice del dibattimento nel caso in cui lo stesso assuma la forma del decreto che dispone il giudizio. Le diversita' tra il decreto ex art. 429 del codice di procedura penale, e il decreto di giudizio immediato, o il decreto di citazione diretta a giudizio, o anche la presentazione per il giudizio direttissimo, si azzerano nell'ottica della violazione delle regole dettate dagli artt. 33 bis, 33 ter e 33 quater del codice di procedura penale, poiche' in tutti i casi il vizio non emerge nel corso dell'udienza preliminare ma con la successiva vocatio in iudicium dell'imputato; pertanto, risulta assolutamente ingiustificato un regime differenziato di decadenze, quale quello tracciato dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, tra situazioni in cui il presupposto di fatto da cui dipende l'onere di eccezione (o rilevazione) si manifesta per tutte nello stesso momento processuale. Confrontando la disciplina dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale con il regime dell'incompetenza per territorio e per connessione, si rileva invece un'illegittima parificazione tra situazioni profondamente diverse. Il secondo e il terzo comma dell'art. 21 del codice di procedura penale stabiliscono che: «2. L'incompetenza per territorio e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1. Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione di incompetenza respinta nell'udienza preliminare. 3. L'incompetenza derivante da connessione e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal comma 2». Sullo stesso stampo e' stato forgiato l'art. 33-quinquies del codice di procedura penale dal legislatore del 1998, senza tuttavia tener conto delle differenze sussistenti tra gli istituti processuali: l'anticipazione, a pena di decadenza, dell'eccezione (o della rilevazione) dell'incompetenza territoriale o per connessione all'udienza preliminare e' giustificata dalla manifestazione del vizio gia' in quella fase, potendolo riconoscere le parti dall'imputazione formulata dal P.M. nella richiesta ex art. 416 del codice di procedura penale, nonche' dal G.U.P. territorialmente adito. Ed infatti, tra i requisiti espliciti, previsti anche a pena di nullita' della richiesta di rinvio a giudizio, vi sono «l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fiato, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge» (art. 417, lettera b) del codice di procedura penale), e «la domanda al giudice di emissione del decreto che dispone il giudizio» (art. 417, lettera d) del codice di procedura penale), elementi che consentono alle parti di percepire eventuali violazioni di competenza, e che giustificano la configurazione dell'onere di eccepirle a pena di decadenza gia' nel corso dell'udienza preliminare. Tale condizione, come visto, non ricorre affatto nei casi di inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale, in cui un possibile vizio non puo' essere desunto dalla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal P.M., e dunque la previsione di un'analoga decadenza, anticipata all'udienza preliminare, si risolve in un'illegittima parificazione tra fattispecie diverse, che appare in chiaro contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Una situazione simile a quanto si verifica per le violazioni del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale potrebbe al piu' ravvisarsi nell'ambito della competenza distrettuale per i reati previsti dall'art. 51, commi 3-bis e ss. del codice di procedura penale: per tali procedimenti, il giudice dell'udienza preliminare funzionalmente competente viene individuato su base distrettuale (art. 328, commi 1-bis e 1-quater del codice di procedura penale), mentre la competenza per la fase dibattimentale resta attribuita ai giudici territorialmente competenti in base alle regole generali di cui agli articoli 8 e 9 del codice di procedura penale. Puo' allora accadere che il G.U.P. distrettuale, competente per la celebrazione dell'udienza preliminare, disponga erroneamente il rinvio a giudizio innanzi ad un tribunale del distretto territorialmente incompetente, e in tal caso le parti, analogamente alle ipotesi di violazione degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale, conosceranno del vizio solo con l'emissione del decreto ex art. 429 del codice di procedura penale. Quest'eventualita', rappresentando una peculiare successione diacronica tra regole di competenza funzionale e territoriale, non giustifica affatto l'identita' del regime previsto dagli articoli 21 commi 2 e 3 e 33-quinquies del codice di procedura penale, semmai porta ad interrogarsi sulla legittimita' costituzionale anche del combinato disposto degli articoli 21 - 51-bis e ss. - 328, commi 1-bis e 1-quater del codice di procedura penale, laddove non si consente alle parti di eccepire l'incompetenza territoriale del giudice del dibattimento qualora non lo abbiano fatto prima della conclusione dell'udienza preliminare, anche se la sua erronea individuazione e' avvenuta solo con il decreto che dispone il giudizio. Ancora una volta, si e' posti di fronte ad un'irrazionale decadenza da un'eccezione che le parti non hanno avuto la concreta possibilita' di sollevare nel termine indicato, poiche' lo stesso precede illogicamente il manifestarsi del vizio. Viene cosi' alla luce il secondo profilo di contrasto dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale con l'art. 3 della Costituzione, palesandosi l'irrazionalita' della scelta normativa. Il principio di ragionevolezza, divenuto ormai «criterio onnipervasivo di misurazione della legalita' e della adeguatezza della scelta politica consacrata nell'atto», come icasticamente affermato dalla dottrina, tra le sue molteplici declinazioni, si dirama in un controllo di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica della legge (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 86/2017: «Dall'art. 3 della Costituzione si desume un canone di "razionalita'" della legge svincolato da una normativa di raffronto, rintracciato nell'esigenza di conformita' dell'ordinamento a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica. Il principio di ragionevolezza e' dunque leso quando si accerti l'esistenza di una irrazionalita' intra legem, intesa come contraddittorieta' intrinseca tra la complessiva finalita' perseguita dal legislatore e la norma espressa dalla disposizione censurata.»); controllo che, applicato al regime di decadenze previste dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, ne illumina la contrarieta' ai canoni di razionalita'. E' chiaramente illogico porre carico delle parti la decadenza dall'esercizio di una facolta' processuale in una fase in cui non si sia ancora avverato il presupposto di fatto cui e' collegata, ovvero l'inosservanza delle norme di cui, attraverso l'eccezione, si chiede il rispetto: sino alla conclusione dell'udienza preliminare, si ribadisce, non puo' esservi una violazione del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale, che si concretizza solo con il decreto che dispone il giudizio; non puo' pertanto pretendersi, a pena di decadenza, che le parti sollevino una doglianza che sarebbe oggettivamente precoce e soggettivamente inesigibile, non essendo il vizio ancora percepibile. E l'irragionevolezza intrinseca della norma appare ancor piu' evidente immaginando gli scenari processuali che conseguirebbero alla sua applicazione letterale: le parti dovrebbero eccepire preventivamente nel corso dell'udienza preliminare una futura e ipotetica violazione degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale, ma il G.U.P. non potrebbe far altro che dichiarare l'eccezione inammissibile per carenza del presupposto, non essendosi ancora verificata alcuna inosservanza del riparto di attribuzioni; dichiarata l'inammissibilita' della prematura eccezione, nulla esclude che il G.U.P. possa comunque incorrere nella violazione con l'emissione del decreto ex art. 429 del codice di procedura penale, disponendo il giudizio innanzi al tribunale erroneamente composto. L'unica utilita' derivante dalla configurazione di un onere di eccezione preventiva a carico delle parti sarebbe quello di garantirsi la possibilita' di riproposizione innanzi al giudice del dibattimento. Qui la norma mostra anche un'incoerenza teleologica: se l'anticipazione dell'onere di eccezione del vizio alla fase dell'udienza preliminare risponde ad un'esigenza acceleratoria, volta a favorire l'esaurimento delle questioni preliminari prima dell'approdo al dibattimento, il fine non puo' dirsi adeguatamente perseguito dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, poiche' la disposizione, cosi' come formulata, obbligherebbe le parti ad una sterile eccezione preventiva, che il G.U.P. non potrebbe che dichiarare inammissibile, differendosi la decisione innanzi al giudice del dibattimento, laddove riproposta. Di fatto, la fase processuale in cui la questione potrebbe essere seriamente sollevata e risolta, sarebbe pur sempre quella di cui all'art. 491 del codice di procedura penale, senza alcuna differenza tra procedimenti che prevedono l'udienza preliminare o che la saltano; anzi obbligare le parti ad una fittizia eccezione al solo fine di conservare il diritto di riproporla eventualmente innanzi al giudice del dibattimento finirebbe per appesantire inutilmente lo svolgimento dell'udienza preliminare. E in proposito, deve ricordarsi il monito della giurisprudenza costituzionale, risalente ma che risuona ancora attuale: «va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa del processo. Si' che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino a un uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della finzione giurisdizionale» (Corte costituzionale sentenza n. 10/1997). La disposizione di cui all'art. 33-quinquies del codice di procedura penale denota inoltre una sproporzione tra il fine perseguito e la sanzione processuale prescelta per il suo raggiungimento: appare eccessivo porre a carico delle parti (ed anche del giudice, a cui sarebbe preclusa la rilevazione officiosa) una decadenza dall'eccezione nell'ottica di uno scopo acceleratorio che l'applicazione testuale della norma, per come immaginata, non assicurerebbe affatto. Alla frizione con il principio di proporzionalita', canone di ragionevolezza interna alle norme, si affianca poi una valutazione di incoerenza storico-cronologica, in parte gia' anticipata: l'incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale dipende anche dal mancato raccordo normativo con le modifiche apportate dalla legge n. 479/1999 agli articoli 33-bis e 33-ter del codice di procedura penale che, come visto, hanno ampliato le competenze del tribunale in composizione monocratica, rompendo il legame univoco tra udienza preliminare e attribuzioni del tribunale collegiale. L'udienza preliminare puo' oggi indifferentemente precedere un successivo giudizio dibattimentale sia innanzi al tribunale collegiale sia innanzi al tribunale monocratico, dipendendo la sua celebrazione dal titolo di reato contestato e dal modulo di esercizio dell'azione penale prescelto dal P.M. L'individuazione della composizione del tribunale innanzi al quale viene disposto il giudizio e' affidata al G.U.P., e si palesa per i destinatari con il decreto ex art. 429 del codice di procedura penale; prima dell'emissione di tale provvedimento le parti non possono valutare la correttezza dell'indicazione effettuata dal G.U.P. rispetto riparto di attribuzioni tracciato dagli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale, e pertanto l'anticipazione dell'onere di eccezione (o di rilevazione) del vizio alla fase dell'udienza preliminare risulta anacronistica, in quanto non piu' giustificata dalla quella precedente corrispondenza tra forma di esercizio dell'azione penale e composizione del tribunale che consentiva astrattamente alle parti di pronosticare un possibile inosservanza nel riparto di attribuzioni. Infine, un'ulteriore profilo di irragionevolezza si coglie ponendosi nell'ottica del giudice del dibattimento, deprivato dal tenore letterale della norma della possibilita' di rilevare ex officio la violazione del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale nelle ipotesi in cui il procedimento provenga da un'udienza preliminare in cui il vizio non sia stato gia' dedotto o rilevato: maturerebbe infatti anche per l'organo successivamente adito una preclusione del tutto incolpevole, posto che la necessaria diversita' di persona fisica tra il giudice dell'udienza preliminare e il giudice del dibattimento (art. 34 del codice di procedura penale) fa si' che quest'ultimo conosca del procedimento, e dell'eventuale errore nell'individuazione della composizione del tribunale, in una fase in cui non gli sarebbe piu' consentita la rilevazione dello stesso. III.2. La violazione del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione. Il Collegio rimettente dubita della compatibilita' del regime decadenziale previsto dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale con il principio di effettivita' del diritto di difesa in giudizio, sancito dall'art. 24 della Costituzione. Il precetto non assicura solo formalmente l'accesso alla tutela giurisdizionale, ma garantisce che la stessa sia effettiva, ritenendo illegittima qualsiasi condizione o limitazione che renda impossibile o altamente difficoltoso l'esercizio delle facolta' difensive. La giurisprudenza costituzionale, pronunciatasi in riferimento all'art. 24 della Costituzione, ha costantemente affermato che «cio' che conta e' che non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalita' tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attivita' processuale» (cfr., tra le tante, Corte costituzionale sentenze n. 199/2017, n. 121/2016, n. 44/2016); e ha precisato che «l'effettivita' dei diritti fondamentali, tra i quali va certamente annoverato il diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, viene meno non soltanto se le norme vigenti consentono che sia radicalmente impedito il loro esercizio, pur formalmente riconosciuto, ma anche se e' possibile che si creino, senza la previsione di adeguati rimedi, situazioni tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio stesso» (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 142/2009). Tali coordinate ermeneutiche contrassegnano il vizio di incostituzionalita' che affligge l'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, laddove rende concretamente impossibile l'esercizio della facolta' di eccepire il mancato rispetto delle attribuzioni del tribunale monocratico o collegiale nei procedimenti che passano attraverso l'udienza preliminare. La previsione di una sanzione processuale forte quale la decadenza dall'eccezione, qualora la difesa non la sollevi entro il termine di cui all'art. 421 del codice di procedura penale - termine in cui, come ampiamente visto, la parte non puo' ancora sapere della futura inosservanza del riparto di attribuzioni - rende di fatto non esercitabile la facolta' che la norma comunque riconosce. Il limite della decadenza, anticipato alla fase dell'udienza preliminare, svuota di contenuto effettivo la facolta' di eccezione del vizio di cui all'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, al punto che il suo riconoscimento normativo diviene solo apparente. E non vi e' dubbio che il diritto di difesa, calato nella dinamica processuale, trovi esplicazione attraverso la facolta' di eccepire l'inosservanza delle regole procedurali, essendo anch'essa oggetto di necessario contraddittorio. Il rispetto delle norme processuali, categoria a cui appartengono gli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale, rientra a pieno titolo nella materia del contendere, e pertanto deve essere assicurato il confronto dialettico tra le parti sul punto. Da cio' deriva che i termini processuali devono essere congruamente e logicamente fissati dal legislatore, e che l'interessato sia posto in grado di conoscere per tempo i presupposti di fatto su cui si fonda una facolta' che lo stesso sistema processuale gli attribuisce, poiche' riconoscere un diritto senza garantirne l'esercizio significa non riconoscerlo affatto. Eloquenti, in proposito, le parole della Corte costituzionale nella sentenza n. 89/1992: «La sola previsione di un rimedio difensivo non e' sufficiente per far ritenere adempiuto il precetto costituzionale dell'art. 24 della Costituzione, se tale rimedio non produce alcun effetto utile per la conservazione o la affermazione del diritto di cui si e' titolari». La garanzia offerta dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale e' formale ma non effettiva, e il diritto di difesa in parte qua ne risulta inevitabilmente frustrato: la regola del contraddittorio, che innerva il dinamismo della funzione giurisdizionale, esige una partecipazione "attiva" delle parti, ovvero che alle stesse sia consentito di influire sulla formazione della decisione del giudice formulando deduzioni e controdeduzioni, e tale fondamentale facolta' risulta sterilizzata da una norma, come quella al vaglio, che fa maturare a loro carico una decadenza incolpevole. Ne' potrebbe sostenersi che il regime fissato dall'art. 33-quinquies del codice di procedura penale sia frutto di una scelta normativa discrezionale, e in quanto tale sottratto al sindacato di costituzionalita': la Consulta, pur avendo piu' volte affermato che il legislatore gode di ampia discrezionalita' nella conformazione degli istituti processuali, ha sempre ribadito «il limite della manifesta irragionevolezza della disciplina ogni qual volta emerga un'ingiustificata compressione del diritto di agire, costituito dal sostanziale impedimento all'esercizio di azione o dall'aver reso oltremodo difficoltosa la tutela giurisdizionale» (cfr. Corte costituzionale sentenze n. 102/2021, n. 45/2021, n. 95/2020, 80/2020, 271/2019). E il limite della ragionevolezza, guardando alla formulazione dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale, e alle ricadute applicative sul relativo segmento di esplicazione del diritto di difesa, appare ampiamente oltrepassato. L'assunto trova conferma nella disciplina dell'incompetenza (art. 21 - 23 del codice di procedura penale), della richiesta di esclusione della parte civile (art. 80 del codice di procedura penale), o delle nullita' relative (art. 181, comma 2 del codice di procedura penale). Dalla lettura sistematica di queste norme emerge un principio costante che fa apparire la previsione di cui all'art. 33-quinquies del codice di procedura penale un'irragionevole menomazione del diritto di difesa: il termine di reazione a vicende processuali che si verificano, o che si rendono manifeste, dopo la conclusione dell'udienza preliminare (come ad esempio per la costituzione della parte civile in dibattimento, le nullita' che colpiscono il decreto che dispone il giudizio) deve essere sempre quello delle questioni preliminari ex art. 491 del codice di procedura penale, dovendosi garantire alla difesa il tempo per esplicare le proprie prerogative. III.3. La violazione dell'art. 101, comma 2 della Costituzione. La disposizione censurata, nella parte in cui non consente neanche al giudice del dibattimento di rilevare ex officio l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale, denota un probabile attrito con l'art. 101, comma 2 della Costituzione, norma che stabilisce l'esclusiva soggezione della funzione giurisdizionale alla legge. L'art. 33-quinquies del codice di procedura penale nella sua formulazione letterale, riferisce la sanzione della decadenza anche al rilievo officioso del vizio («e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare, o se questa manca, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1») precluso al giudice innanzi al quale e' disposto il giudizio, qualora la questione non sia stata preventivamente affrontata nel corso dell'udienza preliminare. Cio' costringe il giudice chiamato a celebrare il dibattimento a sottostare ad un'eventuale erronea individuazione della sua composizione da parte del G.U.P., non piu' sindacabile una volta spirato il termine di cui all'art. 421 del codice di procedura penale. Ne consegue la paradossale situazione in cui il giudice del dibattimento, pur riconoscendo un difetto di composizione rispetto ai reati contestati, non vi potrebbe rimediare d'ufficio, disponendo la trasmissione degli atti innanzi al tribunale correttamente composto (cosi' come previsto dall'art. 33-septies del codice di procedura penale), ma sarebbe vincolato all'indicazione del G.U.P. ancorche' contraria alle regole di riparto di cui agli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater del codice di procedura penale. Ecco allora che si palesa la violazione dell'art. 101, comma 2 della Costituzione, posto che la norma contempla un'ipotesi in cui il giudice sarebbe tenuto a dar seguito ad un precedente ed erroneo provvedimento giurisdizionale anziche' dare attuazione alla legge inosservata, ovvero costretto a rimanere inerte pure a fronte di un vizio procedurale percepibile ed ancora emendabile. E le ripercussioni della violazione del riparto di attribuzioni sulla validita' degli atti emanati dal tribunale erroneamente composto, qualificate alla stregua di nullita' dalla giurisprudenza di legittimita' nelle ipotesi di inosservanza per difetto, (5) porterebbero una rigida applicazione della regola di cui all'art. 33-quinquies del codice di procedura penale a conclusioni ancora piu' assurde: il tribunale in composizione monocratica. laddove si accorresse che i reati per il (mali e' stato disposto il giudizio innanzi a se' appartengono alla cognizione collegiale, non potrebbe rilevare d'ufficio il vizio qualora non sollevato nel corso dell'udienza preliminare, e sarebbe costretto a celebrare il dibattimento nella consapevolezza che la futura sentenza sara' affetta da nullita'. In altri termini, il giudice del dibattimento pur potendo prevenire una causa di nullita' della sentenza - ordinando la trasmissione degli atti ex art. 33-septies c.p.p. entro il termine di cui all'art. 491 c.p.p. - si ritroverebbe con le mani legate, e cio' nonostante sia ancora possibile eliminare il vizio senza alcun pregiudizio per l'attivita' processuale svolta e per i diritti delle parti. Ancora una volta si rivela la palese illogicita' della costruzione normativa di cui all'art. 33-quinquies c.p.p., che per un mal riposto senso di economia processuale rischia di divenire in realta' antieconomica guardando all'intero esito del procedimento. III.4. La contrarieta' ai principi del giusto processo sanciti dall'art. 111, comma 2 Cost. e dall'art. 6, par. 3 CEDU. Si rileva, infine, un possibile contrasto dell'art. 33-quinquies c.p.p. con i principi del giusto processo, consacrati dal comma secondo dell'art. 111 Cost. e dal paragrafo terzo dell'art. 6 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con conseguente violazione dell'art. 117 comma 1 Cost. In particolare, l'irragionevole regime di decadenza previsto dalla norma, di fatto, sottrae al contraddittorio tra le parti l'osservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale nei procedimenti che passano per l'udienza preliminare. La dinamica processuale in precedenza analizzata, che porta le parti a conoscere di un eventuale errore nella composizione del tribunale chiamato a celebrare il dibattimento in un momento in cui e' ormai maturata la decadenza dell'eccezione a loro carico, priva le stesse della possibilita' di contraddire sul punto, lasciando al G.U.P. una decisione solitaria e non contestabile. Il principio del contraddittorio, nel cui oggetto rientra anche la corretta applicazione delle norme processuali, presuppone che alle parti sia sempre assicurata la possibilita' (a priori o differita) di esprimere le proprie ragioni innanzi ad un organo terzo ed imparziale e di influenzarne cosi' la deliberazione, nonche' di azionare i relativi rimedi impugnatori quando le proprie doglianze non vengano ascoltate. La previsione di cui all'art. 33-quinquies c.p.p. stride con tale modello dialogico, poiche' costringe le parti a sottostare all'individuazione fatta dal G.U.P. della composizione del tribunale innanzi a cui e' disposto il giudizio senza aver avuto la possibilita' di interloquire preventivamente sulla stessa e senza la possibilita' di dolersene successivamente davanti al giudice del dibattimento, arrivando innanzi ad esso con lo strumento dell'eccezione ormai precluso. Un siffatto sistema di decadenze si pone in aperto contrasto anche con l'accezione soggettiva contraddittorio, nell'articolazione prevista dall'art. 6, paragrafo 3, lettera b) CEDU, che riconosce ad ogni accusato «il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa». Diritto che non risulta chiaramente rispettato dall'art. 33-quinquies c.p.p., dovendosi rimarcare come la norma non consenta alla difesa alcun tempo per valutare una possibile eccezione di inosservanza degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p., ponendo a suo carico un onere di preconizzazione del vizio procedurale e una decadenza incolpevole. Il sacrificio delle facolta' difensive, in parte qua, non puo' dirsi giustificato dall'esigenza di concentrazione dei tempi processuali - che il legislatore sembra perseguire anticipando l'onere di eccezione alla fase dell'udienza preliminare - dovendosi ribadire le considerazioni della Corte EDU nell'interpretazione dell'articolo 6, par, 3 1. b) secondo cui, benche' sia importante che la procedura si svolga entro un termine adeguato, occorre che non ne risentano i diritti procedurali di una delle parti (cfr. Corte EDU, sentenza 31 luglio 2014, OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos contro Russia). IV. L'impraticabilita' di un'interpretazione adeguatrice. I dubbi di costituzionalita' appena evidenziati onerano il Collegio rimettente a sperimentare la possibilita' di un'interpretazione della norma in senso conforme ai principi che si assumono violati, nella consapevolezza della necessarieta' del tentativo a pena di inammissibilita' della questione (cfr. C. cost. ordinanze n. 177/2016, n. 97/2017). La ricerca di un senso conforme alla Costituzione non puo' tuttavia tracimare in un'operazione ermeneutica sganciata dal dato letterale della disposizione che si cerca di interpretare, ne' dal suo significato teleologico, dovendosi pur sempre mantenere entro i limiti fissati dalla lettera della legge e dal contesto logico-normativo entro cui si colloca. La giurisprudenza costituzionale, in proposito, ha precisato che «l'obbligo di addivenire ad un'interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all'incidente di legittimita' costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca» (cfr. C. cost. sentenze n. 1/2013 e n. 219/2008); e che «l'interpretazione secondo Costituzione e' doverosa ed ha un'indubbia priorita' su ogni altra ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, percio', sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice e' tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimita' costituzionale» (cfr. C. cost. sentenza n. 36/2016). L'esperimento dei tentativi di interpretazione adeguatrice da parte del giudice a quo deve essere condotto nei limiti dell'area di significanza tracciata dal senso letterale della disposizione sospetta di incostituzionalita', e non puo' spingersi sino alla sua sostanziale disapplicazione: «la lettera della norma impugnata, il cui significato non puo' essere valicato neppure per mezzo dell'interpretazione costituzionalmente conforme, non consente in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una pronuncia di illegittimita' costituzionale puo' produrre» (cfr. C. cost. sentenza n. 110/2012). In tal senso, si sono espresse incidentalmente anche le Sezioni unite della Corte di cassazione «l'interpretazione adeguatrice dei giudici ha possibilita' di esplicazione soltanto quando un disposizione abbia carattere "polisenso" e da essa sia enucleabile, senza manipolare contenuto della disposizione, una norma compatibile con la Costituzione attraverso l'impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale: di talche', nell'impossibilita' di conformare la norma in termini non incostituzionali, il giudice non puo' disapplicarla, ma deve rimettere la questione di legittimita' costituzionale al vaglio del Giudice delle leggi» (cfr. Cass., SS.UU. n. 23016/2004; SS.UU. n, 40986/2018). Il dato letterale dell'art. 33-quinquies c.p.p. non offre margini di interpretazione alternativa laddove afferma che «l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alle cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizione processuali collegate e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare». La formulazione, del resto, e' coerente con lo scopo della disposizione, volta ad introdurre una sanzione processuale quale la decadenza, e dunque necessariamente rigida e tassativa. Una decadenza sussiste o non sussiste, tertium non datur. Lo spazio ermeneutico ritagliato dall'enunciato e' estremamente ridotto non potendosi intendere il richiamo alla sanzione della decadenza se non in quanto tale, salvo travalicare del tutto l'orizzonte di senso e ritenere che il termine fissato sia solo ordinatorio. Tale interpretazione consentirebbe alle parti e al giudice del dibattimento di eccepire e rilevare l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale sino alla fase di cui all'art. 491 c.p.p., ma si tratterebbe di una torsione ermeneutica non solo esulante dal dato letterale della norma bensi' addirittura antitetica allo stesso. Permettere alle parti e al giudice di esercitare una facolta' oltre lo spirare di un termine tassativamente indicato come perentorio, con esplicito riferimento alla sanzione decadenziale nel caso di mancato rispetto, significa di fatto disapplicarlo, e cio' va ben oltre i limiti dell'interpretazione costituzionalmente conforme che deve rimanere interpretazione adeguatrice della norma e non abrogante. L'unica strada ermeneutica per ricomporre le fratture di costituzionalita', adeguando l'art. 33-quinquies c.p.p, ai principi con cui contrasta, sarebbe quella di ignorare la decadenza prevista e spostare il termine per l'eccezione (o la rilevazione) del vizio di attribuzione alla fase ex art. 491 c.p.p., in cui le parti e il giudice del dibattimento possono conoscere dello stesso, ma si ricadrebbe in una chiara disapplicazione dell'enunciato normativo. Ne' si potrebbe salvare la disposizione interpretandola additivamente nel senso di rimettere in termini le parti per eccepire l'inosservanza degli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p. nelle ipotesi in cui queste dimostrino di non averlo potuto fare tempestivamente, poiche' la decadenza non sarebbe maturata per caso fortuito o forza maggiore bensi' per fisiologico sviluppo dell'iter processuale. In altre parole, la causa non imputabile che avrebbe determinato lo spirare del termine sarebbe il termine stesso. Inoltre, non si tratterebbe di un'interpretazione adeguatrice dell'art. 33-quinquies c.p.p. poiche' il senso conforme alla Costituzione non verrebbe trovato internamente alla disposizione, ma solo attingendo ad un salvacondotto processuale esterno, quale quello previsto dall'art. 175 c.p.p., rimedio casistico la cui operativita' generalizzata porterebbe pur sempre a disapplicare la parte di norma che prevede la decadenza. Allo stesso modo, l'illegittimita' della norma non potrebbe evitarsi ricorrendo ad un'interpretazione restrittiva, reputando che la sanzione della decadenza operi nelle sole ipotesi in cui l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale sia gia' percepibile nel corso dell'udienza preliminare e che sia consentita l'eccezione (o la rilevazione) del vizio entro il termine di cui all'art. 491 c.p.p. negli altri casi: la dinamica della Case disciplinata dagli articoli 416 e ss. c.p.p. fa si' che un'eventuale violazione delle regole previste dagli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p. puo' aversi solo con l'atto che la chiude, ovvero con l'emissione del decreto che dispone il giudizio, risultando eventuali doglianze anticipate del tutto ipotetiche. Non e' poi percorribile la strada di un'applicazione analogica delle regole previste dall'art. 516, commi 1-bis e 1-ter c.p.p., posto che la norma disciplina una situazione processuale diversa, che anzi avvalora i sospetti di incostituzionalita' dell'art. 33-quinquies c.p.p. L'art. 516 c.p.p. prevede che: «1. Se nel corso dell'istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come e' descritto nel decreto che dispone il giudizio, e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l'imputazione e procede alla relativa contestazione. 1-bis. Se a seguito della modifica il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziche' monocratica, l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione del giudice e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nei casi indicati dagli articoli 519, comma 2 e 520, comma 2, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova udienza fissata a norma dei medesimi articoli. 1-ter. Se a seguito della modifica risulta un reato per il quale e' prevista l'udienza preliminare, e questa non si e' tenuta, l'inosservanza delle relative disposizioni e' eccepita, a pena di decadenza, entro il termine indicato dal comma 1-bis.». La disposizione consente alle parti e al giudice di eccepire o rilevare l'appartenenza del reato alla cognizione del tribunale in composizione monocratica o collegiale subito dopo la modifica dell'imputazione da parte del P.M., e introduce un rimedio coerente con il momento in cui il vizio si manifesta, trattandosi di un'inosservanza non originaria bensi' sopravvenuta a seguito del mutamento della contestazione. Dalla formulazione della norma si trae conferma del principio secondo cui alle parti e al giudice deve essere garantita la possibilita' di eccepire o rilevare il vizio procedurale nel primo termine utile successivo alla sua emersione, potendosi solo in tal caso concepire una decadenza. La regola, tuttavia, non puo' estendersi analogicamente all'interpretazione dell'art. 33-quinquies c.p.p. che disciplina una ipotesi diversa, in cui l'inosservanza del riparto di attribuzioni tra giudice collegiale e monocratico non dipende da una sopravvenuta modifica dell'imputazione nel corso del giudizio, ma e' frutto di un'erronea individuazione originaria da parte del G.U.P., la cui eccezione o rilevazione per la prima volta innanzi al giudice del dibattimento costituirebbe un aggiramento della decadenza ivi previsto. Allo stesso modo, l'evoluzione normativa dell'ordinamento giudiziario, e il conseguente passaggio da una divisione di competenze per materia tra tribunale e pretore ad un riparto di attribuzioni tra composizione monocratica e collegiale, non consente un'interpretazione analogica che si tradurrebbe in un ritorno al passato. Il sistema previgente appariva maggiormente coerente con i principi costituzionali che l'art. 33-quinquies c.p.p. sembra disattendere, poiche' la cognizione del pretore era disciplinata dall'art. 7 c.p.p. sotto forma di competenza per materia, e pertanto assoggettata al regime di rilevabilita' o eccepibilita' di cui agli articoli 21 - 23 c.p.p.. Dal combinato disposto delle due disposizioni si ricava che l'incompetenza per materia puo' essere rilevata, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (art. 21, comma 1 c.p.p.); tuttavia, se il reato apparteneva alla cognizione di un giudice di competenza inferiore, l'incompetenza deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine di cui all'art. 491, comma 1 c.p.p. (art. 23, comma 2 c.p.p.). Tale assetto attua un adeguato bilanciamento tra garanzie difensive e procedurali ed esigenze di speditezza, consentendo la rilevazione del vizio per difetto in ogni stato e grado del processo e l'eccezione (o rilevazione) del vizio per eccesso entro il termine di cui all'art. 491, comma 1 c.p.p.; termine, si badi bene, previsto indifferentemente sia per i procedimenti che transitano per l'udienza preliminare che per quelli che ne prescindono. Un siffatto regime di rilevabilita' (ed eccepibilita') non puo' estendersi alle ipotesi contemplate dall'art. 33-quinquies c.p.p., adeguando la norma ai precetti costituzionali, poiche' l'operazione analogica sarebbe finirebbe con l'equiparare fattispecie ontologicamente diverse, disattendendo un'esplicita voluntas legis: la giurisprudenza di legittimita' esclude apertamente l'assimilabilita' tra riparto di competenze e riparto di attribuzioni, considerando quest'ultimo un «mero criterio interno di assegnazione dei procedimenti tra tribunale in composizione monocratica e collegiale» (cfr., in motivazione, Cass., SS.UU., sentenza n. 48590/2019 (6) ); e il legislatore, da un lato ha espressamente negato che il vizio di attribuzione rientri tra quelli concernenti la capacita' del giudice (art. 33, comma 3 c.p.p.), dall'altro ha inserito l'art. 33-quinquies c.p.p. nell'autonomo Capo VI bis del Libro I, titolo I, scegliendo una collocazione sistematica indicativa della volonta' di non trattare l'inosservanza del riparto di attribuzioni alla stregua di una divisione di competenze. Del resto, anche la giurisprudenza costituzionale ha affermato, con orientamento costante, che i criteri di attribuzione interna dei procedimenti non incidono sul principio del giudice naturale (cfr. C. cost. sentenza n. 419/1998). Infine, non puo' ignorarsi la scelta espressa dal legislatore che, nel formulare l'art. 33-quinquies c.p.p., ha chiaramente deciso di ricalcare il regime di rilevabilita' previsto per l'incompetenza per territorio o per connessione (art. 21, commi 2 e 3 c.p.p.) e non quello dell'incompetenza per materia, pur avendone l'evidente possibilita', e questo conferma l'insostenibilita' di un'interpretazione analogica che soverchi la volonta' legislativa. V. Il quesito rivolto alla Corte costituzionale. Le motivazioni sin qui esposte portano il Collegio rimettente a dubitare concretamente della legittimita' dell'art. 33-quinquies c.p.p., e a chiedere che la Corte adita ne valuti la compatibilita' con i principi costituzionali richiamati. Laddove la Consulta ritenga di condividere le perplessita' espresse, stigmatizzando i plurimi profili di contrasto con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU, con la declaratoria di parziale incostituzionalita' della norma, si chiede che dichiari l'illegittimita' dell'art. 33-quinquies c.p.p. nella parte in cui prevede che «l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate e' rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare», consentendo cosi' alle parti di eccepire il vizio, e al giudice del dibattimento di rilevarlo d'ufficio, entro il primo termine utile successivo al suo manifestarsi, ovvero nella fase di cui all'art. 491 c.p.p., anche nei procedimenti che passano attraverso l'udienza preliminare. Si chiede, al tempo stesso o in subordine, che la Corte dichiari la parziale illegittimita' dell'art. 33-quinquies c.p.p., ultima parte («Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione respinta nell'udienza preliminare»), laddove consente l'eccezione relativa all'inosservanza delle disposizioni sull'attribuzione dei reati in al tribunale in composizione collegiale o monocratica nel piu' ampio termine di cui all'art. 491 c.p.p., solo se originariamente proposta nell'udienza preliminare. L'intervento della Corte costituzionale si sollecita, in particolare, sull'irragionevole decadenza posta dalla norma censurata a carico delle parti e del giudice, che puo' essere rimossa solo da una pronuncia di incostituzionalita' che elimini la sanzione processuale anticipata all'udienza preliminare, parificando il regime di eccepibilita' e rilevabilita' dell'inosservanza del riparto di attribuzioni tracciato dagli articoli 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p. entro l'unico termine plausibile di cui all'art. 491 c.p.p., previsto dall'attuale formulazione dell'art. 33-quinquies c.p.p. per i soli giudizi in cui manchi l'udienza preliminare, con irreparabile pregiudizio per quelli in cui venga celebrata. (1) Nel corso dell'udienza preliminare (celebratasi in data 29 marzo 2019) sono state sollevate e decise dal G.U.P., con ordinanza del 27 giugno 2019, solo le seguenti questioni: L'eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Stefano Lucci in difesa di L. M., relativa al Capo QQQ); L'eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Antonio Perlini in difesa di R. P., relativa al Capo BB); L'eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Santolo La Pietra in difesa di L. P. J., relativa al Capo M); L'eccezione di nullita' della richiesta di rinvio a giudizio per genericita' delle imputazioni di cui ai Capi ZZ), AAA) e HHH), rispettivamente ascritti a A. U. e C. M., sollevata dall'Avv. Teresa Moreno; la doglianza di omessa notifica dell'avviso conclusioni indagini preliminari ex art. 415-bis del codice di procedura penale, eccepita dall'Avv. Alfonso Abagnale in difesa di A. G.; L'eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall'avv. Carmine Iovino in difesa di C. F., relativa al Capo GGG); La doglianza di omessa notifica dell'avviso conclusioni indagini preliminari ex art. 415-bis del codice di procedura penale, eccepita dall'avv. Carmine Iovino in difesa di R. G.; La doglianza di omessa notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, eccepita dall'avv. Carmine Iovino in difesa di D. L., R. G. e F. V.; L'eccezione di incompetenza territoriale sollevate dall'avv. Giovanni Napolitano, in relazione ai reati ascritti a D. C., V. A., A. A. e A. G.; L'eccezione di nullita' della richiesta di rinvio a giudizio per genericita' dell'imputazione di cui al Capo Q), ascritto a D. A., sollevata dall'avv. Giovanni Palumbo; L'eccezione di nullita' della richiesta di rinvio a giudizio per genericita' dei capi d'imputazione ascritti a B. A.o, sollevata dall'avv. Gaetano Rosanova (2) Si riporta il testo dell'art. 33-quater del codice di procedura penale: se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla cognizione del tribunale in composizione collegiale ed altri a quella del tribunale in composizione monocratica, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, al quale sono attribuiti tutti i procedimenti connessi. (3) Non a caso, l'art. 9, decreto legislativo n. 74/2000 esclude espressamente il concorso tra l'emittente della falsa fattura e il soggetto che se ne avvale nella dichiarazione fiscale. (4) L'art. 7 del codice penale, abrogato dal decreto legislativo n. 51/1998, individuava la competenza pretorile sulla base di un duplice criterio, quantitativo e qualitativo, stabilendo che: 1. Il pretore e' competente per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva; 2. Il pretore e' inoltre competente per i seguenti reati: a) violenza o minaccia a un pubblico ufficiale prevista dall'art. 336, comma 1 del codice penale; b) resistenza a un pubblico ufficiale prevista dall'art. 337 del codice penale; c) oltraggio a un magistrato in udienza aggravato a norma dell'art. 343, comma 2 del codice penale; d) violazione di sigilli aggravata a norma dell'art. 349, comma 2 del codice penale; e) favoreggiamento reale previsto dall'art. 379 del codice penale; f) maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, quando non ricorre l'aggravante prevista dall'art. 572, comma 2 del codice penale; g) rissa aggravata a norma dell'art. 588, comma 2 del codice penale, con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa l'alzino sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; h) omicidio colposo previsto dall'art. 589 del codice penale; i) violazione di domicilio aggravata a norma dell'art. 614, comma 4 del codice penale; l) furto aggravato a norma dell'art. 625 del codice penale; m) truffa aggravata a norma dell'art. 640 ,comma 2 del codice penale; n) ricettazione prevista dall'art. 648 del codice penale. (5) Cfr., tra le varie, Cass. pen., Sez. 2, sentenza n. 11649/2019: «L'inosservanza delle disposizioni sull'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale comporta la nullita' sia della sentenza di primo grado emessa dal Giudice monocratico che, ritenuta la sussistenza di una circostanza aggravante in fatto contestata, abbia deciso in merito ad una fattispecie non piu' attribuita alla sua cognizione anziche' procedere alla trasmissione degli atti all'organo collegiale, sia della sentenza di secondo grado con la quale sia stata disattesa la relativa eccezione di nullita' proposta in sede di impugnazione della sentenza monocratica». (6) Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 18 aprile 2019 n. 48590: «La nozione di riparto di attribuzione e', pertanto, un concetto che solo in via descrittiva puo' assimilarsi alla nozione di competenza, atteso che quest'ultima contraddistingue esclusivamente i rapporti tra uffici giudiziari diversi e non all'interno del medesimo ufficio (vedi, Sez. un. civ., n. 1374 del 10 febbraio 1994, Rv. 485275). L'ontologica differenza fra competenza ed attribuzione trova del resto conferma nel disposto dell'art. 33, comma 3, c.p.p., che esclude espressamente il vizio di attribuzione tra quelli concernenti la capacita' del giudice, nonche' nella collocazione sistematica degli articoli 33-bis e seg. c.p.p., inseriti in Capi separati (VI e VI bis) e non all'interno di quello disciplinante il riparto di competenza (Capo II). La disciplina del riparto di attribuzione e' dunque un mero criterio interno di assegnazione dei procedimenti tra tribunale in composizione monocratica e collegiale, basato sul dichiarato principio per cui dove sussiste la connessione tra piu' procedimenti, alcuni dei quali rimessi alla cognizione del tribunale collegiale, a quest'ultimo organo spetta la cognizione dell'intero procedimento, sul presupposto della necessaria attrazione delle imputazioni meno gravi a quelle piu' gravi.».
P.Q.M. Visti gli articoli 134 e 137 Cost., 1 legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara d'ufficio rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 33-quinquies del codice di procedura penale nella parte in cui prevede che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare, consentendo solo in tal caso la riproposizione della questione entro il termine di cui all'art. 491 c.p.p., per contrasto con gli articoli 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 2 - 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 paragrafo 3 CEDU; Sospende il giudizio nei confronti di R. G. , chiamata a rispondere del Capo CC), R. M., chiamata a rispondere del Capo VV), T. R., chiamato a rispondere del Capo NNN), A. U., chiamato a rispondere dei Capi ZZ) e AAA), C. M., chiamato a rispondere del Capo HHH), S. S., chiamato a rispondere del Capo CCC), D. D., chiamato a rispondere del Capo FF), C. L., chiamata a rispondere del Capo PPP), P. A., chiamato a rispondere del Capo DD), C. G. e C. A., chiamati a rispondere in concorso ex art. 110 c.p., dei Capi HH) e II), A. G., chiamato a rispondere del Capo EE), D. C. e C. R., chiamati a rispondere dei reati a loro ascritti in concorso al Capo AAAA), sino al termine del giudizio di legittimita' costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, alle parti in causa non presenti in udienza, al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicato al presidente del Senato e al presidente della Camera dei deputati. Ordina l'immediata trasmissione alla Corte costituzionale della presente ordinanza e degli atti del fascicolo processuale, compresa la prova del regolare adempimento delle predette notificazioni e comunicazioni. Da' atto che la presente ordinanza e' stata letta in udienza e che, pertanto, deve intendersi notificata a coloro che sono, o che devono reputarsi, presenti, cosi' come previsto dall'art. 148, comma 5 c.p.p.. Nocera Inferiore, 18 maggio 2022 Il Presidente: Apicella I Giudici: Palumbo - Noschese