N. 10 SENTENZA 19 dicembre 2022- 31 gennaio 2023

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Tributi - Accertamento delle imposte sui redditi - Prelevamenti degli
  imprenditori commerciali su conti correnti bancari, non  risultanti
  dalle scritture contabili - Presunta equiparazione ai ricavi, salvo
  che ne sia indicato il beneficiario  -  Denunciata  violazione  dei
  principi di  ragionevolezza  e  di  capacita'  contributiva  -  Non
  fondatezza delle questioni, nei sensi di cui in motivazione. 
Tributi - Accertamento delle imposte sui redditi - Prelevamenti degli
  imprenditori commerciali su conti correnti bancari, non  risultanti
  dalle scritture contabili - Presunta equiparazione ai ricavi, salvo
  che ne sia indicato il beneficiario  -  Applicabilita'  anche  agli
  imprenditori assoggettati a contabilita' semplificata -  Denunciata
  violazione  dei  principi  di   ragionevolezza   e   di   capacita'
  contributiva - Non fondatezza delle questioni. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.  600,
  art. 32, primo comma, numero 2). 
- Costituzione, artt. 3 e 53. 
(GU n.5 del 1-2-2023 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Silvana SCIARRA; 
Giudici :Daria de PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni   AMOROSO,   Luca
  ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo  BUSCEMA,  Emanuela  NAVARRETTA,
  Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco DALBERTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  32,  primo
comma, numero 2), del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  29
settembre  1973,  n.  600  (Disposizioni   comuni   in   materia   di
accertamento delle imposte sui redditi), promosso  dalla  Commissione
tributaria provinciale di Arezzo nel procedimento vertente tra L.  V.
e l'Agenzia delle entrate -  Direzione  provinciale  di  Arezzo,  con
ordinanza del 26  aprile  2021,  iscritta  al  n.  150  del  registro
ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 30 novembre 2022  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 dicembre 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 26 aprile 2021 (r. o. n. 150  del
2021), la Commissione tributaria provinciale di Arezzo ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 53  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 32, primo comma, numero 2), del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in  materia  di
accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui  pone  la
presunzione per la quale i prelevamenti sul conto  corrente,  se  non
risultano  dalle  scritture  contabili,   sono   considerati   ricavi
dell'imprenditore  commerciale,  salvo  che  ne   sia   indicato   il
beneficiario. 
    In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che  l'Agenzia
delle entrate, a seguito di  indagini  finanziarie  e,  segnatamente,
sulla scorta delle risultanze  di  conti  correnti  bancari,  recanti
versamenti per euro 167.588,65 e prelevamenti  per  euro  117.958,35,
entrambi  non  giustificati,  aveva  accertato  una   maggiore   base
imponibile di un imprenditore individuale sia per le imposte dirette,
quali l'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e l'imposta
regionale sulle attivita' produttive (IRAP), sia  per  l'imposta  sul
valore aggiunto (IVA) per l'anno 2013. 
    L'atto di accertamento del 7 dicembre 2018 veniva  impugnato  dal
contribuente che, a fondamento del ricorso, deduceva  in  particolare
che l'ufficio, nel rideterminare l'imponibile per la  quantificazione
delle imposte dirette, sommando i versamenti e i  prelevamenti  delle
movimentazioni sui propri conti correnti, non aveva tenuto conto,  se
non in parte, delle giustificazioni fornite dallo stesso per superare
la presunzione di cui all'art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973. 
    La  CTP  evidenzia  che  la  predetta  norma  pone  infatti   una
presunzione  relativa  -  che,  in  accordo  con  la   giurisprudenza
dominante, puo' essere superata solo mediante «prove rigorose, e  non
con presunzioni» - per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se
non risultano dalle  scritture  contabili,  sono  considerati  ricavi
dell'imprenditore  commerciale,  salvo  che  ne   sia   indicato   il
beneficiario, ove superino gli importi di euro 1.000,00 giornalieri e
comunque di euro 5.000,00 mensili. 
    Osserva il giudice a quo che analoghe questioni  di  legittimita'
costituzionale della disposizione  censurata,  con  riferimento  alla
presunzione relativa ai prelevamenti, erano state sollevate  gia'  in
passato e, tuttavia, questa Corte, con la sentenza n. 225  del  2005,
aveva dichiarato non fondate le relative questioni ritenendo, per  un
verso, non manifestamente arbitraria la presunzione e, per un  altro,
non violato il principio di capacita' contributiva, in ragione  della
possibilita', riconosciuta nella giurisprudenza di  legittimita',  di
dedurre in via forfettaria i costi sostenuti per  la  produzione  dei
ricavi non dichiarati. 
    Rammenta, inoltre, la CTP rimettente che questa stessa Corte, con
la successiva sentenza n. 228 del 2014, ha invece ritenuto fondate le
analoghe questioni  sollevate  con  riferimento  all'estensione,  per
effetto delle modifiche introdotte dall'art. 1,  comma  402,  lettera
a), numero  1),  della  legge  30  dicembre  2004,  n.  311,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello  Stato  (legge  finanziaria  2005)»,   della   presunzione   di
equiparazione   dei   prelievi   ai   compensi   con   riguardo    ai
professionisti,   rilevando   che   l'attivita'   degli   stessi   e'
caratterizzata  dalla  preminenza  dell'apporto  del  lavoro  proprio
rispetto  all'apparato  organizzativo  e  che  la  previsione  per  i
medesimi professionisti, da parte  del  legislatore,  di  sistemi  di
contabilita'  semplificata  rende  difficile  distinguere  l'origine,
correlata  a  spese  per  la  vita  personale   o   per   l'attivita'
professionale, delle spese effettuate dal contribuente. 
    2.- Cio' premesso, il giudice a quo, in punto  di  non  manifesta
infondatezza, assume la possibile violazione, da  parte  della  norma
censurata,   dell'art.   3   Cost.,   sul    piano    dell'intrinseca
ragionevolezza, atteso che: a) in  mancanza  di  giustificazione,  un
prelievo   dal   conto   puo'    essere    attribuito,    altrettanto
ragionevolmente, a costi d'impresa quanto a spese  personali,  specie
nell'ipotesi di piccoli imprenditori individuali che  abbiano  optato
(come il contribuente nel giudizio  presupposto)  per  il  regime  di
contabilita' semplificata; b) l'acquisizione di  fattori  produttivi,
in ogni caso, avra'  in  ipotesi  prodotto  entrate  che  sono  state
contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario,  gia'
considerate nell'accertamento quali  versamenti  ingiustificati,  con
conseguente effetto  di  «duplicare  la  posta»  se  sono  sommati  i
prelevamenti. 
    A fondamento del dubbio di legittimita' costituzionale  correlato
alla violazione del principio  di  ragionevolezza,  inoltre,  la  CTP
rimettente sottolinea che, a differenza  di  quanto  affermato  dalla
sentenza di questa Corte  n.  225  del  2005,  la  giurisprudenza  di
legittimita'  non  consente  una  deduzione  automatica   dei   costi
presuntivamente sostenuti per conseguire  i  ricavi  ottenuti  grazie
alle   somme   prelevate   senza   giustificazione,   anche   qualora
l'amministrazione   finanziaria   abbia   operato   un   accertamento
analitico-contabile. Vi e' dunque che, nella prospettiva del  giudice
a quo, la presunzione contestata opera  nel  senso  che  mediante  il
prelievo viene effettuato  un  acquisto  di  fattori  produttivi  che
genera, nel medesimo anno di imposta, un ricavo pari al prelevamento. 
    In subordine, la rimettente deduce l'irragionevolezza  intrinseca
della presunzione di equiparazione dei prelevamenti su conto corrente
ai  ricavi,  laddove   opera   anche   rispetto   agli   imprenditori
assoggettati  a  contabilita'  semplificata,  poiche'   tale   regime
contabile determina, come sottolineato da questa Corte nella sentenza
n.  228  del  2014  rispetto  ai   professionisti,   una   sorta   di
«promiscuita'» contabile, con conseguente difficolta' di  distinguere
tra spese personali e spese professionali. 
    3.- In data 2  novembre  2021,  e'  intervenuto  in  giudizio  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,   deducendo   la   manifesta
infondatezza delle questioni. 
    In particolare, la  difesa  dello  Stato  sottolinea  che  questa
Corte,  gia'  con  la  sentenza  n.  225  del  2005,  ha  escluso  la
violazione, da parte della norma censurata, sia dell'art.  53  Cost.,
poiche' si tratta di una  presunzione  iuris  tantum  superabile  con
l'indicazione del beneficiario dei prelievi, sia dell'art.  3  Cost.,
in quanto non  e'  manifestamente  arbitrario  ipotizzare  che  detti
prelievi ingiustificati siano destinati all'attivita' di  impresa  e,
pertanto, costituiscano redditi  imponibili,  una  volta  detratti  i
relativi costi. Evidenzia, poi, che, a differenza di  quanto  dedotto
dal giudice a quo, la  giurisprudenza  di  legittimita'  consente  al
contribuente di superare  il  contestato  meccanismo  anche  mediante
prove presuntive relative  all'utilizzo  delle  somme  prelevate  per
spese familiari  o  comunque  compiute  al  di  fuori  dell'esercizio
dell'impresa. 
    Per altro verso, l'Avvocatura generale sottolinea  che  la  norma
censurata - funzionale a scoraggiare l'utilizzo del contante,  in  un
sistema nel quale l'evasione raggiunge circa  il  20  per  cento  del
prodotto  interno  lordo  -  non  viola  il  principio  di  capacita'
contributiva  atteso  che  e'  ragionevole  presumere,  a  fronte  di
prelievi non giustificati, che si  tratti  di  costi  cosiddetti  "in
nero", produttivi  cioe'  di  ricavi  non  contabilizzati  e  che  al
contribuente non e' precluso, sempre a differenza di  quanto  assunto
dal giudice rimettente, dedurre i costi sostenuti per  la  produzione
dei ricavi, purche' ne  fornisca  specifica  prova,  in  forza  della
regola generale espressa dall'art. 109,  comma  4,  lettera  b),  del
d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo  unico  delle
imposte sui redditi). 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri rileva, inoltre,  quanto
alle questioni sollevate in via gradata, che non  potrebbe  assumersi
un'irragionevolezza della presunzione in esame  neppure  rispetto  ai
piccoli imprenditori a seguito della modifica della norma censurata -
modifica cui non fa riferimento il giudice rimettente - ad opera  del
decreto-legge 22  ottobre  2016,  n.  193  (Disposizioni  urgenti  in
materia fiscale e per il finanziamento  di  esigenze  indifferibili),
convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2016, n.  225,
che ha introdotto limitazioni alla presunzione stessa, nel senso  che
essa si applica a prelevamenti superiori a 1.000,00 euro  giornalieri
e comunque entro i limiti di 5.000,00  euro  mensili  proprio  avendo
riguardo a tali situazioni nelle quali e' piu' complesso  distinguere
tra  prelievi  compiuti  per  spese  personali  e   per   l'esercizio
dell'impresa. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 26 aprile 2021 (r. o. n. 150  del
2021), la Commissione tributaria provinciale di Arezzo ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 53  Cost.,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 32, primo comma, numero 2),  del  d.P.R.  n.
600 del 1973, nella parte in cui pone la presunzione per la  quale  i
prelevamenti sul conto corrente, se  non  risultano  dalle  scritture
contabili, sono  considerati  ricavi  dell'imprenditore  commerciale,
salvo che ne sia indicato il beneficiario. 
    Il giudice a quo rammenta che analoghe questioni di  legittimita'
costituzionale sono state ritenute non fondate dalla sentenza n.  225
del  2005,  la  quale  ha  rilevato,  sul  piano  delle  censure  che
investivano  il  rispetto  dell'art.  3  Cost.,  che  la  presunzione
espressa dalla norma censurata non e'  manifestamente  arbitraria  e,
con riguardo al parametro di cui all'art. 53 Cost.,  che  neppure  e'
violato il principio di  capacita'  contributiva,  in  ragione  della
possibilita', riconosciuta nella giurisprudenza di  legittimita',  di
dedurre in via forfettaria i costi sostenuti per  la  produzione  dei
ricavi non dichiarati. 
    Ricorda, inoltre,  il  medesimo  giudice  rimettente  che  questa
Corte, con la successiva  sentenza  n.  228  del  2014,  ha  ritenuto
fondate  le  questioni  sollevate  con  riferimento   all'estensione,
operata dall'art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge n.
311 del 2004, della presunzione  di  equiparazione  dei  prelievi  ai
compensi con riguardo ai lavoratori autonomi e professionisti, atteso
che, per un verso, l'attivita'  di  questi  ultimi,  diversamente  da
quella degli imprenditori, e'  caratterizzata  dalla  preminenza  del
lavoro proprio rispetto all'apparato organizzativo e, per  un  altro,
la previsione normativa per lavoratori autonomi e  professionisti  di
sistemi di contabilita'  semplificata  non  consente  di  distinguere
l'origine, correlata  a  spese  per  la  vita  personale  ovvero  per
l'attivita'   professionale,    dei    prelevamenti    bancari    non
contabilizzati. 
    La CTP rimettente assume la  violazione  dell'art.  3  Cost.  sul
piano dell'intrinseca ragionevolezza,  atteso  che,  in  mancanza  di
giustificazione,  un  prelievo  dal  conto  puo'  essere  attribuito,
altrettanto  ragionevolmente,  a  costi  d'impresa  quanto  a   spese
personali, specie nell'ipotesi di  piccoli  imprenditori  individuali
che abbiano optato (come il contribuente nel giudizio principale) per
il regime di contabilita'  semplificata.  L'acquisizione  di  fattori
produttivi, in ogni caso, avra' in ipotesi prodotto entrate che  sono
state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario,
gia' considerate nell'accertamento quali  versamenti  ingiustificati,
con conseguente effetto di «duplicare la posta»  se  sono  sommati  i
prelevamenti. 
    A fondamento del dubbio di legittimita' costituzionale  correlato
alla  violazione  del  principio  di  ragionevolezza,   inoltre,   la
rimettente sottolinea che la giurisprudenza di legittimita',  assunta
come prevalente, non consente  una  deduzione  automatica  dei  costi
presuntivamente sostenuti per conseguire  i  ricavi  ottenuti  grazie
alle somme prelevate senza giustificazione. Vi  sarebbe  dunque  che,
nella prospettiva del giudice a quo, la presunzione contestata  opera
nel senso che mediante il prelievo viene effettuato  un  acquisto  di
fattori produttivi che genera, nel medesimo anno di  imposta,  ricavi
pari ai prelevamenti non contabilizzati, in violazione del  principio
di capacita' contributiva espresso dall'art. 53 Cost. 
    2.-  In  subordine,  la  rimettente   deduce   l'irragionevolezza
intrinseca della presunzione di equiparazione dei prelievi  su  conto
corrente ai ricavi nella parte in cui essa opera anche nei  confronti
degli imprenditori assoggettati a contabilita' semplificata,  poiche'
tale regime contabile determina, come ha  sottolineato  questa  Corte
nella sentenza n.  228  del  2014  quanto  a  lavoratori  autonomi  e
professionisti,  una   sorta   di   «promiscuita'»   contabile,   con
conseguente difficolta' di distinguere tra spese  personali  e  spese
professionali. 
    3.-  All'esame  delle  questioni  sollevate   dalla   Commissione
tributaria provinciale di Arezzo, e' opportuno premettere, in estrema
sintesi, il quadro di riferimento, normativo e giurisprudenziale, nel
quale si colloca la disposizione censurata, ossia  l'art.  32,  primo
comma, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui  «[i]  dati
ed elementi attinenti ai rapporti  ed  alle  operazioni  acquisiti  e
rilevati rispettivamente a norma del numero 7)  e  dell'articolo  33,
secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell'articolo  18,  comma
3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504,  sono
posti a base delle rettifiche e  degli  accertamenti  previsti  dagli
articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra  che  ne  ha
tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta  o
che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono
altresi'  posti  come  ricavi  a  base  delle  stesse  rettifiche  ed
accertamenti,  se  il  contribuente  non  ne   indica   il   soggetto
beneficiario e sempreche' non risultino dalle scritture contabili,  i
prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti
od operazioni per importi  superiori  a  euro  1.000  giornalieri  e,
comunque, a euro 5.000 mensili». 
    Tale  norma  -  che  e'  stata  in  seguito  oggetto  di  diversi
interventi normativi e di questa Corte - e' stata inserita nel d.P.R.
n. 600 del 1973 dall'art.  1  del  d.P.R.  15  luglio  1982,  n.  463
(Disposizioni integrative e correttive  dei  decreti  del  Presidente
della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e  29  settembre  1973,  n.
600, e successive modificazioni, concernenti istituzione e disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto e disposizioni comuni in materia  di
accertamento  delle  imposte  sui  redditi),  quale   strumento   per
contrastare efficacemente fenomeni di evasione in un contesto storico
nel quale operava ancora il cosiddetto segreto bancario. 
    Sotto un primo profilo, la disposizione esprime una presunzione -
non attinta dalle questioni di legittimita' costituzionale in esame -
ritenuta comunemente conforme all'id quod plerumque accidit,  per  la
quale i versamenti sul conto  corrente,  salvo  prova  contraria  del
contribuente,  ove  non  dichiarati  o  risultanti  dalle   scritture
contabili, costituiscono ricavi "occulti" sottratti alla tassazione. 
    Viene invece in rilievo in questa sede, ed e' censurata sotto  il
profilo, tanto della violazione del canone di  ragionevolezza  quanto
del principio di capacita' contributiva, la stessa norma laddove pone
la presunzione secondo cui anche i prelevamenti  sul  conto,  se  non
risultanti dalle scritture contabili dell'imprenditore  e  salvo  che
quest'ultimo ne indichi il beneficiario, costituiscono, per  un  pari
importo, ricavi. 
    Nell'intento di contrastare piu' efficacemente gravi fenomeni  di
evasione, il legislatore ha in vero introdotto una sorta  di  duplice
meccanismo  inferenziale  in  forza  del  quale  se  un  imprenditore
effettua un prelievo non risultante dalla contabilita' lo stesso deve
ritenersi compiuto per sostenere costi "occulti" che a propria  volta
hanno prodotto pari  ricavi  "occulti",  salvo  che  il  contribuente
indichi il beneficiario del prelievo. 
    Come  e'  stato  evidenziato  anche  dal  giudice  rimettente   e
dall'Avvocatura generale dello Stato nell'atto di intervento,  alcune
questioni  afferenti  la  legittimita'  costituzionale,  rispetto  ai
parametri di cui agli artt.  3  e  53  Cost.,  della  presunzione  di
equiparazione dei prelievi ai ricavi espressa dalla  norma  censurata
sono gia' state esaminate da questa Corte nella sentenza n.  225  del
2005. 
    Piu' in particolare, nella relativa fattispecie, il giudice a quo
aveva dubitato della  legittimita'  costituzionale  della  norma  per
essere la stessa lesiva, da un lato, del principio di eguaglianza  in
danno dei titolari di  rapporti  bancari,  nella  misura  in  cui  li
assoggetta all'irragionevole «doppia presunzione» che i  prelevamenti
non giustificati siano acquisti e che dagli  acquisti  derivino  pari
ricavi, e da un  altro,  del  principio  di  capacita'  contributiva,
atteso che l'equiparazione prelevamenti/ricavi comporta che  i  primi
costituiscano imponibile per  l'intero,  stante  l'impossibilita'  di
dedurre i costi correlati a tali ricavi, meramente presunti. 
    Questa Corte, con la richiamata  pronuncia,  nel  dichiarare  non
fondate le questioni  sollevate,  ha  considerato,  innanzitutto,  la
lamentata violazione  dell'art.  53  Cost.  rispetto  alla  quale  ha
ritenuto sostanzialmente erronea  la  premessa  interpretativa  sulla
quale si era fondata la Commissione  tributaria  rimettente  poiche',
nell'ambito di  un  accertamento  induttivo  "puro"  (com'era  quello
compiuto   dall'amministrazione   finanziaria    nella    fattispecie
concreta), la giurisprudenza di legittimita' aveva chiarito  che,  in
detta ipotesi, nel rideterminare i redditi con l'atto impositivo, gli
uffici finanziari devono considerare, in conformita' al principio  di
capacita'  contributiva,  non  solo  i  maggiori  ricavi   ma   anche
l'incidenza   percentuale   dei   costi   relativi,    da    detrarre
dall'ammontare dei prelievi non giustificati. 
    La medesima sentenza n. 225 del 2005 ha, di poi, escluso anche la
dedotta lesione del canone di ragionevolezza,  sottolineando  la  non
manifesta arbitrarieta' della previsione  censurata  laddove  assume,
mediante una presunzione  suscettibile  di  prova  contraria,  che  i
prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati  da  un
imprenditore  siano  stati  destinati  all'esercizio   dell'attivita'
d'impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi  costi,
considerati in termini di reddito imponibile. 
    Intanto, la legge n. 311  del  2004  aveva  esteso,  intervenendo
sulla norma  censurata,  il  meccanismo  della  «doppia  presunzione»
relativa  ai  prelievi   su   conti   correnti   bancari   anche   ai
professionisti, equiparando detti prelievi ai compensi degli stessi. 
    Tale   estensione   e'   stata   dichiarata    costituzionalmente
illegittima da questa Corte con la sentenza n. 228 del 2014, la quale
ha ritenuto, sotto un primo profilo, la non  manifesta  arbitrarieta'
della presunzione per la quale  i  prelevamenti  sui  conti  correnti
equivalgono a ricavi non contabilizzati, affermata  dalla  precedente
sentenza n. 225 del 2005,  derivante  dalla  circostanza,  evincibile
dalla motivazione della stessa, per la quale e'  «congruente  con  il
fisiologico andamento dell'attivita'  imprenditoriale,  il  quale  e'
caratterizzato dalla necessita' di continui investimenti  in  beni  e
servizi in vista di futuri ricavi». Al contrario, l'attivita'  svolta
dai lavoratori autonomi e dai professionisti si caratterizza  per  la
preminenza dell'apporto del lavoro proprio,  che  diviene  preminente
per  coloro  i  quali  esercitano  professioni  liberali,  e  per  la
marginalita' dell'apparato organizzativo. Inoltre, l'irragionevolezza
dell'estensione della presunzione  contestata  ai  professionisti  e'
corroborata dalla possibilita' per gli stessi di avvalersi del regime
di contabilita' semplificata, caratterizzato sul piano  contabile  da
una sorta di "fisiologica promiscuita'" delle entrate e delle  spese,
professionali e personali. 
    Mette conto ricordare, infine, che l'art. 32 del  d.P.R.  n.  600
del 1973, nella parte in cui pone  la  presunzione  di  equiparazione
tanto dei versamenti a redditi "occulti", quanto dei  prelevamenti  a
ricavi non dichiarati, e' stato modificato dal d.l. n. 193 del  2016,
come convertito, che ha limitato - al duplice scopo  di  semplificare
l'attivita' di accertamento  e  di  agevolare  i  contribuenti  nella
complessa prova contraria da fornire a fronte delle movimentazioni di
minore rilievo - l'operare della  stessa  ai  soli  prelevamenti  per
importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e,  nel  complesso,  in
ogni caso, a euro 5.000,00 mensili. 
    4.- Cio' premesso, le questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R.  n.  600  del  1973,
sollevate,  in   via   principale,   dalla   Commissione   tributaria
provinciale di Arezzo  in  riferimento  agli  artt.  3  e  53  Cost.,
suscettibili di valutazione unitaria, non  sono  fondate  per  essere
possibile, nei termini di cui si viene ora a dire, un'interpretazione
adeguatrice, orientata alla conformita' agli evocati parametri. 
    5.- La disposizione censurata pone,  in  favore  del  fisco,  una
presunzione   legale   che   muove   dall'utilizzazione,   da   parte
dell'ufficio, di «dati ed elementi» acquisiti a seguito  di  indagini
finanziarie - e segnatamente, nella specie, di quelle bancarie -  per
fondare su di essi (o anche  su  di  essi),  sia  che  si  tratti  di
«prelevamenti» (o prelievi),  che  di  «importi  riscossi»  (id  est:
versamenti), relativi gli uni e gli altri ad operazioni  per  importi
superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, comunque,  a  euro  5.000,00
mensili, le rettifiche delle dichiarazioni dei  redditi,  determinati
in base alle scritture contabili, delle persone fisiche,  e  non,  di
cui agli artt. 38, 39 e 40 dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973, e gli
accertamenti d'ufficio, di cui al successivo art. 41. 
    Si tratta di una presunzione a carattere relativo  (quindi  iuris
tantum), e non gia' assoluto, perche' opera solo se  il  contribuente
non offre la prova  contraria,  potendo  in  particolare  dimostrare,
alternativamente: a) che di tali dati ed elementi  «ha  tenuto  conto
per la determinazione del reddito soggetto ad imposta»; b) o che essi
«non hanno rilevanza allo stesso fine»; c) oppure che i  prelevamenti
e gli importi riscossi «risult[a]no dalle scritture contabili»; d) o,
infine, che gli stessi hanno un determinato «soggetto  beneficiario»,
indicato puntualmente dal contribuente. 
    In mancanza di prova contraria,  i  prelevamenti  e  gli  importi
riscossi sono considerati «ricavi» e  possono  essere  posti  a  base
delle rettifiche e degli accertamenti  suddetti  per  determinare  il
reddito imponibile nel regime delle imposte dirette. 
    La possibilita' della prova contraria, cosi' articolata, che puo'
dare il contribuente, assicura, in principio,  la  non  arbitrarieta'
della presunzione legale in favore del fisco, come  questa  Corte  ha
gia' ritenuto (sentenza n. 225 del 2005).  Piu'  in  generale  si  e'
rilevato  che  «il  valore  presuntivo  assegnato  dalla  legge  alle
risultanze dei conti, con presunzione sempre  suscettibile  di  prova
contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di  dette
risultanze,  relative  a  rapporti  facenti  capo  al   contribuente»
(ordinanza n. 260 del 2000). 
    La CTP rimettente, in particolare, non dubita della  legittimita'
costituzionale, a fronte dei  parametri  evocati,  della  presunzione
suddetta quanto agli importi riscossi, ossia  ai  versamenti  bancari
ingiustificati, risultanti dai conti del  contribuente,  imprenditore
individuale. Essi, in  mancanza  di  prova  contraria,  si  presumono
essere ricavi occulti ("in nero") dell'attivita' di impresa. 
    Il giudice  a  quo  appunta,  invece,  i  suoi  rilievi  solo  in
riferimento ai  prelevamenti  ingiustificati,  risultanti  dai  conti
bancari dello stesso contribuente.  In  tale  fattispecie  -  che  e'
oggetto del giudizio principale - la presunzione legale e' in realta'
duplice:  i  prelievi  dal  conto  corrente,  in  mancanza  di  prova
contraria,  fanno  presumere  che   essi   siano   stati   utilizzati
nell'esercizio dell'attivita' d'impresa per sostenere costi  occulti;
questi ultimi, a loro volta, si presume che abbiano  generato  ricavi
non contabilizzati,  che  quindi  sono  calcolati  in  aumento  nella
determinazione del reddito imponibile. 
    Di tale peculiarita', che segna un accentuato favor per il fisco,
ha gia' tenuto conto questa Corte che, con specifico riferimento alla
presunzione scaturente da prelievi bancari ingiustificati, ha parlato
di «doppia presunzione» (sentenza n.  225  del  2005)  o  di  «doppia
correlazione», tale per  cui  «in  assenza  di  giustificazione  deve
ritenersi  che  la  somma  prelevata   sia   stata   utilizzata   per
l'acquisizione,  non  contabilizzata  o  non  fatturata,  di  fattori
produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti
a loro volta senza essere contabilizzati o  fatturati»  (sentenza  n.
228 del 2014). 
    La ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) della  presunzione
legale, fondata su dati di esperienza generalizzati secondo l'id quod
plerumque accidit (sentenze n. 269 del 2017, n. 139 del 2010 e n. 346
del 1999), e l'esigenza del  rispetto  della  capacita'  contributiva
(sentenza n. 188 del 2018) richiedono  che  una  accentuazione  cosi'
marcata del favor per il fisco sia  bilanciata  da  un  regime  della
prova contraria da parte del contribuente, estesa a ogni  presunzione
semplice  (art.  2729  del   codice   civile)   e   integrata   dalla
deducibilita' del fatto notorio (art. 115, secondo comma, del  codice
di procedura civile). 
    In particolare, nel  dichiarare  la  non  fondatezza  di  analoga
questione di legittimita' costituzionale, questa Corte  (sentenza  n.
225 del 2005) ha ritenuto  che  il  contribuente  possa  eccepire  la
«incidenza  percentuale  dei  costi  relativi,  che  vanno,   dunque,
detratti dall'ammontare dei prelievi non  giustificati»;  cio'  sulla
base della «piu' recente giurisprudenza di legittimita'». 
    In seguito questa Corte (sentenza n. 228 del  2014),  ponendo  in
comparazione la posizione dei contribuenti  imprenditori  con  quella
dei lavoratori autonomi e dei professionisti, ha si' ritenuto, quanto
a questi ultimi, che tale «presunzione e'  lesiva  del  principio  di
ragionevolezza  nonche'   della   capacita'   contributiva,   essendo
arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti
bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano  destinati  ad  un
investimento nell'ambito della propria attivita' professionale e  che
questo a sua volta  sia  produttivo  di  un  reddito»,  ma  ha  anche
confermato,  quanto  ai  primi,  che  la  presunzione   fondata   sui
prelevamenti bancari e'  «congruente  con  il  fisiologico  andamento
dell'attivita' imprenditoriale,  il  quale  e'  caratterizzato  dalla
necessita' di continui investimenti in beni e  servizi  in  vista  di
futuri ricavi». 
    Sulla  scia  di  questa  giurisprudenza  deve,   ora,   ribadirsi
ulteriormente, per un verso, la non manifesta irragionevolezza  della
«doppia presunzione» che  dai  prelevamenti  bancari  ingiustificati,
eseguiti  dall'imprenditore,  inferisce  costi  e  ricavi  occulti  e
pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e  di  accertamento
da parte del  fisco;  presunzione  che  si  iscrive  nel  piu'  ampio
contesto  della  normativa   sulla   tracciabilita'   dei   movimenti
finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del
danaro contante  al  fine  di  contrastare  l'evasione  o  l'elusione
fiscale. 
    Per altro verso, va ribadito che  l'interpretazione  adeguatrice,
orientata alla conformita' ai parametri  suddetti,  richiede  che  il
contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova  contraria
presuntiva e, in particolare, eccepire la «incidenza percentuale  dei
costi  relativi,  che  vanno,  dunque,  detratti  dall'ammontare  dei
prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del  2005)  affinche'  la
presunzione in esame risulti compatibile anche con  il  principio  di
capacita' contributiva (art. 53, primo comma, Cost.). 
    6.-  In  questa  piu'  mirata  prospettiva  della  idoneita'  dei
prelevamenti bancari ingiustificati  a  costituire  prova  di  ricavi
occulti,  la   CTP   rimettente   richiama   la   giurisprudenza   di
legittimita',  indicata  come  prevalente,  che  parrebbe  negare  la
possibilita' per il contribuente imprenditore  di  offrire  la  prova
contraria  anche  mediante  presunzioni   semplici,   si'   da   aver
sostanzialmente disatteso - sempre ad avviso del giudice a  quo  -  i
principi enunciati da questa Corte nella richiamata sentenza  n.  225
del 2005. 
    In realta', la giurisprudenza di legittimita'  ben  riconosce  la
facolta'  del  contribuente  di  fornire  la  prova  contraria  anche
mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono  prove  e
non meri argomenti di prova, sia perche' la inammissibilita'  di  uno
strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge. 
    Costituendo la presunzione  legale  una  rilevante  eccezione  al
principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice e
alla regola dell'onere della  prova,  non  e'  ipotizzabile  che,  in
mancanza  di  un'espressa  previsione  del  legislatore  e  per   via
interpretativa, si predichi una limitazione del principio di liberta'
delle prove, ritenendo che  la  prova  contraria  a  una  presunzione
legale non possa essere costituita da una presunzione  semplice  (tra
le altre,  Corte  di  cassazione,  sezione  tributaria,  sentenza  30
novembre 2011, n. 25502; sezione sesta  civile,  ordinanza  5  maggio
2017, n. 11102 e sezione quinta tributaria, ordinanza 5 ottobre 2018,
n. 24422). La richiamata giurisprudenza ha solo precisato - e qui  si
innesta il malinteso interpretativo che ha ingenerato i  dubbi  della
CTP rimettente - che la possibilita' per il contribuente di  fornire,
mediante presunzioni semplici,  la  prova  contraria,  rispetto  alla
presunzione legale di cui all'art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, non
esonera il giudice - peraltro in  conformita'  alle  regole  generali
ritraibili dall'art. 2729 cod. civ. -  dalla  precisa  individuazione
dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla  verifica  degli
indizi offerti dal contribuente in  relazione  ai  movimenti  bancari
riscontrati  e  dalla  valutazione  della  gravita',   precisione   e
concordanza degli stessi. Si richiede, in definitiva, che  le  prove,
ancorche' presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice. 
    Del resto la specificita'  del  processo  tributario,  quanto  al
regime  delle  prove,  comporta  solo  la  non   ammissibilita'   del
giuramento (art. 7, comma 4,  del  decreto  legislativo  31  dicembre
1992, n.  546,  recante  «Disposizioni  sul  processo  tributario  in
attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30 dicembre 1991, n. 413»),  mentre  la  prova  testimoniale  e'  ora
ammessa, ove necessaria ai fini del decidere (art. 4 della  legge  31
agosto 2022, n. 130, recante «Disposizioni in materia di giustizia  e
di processo tributari»). Comunque  il  giudice  tributario  potra'  e
dovra' far uso dei poteri riconosciutigli dal comma 1 dell'art. 7 del
decreto legislativo n. 546 del 1992 (sentenza n. 18 del 2000), in  un
contesto processuale di pienezza del contradditorio (sentenza  n.  73
del 2022) e di parita' delle armi, quale proiezione  del  canone  del
giusto processo (art. 111, primo e secondo comma, Cost.). 
    7.-  Piu'  in  particolare,  occorre   considerare   che,   nella
fattispecie concreta che ha dato luogo  alla  piu'  volte  richiamata
sentenza n. 225 del 2005, veniva in rilievo un accertamento induttivo
cosiddetto "puro" o extracontabile, fondato su indagini bancarie. 
    Gli  uffici   finanziari   hanno   la   facolta'   di   procedere
all'accertamento  induttivo  in  senso  stretto  (o  "puro")  se   la
contabilita' dell'impresa e' complessivamente inattendibile  (tra  le
altre, Corte di cassazione, sezione quinta tributaria,  ordinanze  18
dicembre 2019, n. 33604 e 8 marzo 2019, n. 6861) ovvero se  ricorrono
gli altri presupposti indicati dall'art. 39 del  d.P.R.  n.  600  del
1973 (ossia, se il reddito non e' indicato nella dichiarazione; o  se
dal verbale ispettivo risulta  che  l'impresa  non  ha  tenuto  o  ha
sottratto all'accertamento scritture contabili obbligatorie  ai  fini
fiscali; o se il  contribuente  non  ha  dato  seguito  all'invito  a
trasmettere  o  esibire  atti  o  documenti  e  non  ha  risposto  al
questionario). 
    In queste ipotesi, l'amministrazione finanziaria puo'  esercitare
una  serie  di  facolta'  istruttorie  ulteriori  rispetto  a  quelle
ordinarie (ossia puo' avvalersi dei dati  e  delle  notizie  comunque
raccolti o venuti a propria conoscenza; prescindere, in  tutto  o  in
parte, dalle risultanze della contabilita'; avvalersi di  presunzioni
cosiddette "super-semplici", ossia prive dei requisiti  di  gravita',
precisione e concordanza, ad esempio, medie statistiche e altri  dati
di carattere astratto, non  desunti  dalla  situazione  concreta  del
singolo contribuente). 
    Proprio l'impossibilita' di una ricostruzione  complessiva  della
contabilita' (o, comunque, la  generalizzata  inattendibilita'  della
stessa) ha da tempo indotto  la  giurisprudenza  di  legittimita'  ad
affermare il principio - cui ha fatto riferimento questa Corte  nella
sentenza n.  225  del  2005  -  secondo  il  quale,  nell'ipotesi  di
accertamento induttivo "puro", deve  riconoscersi  la  deduzione  dei
costi  di  produzione,  determinata  anche  in   misura   percentuale
forfettaria. E anzi, nel caso di accertamento induttivo "puro", e' lo
stesso  ufficio  finanziario  ad  essere   onerato   di   determinare
induttivamente non solo i ricavi, ma  anche  i  corrispondenti  costi
(Corte  di  cassazione,  sezione  quinta  tributaria,  ordinanza   29
settembre 2017, n. 22868 e sentenza 28 novembre 2014, n. 25317). 
    Invece, la fattispecie che ha originato  l'odierno  incidente  di
legittimita' costituzionale riguarda  -  per  quanto  puo'  desumersi
dall'ordinanza di rimessione - un accertamento analitico-contabile. 
    Quest'ultima  forma  di  accertamento  si  caratterizza  per   la
rettifica  di  singole  componenti  del  reddito  dichiarato  e  puo'
derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture  contabili
(il bilancio, in  particolare),  e  dall'esame  della  documentazione
posta a  fondamento  della  contabilita',  come,  per  l'appunto,  le
risultanze delle movimentazioni bancarie. 
    Presupposto dell'utilizzo  del  metodo  analitico  o  "misto"  e'
l'attendibilita' complessiva  della  contabilita',  che  consente  la
rettifica  di  singole  componenti  reddituali:   in   sostanza,   la
determinazione del reddito e' compiuta nell'ambito  delle  risultanze
della contabilita', ma con una  ricostruzione  induttiva  di  singoli
elementi attivi o passivi,  dei  quali  risulta  provata  aliunde  la
mancanza  o  l'inesattezza  (Corte  di  cassazione,  sezione   quinta
tributaria, ordinanza 21 marzo 2018, n. 7025). 
    Proprio la presenza di una contabilita' generalmente attendibile,
e una ripresa a tassazione che si  realizza  mediante  rettifiche  di
singole "poste" della stessa, implica che ai fini della deduzione dei
costi, operi in generale la  regola  ritraibile  dall'art.  109  t.u.
imposte redditi, in  forza  della  quale,  se  gli  stessi  non  sono
presenti  nel  conto  economico,  possono  essere  dedotti  solo   se
risultano da elementi certi e precisi, dei quali l'onere della  prova
e' a carico del contribuente (Cass., n. 7025 del 2018). Ed e' vero  -
come  riferisce  il  giudice  rimettente  -   che   talvolta   questa
puntualizzazione e' stata fatta  dalla  giurisprudenza  anche  quando
l'accertamento analitico-contabile si fonda su indagini bancarie,  e,
in particolare, nell'ipotesi di accertamento di  maggiori  ricavi  da
parte  degli  uffici  finanziari  attraverso  il  duplice  meccanismo
inferenziale in  contestazione,  per  il  quale  a  un  prelievo  non
giustificato  sul  conto   corrente   dell'imprenditore   commerciale
corrisponderebbe un costo occulto, che, a propria volta,  andrebbe  a
produrre un ricavo parimenti occulto (Corte  di  cassazione,  sezione
quinta tributaria, sentenza 4 marzo 2015, n. 4314). 
    Tuttavia si  tratta  di  un  orientamento  che  non  puo'  essere
considerato espressione di un diritto vivente perche' relativo a casi
limitati, in mancanza peraltro di un intervento delle  Sezioni  unite
sulla questione ai sensi dell'art. 374 cod. proc. civ. 
    8.- Pero', nell'esaminare la questione  della  deducibilita'  dei
costi anche a fronte di un accertamento analitico contabile  compiuto
mediante indagini bancarie, occorre considerare che  la  disposizione
censurata consente all'amministrazione finanziaria  di  avvalersi  di
una presunzione che, quanto  all'equiparazione  dei  prelevamenti  ai
ricavi, e' in realta'  duplice  (o  di  secondo  grado):  i  prelievi
sarebbero utilizzati per sostenere costi  occulti,  i  quali  a  loro
volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch'essi, dalla
contabilita' dell'imprenditore. 
    In una fattispecie siffatta dunque  -  tanto  che  il  metodo  di
accertamento sia  analitico-induttivo,  quanto  induttivo  cosiddetto
"puro" - finirebbe  effettivamente  con  il  violare  i  principi  di
ragionevolezza e di capacita' contributiva un sistema nel quale fosse
consentito alla stessa amministrazione dimostrare, in  virtu'  di  un
meccanismo  inferenziale  di  secondo  grado,  che  i  prelievi   del
contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi "occulti",
dai quali sono stati prodotti ricavi "occulti", pari ai  prelievi  in
questione, senza che sia possibile la deduzione dei  costi  sostenuti
dall'imprenditore  per  produrre  tali  ricavi,  secondo  una   prova
contraria per presunzioni offerta da quest'ultimo. 
    Da una  parte,  infatti,  da  tale  sistema  deriverebbero  esiti
irragionevoli perche' finirebbe per  prevedere  un  trattamento  piu'
severo, quanto al regime della  possibile  prova  contraria  rispetto
alla presunzione legale in esame, in danno del  contribuente  che  ha
tenuto una contabilita'  complessivamente  attendibile  (e  che  puo'
essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto
al regime probatorio  di  cui  si  avvale  chi,  destinatario  di  un
accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilita' ovvero ne ha
tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere  gravi
condotte,  quale  l'omessa  presentazione  della  dichiarazione   dei
redditi. 
    D'altra parte,  la  presunzione  in  esame,  quanto  ai  prelievi
bancari recuperati a reddito d'impresa  quali  ricavi  "occulti",  si
porrebbe in contrasto con il principio  della  capacita'  contribuiva
poiche', in mancanza di alcuna deduzione di costi, desumibile in  via
presuntiva,   anche   con   riferimento   alle   "medie"    elaborate
dall'amministrazione  finanziaria  per  il  settore  di  riferimento,
finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza  inesistente  laddove,
invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice
in  indici  concretamente  rivelatori  di  ricchezza  (ex   plurimis,
sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del
1995, n. 179 del 1985 e n. 200 del 1976). 
    9.- In conclusione, la disposizione censurata in tanto si sottrae
alle censure mosse, in riferimento agli evocati parametri, dalla  CTP
rimettente - si' che le sollevate questioni possono essere dichiarate
non fondate - in quanto si interpreti nel senso che, a  fronte  della
presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi  "occulti",
scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il  contribuente
imprenditore  possa   sempre,   anche   in   caso   di   accertamento
analitico-induttivo, opporre  la  prova  presuntiva  contraria  e  in
particolare  possa  eccepire  la  «incidenza  percentuale  dei  costi
relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non
giustificati» (sentenza n. 225 del 2005). 
    10.-  Non  fondate  sono,  poi,  le  questioni  di   legittimita'
costituzionale  sollevate,  in  via  espressamente   gradata,   dalla
Commissione tributaria  provinciale  di  Arezzo,  la  quale  censura,
sempre con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., lo  stesso  art.  32,
primo comma, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del  1973,
nella parte in cui equipara presuntivamente i prelievi ingiustificati
non risultanti dalle scritture contabili  ai  ricavi  anche  per  gli
imprenditori assoggettati a un regime di contabilita' semplificata ai
sensi dell'art. 18 t.u. imposte redditi. 
    11.- E' opportuno ricordare, ai fini dell'esame di tale  censura,
che le imprese individuali e le societa' di persone  e  assimilate  i
cui ricavi non abbiano superato, nell'arco di un intero anno  solare,
determinate soglie (ovvero, gli importi di euro 400.000,00  se  hanno
per oggetto prestazioni di servizi e di euro 700.000,00 se hanno  per
oggetto altre  attivita'),  adottano  il  regime  della  contabilita'
semplificata  come  "naturale",  nel  senso  che  lo   stesso   opera
automaticamente per le medesime, ferma la possibilita' di optare,  in
alternativa, per quello ordinario. 
    Le imprese che adottano un sistema di  contabilita'  semplificata
non sono obbligate a redigere il  bilancio  e  sono  esonerate  dalla
tenuta delle scritture contabili (libro giornale, libro  inventari  e
scritture ausiliarie), in quanto devono registrare solo i costi  e  i
ricavi di competenza dell'esercizio, mentre non devono  provvedere  a
rilevare gli incassi e i pagamenti. 
    12.- I dubbi di legittimita' costituzionale  del  giudice  a  quo
riprendono, in larga parte, le argomentazioni sottese alla richiamata
sentenza n. 228 del 2014, con la quale questa Corte,  nel  dichiarare
costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui,
dopo l'intervento della legge n. 311 del 2004, aveva esteso anche  ai
lavoratori autonomi la  presunzione  iuris  tantum  per  la  quale  i
prelievi su conto corrente si considerano «compensi»  cosi'  come  si
considerano  «ricavi»  per  il  contribuente  imprenditore,   ha   in
motivazione sottolineato che tale declaratoria si imponeva, oltre che
per  la  natura  dell'attivita'  dei  professionisti,  anche  per  la
circostanza che gli stessi possono legittimamente avvalersi di regimi
di contabilita' semplificata connotati  da  una  sorta  di  "naturale
promiscuita'" tra le spese sostenute per  l'esercizio  dell'attivita'
professionale e quelle personali. 
    Questa Corte ha quindi ritenuto  -  proprio  con  riferimento  ai
prelevamenti  bancari  -  che  fosse  costituzionalmente  illegittimo
l'allineamento  della  posizione  dei  lavoratori  autonomi   e   dei
professionisti a  quella  degli  imprenditori,  anche  in  regime  di
contabilita' semplificata, quanto alla presunzione di ricavi/compensi
"occulti", deducibili dai prelevamenti  stessi.  E'  pertanto  venuta
meno  l'equiparazione  dei  prelevamenti  bancari  ingiustificati  ai
compensi. 
    Ma, al  contrario,  non  vi  e'  un'esigenza  costituzionale  che
richieda di ripristinare, mutatis mutandis, questo  allineamento  con
l'esclusione anche dell'equiparazione di tali prelevamenti ai ricavi. 
    Non e' possibile, in ragione del solo regime di  contabilita'  in
concreto adottato dal contribuente, assumere un'equiparazione tra  la
situazione dei lavoratori autonomi e professionisti  e  quello  degli
imprenditori commerciali; il quale  ultimo  si  caratterizza  -  come
evidenziato dalla stessa sentenza n. 228 del 2014 - per  le  continue
movimentazioni sul conto corrente dovute a un'attivita' nella  quale,
a  differenza  di  quanto   avviene   per   lavoratori   autonomi   e
professionisti,  prevale,  sul  lavoro   proprio   dell'imprenditore,
l'apparato organizzativo che lo sostiene. 
    Peraltro successivamente, con il  d.l.  n.  193  del  2016,  come
convertito, lo stesso legislatore e' intervenuto  sulla  disposizione
censurata  proprio  per  risolvere  il   problema   delle   eventuali
difficolta'  probatorie   derivanti   da   situazioni   come   quella
dell'imprenditore   assoggettato   a    contabilita'    semplificata,
prevedendo adeguate soglie di  movimentazioni  giornaliere  su  conto
corrente  (sino  all'importo  di  1.000,00  euro)  e  mensili   (sino
all'importo complessivo di 5.000,00 euro), solo dopo  il  superamento
delle quali opera la presunzione in esame. 
    Quest'ultima, pertanto, non solo non e' manifestamente arbitraria
(art.   3   Cost.),   ma    neppure    determina    un    trattamento
ingiustificatamente  differenziato  in  peius  per  gli  imprenditori
commerciali  assoggettati  al  regime  di   contabilita'   cosiddetta
semplificata; ne' e' leso il principio della  capacita'  contributiva
(art. 53, primo comma, Cost.). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara non fondate, nei sensi  di  cui  in  motivazione,  le
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 32,  primo  comma,
numero 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni  comuni
in materia di accertamento delle imposte sui redditi),  sollevate  in
via principale, in riferimento agli artt. 3 e 53 della  Costituzione,
dalla Commissione tributaria provinciale di  Arezzo  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 32, primo comma, numero 2),  del  d.P.R.  n.
600 del 1973, sollevate in via gradata, in riferimento agli artt. 3 e
53 Cost., dalla Commissione  tributaria  provinciale  di  Arezzo  con
l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 2022. 
 
                                F.to: 
                     Silvana SCIARRA, Presidente 
                     Giovanni AMOROSO, Redattore 
                      Valeria EMMA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023. 
 
                           Il Cancelliere 
                         F.to: Valeria EMMA