N. 51 SENTENZA 6 - 28 marzo 2024

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Magistratura -  Sanzioni  disciplinari  -  Rimozione  -  Applicazione
  automatica in caso di condanna a pena detentiva,  per  delitto  non
  colposo, non inferiore a un anno, la cui esecuzione non  sia  stata
  sospesa o per la quale  sia  intervenuto  provvedimento  di  revoca
  della sospensione - Violazione  dei  principi  di  proporzionalita'
  della  sanzione  e  di  irragionevolezza  della  sottrazione  della
  valutazione discrezionale all'organo disciplinare -  Illegittimita'
  costituzionale parziale. 
- Decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, art. 12, comma 5. 
- Costituzione, artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma; Convenzione  per
  la  salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo   e   delle   liberta'
  fondamentali, art. 8. 
(GU n.14 del 3-4-2024 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta da: 
Presidente:Augusto Antonio BARBERA; 
Giudici  :Franco  MODUGNO,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni   AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo  BUSCEMA,
  Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo  PATRONI
  GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella  SCIARRONE
  ALIBRANDI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  12,  comma
5,  del  decreto  legislativo  23  febbraio  2006,  n.  109,  recante
«Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25  luglio  2005,
n. 150», promosso dalla Corte di cassazione,  sezioni  unite  civili,
nel procedimento disciplinare a carico di F. L., con ordinanza del 18
settembre 2023, iscritta al n. 143  del  registro  ordinanze  2023  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  45,  prima
serie speciale, dell'anno 2023. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  F.  L.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 2024 il Giudice  relatore
Francesco Vigano'; 
    uditi gli avvocati Massimo Luciani e Patrizio Ivo D'Andrea per F.
L. e l'avvocato dello Stato Paola Maria Zerman per il Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 6 marzo 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 settembre 2023, la Corte di  cassazione,
sezioni  unite  civili,  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma  5,  del  decreto  legislativo  23
febbraio  2006,  n.   109,   recante   «Disciplina   degli   illeciti
disciplinari  dei  magistrati,  delle  relative  sanzioni   e   della
procedura  per  la  loro  applicabilita',  nonche'   modifica   della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'art.  1,  comma
1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n.  150»,  in  riferimento
agli artt. 3,  97,  105  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 8 della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, «nella parte in cui  dispone  che  si  applica  la
sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna  a
pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui
esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163  e  164
del codice penale o per la quale  sia  intervenuto  provvedimento  di
revoca della sospensione ai  sensi  dell'articolo  168  dello  stesso
codice, senza  prevedere  che  sia  comunque  rimessa  all'Organo  di
governo autonomo la valutazione  concreta  della  offensivita'  della
condotta  al  fine  di  una  eventuale   graduazione   della   misura
sanzionatoria». 
    1.1.- Le Sezioni unite  rimettenti  sono  investite  del  ricorso
avverso  la  sentenza  della  Sezione  disciplinare   del   Consiglio
superiore della magistratura del 22 dicembre 2022, n. 186. 
    Piu' in particolare, riferisce il giudice a quo: 
    -  che  il  magistrato  in  questione  era  stato  sottoposto   a
procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 4, comma 1, lettera  d),
del d.lgs. n. 109 del 2006  in  relazione  alla  pendenza,  nei  suoi
confronti, di un procedimento penale per concorso in abuso d'ufficio,
rivelazione di segreto d'ufficio e falso in atto  pubblico  aggravato
ai sensi dell'art. 476, secondo comma, del codice penale; 
    -  che  il  procedimento  disciplinare  era  stato  sospeso   per
pregiudizialita' del processo penale; 
    - che, in esito a giudizio abbreviato, il  magistrato  era  stato
assolto dalle prime due imputazioni, ed era stato  invece  condannato
alla pena di  due  anni  e  quattro  mesi  di  reclusione,  oltre  al
risarcimento del danno nei confronti delle parti  civili,  per  avere
egli apposto, con il consenso della presidente del  collegio  di  cui
era componente, la firma apocrifa della presidente stessa in calce  a
tre provvedimenti giurisdizionali; 
    - che la sentenza era stata integralmente confermata in appello e
poi dalla Corte di cassazione, sezione quinta penale, con sentenza 23
novembre 2021-24 marzo 2022, n. 10671. 
    Conclusosi il procedimento penale, la  Sezione  disciplinare  del
CSM, con la sentenza impugnata nel giudizio a quo,  aveva  dichiarato
il magistrato colpevole per le medesime  condotte,  applicandogli  la
sanzione  disciplinare   della   rimozione,   come   previsto   dalla
disposizione censurata. 
    1.2.- In punto di rilevanza, osserva il giudice rimettente che se
il comma 5 dell'art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006  fosse  dichiarato
costituzionalmente  illegittimo,  da  tale  illegittimita'   dovrebbe
derivare la cassazione della  sentenza  della  Sezione  disciplinare.
Infatti, «escluso l'automatismo  sanzionatorio  di  cui  all'indicata
norma, la pronuncia andrebbe riformata per violazione degli artt. 4 e
12 del  medesimo  decreto  legislativo  per  non  avere  il  Collegio
dell'Organo di governo autonomo scelto con la dovuta discrezionalita'
la  risposta  al  fatto  contestato  sulla  base  del   giudizio   di
proporzionalita'   e   appropriatezza   tipico    del    procedimento
disciplinare». 
    Una tale  considerazione,  secondo  il  rimettente,  non  sarebbe
inficiata dal passaggio motivazionale contenuto nella sentenza  della
Sezione disciplinare,  in  cui  si  afferma  che  la  gravita'  delle
condotte oggetto di incolpazione «avrebbe reso necessaria la sanzione
estrema della rimozione anche ove mai,  per  avventura,  la  sanzione
penale comminata  fosse  stata  mantenuta  al  di  sotto  del  minimo
oltrepassato il quale l'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del  2006
impone la  conseguenza  della  rimozione».  Una  tale  argomentazione
avrebbe infatti un carattere meramente ipotetico, non essendo  dubbio
che la sanzione sia stata irrogata ai sensi dell'art.  12,  comma  5,
del d.lgs. n.  109  del  2006,  e  costituendo  dunque  l'automatismo
stabilito dalla disposizione  censurata  «elemento  condizionante  ed
ineludibile della motivazione della sentenza, cosi'  da  relegare  al
campo delle ipotesi  le  ulteriori  considerazioni  che  seguono  una
logica  differente,  presupponente  una  (inesistente)  graduabilita'
delle sanzioni». 
    1.3.- Le Sezioni unite rimettenti dubitano  della  compatibilita'
della disposizione censurata con gli artt. 3, 97, 105  e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU. 
    1.3.1.-  Escluso  il  dubbio  di   legittimita'   costituzionale,
sollevato dalla difesa del ricorrente, per contrasto con l'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7  CEDU  (per  non  potersi
considerare  la  sanzione  disciplinare  impugnata  come  di   natura
punitiva), non manifestamente infondato pare, invece,  al  giudice  a
quo il dubbio  di  costituzionalita'  relativo  all'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU. 
    Osserva il rimettente che, secondo la Corte europea  dei  diritti
dell'uomo,  talune  ingerenze  nella  vita  lavorativa  -   come   il
licenziamento,  la  retrocessione,  il  diniego  di  accesso  a   una
professione - rientrano nell'ambito di applicazione della nozione  di
vita privata di cui all'art. 8 CEDU (sono citate  Corte  EDU,  grande
camera, sentenze 25 settembre  2018,  Denisov  contro  Ucraina  e  17
dicembre 2020, Mile Novaković contro Croazia). Rammenta, inoltre, che
nell'adempiere gli obblighi positivi e negativi imposti  dall'art.  8
CEDU,  ciascuno  Stato  deve  trovare  un  giusto  equilibrio  tra  i
concorrenti interessi generali e quelli dei singoli, nell'ambito  del
margine di apprezzamento che gli e' riconosciuto, e nel  rispetto  di
«un principio di proporzionalita' tra la  misura  [contestata]  e  lo
scopo perseguito», oltreche' di una procedura decisionale equa. 
    Il giudice a quo ritiene indubbio che,  nel  caso  in  esame,  le
conseguenze     derivanti     dall'automatica     rimozione     siano
«inevitabilmente incidenti sulla vita privata del ricorrente, rimasto
senza lavoro quando non  aveva  ancora  compiuto  sessanta  anni  (e,
dunque, un'eta'  che,  da  un  lato,  non  consente  di  accedere  al
trattamento pensionistico e, dall'altro, rende del tutto illusoria la
possibilita' di intraprendere altra professione,  diversa  da  quella
oggetto  della   rimozione)».   D'altra   parte,   la   mancanza   di
un'alternativa concreta alla rimozione, pur  essendo  ricollegata  ad
una condanna penale, contrasterebbe «con i principi di gradualita'  e
proporzionalita' della sanzione disciplinare che  soli  garantiscono,
nell'ottica  della  Corte  europea,  una  reazione  adeguata  al  pur
legittimo fine perseguito». In effetti, la semplice deduzione, in via
presuntiva,  della  proporzionalita'  della   sanzione   disciplinare
dall'esistenza di una condanna penale sovrapporrebbe indebitamente il
piano punitivo statuale e quello disciplinare; e cio' sarebbe  «tanto
piu' evidente se si considera che la norma in questione non specifica
neppure quali siano i fatti  penalmente  rilevanti  in  relazione  ai
quali la prevista condanna  determina  la  automatica  rimozione  del
magistrato,  introducendo  cosi',  di  fatto,  una  interdizione  dai
pubblici  uffici  non  prevista  dal  legislatore  penale».   Dunque,
l'automatismo censurato, «precludendo all'Organo di governo  autonomo
la possibilita' di una graduazione della  sanzione  da  applicare  in
rapporto al caso concreto, integr[erebbe] la violazione  dell'art.  8
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e  del  principio  di
proporzionalita' tra la misura e lo scopo perseguito». 
    1.3.2.- Il rimettente ritiene poi dubbia la compatibilita'  della
disposizione censurata con gli artt. 3 e 105 Cost. 
    Il giudice a quo sottolinea gli elementi  che  differenzierebbero
la disciplina ora all'esame rispetto a quella oggetto della  sentenza
n. 197 del 2018 di questa Corte. In quell'occasione si controverteva,
infatti, della sanzione fissa della rimozione per chi fosse  ritenuto
responsabile  dal  giudice  disciplinare  di  un  preciso   illecito,
anch'esso di natura disciplinare. Il riferimento sarebbe stato dunque
all'individuazione di una precisa  «species  facti».  Ora  invece  si
dubita della legittimita' costituzionale di un automatismo legato  al
sopravvenire di una  condanna  ad  una  pena  superiore  a  un  certo
quantum: sicche' la disciplina censurata non indicherebbe una vera  e
propria species facti, ma si limiterebbe a individuare  una  «species
poenae». E cio' nonostante «l'eterogeneita' delle situazioni di fatto
che, in astratto, potrebbero  rientrare  nell'ambito  della  suddetta
previsione». 
    A fronte di tale eterogeneita', «comprensiva  anche  di  condotte
estranee   ai   profili   dell'imparzialita'   e   della    terzieta'
dell'amministrazione  della  giustizia»,  non  sarebbe  rimessa  alla
Sezione  disciplinare  alcuna  possibilita'   di   graduazione,   non
potendosi considerare utile, a tale  fine,  la  previsione  contenuta
nell'art. 3-bis  del  d.lgs.  n.  109  del  2006,  secondo  la  quale
«[l]'illecito disciplinare non e' configurabile quando il fatto e' di
scarsa rilevanza». Questa disposizione, pur  essendo  stata  ritenuta
dalla giurisprudenza applicabile anche all'illecito di  cui  all'art.
12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, non consentirebbe al giudice
disciplinare di operare una vera a propria graduazione,  lasciandogli
soltanto «l'alternativa tra escludere l'illecito per scarsa rilevanza
del fatto o  irrogare  la  sanzione  della  rimozione»:  «o  tutto  o
niente», insomma, «senza possibilita' di articolazioni intermedie». 
    Si  tratterebbe,  allora,  di  una  situazione  simile  a  quella
scrutinata da questa Corte nella sentenza  n.  170  del  2015,  nella
quale si e' ravvisato un vulnus ai principi di  ragionevolezza  e  di
uguaglianza   «in   presenza   di   un   sistema   punitivo   fondato
sull'automatismo  ed  assolutamente  disattento  alla  consistenza  e
gravita' delle  singole  svariate  condotte»,  pur  a  fronte  di  un
«ventaglio eccessivamente ampio (e non omogeneo)  di  presupposti  ai
quali e' collegata la sanzione automatica». Come ribadito  in  quella
sentenza, il principio di eguaglianza - e quello di  proporzione  che
ne deriva - presupporrebbe invece «che  la  valutazione  del  giudice
debba avvenire "in concreto", tenendo conto dei  comportamenti  posti
in   essere   nel   commettere   l'illecito,   per   cui    sarebbero
"tendenzialmente" illegittime le sanzioni rigide, vale a dire, quelle
che sono applicate prescindendo da una  verifica  di  adeguatezza  al
caso concreto e dalla valutazione sulla gradualita' applicativa». 
    L'eterogeneita'  delle  condotte  sanzionate  non   consentirebbe
d'altra  parte  «di  individuare   l'idoneita'   della   sanzione   a
raggiungere  lo  scopo  di  preservare  la  fiducia  dei   consociati
nell'indipendenza  e  nell'imparzialita'  del  sistema   giudiziario,
[nonche'] l'inefficacia di misure meno afflittive  a  raggiungere  il
medesimo obiettivo oltre che l'insussistenza di una  lesione  globale
dei diritti del magistrato». 
    La disciplina censurata impedirebbe altresi' al giudice  di  «far
emergere gli aspetti materiali del fatto, le sue circostanze, facendo
in modo che dette peculiarita'  si  riflettano  sulla  commisurazione
della sanzione, che sara' "giusta" solo ove adeguata al fatto, tenuto
conto di tutta una serie di elementi che  devono  essere  oggetto  di
valutazione da parte del giudice». 
    L'automatismo  censurato  introdurrebbe   «nella   sostanza   una
interdizione  dai  pubblici  uffici  ulteriore  rispetto   a   quella
specificamente ipotizzata (quoad delicta) dal legislatore penale,  il
che, anche sotto tale profilo, determina un vulnus quanto alla previa
individuazione delle conseguenze derivanti dalla  commissione  di  un
determinato reato». Si  tratterebbe,  piu'  in  particolare,  di  una
«presunzione assoluta di incompatibilita' con il rapporto di servizio
in  ragione  dell'intervenuta  condanna  penale»:   presunzione   che
potrebbe considerarsi costituzionalmente legittima soltanto  ove  non
sia agevole, come invece nel caso ora all'esame, formulare ipotesi di
accadimenti reali contrari  alla  generalizzazione  posta  alla  base
della presunzione stessa (sono citate la sentenza n. 268 del 2016  di
questa Corte e le altre pronunce ivi richiamate). 
    La rimozione quale sanzione conseguente a condanna in sede penale
potrebbe, allora,  essere  considerata  costituzionalmente  legittima
solo  ove  risultasse  «comunque  conservato   in   capo   all'Organo
disciplinare il  potere-dovere  della  valutazione  discrezionale  in
ordine alla proporzionale graduazione della misura  da  applicare  al
caso concreto». 
    1.3.3.- La disposizione  censurata  violerebbe  anche  l'art.  97
Cost., «in rapporto all'interesse dell'Amministrazione di privarsi di
un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di  vista
della reazione punitiva statuale, potrebbe non esserlo se valutata in
termini di offensivita' del fatto, con riferimento sia  alla  lesione
dell'interesse specifico  tutelato  dall'illecito  disciplinare,  sia
alla compromissione dell'immagine del magistrato e del  prestigio  di
cui  deve  godere  nell'esercizio  dell'attivita'   giurisdizionale».
L'automatismo descritto dalla disposizione censurata  si  tradurrebbe
allora  anche  in  una  violazione  dell'art.   97   Cost.,   poiche'
realizzerebbe  «una  eterogenesi  dei  fini   cui   la   disposizione
costituzionale e' preordinata». 
    1.3.4.- Sottolinea infine il rimettente che  la  possibilita'  di
accedere alle misure alternative potrebbe scongiurare l'espiazione in
carcere della pena, di talche' non sussisterebbe necessariamente  una
preclusione oggettiva alla prosecuzione del rapporto di lavoro pur in
presenza di una sentenza di condanna non sospesa. 
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  o,
comunque, non fondate. 
    2.1.-   In    via    preliminare,    l'interveniente    prospetta
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di rilevanza. 
    Il passaggio motivazionale contenuto nella sentenza della Sezione
disciplinare, in cui  si  afferma  che  la  gravita'  delle  condotte
oggetto di incolpazione avrebbe reso necessaria la  sanzione  estrema
della rimozione anche ove fosse stata  inflitta  una  pena  inferiore
alla soglia oltre la  quale  tale  sanzione  scatta  automaticamente,
costituirebbe  infatti  non  un'argomentazione   ipotetica   -   come
affermato dal rimettente  -  bensi'  una  motivazione  subordinata  o
alternativa. Di conseguenza, la questione risulterebbe «formulata  in
termini astratti, al solo scopo di aggredire una norma che, anche ove
rimossa, non muterebbe l'esito del giudizio nel quale e' sollevata la
questione». 
    2.2.- Nel merito, la questione relativa alla violazione dell'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  8  CEDU  non  sarebbe
fondata. 
    Pur non contestando l'applicabilita'  della  norma  convenzionale
anche ad avvenimenti della vita lavorativa,  l'interveniente  osserva
che la Corte EDU avrebbe chiarito come l'art. 8 CEDU non possa essere
invocato quando l'effetto negativo sulla vita privata sia  costituito
da una conseguenza prevedibile delle proprie azioni, come ad  esempio
la commissione di un reato o, comunque, quando gli  effetti  negativi
lamentati si limitino alle conseguenze prevedibili del  comportamento
illecito (sono citate: sentenza 27 luglio 2004, Sidabras  e  Džiautas
contro Lituania; sentenza 7 febbraio 2012, Axel  Springer  AG  contro
Germania; sentenza 3 aprile 2012, Gillberg  contro  Svezia;  sentenza
Denisov). 
    2.3.- Non fondata dovrebbe ritenersi anche la questione  relativa
alla violazione dell'art. 97 Cost. L'interesse  dell'amministrazione,
infatti,  non  potrebbe  in  alcun  modo  venire  in   considerazione
nell'ambito dell'applicazione di  una  sanzione  disciplinare.  Anzi,
proprio nel combinato disposto degli  artt.  97  e  54  Cost.  -  che
impongono, da un lato, alla pubblica amministrazione di agire secondo
principi  di  imparzialita'  e  buon  andamento  e,  dall'altro,   ai
funzionari pubblici di agire con onore - l'automatismo  sanzionatorio
troverebbe una espressa legittimazione costituzionale a fronte di una
condanna a pena detentiva non sospesa per un fatto illecito doloso. 
    2.4.- Parimenti non fondate sarebbero le questioni relative  agli
artt. 3 e 105 Cost. 
    Pur   riconoscendo,    in    via    generale,    l'illegittimita'
costituzionale degli automatismi sanzionatori a seguito  di  condanna
penale nel procedimento disciplinare,  l'interveniente  sostiene  che
tale principio non sia assoluto, e che esso  possa  cedere  a  fronte
della preminenza di interessi collettivi in relazione al ruolo svolto
dal dipendente pubblico e alla peculiarita' e delicatezza dei compiti
a lui assegnati (e' citata la sentenza di questa  Corte  n.  112  del
2014). Sarebbe questo anche il caso del magistrato, come questa Corte
avrebbe affermato nella sentenza n. 197 del 2018 con  riferimento  ad
un illecito disciplinare, ma con un ragionamento che dovrebbe  valere
a fortiori per  la  commissione  di  un  reato.  «Coerenza  logica  e
giuridica,  oltre  che  necessita'  di  salvaguardare  il  rigore  di
un'istituzione   fondamentale   della   societa',   fanno    ritenere
sufficienti  per  l'interessato  le  garanzie   processuali   offerte
nell'ambito  del  processo  penale,  nell'ambito  dei  tre  gradi  di
giudizio, al punto da  non  ritenersi  non  solo  ultronea  ma  anche
intrinsecamente  contraddittoria  la  previsione  di   un   ulteriore
passaggio  presso  l'organo   disciplinare»,   la   cui   valutazione
rischierebbe cosi' di porsi  in  contrasto  con  quella  del  giudice
penale. 
    In ogni caso, la disposizione censurata tutelerebbe il magistrato
«da eventuali derive giustizialiste», subordinando la rimozione  alla
commissione di un delitto doloso e alla pena inflitta superiore a  un
anno non condizionalmente sospesa. La valutazione del giudice  penale
in ordine ai requisiti di cui agli artt. 163 e 164 cod. pen., allora,
costituirebbe un'ulteriore garanzia: essa infatti presupporrebbe «una
valutazione da parte di un collega del Giudice incriminato, che,  ben
consapevole delle conseguenze sul piano  personale,  professionale  e
disciplinare, abbia ritenuto sussistere tutti gli elementi per negare
all'interessato  la  sospensione   della   pena».   Di   conseguenza,
consentire al CSM di irrogare una sanzione disciplinare  meno  severa
della rimozione comporterebbe un'evidente deminutio della valutazione
del giudice penale. E,  inoltre,  «[a]pplicare  sanzioni  meno  gravi
della rimozione nonostante  la  previsione  del  giudice  penale  del
pericolo di reiterazione del reato comprometterebbe irrimediabilmente
la fiducia dei consociati  nell'amministrazione  della  giustizia  da
parte di un organo terzo ed imparziale». 
    3.- Il magistrato incolpato si e' costituito in giudizio a  mezzo
dei  propri  difensori,  i  quali  nell'atto  di  costituzione  hanno
insistito  per  l'accoglimento  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale,  confutando  poi  -  nella  memoria   depositata   in
prossimita' dell'udienza  -  le  eccezioni  dell'Avvocatura  generale
dello Stato. 
    3.1.-  La  difesa  replica,  innanzi  tutto,   all'eccezione   di
inammissibilita' delle questioni di legittimita'  costituzionale  per
difetto  di  rilevanza.  Osserva  che  spetta  alle   Sezioni   unite
rimettenti, nella loro funzione di scrutinio  della  decisione  della
Sezione disciplinare del CSM, vagliare il contenuto di tale pronuncia
e trarne le opportune conclusioni. Il  rimettente  avrebbe  chiarito,
motivando esaurientemente sul punto, il carattere meramente ipotetico
delle affermazioni della Sezione disciplinare; d'altronde, osserva la
parte, «il giudice decide tota lege perspecta: nella specie,  dunque,
la Sezione disciplinare ha ragionato come  ha  ragionato  perche'  la
norma sull'automatismo  faceva  parte  della  normativa  perspecta  e
diversamente avrebbe fatto  se  quella  norma  non  fosse  stata  una
componente del suo patrimonio di regole da applicare». 
    La parte rammenta, inoltre,  come  la  giurisprudenza  di  questa
Corte ribadisca costantemente che  la  rilevanza  si  configura  come
necessita' di  applicare  la  disposizione  censurata  nell'iter  che
conduce alla  decisione  del  giudizio  principale  (sono  citate  le
sentenze n. 253, n. 194, n. 31, n. 30 e n. 13 del 2022; n. 202  e  n.
15 del 2021). 
    3.2.- La pretesa non fondatezza  della  questione  relativa  alla
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8
CEDU deriverebbe, secondo la parte,  da  una  parziale  e  fuorviante
ricostruzione, da parte dell'Avvocatura generale dello  Stato,  della
giurisprudenza della Corte EDU sul punto. Piu' in  particolare,  tale
giurisprudenza si riferirebbe a casi in cui l'art. 8  CEDU  e'  stato
ritenuto inapplicabile  in  ragione  di  una  mera  condanna  a  pena
detentiva (e' citata la  sentenza  Gillberg).  Nel  caso  di  specie,
invece,  non  si  contesterebbe  la  legittimita',  al  metro   della
Convenzione, della condanna penale  in  se',  bensi'  di  un  effetto
ulteriore ed esterno - la condanna in  sede  disciplinare  -  che  si
tradurrebbe in difetto di proporzionalita'. Gli effetti ulteriori  ed
indiretti rispetto alla  condanna  in  sede  penale  ben  potrebbero,
allora, rientrare nell'ambito di  applicazione  dell'art.  8  CEDU  e
determinarne una violazione (sono citate: sentenza Denisov;  sentenza
28 maggio 2020, Evers contro Germania; sentenza 14 ottobre 2021, M.L.
contro Slovacchia; sentenza  28  giugno  2018,  M.L.  e  W.W.  contro
Germania; sentenza 27 giugno 2017, Jankauskas  contro  Lituania  (No.
2)). 
    3.3.- Apodittico sarebbe, poi, l'iter argomentativo  che  conduce
l'interveniente a negare che vi sia una violazione dell'art. 97 Cost.
Poiche'  non  tutte  le  condotte  idonee   ad   arrecare   nocumento
all'immagine della magistratura sono  sanzionate  con  la  rimozione,
sarebbe evidente l'esigenza di infliggere la sanzione piu' grave solo
a coloro che  abbiano  irrimediabilmente  compromesso  l'immagine  di
terzieta' e imparzialita' della  magistratura,  anche  nell'interesse
generale e oggettivo della collettivita'. 
    3.4.-  Prive  di  pregio   dovrebbero,   infine,   ritenersi   le
osservazioni volte a negare la paventata violazione degli artt.  3  e
105 Cost. 
    Innanzi tutto, inconferente sarebbe il paragone con  la  sentenza
n. 112 del 2014 di questa Corte, che  riguarderebbe  una  fattispecie
concreta radicalmente diversa e ben  piu'  grave  rispetto  a  quella
oggetto dell'odierna questione di  legittimita'  costituzionale.  Ne'
sarebbe maggiormente conferente riferirsi alla sentenza  n.  197  del
2018  per  ritenere  non  fondato,   a   fortiori,   il   dubbio   di
costituzionalita', poiche' pure quel caso non potrebbe paragonarsi  a
quello di specie: si trattava infatti di un illecito disciplinare (e,
dunque,  di  una  fattispecie  in  cui   giudice   era,   anche   per
l'accertamento dell'an della responsabilita', la Sezione disciplinare
del CSM), corrispondente ad un ben definito comportamento, certamente
carico di disvalore. 
    In secondo luogo, non fondata sarebbe anche la  considerazione  -
svolta dall'Avvocatura generale dello Stato - che  la  ragionevolezza
della sanzione sarebbe assicurata dalla possibilita' di concedere  la
sospensione condizionale della pena, e che la sua mancata concessione
sarebbe frutto di una prognosi di pericolosita' operata  dal  giudice
penale.  Da  un  lato,  la  mancata  concessione  della   sospensione
condizionale  potrebbe  derivare,  come  nel  caso  di  specie,   dal
superamento  del  tetto  di  legge  di   due   anni   stabilito   per
l'operativita' dell'istituto; dall'altro,  tale  mancata  concessione
non discenderebbe necessariamente da  un  giudizio  di  pericolosita'
sociale. Ne' tale  pericolosita'  potrebbe  desumersi,  senza  alcuna
concreta valutazione del giudice,  dall'inflizione  di  una  pena  di
entita' superiore a due anni di reclusione. Niente affatto ultronea e
contraddittoria sarebbe, allora, l'ulteriore valutazione demandata al
CSM, volta ad apprezzare la rilevanza  disciplinare  della  condotta,
nel rispetto degli artt. 105 e 106 Cost. 
    Infine, si osserva come il magistrato incolpato stia scontando la
pena inflittagli con le modalita' di cui all'art. 47 della  legge  26
luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta').  Tale
considerazione  sarebbe   rilevante   sotto   un   duplice   profilo:
dimostrerebbe, intanto, l'esistenza in astratto della possibilita' di
non scontare la pena in  carcere,  in  assenza  di  una  prognosi  di
pericolosita' del  condannato,  diversa  e  ulteriore  rispetto  alla
sospensione condizionale della pena; ed evidenzierebbe, in  concreto,
l'insussistenza di tale  pericolosita'  con  riferimento  all'odierno
incolpato. Il  positivo  esito  dell'affidamento  in  prova,  d'altra
parte, estinguerebbe la pena detentiva e ogni altro  effetto  penale:
con cio' evidenziandosi, ancora, in  astratto  l'irragionevolezza  di
consentire l'estinzione  del  reato  e  degli  effetti  penali  della
condanna, ma non dell'effetto extrapenale maggiormente incisivo sulla
vita del condannato; e in concreto, l'assenza  di  pericolosita'  del
magistrato incolpato, e la sua idoneita' a continuare a  svolgere  le
proprie funzioni. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione,
sezioni  unite  civili,  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006,  in
riferimento agli  artt.  3,  97,  105  e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione  all'art.  8  CEDU,  «nella  parte  in  cui
dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato  che
incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo  non
inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi
degli articoli 163 e 164  del  codice  penale  o  per  la  quale  sia
intervenuto  provvedimento  di  revoca  della  sospensione  ai  sensi
dell'articolo 168  dello  stesso  codice,  senza  prevedere  che  sia
comunque  rimessa  all'Organo  di  governo  autonomo  la  valutazione
concreta della offensivita' della condotta al fine di  una  eventuale
graduazione della misura sanzionatoria». 
    Il d.lgs. n. 109  del  2006  prevede,  all'art.  5,  sei  diverse
sanzioni disciplinari, di gravita' crescente, a carico del magistrato
che viola i  suoi  doveri:  l'ammonimento,  la  censura,  la  perdita
dell'anzianita', l'incapacita' temporanea a  esercitare  un  incarico
direttivo o semidirettivo, la sospensione dalle funzioni da tre  mesi
a due anni, e infine la rimozione. Ove non diversamente stabilito, la
Sezione  disciplinare  e'  libera  di  scegliere,  tra  tutte  queste
sanzioni, quella piu' adeguata alla gravita' dell'illecito di cui  il
magistrato sia ritenuto responsabile. 
    L'art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede  poi  una  serie  di
regole che limitano la discrezionalita'  della  Sezione  disciplinare
del CSM nella selezione delle sanzioni, imponendo l'adozione  di  una
sanzione minima, di gravita' progressiva, nelle ipotesi  di  illecito
previste nei commi da 1 a 4. Il comma 5, in  questa  sede  censurato,
vincola invece la stessa Sezione ad  irrogare  la  rimozione  in  tre
distinte ipotesi: 
    - quella in cui  il  magistrato  sia  stato  condannato  in  sede
disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, comma 1,  lettera  e),
dello stesso d.lgs. n. 109 del 2006; 
    - quella in cui il magistrato incorra nella interdizione perpetua
o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale; 
    - quella in cui il magistrato incorra «in  una  condanna  a  pena
detentiva per delitto non colposo non inferiore  a  un  anno  la  cui
esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163  e  164
del Codice penale o per la quale  sia  intervenuto  provvedimento  di
revoca della sospensione ai  sensi  dell'articolo  168  dello  stesso
Codice». 
    La prima di tali ipotesi e' stata oggetto della sentenza  n.  197
del 2018, che ha ritenuto non fondate le  questioni  di  legittimita'
costituzionale allora sollevate dalla Sezione disciplinare del CSM in
riferimento all'art. 3 Cost. 
    Sulla terza ipotesi si appuntano  ora  i  dubbi  di  legittimita'
costituzionale delle Sezioni unite della Corte di  cassazione,  adite
da un magistrato nei cui confronti la Sezione disciplinare del CSM ha
gia' applicato la sanzione della rimozione, in conseguenza di una sua
precedente condanna, in sede penale, a due anni  e  quattro  mesi  di
reclusione: condanna non suscettibile di sospensione condizionale, in
quanto superiore al limite massimo previsto dall'art. 163 cod. pen. 
    Le  Sezioni  unite   rimettenti   assumono,   in   sintesi,   che
l'automatismo stabilito dal  segmento  normativo  censurato  violi  i
parametri   costituzionali   menzionati,   vincolando   la    Sezione
disciplinare del CSM alla rimozione  del  magistrato  e  impedendole,
cosi',  di  graduare  la  sanzione,  in  modo   da   assicurarne   la
proporzionalita' rispetto alla concreta gravita' dell'illecito. 
    2.- Le questioni sono ammissibili. 
    Non   e'   fondata,   in   particolare,   l'eccezione   formulata
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  secondo  cui  le   questioni
sarebbero  irrilevanti,  avendo  la  Sezione  disciplinare  del   CSM
affermato che la gravita' delle  condotte  addebitate  al  magistrato
incolpato ne  renderebbe  comunque  necessaria  la  rimozione,  anche
laddove la pena a lui inflitta si fosse mantenuta  al  di  sotto  del
limite oltre il quale tale sanzione  disciplinare  e'  imposta  dalla
disposizione censurata; affermazione dalla quale si  evincerebbe  che
l'esito  del  giudizio  non  muterebbe,  anche  laddove  le   odierne
questioni fossero accolte. 
    L'eccezione non coglie nel segno, per l'assorbente ragione che il
giudizio a quo rispetto al quale deve vagliarsi  la  rilevanza  delle
questioni  non  e'  il  giudizio  disciplinare,  come  pare  ritenere
l'Avvocatura  generale,  bensi'  quello  di  cassazione.  Rispetto  a
quest'ultimo, le Sezioni unite hanno gia' preannunciato - sulla  base
di ampia argomentazione, che  certamente  supera  il  vaglio  di  non
implausibilita' operato da questa Corte (da ultimo,  sentenza  n.  22
del 2024) -  che  la  sentenza  impugnata  dovra'  essere  annullata,
laddove la disposizione censurata sia  dichiarata  costituzionalmente
illegittima, si' da consentire alla Sezione disciplinare  del  CSM  -
una volta rimosso l'automatismo normativo  -  una  nuova  valutazione
sulla  sanzione  disciplinare  piu'  appropriata  da   applicare   al
magistrato incolpato. 
    Il che dimostra la rilevanza delle questioni prospettate. 
    3.- La questione sollevata in riferimento  all'art.  3  Cost.  e'
fondata. 
    3.1.- Nella menzionata sentenza n. 197 del 2018, si e'  affermato
che  «alcune  almeno   delle   garanzie   che,   sulla   base   della
giurisprudenza di questa Corte, circondano la pena in  senso  stretto
non  si  applicano,  o  si  applicano  con  un   maggior   grado   di
flessibilita', alla sfera delle sanzioni disciplinari.  Oltre  che  a
logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, tali sanzioni possono
legittimamente rispondere, quanto meno nei casi concernenti  pubblici
funzionari cui sono affidati  compiti  essenziali  a  garanzia  dello
Stato di diritto, anche alla finalita' di  assicurare  la  definitiva
cessazione dal servizio di persone dimostratesi  non  idonee,  o  non
piu' idonee,  all'assolvimento  dei  propri  doveri»  (punto  11  del
Considerato in diritto). E  si  e'  aggiunto  che  in  particolare  i
magistrati, «ai quali e' affidata in ultima  istanza  la  tutela  dei
diritti di ogni consociato», proprio «per tale ragione sono tenuti  -
piu' di ogni altra categoria di funzionari  pubblici  -  non  solo  a
conformare  oggettivamente  la  propria  condotta  ai  piu'  rigorosi
standard  di  imparzialita',  correttezza,  diligenza,  laboriosita',
riserbo ed equilibrio nell'esercizio delle funzioni,  secondo  quanto
prescritto dall'art. 1 del d.lgs.  n.  109  del  2006,  ma  anche  ad
apparire indipendenti e imparziali agli  occhi  della  collettivita',
evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire  interessi  di
parte nell'adempimento delle proprie funzioni. E cio' per evitare  di
minare, con la  propria  condotta,  la  fiducia  dei  consociati  nel
sistema giudiziario, che e' valore essenziale  per  il  funzionamento
dello Stato di diritto» (punto 9 del Considerato in diritto). 
    Fermi tali principi, che costituiscono lo sfondo sul  quale  deve
essere decisa anche la questione ora all'esame di questa Corte, vanno
subito evidenziati gli elementi che la distinguono rispetto a  quella
esaminata con la sentenza n. 197 del 2018. 
    Il segmento dell'art. 12, comma 5, del d.lgs.  n.  109  del  2006
allora censurato stabilisce la sola sanzione della rimozione nel caso
in cui il magistrato sia stato ritenuto responsabile -  dalla  stessa
Sezione disciplinare -  di  un  illecito  disciplinare,  puntualmente
tipizzato dall'art. 3, comma 1,  lettera  e),  dello  stesso  decreto
legislativo   come   il   fatto   di   «ottenere,   direttamente    o
indirettamente, per se' o  per  altri,  prestiti  o  agevolazioni  da
soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti
penali o civili pendenti presso l'ufficio giudiziario di appartenenza
o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte  d'appello
nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai  difensori  di
costoro, nonche' ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti  o
agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti  offese  o
testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti». 
    Nel caso ora all'esame, invece, la previsione dell'unica sanzione
disciplinare  della  rimozione  discende  dalla  circostanza  che  il
magistrato sia stato in precedenza condannato in via  definitiva  per
qualsiasi reato, per il quale - pero' - il giudice penale  gli  abbia
inflitto una pena detentiva non sospesa di durata superiore  all'anno
(ovvero nel caso in cui  la  sospensione  condizionale,  concessa  al
magistrato in sede di condanna, sia stata in seguito revocata). 
    3.2.- Questa Corte non ha mai, sinora, esaminato la  legittimita'
costituzionale di una  disposizione  che  preveda,  come  quella  ora
all'esame,   un   vincolo   alla   discrezionalita'   della   Sezione
disciplinare del CSM nella scelta della  sanzione  applicabile  a  un
magistrato che abbia subito una condanna in sede penale. 
    Numerose  sentenze  di  questa  Corte  hanno  pero'  ritenuto  in
contrasto,  tra  l'altro,  con  l'art.  3  Cost.   disposizioni   che
prevedevano l'automatica destituzione di altri  pubblici  dipendenti,
ovvero l'automatica cancellazione  di  professionisti  dall'albo,  in
conseguenza della loro condanna in sede penale per determinati reati. 
    3.2.1.- Gia' la  sentenza  n.  971  del  1988  aveva  colpito  la
previsione della destituzione di diritto degli impiegati civili dello
Stato e dei dipendenti degli enti locali della  Regione  Siciliana  a
seguito di condanna per taluni delitti. «L'indispensabile gradualita'
sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria» - si  era
affermato in quell'occasione -  «importa  [...]  che  le  valutazioni
relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione:
il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni  relativa  norma
risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,  e  conseguentemente
irrazionale ex art. 3 Cost.» (punto 3 del Considerato in diritto). 
    Poco dopo, in relazione ai notai, la  sentenza  n.  40  del  1990
affermo' essere «indispensabile che il "principio di proporzione" che
e'  alla  base  della  razionalita'  che  domina  il  "principio   di
eguaglianza", regoli sempre  l'adeguatezza  della  sanzione  al  caso
concreto».  Conseguentemente,   essa   dichiaro'   costituzionalmente
illegittimo  l'«automatismo  di   un'unica   massima   sanzione   [la
destituzione], prevista indifferentemente  per  l'infinita  serie  di
situazioni che stanno nell'area della commissione di uno  stesso  pur
grave reato». Automatismo che si  ritenne  non  potesse  «reggere  il
confronto con il principio di eguaglianza che, come esige  lo  stesso
trattamento  per  identiche  situazioni,   postula   un   trattamento
differenziato per situazioni diverse» (punto  3  del  Considerato  in
diritto). 
    Identica ratio decidendi si riscontra: 
    - nella sentenza  n.  158  del  1990,  relativa  alla  radiazione
automatica dei dottori commercialisti; 
    - nella sentenza n. 16 del 1991, concernente la  destituzione  di
diritto del dipendente regionale; 
    - nella sentenza n. 197 del 1993, sulla destituzione  di  diritto
del personale dipendente delle amministrazioni  pubbliche  a  seguito
del passaggio in giudicato della  sentenza  di  condanna  per  taluni
reati, ovvero della definitivita' del  provvedimento  applicativo  di
una misura di prevenzione per appartenenza ad  associazione  di  tipo
mafioso; 
    - nella  sentenza  n.  2  del  1999,  in  materia  di  radiazione
automatica dall'albo dei ragionieri e periti commerciali. 
    In  epoca  piu'  recente,  rispetto  al  personale  militare,  la
sentenza n. 268 del 2016 (riprendendo e approfondendo  principi  gia'
espressi nella precedente sentenza n. 363  del  1996)  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale di una disciplina che  non  prevedeva
l'instaurazione del procedimento disciplinare per la  cessazione  dal
servizio per perdita del  grado,  conseguente  alla  pena  accessoria
della  interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici  irrogata  dal
giudice penale. «[A] causa dell'ampiezza dei presupposti a cui  viene
collegata l'automatica cessazione dal  servizio»,  si  e'  in  questa
occasione  osservato,  «le   disposizioni   impugnate   non   possono
validamente  fondare,  in  tutti  i  casi  in  esse  ricompresi,  una
presunzione assoluta di inidoneita'  o  indegnita'  morale  o,  tanto
meno, di pericolosita' dell'interessato,  tale  da  giustificare  una
sanzione disciplinare cosi' grave  come  la  perdita  del  grado  con
conseguente cessazione dal servizio.  L'automatica  interruzione  del
rapporto di impiego e', infatti, suscettibile di essere  applicata  a
una troppo ampia generalita' di casi, rispetto ai  quali  e'  agevole
formulare  ipotesi  in  cui   essa   non   rappresenta   una   misura
proporzionata  rispetto  allo  scopo  perseguito»  (punto  6.4.   del
Considerato in diritto). 
    3.2.2.- Rispetto a questo altrimenti compatto panorama,  la  sola
sentenza n. 112  del  2014  ha  rigettato  le  censure  formulate  in
riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. a proposito di una disciplina che
prevedeva, per gli appartenenti ai ruoli  dell'Amministrazione  della
pubblica sicurezza, la  destituzione  di  diritto  quale  conseguenza
automatica dell'applicazione di una misura di sicurezza personale  da
parte del giudice penale. Decisiva nella valutazione di questa  Corte
e' stata qui la circostanza  che  l'applicazione  di  una  misura  di
sicurezza presuppone un accertamento individualizzato, da  parte  del
giudice penale, della pericolosita' sociale dell'interessato, e cioe'
(in base all'art. 203 cod. pen.) della probabilita' che egli commetta
nuovi  reati;  probabilita'  ritenuta  ex  se  incompatibile  con  la
speciale delicatezza dei compiti del personale della polizia, la  cui
funzione essenziale e' proprio quella di prevenire e reprimere reati. 
    Non  rappresenta  invece   un'eccezione   rispetto   alle   linee
essenziali della giurisprudenza sin qui illustrata la sentenza n. 234
del 2015, che  ha  escluso  l'illegittimita'  costituzionale  di  una
disposizione che vietava la riabilitazione del notaio gia' destituito
a seguito di condanna per una serie di  reati.  Come  chiarito  dalla
pronuncia, la destituzione e' disposta  soltanto  in  ragione  di  un
ponderato e  discrezionale  apprezzamento  dell'organo  disciplinare,
impugnabile in sede  giurisdizionale,  relativo  alla  necessita'  di
precludere al notaio l'ulteriore esercizio  della  professione,  alla
luce anche di una valutazione  -  compiuta  direttamente  dall'organo
disciplinare stesso - della gravita' dei fatti di reato per il  quale
e' stato condannato in sede penale. La sanzione disciplinare prevista
dalla  disposizione   censurata,   dunque,   non   poteva   ritenersi
indifferente ai profili peculiari del  caso  di  specie,  ma  era  al
contrario calibrata con riferimento ad essi ed applicata  dall'organo
disciplinare solo in ipotesi estreme e senza alcun  automatismo,  ben
potendosi nel procedimento disciplinare applicare una  sanzione  meno
gravosa. 
    3.3.- Dal quadro giurisprudenziale sin qui tracciato si  ricavano
due principi essenziali che, ai fini dello scrutinio in esame,  vanno
posti  in  correlazione  tra   loro:   un   requisito   generale   di
proporzionalita' della sanzione disciplinare rispetto  alla  gravita'
della condotta (infra, punto 3.3.1.), e l'autonomia della valutazione
in sede disciplinare rispetto a  quella  del  giudice  penale,  fatta
salva la vincolativita' di quanto accertato  in  fatto  nel  giudizio
penale (infra, punto 3.3.2.). 
    3.3.1.- Quanto alla proporzionalita' della sanzione disciplinare,
il requisito puo', normalmente, essere soddisfatto  soltanto  da  una
valutazione individualizzata della gravita' dell'illecito, alla quale
la risposta sanzionatoria deve essere calibrata (su questo corollario
del principio  di  proporzionalita'  rispetto  a  ogni  tipologia  di
sanzione, sentenza n. 112 del 2019, punto 8.1.4. del  Considerato  in
diritto, nonche' - in materia penale -  sentenza  n.  197  del  2023,
punti 5.2.1. e 5.5.1. del Considerato in diritto). Le sanzioni  fisse
sono, per contro, tendenzialmente in contrasto con questo  principio,
a meno che - come questa Corte ha ritenuto nel  caso  deciso  con  la
sentenza n. 197 del 2018 (punto 8 del Considerato in diritto) -  esse
risultino non manifestamente sproporzionate rispetto all'intera gamma
dei   comportamenti   riconducibili   alla    fattispecie    astratta
dell'illecito sanzionato (ancora in materia penale, sentenze  n.  195
del 2023, punto 6.1. del Considerato in  diritto;  n.  94  del  2023,
punto 13 del Considerato in diritto; n. 222 del 2018, punto 7.1.  del
Considerato   in   diritto;   nonche',   in   materia   di   sanzioni
amministrative, sentenze n. 40 del 2023, punto 5.2.  del  Considerato
in diritto; n. 266 del 2022, punto 5.4.3. del Considerato in diritto;
n. 185 del 2021, punto 6 del Considerato in diritto). 
    Al di fuori di questa ipotesi, che presuppone un certo  grado  di
omogeneita'  della  fattispecie  astratta  sotto  il  profilo   della
gravita'  delle  condotte  a  essa   riconducibili,   il   corollario
dell'individualizzazione della sanzione esige una  gradualita'  della
risposta,  affinche'  essa  possa  risultare  adeguata  al   concreto
disvalore della condotta. 
    3.3.2.- Dalla giurisprudenza citata si  evince,  inoltre,  l'idea
della  centralita'  della   valutazione   discrezionale   dell'organo
disciplinare  nell'irrogazione  della  sanzione  che  a  tale  organo
compete: valutazione che questa Corte ha sinora  ritenuto  non  possa
mai essere in toto pretermessa, per essere semplicemente surrogata da
quella del  giudice  penale.  E  cio'  specie  quando  si  tratta  di
applicare sanzioni disciplinari definitive come la destituzione o  la
cancellazione dall'albo professionale (salvo che nel caso - del tutto
peculiare - deciso dalla sentenza n. 112 del 2014, di cui si e' detto
supra, punto 3.2.2.). 
    Il  significato  della  riserva  di  uno   spazio   autonomo   di
valutazione all'organo disciplinare pur  a  fronte  di  una  condanna
penale e', d'altronde, chiaro: spetta a quest'ultimo  apprezzare  non
gia'  la  (generica)  gravita'  dell'illecito  commesso,  ma  -  piu'
specificamente - la significativita' di  tale  illecito  rispetto  al
giudizio di persistente  idoneita'  dell'interessato  a  svolgere  le
proprie funzioni o la propria professione. 
    3.4.- E' dunque alla luce di  questi  principi  che  deve  essere
vagliata la disposizione oggi all'esame di questa Corte. 
    3.4.1.- Sotto il profilo della necessaria proporzionalita'  della
sanzione (supra, punto 3.3.1.),  la  disciplina  censurata  ricollega
l'applicazione automatica della rimozione alla irrogazione  nei  suoi
confronti, da parte del giudice penale, di  una  pena  detentiva  non
sospesa di durata superiore ad un anno. Come osserva efficacemente il
giudice a quo, l'automatismo e' qui ancorato non gia' a una  «species
facti», bensi' a una mera «species poenae». 
    Un tale meccanismo rende  strutturalmente  impossibile  a  questa
Corte compiere la valutazione di  proporzionalita'  della  previsione
sanzionatoria, che si  impone  -  secondo  la  giurisprudenza  appena
passata in rassegna  -  anche  laddove  il  legislatore  preveda  una
sanzione  fissa  per  una  determinata   fattispecie   di   illecito:
fattispecie qui  definita  semplicemente  dall'ammontare  della  pena
inflitta (e dalla sua mancata sospensione condizionale, ovvero  dalla
revoca della stessa) nell'ambito del giudizio penale.  Affinche'  una
siffatta  sanzione  fissa   -   in   quanto   tale   "indiziata"   di
illegittimita' costituzionale (da ultimo, sentenza n. 195  del  2023,
punto 6.1. del Considerato in diritto) - possa  superare  indenne  lo
scrutinio da parte di questa Corte, occorrerebbe  infatti  dimostrare
che la sanzione della rimozione - la piu' grave tra  quelle  previste
nel sistema degli illeciti  disciplinari  dei  magistrati  -  risulti
proporzionata rispetto all'intera gamma dei comportamenti  tipizzati.
Comportamenti che, pero', la fattispecie di illecito disciplinare qui
sanzionata non indica in alcun modo, e che potrebbero anzi  essere  i
piu'  diversi,  a  differenza  di  quanto  accadeva   rispetto   alla
fattispecie di illecito esaminata nella sentenza n. 197 del 2018. 
    Sotto  questo  profilo  dunque  -  come  parimenti   osserva   il
rimettente  -  la  disciplina  oggi  all'esame  e'  simile  a  quella
scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 170 del 2015, in cui  e'
stata   ritenuta   costituzionalmente   illegittima   la   previsione
dell'obbligatorio  trasferimento  del  magistrato  ad  altra  sede  o
ufficio nell'ipotesi di una sua condanna per l'illecito  disciplinare
di cui all'art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109  del  2006,
integrato dall'aver tenuto un comportamento che, violando i doveri di
imparzialita',  correttezza,  diligenza,  laboriosita',  riserbo   ed
equilibrio, e di  rispetto  della  dignita'  della  persona,  arrechi
ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle  parti.  Fattispecie
astratta,  quest'ultima,  che  questa  Corte   ha   ritenuto   essere
comprensiva di condotte di disvalore concreto assai  eterogeneo,  non
necessariamente  indicative  dell'incompatibilita'   del   magistrato
interessato a continuare a svolgere le proprie funzioni nel  medesimo
ufficio. 
    3.4.2.-  Quanto,   poi,   alla   necessaria   centralita'   della
valutazione dell'organo disciplinare nell'irrogazione della  sanzione
(supra, punto 3.3.2.),  la  dispozione  oggi  censurata  finisce,  in
pratica, per spogliare  la  Sezione  disciplinare  del  CSM  di  ogni
margine di apprezzamento sulla  sanzione  disciplinare  da  applicare
(che il legislatore individua nella sola rimozione). 
    In questa situazione, non solo l'an ma  anche  il  quomodo  della
responsabilita'  disciplinare  sono  interamente  determinati   dalla
previa decisione del giudice penale: al cui orizzonte  conoscitivo  e
valutativo resta, pero', del tutto estranea  la  questione  se  possa
considerarsi  proporzionata,  rispetto  allo  specifico   fascio   di
interessi di cui si fa carico  la  responsabilita'  disciplinare,  la
successiva sanzione della rimozione del  magistrato,  che  -  pure  -
discendera' automaticamente dalla condanna da lui pronunciata. 
    Emblematico delle conseguenze  provocate  dalla  rigidita'  della
disposizione censurata e' il caso concreto  oggetto  del  giudizio  a
quo, nel quale il giudice penale e' addivenuto all'irrogazione di una
pena cosi' severa senza che, come e' ovvio, gli sia  stato  possibile
considerare l'effetto  che  il  quantum  di  pena  inflitta  avrebbe,
indefettibilmente, prodotto nel successivo procedimento disciplinare. 
    A  fronte  dell'entita'  delle  ripercussioni  che   l'espulsione
definitiva dall'ordine giudiziario e' suscettibile  di  produrre  sui
diritti  fondamentali,  e  sull'esistenza   stessa,   della   persona
interessata, e' invece necessario che  il  giudice  disciplinare  sia
posto in condizioni di  valutare  la  proporzionalita'  di  una  tale
sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal  peculiare  angolo
visuale della eventuale inidoneita' del  magistrato  a  continuare  a
svolgere le proprie funzioni. E cio' anche in relazione alle esigenze
di  salvaguardia  del  prestigio  dell'ordine  giudiziario,  e  della
conseguente necessita' di mantenere la  fiducia  dei  consociati  nei
suoi confronti. 
    Questa   valutazione   costituisce,   anzi,   il   proprium   del
procedimento disciplinare innanzi alla Sezione disciplinare del  CSM:
procedimento nel quale e' assicurata all'incolpato la pienezza  delle
garanzie difensive, ivi compreso il diritto al ricorso  alle  Sezioni
unite  civili  della  Corte  di   cassazione   contro   la   sentenza
disciplinare. 
    Tutte queste garanzie finiscono, pero', per  essere  svuotate  di
ogni significato pratico per effetto della disciplina censurata,  che
riserva alla  Sezione  disciplinare  del  CSM  la  mera  adozione  di
conseguenze  sanzionatorie   automaticamente   discendenti   da   una
statuizione del giudice penale,  al  cui  orizzonte  genetico  quella
specifica valutazione e' rimasta del tutto estranea. 
    Ne' potrebbe obiettarsi che un margine di  discrezionalita'  alla
Sezione  disciplinare  del  CSM  sarebbe  comunque  assicurato  dalla
possibilita' di escludere l'illecito disciplinare quando  ritenga  il
fatto «di scarsa rilevanza», ai sensi dell'art. 3-bis del  d.lgs.  n.
109 del 2006. Infatti, per quanto la giurisprudenza  di  legittimita'
non ritenga in assoluto incompatibile tale esimente con le ipotesi in
cui il magistrato sia stato condannato per avere  commesso  un  reato
(Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 7  agosto  2023,
n. 24048 e 21 marzo 2023, n. 8034), e' evidente che ben difficilmente
potra'  ritenersi  «di  scarsa  rilevanza»,   pur   nella   peculiare
prospettiva del giudizio disciplinare,  un  fatto  per  il  quale  il
giudice penale abbia ritenuto congrua l'applicazione di una pena  non
sospesa, o comunque superiore al limite massimo  entro  il  quale  il
beneficio della sospensione condizionale puo' essere concesso. 
    D'altra parte, per effetto della disciplina censurata il  giudice
disciplinare resta  irragionevolmente  vincolato  all'alternativa  se
applicare (soltanto) la  massima  sanzione  della  rimozione,  ovvero
rinunciare del tutto a qualsiasi sanzione in applicazione del  citato
art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, pur a fronte di fatti di reato
di gravita' significativa, ancorche'  non  tali  da  giustificare  la
radicale preclusione all'esercizio delle proprie  funzioni  da  parte
del magistrato. In effetti, non puo' in assoluto  escludersi  che  un
fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena
detentiva non  sospesa  possa  essere  ritenuto,  sia  pure  in  casi
verosimilmente  rari,  meritevole  di  sanzioni   disciplinari   meno
drastiche della rimozione. E cio' - come giustamente  rilevato  dalla
difesa della parte - anche in considerazione del fatto che la mancata
concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente
da una prognosi circa la possibile  commissione  di  nuovi  reati  da
parte  del  condannato  (come  invece  sempre  accade  nel  caso   di
applicazione di una  misura  di  sicurezza);  ma  puo'  semplicemente
discendere -  come  nel  caso  oggetto  del  giudizio  a  quo  -  dal
superamento del limite di due anni di reclusione, entro il  quale  il
beneficio puo' essere concesso. Ipotesi, quest'ultima, nella quale il
condannato per il quale non sussista  pericolo  di  reiterazione  del
reato puo', in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria  pena
in regime di affidamento in prova al servizio  sociale,  tale  regime
essendo  di  solito  associato  alla   prescrizione   di   proseguire
l'attivita' lavorativa. 
    Dal che non discende affatto - contrariamente a  quanto  ritenuto
dall'Avvocatura generale dello Stato - una  inammissibile  «deminutio
della valutazione del Giudice penale». Semplicemente,  si  tratta  di
trarre le necessarie conseguenze dalla distinzione di  oggetto  e  di
finalita' tra la valutazione del giudice penale, da un lato, e quella
del giudice disciplinare, dall'altro. 
    3.5.- In conclusione, l'automatismo  stabilito  dalla  disciplina
censurata  e'  suscettibile  di  produrre,  in  concreto,   risultati
sanzionatori sproporzionati rispetto alle specifiche finalita'  della
responsabilita' disciplinare, in conseguenza dell'eterogeneita' delle
condotte suscettibili di essere sanzionate (supra,  punto  3.4.1.)  e
della irragionevole sottrazione alla  Sezione  disciplinare  di  ogni
potere di apprezzamento sulla inidoneita' del magistrato condannato a
continuare a svolgere le proprie funzioni (supra, punto 3.4.2.). 
    Cio' si traduce, in base alla costante giurisprudenza  di  questa
Corte poc'anzi richiamata, in una violazione dell'art. 3 Cost. 
    3.6.- Restano assorbite le ulteriori censure. 
    4.- Il rimedio appropriato alla  riscontrata  violazione  e',  ad
avviso di questa Corte, la  mera  ablazione  del  segmento  normativo
oggetto delle censure del rimettente («o che incorre in una  condanna
a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un  anno  la
cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli  163  e
164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di
revoca della sospensione ai  sensi  dell'articolo  168  dello  stesso
Codice»). 
    Tale   segmento   individua   una   specifica    sottofattispecie
riconducibile alla fattispecie generale di illecito  disciplinare  di
cui all'art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006,  che
comprende  tutti  i  «fatti  per  i  quali  e'  intervenuta  condanna
irrevocabile o e' stata pronunciata sentenza ai  sensi  dell'articolo
444, comma 2, del codice di procedura penale, per  delitto  doloso  o
preterintenzionale, quando la legge stabilisce la pena detentiva sola
o congiunta alla pena pecuniaria». 
    Conseguentemente, il venir meno della sottofattispecie in  parola
determinera' la riespansione della  disciplina  generale  applicabile
all'illecito disciplinare di cui all'art. 4, comma 1, lettera a), del
d.lgs.  n.  109  del  2006:  e  dunque   restituira'   alla   Sezione
disciplinare la  possibilita'  di  applicare  -  secondo  il  proprio
discrezionale apprezzamento  -  una  tra  le  sanzioni  previste  dal
successivo art. 5. Tra le quali, naturalmente, la  stessa  rimozione,
laddove ritenga che il delitto per cui e' stata pronunciata  condanna
sia  effettivamente  indicativo  della   radicale   inidoneita'   del
magistrato incolpato a continuare a svolgere le sue funzioni. 
    Ben  potra',  poi,  il  legislatore  modulare   diversamente   la
disciplina sanzionatoria dell'illecito in questione,  in  particolare
vincolando la Sezione disciplinare alla  scelta  di  alcune  soltanto
delle sanzioni disciplinari previste dall'art. 5 del  d.lgs.  n.  109
del 2006, sulla falsariga di quanto gia' oggi accade per  le  ipotesi
disciplinate dai commi da 1 a 4 dell'art. 12 del medesimo decreto. Ma
una tale opzione spettera', appunto, al legislatore, non  sussistendo
allo stato le condizioni indicate  dalla  recente  giurisprudenza  di
questa  Corte  per  individuare  essa  stessa  specifiche   soluzioni
sanzionatorie  gia'  esistenti,  destinate  a  sostituirsi  a  quelle
dichiarate costituzionalmente illegittime (sentenza n. 185 del  2021,
punto 7 del Considerato  in  diritto  e  precedenti  ivi  richiamati;
nonche',  da  ultimo,  sentenza  n.  46  del  2024,  punto  4.2.  del
Considerato in diritto). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 12,  comma  5,
del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina
degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e
della procedura per la loro applicabilita',  nonche'  modifica  della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'art.  1,  comma
1, lettera f), della legge 25 luglio  2005,  n.  150»,  limitatamente
alle parole «o che incorre in  una  condanna  a  pena  detentiva  per
delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia
stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale  o
per  la  quale  sia  intervenuto  provvedimento   di   revoca   della
sospensione ai sensi dell'articolo 168 dello stesso Codice». 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2024. 
 
                                F.to: 
                 Augusto Antonio BARBERA, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2024 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA